lunedì 31 luglio 2023

Al cinema Odissea di Cagliari il premio Carlo Lizzani

 


Stefania e Tiziana Medda e Alessandro Murtas sono gli “esercenti italiani più coraggiosi”



Arriva un prestigioso riconoscimento per il cinema cagliaritano di viale Trieste: il premio Carlo Lizzani 2023 per la categoria “Cinema a carattere imprenditoriale”. È stato assegnato a Stefania e Tiziana Medda e Alessandro Murtas, in qualità di “esercenti italiani più coraggiosi”. Il riconoscimento dell’Anac, associazione nazionale autori cinematografici, è stato loro consegnato a Roma, alla Camera dei Deputati, dal vice presidente della Camera, Giorgio Mulè.

Questa la motivazione: “per aver superato caparbiamente i momenti più difficili delle chiusure degli anni 2020 e 2021, in una Regione dove il numero delle sale è sempre più ridotto ed essere diventato il punto di riferimento del pubblico, grazie a una programmazione di qualità, che si avvale anche della consulenza degli autori. Per dedicare spazi significativi anche alla visione di film in lingua originale e alla formazione del giovane pubblico, contribuendo alla diffusione della cultura cinematografica, in particolare tra le nuove generazioni”.

L’8 settembre saranno presenti alla Mostra del cinema di Venezia per assegnare il Premio Carlo Lizzani – Film per la miglior opera italiana. Un premio che attesta l’importante attività culturale svolta dai fondatori e soci di Spazio 2001, che gestisce il Cinema Odissea per la promozione della settima arte: nelle due sale intitolate rispettivamente a Kubrick e Truffaut all’interno di uno storico edificio, un esempio di archeologia industriale nel cuore della città dove vengono programmate proiezioni di film d’autore, rassegne cinematografiche, eventi e anteprime regionali e nazionali. Il Cinema Odissea rappresenta un punto di riferimento importante per registi affermati e esordienti, un luogo in cui è possibile incontrare e confrontarsi con critica e pubblico.

La programmazione privilegia il cinema di qualità di prima visione, anche in lingua originale, accanto a interessanti retrospettive nel corso dell’anno. In estate, il Cinema Odissea cura la rassegna Nottetempo, a Sa Manifattura a Cagliari con la riproposizione di alcuni dei titoli più significativi e incontri con i registi e gli attori, oltre a eventi speciali.

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sabato 29 luglio 2023

Classifica 2022-2023 (al cinema)

anche quest'anno (agosto 2022 - luglio 2023) faccio una specie di classifica dei film visti al cinema (solo 54), e qualcosa di ottimo e buono c'è (cliccando su ogni titolo c'è il link alla piccola recensione che avevo scritto a suo tempo), gli altri, comunque buoni, si trovano nel blog - Ismaele


venerdì 28 luglio 2023

Circuito chiuso – Giuliano Montaldo

in un cinema romano proiettano E per tetto un cielo di stelle, con Giuliano Gemma, a un certo punto uno spettatore muore.

interviene la polizia, che non fa uscire nessuno, indaga, senza capire nulla, e succede ancora.

solo uno degli spettatori, un sociologo "strano", riesce a capire tutto, citando un racconto di Bradbury e il potere delle immagini.

un gran bel film, un gioiellino solo per la tv, a quei tempi, sottovalutato.

cercatelo e godetene tutti.

buona (misteriosa e imperdibile) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

 

Sconosciuto ma intrigante fanta-giallo che parla di cinema e si "nutre" di cinema. Lo spunto di partenza è un bel racconto del solito Bradbury che Montaldo rilegge arricchendolo di spunti interessanti e bizzarri quali la spiegazione finale del mistero. Girato bene e pur ambientato in un unico luogo e presentando qualche ripetizione, mantiene bene la tensione e conseguentemente l'interesse dello spettatore. Godibilissimo specie per chi ama il cinema di una volta. Oggi è utile anche per capire come sia cambiata la fruizione dei film in sala nel corso del tempo.

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Suspense magistrale, che monta lentamente ma senza mai annoiare! Colpisce per il rispetto per l'unità di tempo e luogo dell'azione, un perfetto equilibrio tra la riflessione autoriale sul meta-cinema e l'aderenza alle regole narrative di genere e per i riferimenti cinefili molto vari (dalle musiche hitchockiane che fanno il verso a Bernard Hermann alla locandina di I giorni dell'ira su cui scorrono i titoli di testa). Cast corale ed ottimo. Davvero un gioiello nascosto.

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Quello di Circuito chiuso è sicuramente un caso più unico che raro all’interno della nutrita filmografia di Giuliano Montaldo, perché si affranca quasi totalmente dal coté storico-drammatico che solitamente ha abbracciato il regista, ma al tempo stesso riesce a mantenere al suo interno una certa radicalità politica (contro il potere) che ha permeato gran parte della sua produzione.

In origine il progetto (finanziato dalla Rai) era stato pensato come film per la Tv, ma portato al Festival internazionale del cinema di Berlino e avendo riscosso un buon successo di pubblico e critica, la Rai pensò di distribuirlo in sala, anche se alla fine non ci arrivò mai per dei disaccordi di carattere economico tra la produzione e gli interpreti.

Ora il film (che peraltro è stato cruciale per la formazione del cineasta romeno Cristi Puiu) è disponibile sulla piattaforma gratuita di Raiplay e rivedendolo oggi si nota che all’interno della evidente confezione da prodotto televisivo, Montaldo lavora audacemente traendone un oggetto totalmente spiazzante anche a distanza di oltre quarant’anni. L’autore di Sacco e Vanzetti e Giordano Bruno mantiene saldo lo sguardo sulla temperie sociopolitica dell’epoca, trasformandolo in una vera e propria lente deformante del reale.

Circuito chiuso è girato quasi interamente all’interno di un cinema romano, dove si sta proiettando uno spaghetti western con protagonista Giuliano Gemma e presenta la struttura tipica del whodonit, dato che uno spettatore viene assassinato all’interno della sala proprio nel momento in cui il pistolero sullo schermo (interpretato da Gemma) spara verso il pubblico.

Montaldo però, già in apertura, inserisce degli elementi caricaturali e grotteschi che ci preannunciano che non stiamo assistendo a un classico giallo, ma a un pamphlet politico che ironizza sulla paura dilagante negli anni di piombo e soprattutto sull’indottrinamento violento delle immagini.

La prima sequenza ci mostra un bambino che punta la pistola giocattolo contro il cartellone fuori dal cinema, poi iniziano ad arrivare altri strani avventori in attesa che la sala apra, tra cui uno strambo sociologo interpretato da Flavio Bucci.

Prima della proiezione in sala, sullo schermo si susseguono una serie di finti spot pubblicitari dal gusto fortemente parodico. Una sorta di preludio al discorso finale esposto da Flavio Bucci, il quale svela e riassume al contempo il portato allegorico del film che abbiamo appena visto. Una riflessione teorica sulle immagini che ci stanno sempre più cannibalizzando, ispirata a un racconto fantastico di Ray Bradbury.

Pur non essendo il lavoro più riuscito di Montaldo, Circuito chiuso è sicuramente una delle sue operazioni più bizzarre, curiose e coraggiose. Il portato politico della vicenda si incarna nel più sovversivo dei generi attraversati dal cinema italiano di quegli anni, ovvero lo spaghetti western, che diventa un meccanismo di messa a morte ripetendosi come un rituale ogni volta che sullo schermo si ripresenta il pistolero che spara verso il pubblico. Montaldo traduce in immagini la teoria di André Bazin contenuta nel famoso saggio Morte ogni pomeriggio, trasformando un classico prodotto di genere in un metafilm che coniuga il lato politico con quello più dichiaratamente teorico.

Circuito chiuso se da un lato pare riproporre il gioco deduttivo della ricostruzione di un crimine all’interno di uno spazio chiuso, come avveniva nell’episodio televisivo Il tram di Dario Argento, dall’altro anticipa il capolavoro di Bigas Luna Angustia, in cui la minaccia che serpeggia all’interno di un film fuoriesce dallo schermo.

A tutti gli effetti Circuito chiuso resta un esperimento seminale, che in embrione preannuncia un preciso e radicale discorso sulla violenza delle immagini e sulla loro potenza condizionatrice che andrà ad esplicitarsi nel successivo Il giocattolo.

Giusto un anno dopo, Montaldo rilegge allegoricamente attraverso la figura di Nino Manfredi la violenza degli anni di piombo e torna la riflessione sulla forza sovversiva del cinema di genere. Non a caso il travet interpretato da Manfredi è un appassionato di spaghetti western che un giorno inizia a impugnare la pistola.

Le immagini ci hanno ucciso per farci rinascere assassini, il discorso di Montaldo non fa una grinza.

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"Perché le immagini, di cui si nutrono le nostre fantasie, non dovrebbero, a sua volta, nutrirsi di noi?”

“-A volte le immagini, come l’immaginazione, possono essere più forti della realtà!

-Il suo è solo un gioco di parole!

-Lei crede?”

 

In questo botta e risposta tra un ispettore di polizia incredulo e sfiduciato ed un bizzarro sociologo, si chiude, lasciando completamente aperto ogni dubbio, l’enigma cinefilo che sta al centro di questo curioso piccolo film, non si sa bene per quale motivo destinato alla televisione, girato con pochi mezzi ma tante idee ed estro da Giuliano Montaldo nel 1978.

Come nel successivo horror di Lamberto Bava del 1985, Demoni, Circuito chiuso si svolge tutto all’interno di una sala cinematografica romana, in un pomeriggio come tanti quando ancora le sale erano affollate. Il film in programmazione è uno spaghetti western con Giuliano Gemma (ufficialmente il film dovrebbe essere I giorni dell’ira, di Tonino Valerii, ma in realtà lo spezzone del duello-fulcro del mistero della vicenda è tratto da “..e per tetto un cielo di stelle” di Giulio Petroni.

Succede che, al momento del duello risolutivo, nell’esatto momento in cui Gemma spara per uccidere il suo avversario (William Berger), un proiettile uccide uno spettatore, colpendolo al cuore.

Il locale viene subito preso d’assedio dalle forze dell’ordine, che, nel ricostruire la scena esattamente come si è verificata, vanno incontro ad un secondo omicidio. Interviene il Questore, le indagini si fanno serrate, la stampa esige spiegazioni, ma l’assassino non si trova…. Non si trova perché forse nemmeno esiste, e il potere della suggestione ha finito per essere letale ai danni di due innocenti, rei solamente della circostanza, nel primo episodio del tutto casuale, di trovarsi seduti nella poltrona sbagliata.

La povertà dei mezzi a disposizione, la sciatteria della fotografia senza filtri che rende particolarmente vintage e ben poco fotogenico il piccolo film, non impediscono alla pellicola di manifestare, anche con una certa esuberanza, la sua impellente, galvanizzante natura cinefila, conducendo lo spettatore in un percorso un po’ diabolico, un po’ a ritroso negli anni del boom delle sale cinematografiche, in cui non farsi coinvolgere risulta davvero difficile.

 

FlavioBucci con il suo bel timbro vocale, si guadagna poco per volta il suo spazio tra i molti personaggi coinvolti, interpretando lo strambo ed occhialuto sociologo, scambiato inizialmente per matto, ma successivamente ascoltato con un po’ più di riguardo, ma non senza una forte titubanza di fondo.

E la vicenda procede in modo piuttosto coinvolgente, attraverso un’inchiesta che ricostruisce le dinamiche fisico-pratiche di un avvenimento dai contorni misteriosi, e che, col passare del tempo, si rivela sempre più appannaggio di fenomeni che ben poco hanno a che fare con la materialità della vita di tutti i giorni…

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mercoledì 26 luglio 2023

Il processo – Luigi di Gianni

la sfida di ricavare un film da un'opera di Franz Kafka fa tremare i polsi, mai si arriverà alla potenza delle pagine dello scrittore.

detto questo, Il processo di Luigi di Gianni merita, l'atmosfera di sospensione, minaccia, timore viene resa bene.

il regista, poco conosciuto, a torto, fa la sua parte diligentemente, nell'adattamento dell'opera di Kafka.

attori bravi, angoscianti e angosciati, personaggi di un processo inarrestabile e inconoscibile.

buona (kafkiana) visione - Ismaele 


QUI il film completo, in due parti, su Raiplay


 

Strepitosa trasposizione televisiva del 1978 del romanzo di Kafka quando la RAI era davvero servizio pubblico, che restituisce pienamente il senso di cupezza e angoscia che caratterizza la vicenda. Le atmosfere stranianti e inquietanti sono sostenute da una certa lentezza dell'incedere, sia della narrazione che da parte del cast stesso, un espediente chiaramente voluto dal regista per restituire quel senso di decadimento progressivo e inesorabile. Un cast maestoso in cui brillano su tutti il protagonista e una grandiosa Vukotic. Da recuperare assolutamente.

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…Questa versione de Il processo di Kafka ha un’indubbia importanza: ci mostra infatti le capacità di Luigi Di Gianni, documentarista sofisticato e decisamente personale nelle scelte e nello stile, come illustratore, come semplice miseur en scéne di un’opera altrui. E che opera, peraltro: i paragoni con il romanzo e, perché no?, con la trasposizione cinematografica offerta un quindicennio prima da Orson Welles sono inevitabili e Di Gianni non sfigura in nessuno dei due casi, per quanto si tratti di opere ben differenti tra loro. Il regista napoletano sceglie di aderire quanto più possibile alla pagina kafkiana, soprattutto per quanto riguarda le atmosfere lugubri e dense di presagi negativi; così facendo il suo Processo risulta un po’ pesantuccio alla visione, in particolare considerando la durata standard decisa dalle esigenze produttive: oltre tre ore di metraggio per la trasmissione televisiva in due puntate. Le ombre e le assenze nella cupa fotografia di Bruno Saccheri si accompagnano bene alla colonna sonora minimalista di Egisto Macchi (oramai storico collaboratore di Di Gianni); anche la recitazione sempre un po’ impostata, in odore di teatro insomma, contribuisce al senso di pulizia, precisione, rispettosità verso il testo di origine che l’opera emana…

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Le scenografie sono adatte, la fotografia (in video-tape) scura e sbiadita è indovinata, gli attori sono bravi, e vi sono divere buone idee per la rappresentazione di questa curiosa vicenda. Il vero problema è secondo me il ritmo, che è fiacco e lento. Ciò risiede in gran parte nella tecnica di ripresa e nel montaggio, che sono decisamente da teatro filmato. Se di Gianni fosse riuscito (o avesse voluto, perché forse non lo ha) ad imprimere un vero ritmo e un'aria di cinema alle riprese avrebbe ottenuto un gran risultato. E' un vero peccato che sia andata così, perché i meriti che ho citato all'inizio non sono piccoli. Diverse buone idee per la rappresentazione, infatti, riescono a cogliere le atmosfere e l'ambientazione particolarissima del romanzo di Kafka. Ciò non è affatto facile, anche pensando a quanto pochi ci sono riusciti (secondo me solo Orson Welles e il duo Straub-Huillet). Nonostante io sia un patito del Franz di Praga, e i meriti dell'opera che ho elencato qui sopra, mi ci è voluta un po' di buona volontà per arrivare fino in fondo.

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martedì 25 luglio 2023

E Dio disse a Caino... - Antonio Margheriti

Klaus Kinski, a ragione, ha aspettato dieci anni, in prigione, innocente. e poi la vendetta è inevitabile.

un "piccolo" western con tutti i crismi del "grande" western.

il vendicatore solitario con successo riesce nella sua impresa, con l'aiuto di un solo amico rimasto, e poi, come Cincinnato, lascia tutto e va via.

gioiellino da non perdere, promesso.

buona (vendicativa) visione - Ismaele


 

QUI il film completo, in italiano

 

 

Insolito western di Margheriti. Parte come un classico spaghetti per poi diventare cupo ed inquietante appena sulla storia calano la notte e il tornado. E infatti "notturno" è l'aggettivo che più si addice al film; il regista, grazie alla sua esperienza nell'horror gotico, riesce a ricreare un'eccellente atmosfera e un ideale clima di tensione, solo apparentemente smussata dal ritmo lento del film. Kinski parla pochissimo e recita più che altro con lo sguardo di ghiaccio; non male neanche il resto del cast. Sinistro e funereo.

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Margheriti rende coinvolgente un archetipo del western colorandolo con atmosfere spettrali e virtuosismi tecnici di grande fascino, ben dirigendo un Kinski laconico e impeccabile, quasi ectoplasmatico, che consuma freddissima la sua vendetta col favore del vento e delle tenebre, attorniato da un cast non eccezionale, ma comunque all’altezza. La felice commistione tra la polvere del West e impalpabili suggestioni gotiche fanno di questo film uno dei risultati più originali del western italiano.

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Ottimo western molto violento anche se dai ritmi non eccelsi. Un ex ufficiale torna al paese cercando vendetta e la trova sino in fondo, tra atmosfere cupe e morti a decine. Certo la storia del pistolero che arriva, fa strage e se ne va è sin troppo comune, ma qui c'è un senso di lugubre che accompagna tutto il film e che lo pone tra i western atipici. Grande Kinski freddo e spietato, ma non sfigurano nemmeno gli altri attori.

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Cupo e prevalentemente notturno, "E Dio disse a Caino..." è forse uno dei western all'italiana meno citati in assoluto, nonché uno dei più particolari, con un Margheriti che sceglie di contaminare lo stesso mediante alcune soluzioni visive e di narrazione tipicamente gotiche (la campana, il sibilo del vento che si insinua tra le finestre, la location notturna).

Il tutto si traduce in uno spaghetti westrern misterioso e spettrale, con un Klaus Kinski piu vendicativo che mai.

A livello di messa in scena, la regia appare sicura e abile a ricreare la giusta atmosfera (ottimi gli effetti luce), scegliendo di limitare l'azione in virtù di una storia di vendetta che, con un ritmo volutamente compassato, è destinata a coinvolgere lo spettatore poco alla volta.

Uno dei migliori film di Margheriti, senza ombra di dubbio.

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Immenso Kinski,la vendetta si serve su un piatto freddo e lui quando e' libero di tornare sul suo passato azzera i conti su ingiustizie subite. Avvincente e imperdibile western che si svolge quasi tutto in un'intera notte. Gli interpreti sono tutti con le facce giuste e Margheriti dimostra di sapersi destreggiare anche con il genere western. Per gli amanti del genere un must.

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lunedì 24 luglio 2023

I prosseneti - Brunello Rondi

una coppia di anziani prosseneti, insomma, gestori di un bordello di tipo particolare, con clienti ricchi e prostitute adatte ai bisogni particolari di ogni cliente.

descrizione di un mondo in decadenza, ma forse già caduto.

lo squallore è nei gestori e nei clienti abbastanza chic e schifosi.

le ragazze ne soffrono e ne approfittano, loro sono le vittime, dolenti o già professioniste nel soddisfare i bisogni malati dei clienti.

un film strano e, allo stesso tempo, interessante.

buona (prosseneta) visione - Ismaele

 

 

Nell'antica Grecia i prossèni erano i cittadini che si occupavano di fornire protezione ed ospitalità ai forestieri: prosseneta ha mantenuto quindi nella lingua italiana l'identico significato, acquisendo successivamente ulteriori sfumature, da "sensale" a "ruffiano" e "pappone". I "prosseneti" di Brunello Rondi si attengono a questa accezione del termine: sono procuratori di piacere, nella fattispecie due coniugi aristocratici che hanno trasformato la loro villa in una casa di appuntamenti per clienti facoltosi. A loro, il conte Davide (Alain Cuny) e la contessa Gilda (Juliette Mayniel), si rivolgono ricchi borghesi, personalità politiche e del mondo della cultura, raggelante fauna umana di un universo in disfacimento, impietosamente ritratta nelle aberranti perversioni di cui si alimenta. La donna è una merce da consumare, cibo per le iene del potere, il suo corpo è lo strumento con cui soddisfare ogni immaginabile depravazione: nella villa sfilano, così, Odile (Stefania Casini), figlia di una donna torturata che vuole rivivere sul proprio corpo la tragica esperienza della madre, Silvia (Silvia Dionisio), aspirante attrice che si presta nel parco della villa a soddisfare le eccentriche perversioni (tra "Conrad, Rimbaud, anche Salgari, Melville") del regista teatrale Giorgio (Luciano Salce), Lyl (Ilona Staller), a cui un ambasciatore chiede di reincarnarsi nella donna di cui era innamorato e da cui è stato abbandonato, Linda (Consuelo Ferrara), ragazza meridionale adescata con l'inganno dagli uomini della contessa al suo arrivo a Roma e poi ricattata e costretta a prostituirsi, Jule (Sonja Jeannine, la meravigliosa Yara di Il corsaro nero di Sergio Sollima), perversa diciottenne che irrompe nella villa in motocicletta in occasione del compleanno della contessa e scatena un'orgia tra gli invitati. I prosseneti, undicesima regia di Brunello Rondi, glorioso sceneggiatore per Rossellini e, soprattutto, per Fellini (La dolce vita8 1/2Giulietta degli spiriti e Prova d'orchestra, tra gli altri titoli, ma fu anche scenografo per La strada) è un film complesso ed irrisolto, fiaccato da un'impostazione eccessivamente schematica in cui le astrazioni simboliche con cui lo script traduce allegoricamente l'inquietante squallore della società dei consumi, ritratta in una metaforica e melmosa danza macabra sul fondale di un nauseabondo baratro esistenziale, si risolve concettualmente in un moralismo di fondo dalle sterili e meccaniche suggestioni spettacolari, dove l'analisi psicologica appare sempre superficiale, l'erotismo un'esibizione spesso gratuita, i dialoghi fastidiosamente ampollosi. Emblematica la sequenza tra Davide ed il suo amico Aldobrando (Jean Valmont), che commenta alcune immagini di donne proiettate dal conte (il suo "catalogo" di beni di consumo) nel salotto della villa:
"Ho sempre pensato che la donna fosse un totem crudele, minaccioso, oscuro. Un totem che bisognerebbe assolutamente infrangere. Sì, la donna è da punire. Deve essere punita perchè è la mediatrice tra noi e le forze diaboliche dell'universo".
"Il corpo di una donna è una forma che ci anima, un qualcosa di enigmatico che a volte sembra volerci rivelare un mondo lontano e sconosciuto. Mi sono sempre chiesto che cosa significhi il corpo nudo di una donna: secondo me fa parte di un linguaggio vero".
"Non è proprio un linguaggio: è, piuttosto, il silenzio, il nulla".
"È un silenzio per i sordi, per tutti quelli che sono nati già come morti, per tutti quelli che non hanno spazi nell'universo"
. Ambizioso, a tratti anche caustico nel dipingere la deriva cannibalistica dei ricchi (e vecchi) contro le classi "inferiori" (e giovani), I prosseneti, però, non coinvolge e non indigna, rappresentando con freddezza la decadenza dei suoi personaggi, con la loro illusoria convinzione di immortalità e l'assoluta mancanza di vergogna, e smarrendo spesso la lucidità e l'incisività dell'ispirazione. Restano la colonna sonora di Luis Bacalov, la radiosa bellezza di Sonja Jeannine e Silvia Dionisio, un'ottima Juliette Mayniel (forse il personaggio più complesso), qualche battuta folgorante ed un'unica, potente sequenza, l'orgia conclusiva su cui si chiude il film: "Sarò il vostro cibo, mangiando di me vi porterete via un po' della mia giovinezza. Mangiatemi, bevetemi, uccidetemi, se volete, ma presto, perchè tra mezz'ora me ne vado"...

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Mi genufletto di fronte a quello che posso definire tra i migliori esempi del genere dei "borghesi annoiati-movies". Dialoghi pretenziosi, atti a giustificare le nefandezze eroticheggianti compiute da ricchi viziati da una vita che non gli ha mai detto "no", in una sfarzosa villa settantiana. Il film va giudicato (con buoni voti) nel senso del trash involontario più puro e non certo per velleità artistiche (anche se tutto sommato all'epoca era un cinema non così di serie B). Sul comparto femminile c’è quanto di meglio poteva offrire l'annata.

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In una villa borghese una coppia di coniugi persegue attraverso un vero e proprio catalogo e una serie di personaggi borderline il proprio sogno: possedere la gioventù. All'avanguardia per i tempi e soprattutto con dei personaggi la cui psicologia risulta efficace, Rondi realizza uno dei suoi film più trasgressivi, dove la trasgressione è stile di vita. La soundtrack raffinata accompagna le immagini mai leziose evitando scivoloni nella volgarità. Se in Inferno di una donna assistiamo ad un pasto erotico, qui è il dessert ad esserlo. Amaro.

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Discretamente noioso oltre che pretenzioso e manieristico. Il problema mi sembra che stia nella ricerca dell'intellettualismo a tutti i costi, della frase ad effetto, della scena che stupisce e questo comporta una rilevante perdita di naturalezza. Restano comunque una buona regia, una convincente fotografia e un cast di attori ben amalgamati.

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domenica 23 luglio 2023

Il criminale - Marcello Baldi

un film un po' strano, nel quale il protagonista è un aguzzino nazista delle SS braccato, dopo 20 anni dalla fine della guerra, che rischia di essere scoperto, e lo sarà, solo per salutare la vecchia madre alla stazione di Milano.

Salvo Randone bravo come sempre.

buona (nazista) visione - Ismaele




 

Girato da uno specialista in vicende bibliche, il film suscitò qualche discussione per via di un certo pathos assolutorio nei confronti dei criminali di guerra nazisti. Al di là di questa non del tutto infondata polemica, Baldi mixa con una certa abilità registri diversi (commedia corale, dramma, noir) in un crescendo di tensione fino al cupo finale. Ottima prova d’attori con un insolitamente serio Jack Palance, un grande Salvo Randone, un immancabilmente canagliesco Franco Fabrizi e una dolce e malinconicamente sensuale Yvonne Furneaux.

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sabato 22 luglio 2023

R.M.N. (Animali selvatici) - Cristian Mungiu

pochi autori entrano nel corpo vivo politico della nostra disgraziata Europa, Cristian Mungiu è uno di quelli (come pure Rodrigo Sorogoyen, in As bestas)

i due film hanno molto da condividere, ci sono comunità in crisi (da cui i giovani partono verso il giardino Europa, a fare spesso i quasi schiavi), piccole città bastardi posti, che odiano gli stranieri, francesi o cingalesi sono lo stesso, vengono a turbare equilibri (che non esistono più).

non ci sono più leggi, se non la legge del branco, o quella della giungla (senza offendere la giungla, naturalmente), all'ombra delle leggi implacabili dell'economia capitalistica, e quelle dei fondi comuni europei e dei regolamenti sulla dimensione dei cetrioli.

in un paesetto romeno l'odio per i diversi, per quanto ottimi lavoratori e anche gentili, è il sentimento che tiene uniti, anche nel santo Natale.

e c'è un bambino, Rudi, che vede i morti, e gli orsi ci sono ancora, gli uomini credono di essere i padroni delle loro donne, e hanno con sè il fucile, che fa tanto macho.

e poi c'è il piano sequenza dell'assemblea, dove tutti sono contro tutti, mentre nel film di Rodrigo Sorogoyen quell'assemblea è "solo" il piano sequenza al bar.

un film da non perdere.

buona (politica) visione - Ismaele





 

"Animali Selvatici" è l'ennesimo grande film di Mungiu, regista in grado di creare questi film al tempo stesso così realistici e secchi, ma anche capaci di avere venature da thriller e, in qualche caso, anche di "mistero", come se ci fosse qualcosa che lo spettatore deve capire o "trovare" (un pò quello che accade coi film di Fahradi, film che molto spesso vengono presi per lineari ed espliciti quando invece, quasi sempre, c'è sempre qualcosa di nascosto e misterioso).

Anzi, quest'ultimo è, se possibile, il film più sfaccettato di Mungiu, quello dove lo spettatore deve "lavorare" di più.

Il significante (quello che ci viene mostrato) è preciso, secco, realistico, ma il significato è tutt'altro che cristallino…

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…Lo sguardo del regista, in questo senso, si rivela lucido e amarissimo, ampliandosi gradualmente dal particolare (la complessa vita privata e familiare del protagonista) al generale (il clima del villaggio e la destabilizzazione portata dai nuovi arrivati), analizzando con puntualità il paradosso di una zona popolata da un crogiolo di etnie, fedi, lingue diverse, che tuttavia, nei secoli, hanno finito per segregarsi ed escludersi a vicenda. Non è un caso che gli ostili abitanti del villaggio ricordino a più riprese che “ci siamo appena liberati degli zingari”, esibendo un’azione di pulizia etnica come una sorta di vanto. La guerra tra poveri, che nel caso specifico significa trionfo dell’homo homini lupus e sistematica, progressiva esclusione degli anelli più deboli, arriva a coinvolgere la perversione (un po’ beffarda) di quella che un tempo era la coscienza di classe; una perversione tradotta in ex operai del panificio che, mentre rinfacciano al datore di lavoro i turni massacranti e gli straordinari non pagati, chiedono a gran voce l’allontanamento di persone che stanno sperimentando con ogni probabilità lo stesso trattamento. Una dinamica che emerge tutta nella magistrale sequenza della riunione in municipio, un lungo piano sequenza fisso in cui la macchina da presa mette a fuoco, di volta in volta, il personaggio che interviene, con dialoghi capaci di dare dinamicità a una sequenza tecnicamente statica…

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…Ambientato in una piccola comunità della Transilvania circondata da montagne e boschi, la storia si impernia su Matthias un giovane che lavora in un mattatoio tedesco e che in seguito una azione violenta contro un collega di lavoro è costretto scappare in fretta in furia e tornare al suo villaggio tra le montagne dove vive la moglie con la quale ormai il rapporto è deteriorato ed il figlio, oppresso da una forma di mutismo scatenata dalla paura  di aver visto qualcosa nei boschi; il padre incolpa la madre di essere troppo protettiva con lui e decide di prendere in mano l'educazione e la gestione del figlio basandosi su sue teorie personali basate su un senso di machismo e anche di violenza…

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Cristian Mungiu ha sempre esaminato, quasi fosse un medico incaricato di scovare le radici di un male, il decadimento interiore del suo paese, dagli aborti clandestini negli anni finali della dittatura comunista al fanatismo religioso passando per la corruzione a livello costituzionale, il tutto con un rigore formale abbinato a performance forti, scrittura solida e un gusto per il genere con connotazioni thriller. Il quinto film del regista non si discosta da queste convenzioni, anzi, si fa ancora più ambizioso del solito, a partire da quel titolo originale che rimanda direttamente a una cosa ma ne sottintende un’altra, procedendo per simbolismi e allegorie nel raccontare una storia intima su sfondo universale.

E se rispetto ai film precedenti la densità tematica può risultare un po’ impegnativa (a Cannes, dove le proiezioni per addetti ai lavori sono in contemporanea con quelle ufficiali, c’è chi si è lamentato della scelta di proiettare una pellicola così stratificata e non sempre “facile” alle 22), il virtuosismo formale rimane da capogiro (soprattutto considerando che Mungiu ha lavorato con un cast corale in tempi di pandemia, con tutte le complicazioni tecniche del caso), con uno dei consueti piani-sequenza dalla durata estesa che qui si fa summa vertiginosa e ipnotica dell’intera poetica del regista e racchiude in sé tutta la vitalità e la rabbia del progetto, urlo di dolore nei confronti di una mentalità retrograda facile da individuare ma impossibile da estirpare.

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El momento más interesante de la cinta es esa media hora de diálogo, debate o enfrentamiento entre los habitantes de esa pequeña localidad rumana, en donde se pone de manifiesto con las diferentes posturas lo fragmentada que está la Unión Europea en temas importantes en el día a día de sus ciudadanos.

Con un final desconcertante y extraño, que da para muchas explicaciones posibles, pero que analizándolo bien tiene bastante sentido. Ese epílogo puede servir como resumen del miedo de la gente a lo desconocido que viene de fuera, como si fueran monstruos o bestias, que pueden destruir su convivencia…

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Bellissima e di forte impatto la sequenza dell’assemblea pubblica: diciassette minuti di grande cinema, in cui la camera passa da un volto all’altro con un abile gioco di messe a fuoco, per assistere allo sversamento di tutto l’odio insito nell’uomo. Al contrario, allegoriche sono le numerose scene in cui gli orsi – gli animali selvatici del titolo - diventano nell’immaginario collettivo i nemici da cacciare e dai quali difendersi, esattamente come lo sono i pacifici e operosi lavoratori srilankesi.

Il regista è impietoso nel descrivere un microcosmo che diventa, di fatto, specchio di un’intera società.

Lo fa confrontando e mettendoli in discussione, vari dilemmi attuali, quali solidarietà e individualismo, tolleranza ed egoismo, incapacità nell’accettare chiunque possa essere considerato un diverso identificandosi in un determinato gruppo etnico, con il senso di inclusione. E lo fa senza risparmiare nessuno; Mungiu ha uno sguardo durissimo sia nei confronti della popolazione locale intollerante e violenta, che si vanta di aver allontanato gli zingari dal proprio territorio e ora vuole cacciare gli uomini dello Sri Lanka, sia nei confronti della chiesa e dei suoi rappresentati che rinnegano, di fatto, i principi del cristianesimo…

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venerdì 21 luglio 2023

giovedì 20 luglio 2023

Made in Italy - Nanni Loy

due anni dopo I mostri (di Dino Risi) Ruggero Maccari, Ettore Scola e Nanni Loy scrivono la sceneggiatura, in 27 episodi, in un film che ha qualche parentela col film di due anni prima, una parata di stelle del cinema, che appaiono solo una volta.

in più il film, che dal titolo rimanda a un'analisi della vita del nostro paese, è più politico, alcuni episodi sono solo bellissimi, gli altri dei capolavori assoluti, che ti restano nel cuore e nella testa.

ed è un film a cui è impossibile non voler bene.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo

 

 

Geniale film di Nanni Loy che dietro l'apparenza della commedia in molti episodi mostra vizi, difetti e ipocrisie dell'Italia del boom economico. Un cast grandioso in cui ci sono anche Sordi, marito infedele, Nino Manfredi, vittima della burocrazia e l'eccelsa Anna Magnani. Ritmo incalzante e montaggio frenetico. Modernissimo anche sessant'anni dopo. Surreale ma non troppo.

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Dopo I mostri ecco la risposta di Nanni Loy in una commedia ad episodi pantagruelica,lunghissima e con un dispiego di stelle di prima grandezza del firmamento cinematografico italiano impressionante,forse neanche ne I mostri si arrivava a tanto eccettuata la mitica coppia Tognazzi -Gassman.Qui purtroppo l'ispirazione non è costante,si prendono di mira diverse usanze malsane del Belpaese con storie a volte piu'lunghe,a volte dei veri e propri sketch da avanspettacolo.Si procede per accumulazione ma cio'non toglie ilk piacere di vedere episodi gustosissimi tra i quali quello della Magnani e famiglia che attraversano la strada,quello di Sordi sorpreso a letto con l'amante che ribalta le colpe sulla moglie,quello di Manfredi prigioniero della burocrazia visto che non riesce neanche a ritirare neanche un certificato di residenza dopo vari tentativi,quello di Buzzanca che si informa sulla moralita'di una ragazza.Le gags sono decine,si accumulano le une sulle altre ma non sempre il divertimento è garantito.La cosa che mi ha impressionato di piu'è che nel 2008 si parla ancora delle stesse cose...traffico,burocrazia....non è cambiato assolutamente nulla...

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Film fatto da tantissimi episodi (alcuni durano addirittura pochi secondi) inclusi in 4 macroargomenti che raccontano l'Italia, dai luoghi comuni e clichè alle abitudini di tutti i cittadini estratti da ogni ceto sociale. Le gag sono molto divertenti e riuscite, in alcuni si tende al grottesco e surreale, in altri c'è molta ironia. Se poi mettiamo in conto anche un cast eccezionale, con quasi tutti i migliori attori dell'epoca, ne viene fuori un'opera abbastanza riuscita e gradevole.

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Affresco antropologico dell'italianità anni 60, tra problemi e difetti. Nasce sulla scia dei Mostri, ma qui c'è un'impronta più "politica" nella ricerca non del grottesco ma di un'analisi della società, sia pure in chiave spesso comica o ironica. Loy mescola microstorie (le migliori: Manfredi e la burocrazia, Magnani e il traffico) a flash come barzellette fulminanti, senza evitare sguardi documentaristici su feste popolari. Interessante, ma la struttura in realtà disorienta e non funziona, forse per eccessiva frammentazione.

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In 27 episodi, distinti in cinque sezioni (Usi e costumiLa donnaIl lavoroLo Stato, la Chiesa e il cittadinoLa famiglia), il regista descrive acutamente i costumi degli italiani e, tra una sezione e l'altra, viene inserito un intermezzo: quattro operai a bordo di un aereo diretto a Stoccolma anticipano la sezione successiva con un comportamento "tipico" tra compassati viaggiatori svedesi ma, negli ultimi fotogrammi del film, una volta arrivati in Svezia porteranno allegria in un silenzioso bar nei dintorni della capitale.

Il film è ambientato in alcuni luoghi caratteristici dell'ItaliaRomaAmalfiRavelloMateraMessina, NapoliVeneziaTorinoFirenze, ed ancora Sicilia ed alcune zone dell'Italia rurale.

Per realizzare questo film Loy impiegò un cast comprendente molti attori famosi. In un ruolo minore (quello di una presentatrice) è impiegata anche la ragazza-copertina anni sessanta Solvi Stübing.

 

Le sezioni e gli episodi

Usi e costumi

·         Una donna sale su un treno sovraffollato. In uno scompartimento è seduto un uomo che legge un giornale; la donna chiede se c'è un posto libero, ma questi risponde che sono tutti occupati. In effetti vi sono valigie, cappelli e altri oggetti sui vari posti. Allontanatasi la donna, l'uomo si alza, chiude la porta e le tendine, sgombra gli altri posti (che erano quindi liberi) si riprende giacca, cappello e giornale e si stende per dormire.

·         Una coppia di turisti in gita a Firenze vuole recarsi a visitare il dipinto la Madonna del Granduca di Raffaello. Chiedono indicazioni ma i vari fiorentini non hanno idea di dove si trovi, finché non incontrano una coppia di inglesi, i quali li indirizzano nel posto giusto (palazzo Pitti).

·         In Sicilia la salma di un defunto viene vegliata dai parenti, raccolti intorno ad una tavola imbandita.

·         Un gruppo di amici benestanti a bordo di macchine lussuose è alla ricerca di un ristorante esclusivo in un quartiere popolare di Roma. Ne scartano parecchi perché non abbastanza "vip", poi scelgono di andare in una trattoria di ultima lega, un posto scomodo, sporco e con un servizio scadente ma tutto questo è molto chic per loro.

·         Sicilia. Giulio (Lando Buzzanca) è perdutamente innamorato di Rosalia (Jolanda Modio). Si vedono tutte le domeniche pomeriggio, ma lei non si lascia mai baciare. Insospettito, Giulio va da un amico carabiniere (Aldo Giuffré) e gli chiede di assumere informazioni su di lei. L'amico gli legge una serie di note piuttosto lunga, da cui emerge un quadro inquietante sull'educazione e la personalità della ragazza ma non emerge nulla sulla sua illibatezza. La domenica dopo il ragazzo l'abbraccia entusiasta e le regala l'anello di fidanzamento.

·         Un uomo (Walter Chiari) esce con l'amante (Lea Massari). Lei è libera fino a mezzanotte, l'ora in cui rientra il marito. L'uomo fa entrare l'amante in casa sua. Quando sono da poco passate le dieci, inventa una scusa: si deve subito recare in ospedale a trovare la madre. L'ingresso è consentito fino alle 22,30. In poco tempo si veste e manda via l'amante lasciandola semi svestita in mezzo alla strada. L'uomo vola al cinema per vedere un film americano di genere western.

Il lavoro

·         Un gruppo di operai portuali fa calare con una gru dal ponte di una nave alla banchina un grosso secchio contenente una sigaretta per un loro collega.

·         In alcune scene frenetiche del film s'evince il fervore e la devozione dei fedeli durante la processione della Vara di Messina che appare in tutto il tuo splendore da minuto 27:40 a minuto 29:20. Belli alcuni scorci di Messina e le immagini della processione che scorrono rapidamente.

·         Napoli. Luigino deve affrontare un colloquio di lavoro; sbarbato e ben vestito si presenta in un cantiere dove viene offerto un posto come guardiano notturno. Il capomastro sarebbe anche disposto ad assumerlo, salvo poi fargli notare un muratore ridotto in pessime condizioni fisiche che non lo rendono sufficientemente produttivo, al quale vorrebbe assegnare il nuovo incarico. Luigino comprende e mestamente è costretto a dover rinunciare.

·         Un uomo, a bordo del suo yacht, nella rada di un porto, cerca di pescare qualcosa, mentre la sua giovane compagna, che prende il sole vicino a lui, lo distrae. Gli passa davanti una barca di pescatori che rientrano al porto dopo una dura giornata di lavoro. Sorvegliano le casse con tutto il pescato e hanno un aspetto veramente stanco. Il ricco sospira: "A chi tanto e a chi niente".

·         (Senza dialoghi) In pochi minuti viene raccontata la giornata di un operaio che vive in provincia: sveglia all'alba, percorso in bicicletta per raggiungere la stazione, lavoro in fabbrica, pausa mensa e ripresa. Il ritorno avviene a tarda sera, quando i figli già stanno dormendo e l'uomo, mentre cena davanti allo sguardo amorevole della moglie, guarda nel vuoto rammaricato dal fatto di non poter godere neanche del calore familiare.

·         Il signor Pira (Aldo Fabrizi) è riuscito a far laureare il figlio Claudio (Nino Castelnuovo) in Legge. Ha fatto tanti sacrifici, soprattutto da quando è rimasto solo dopo la morte della moglie. Vuole che il figlio trovi una posizione sociale elevata, quindi respinge i consigli di trovargli un lavoro impiegatizio presso un'assicurazione. Ma il figlio deve fare un anno di militare, poi la gavetta da avvocato è spietata e oltretutto al concorso per accedere alla Magistratura si classifica centoventunesimo, si sposa non ancora sistemato. Arriva finalmente il giorno della sua prima causa da avvocato; il padre si reca in tribunale solo per scoprire che è stato condannato per una vecchia multa non pagata. Rimasto deluso, viene rassicurato da Claudio circa un lavoro sicuro che sta per intraprendere. Il giovane infatti trova un impiego come insegnante di ballo.

La donna

·         Un contadino sta raccogliendo del fieno. Dopo aver terminato si avvicina al carretto e si scopre che si tratta di una ragazza madre, la quale inizia ad allattare il suo bambino.

·         Una giovane suora sta passeggiando. Quando passa davanti alla vetrina di un negozio di abiti da sposa, non riesce a trattenere le lacrime.

·         Una donna affascinante (Virna Lisi) è frustrata dal fatto di aver dovuto sposare uomini più ricchi presso i quali lavorava come cameriera, ma quando le si ripresenta l'opportunità di vivere con l'uomo che ama davvero, non riesce ad abbandonare il lusso a cui si era abituata e lo rifiuta.

·         Una coppia di giovani passa la serata in una discoteca romana molto "in". Lei (Catherine Spaak) ha un accento del nord, modi di fare snob, da rampolla di buona famiglia. Lui è un semplice impiegato. All'ora convenuta la riporta a casa, fermandosi davanti ad un bel palazzo. Appena il fidanzato è ripartito, lei aspetta che se ne sia andato, poi entra dall'ingresso secondario in una sorta di scantinato, e il padre, un burino, le urla che ha sgarrato sull'orario di ritorno, le molla uno schiaffo, le rinfaccia che il giorno dopo deve andare a pulire le scale e la manda a letto.

·         Una donna sfreccia per le strade del centro di Amalfi a bordo di una fiammante Jaguar E-Type. Passa davanti a un gruppo di giovani. Uno di loro (Jean Sorel) scommette con gli altri che riesce a prenderla. Si mette all'inseguimento a bordo di una Fiat 595 Abarth SS[2], la raggiunge e la convince a fermarsi. La vede da vicino: è una gran bella donna (Sylva Koscina) ed anche lui è un bel ragazzo. La donna lo guarda chiedendosi quali intenzioni abbia perché in fondo non le dispiace il suo corteggiamento. Dopo essere passati dal Lei al Tu, lui le vuole chiedere una cosa e la prega di non rispondergli di no. Lei accetta. Lui, tutto eccitato, le chiede se può guidare la sua Jaguar e lei rimane un po' delusa.

Cittadini, Stato e Chiesa

·         Un gruppo di impiegati lavora alacremente per eseguire gli ordini impartiti, attraverso l'interfono, dal proprio capo, del quale gli spettatori odono la voce, ma non possono, inizialmente, vedere la faccia. Dal tono e dai contenuti dei messaggi, sembra di sentir parlare un potente manager, molto autoritario, severo e con la mania dell'efficienza, che tratta affari finanziari o immobiliari. Solo quando l'inquadratura si sposta nell'ufficio accanto, si scopre che ci troviamo in un palazzo della Curia romana, e che il capo degli impiegati è un alto prelato (l'attore che l'interpreta è doppiato da Nino Dal Fabbro).

·         Un autobus che trasporta dei pensionati in gita a Roma, dopo aver attraversato ponte Milvio (all'epoca in cui fu girato il film era transitabile)[3], inizia a transitare nei pressi del ponte Flaminio, chiamato però "ponte della Vittoria" (nome fittizio). La guida ne descrive la bellezza e la costruzione con tecniche d'avanguardia. Le immagini però mostrano che non è percorribile: c'è il rischio di un cedimento strutturale.

·         Una donna anziana, che vive con la famiglia in una baraccopoli romana, compie un lungo cammino per andare a pregare nella basilica di San Pietro in Vaticano.

·         All'ingresso di un teatro molte persone accedono gratuitamente allo spettacolo, ostentando varie posizioni sociali o incarichi istituzionali senza consentire al rassegnato custode un minimo di verifica.

·         Il signor Attilio Lamporecchi (Nino Manfredi) si reca all'anagrafe per ritirare un certificato di residenza. Lascia la macchina in doppia fila, convinto di impiegarci al massimo cinque minuti. Invece comincia per lui un'odissea kafkiana, tra interminabili code agli sportelli che deve ripetere più e più volte, uffici chiusi o abbandonati, bolli che non si trovano, impiegati che sono al bar invece che in ufficio (e che passano quel tempo a lamentarsi del troppo lavoro che gli impongono). Alla fine, invece di impiegarci 5 minuti, ci mette un'ora. L'esito: sul calcolatore risulta che non ha mai avuto la residenza a Roma. Alle sue proteste l'impiegato risponde che «la macchina non sbaglia mai»; ma anche accanto a Lamporecchi si trova un uomo con un certificato di residenza con su scritto che lui è nato nel 1806 e si chiama Lucia. Deluso, Lamporecchi se ne va. Uscito in strada, però, non trova più la macchina che, dopo essere stata multata più volte, alla fine è stata ritirata da un automezzo dell'ACI. Lamporecchi non si scoraggia ed è disposto a ricominciare tutto da capo pur di trovare l'ufficio competente.

La famiglia

·         Un ragazzino si reca in un cantiere per portare un fiasco di vino ad un manovale in pausa che sta mangiando. Questi gli offre un pezzo di pane ma il bambino risponde: Ha detto mamma che l'ho già mangiato!. Scena girata presso la "Cava del Sole" a Matera, il ragazzino è interpretato dal materano Domenico Bellomo.

·         Madre e figlio (rispettivamente interpretati da Tecla Scarano e Peppino De Filippo) chiudono la saracinesca del negozio dove lavorano e si avviano sottobraccio per la galleria. Nel breve tragitto si apprende che sono due strozzini e che la madre aveva allevato il figlio perché diventasse un perfetto strozzino. E a fronte della richiesta di elemosina da parte di un mendicante, Peppino rifiuta con la giustificazione: tengo 20 lire sane.

·         Un giornalista si reca ad intervistare un capofamiglia (Guido Leontini) che vive in una baracca diroccata e isolata, privo dei benefici del progresso e senza potersi permettere neppure una televisione o una radio. Il giornalista allora domanda cosa faccia la sera per distrarsi, suscitando risate e ammiccamenti mentre spuntano dalla baracca i suoi numerosi figli.

·         Erminia (Rossella Falk) torna nel lussuoso palazzo dove abita solo per trovare il marito Silvio (Alberto Sordi) a letto con una signora dall'accento francese. Durante la scenata seguente si apprende che il marito è solo un cacciatore di dote che si fa mantenere. Silvio, pur non negando l'evidenza, cercherà di passare per vittima.

·         Una mamma (Anna Magnani), insieme al marito (Andrea Checchi), la suocera e tre figli, cerca disperatamente di attraversare la strada in una capitale congestionata dal traffico per raggiungere il bar di fronte, finché, una volta arrivata a destinazione, scopre che il gelato che vuole offrire ai suoi figli (la Coppa del nonno) è finito e si può trovare nel "nuovo" bar situato dalla parte della strada da cui proveniva.

Distribuzione

Il film, distribuito dalla CEIAD-Columbia, uscì per la prima volta nelle sale italiane il 22 dicembre 1965, con il divieto di visione per i minori di 14 anni. Nelle locandine c'era l'inserimento del sottotitolo: Questi italiani.... La pellicola venne distribuita in Francia solamente a partire dall'8 aprile 1967.

Accoglienza

Incassi

Il film ebbe un buon successo al cinema, si posizionò al settantaquattresimo posto nella stagione agosto 1965-luglio 1966. L'incasso totale delle prime visioni nelle sedici città capozona fu di 170.008.000 di lire.

Struttura del film

Loy si è avvalso del contributo di un grande direttore della fotografia, Ennio Guarnieri, che ha catturato sia le forti tinte della città sia i colori più mutevoli e tenui della campagna; questi ultimi svolgono la funzione di mediare tra una scena comica e l'altra. Due esempi:

·         Un bambino corre in mezzo a un bosco, finché raggiunge un casolare. Qui si sta svolgendo una lezione di storia in un'aula scolastica arrangiata alla bell'e meglio. Il maestro è concentrato nella lettura di una pagina del libro di testo, in cui, con linguaggio aulico, si esalta la bellezza dell'Italia, «paese benedetto da Dio». Quando alza gli occhi sui bambini, vede che hanno le scarpe rotte, un aspetto dimesso e i volti emaciati.

·         In un paese molto povero, una mamma si sofferma davanti a un muro su cui è stato appeso un manifesto. Non sapendo leggere, chiede a un ragazzo cosa c'è scritto. "Aiutiamo l'India", risponde, compitando una lettera alla volta. I volti disegnati sul manifesto hanno una straordinaria somiglianza con le persone che li stanno guardando.

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