giovedì 31 ottobre 2019

Asino vola - Marcello Fonte, Paolo Tripodi

tre anni prima della Palma d'oro del festival di Cannes Marcello Fonte gira Asino vola e interpreta diversi personaggi, e tutti benissimo.
è una piccola storia, che si vede benissimo, e il bambino Maurizio (interpretato da grande da Luigi Lo Cascio) è davvero perfetto.
insomma una film che non può non piacere, buona visione - Ismaele

QUI il film completo


Asino Vola è un film semplice, sincero e poetico.
Ambientato in un polveroso paesino della Calabria, scopriamo paesaggi tutt'altro che da cartolina, che probabilmente risulteranno sconosciuti ai più.  E proprio in quello che per noi sarebbe un semplice alveo di un fiume rinsecchito, dove si buttano macchine, valige e cose che non servono più, Maurizio, il bimbo protagonista del film, stabilisce il suo regno magico, dove anche gli asini parlano e danno saggi consigli e la valle risuona di pensieri spazzati dal vento.
Maurizio vuole suonare nella banda di paese, la mamma è alquanto scettica, il padre più incoraggiante, sarà un percorso pieno di ostacoli e pieno di musica.

…Con una durata di poco più di un’ora, la storia di Maurizio e della sua risolutezza nell’inseguire un tamburo ci incanta. La pellicola è destinata ai bambini ma gli adulti non si annoieranno. Troppa la poesia, troppa la curiosità, troppa la bravura dell’attore più giovane, Francesco Tramontana, che ci porta nella fiumara, il campo giochi in cui può fantasticare e raggiungere l’impossibile. Maurizio non conosce limiti, parla con gli animali e punta al successo. In un certo senso è un vero super-eroe.
Asino Vola, ti lascia un dolce retrogusto. Ti manda a casa con il sorriso, con la voglia di lottare per i tuoi desideri e con una rinnovata passione per la musica. Esatto, la musica è co-protagonista e sono sicura che in molti, dopo aver visto questo film, avranno voglia di avvicinarsi a uno strumento musicale per scoprirne la melodia.

Nursery Rhymes - Tom Noakes

martedì 29 ottobre 2019

Tylko nie mów nikomu (Non dirlo a nessuno) - Tomasz Sekielski

dopo Grazie a Dio ecco un film documentario polacco sulle vittime dei preti pedofili e sui loro aguzzini.
è stato visto in Polonia da una ventina di milioni di persone e ha provocato qualche terremoto.
ci vuole forza e coraggio a fare un film così forte in un paese così fortemente cattolico, ma quando è troppo è troppo, evidentemente.
sembra un film gemello di quello di Ozon, parlano le vittime, quelle ancora vive.
un film che merita, doloroso e determinato - Ismaele



QUI il film completo, in polacco con sottotitoli in italiano 



…Il docu-film presenta nuove prove sulla pedofilia di molti preti polacchi e di come, invece di essere cacciati dalla chiesa o denunciati alla polizia, i sacerdoti abusatori venissero semplicemente trasferiti in altre parrocchie. Un’altra vittima, Marek Mielewczyk, racconta di aver subito abusi sessuali all'età di 13 anni. Il prete gli aveva ordinato “di non dire a nessuno quello che era successo”, nemmeno durante la confessione. “Non dirlo a nessuno” affronta anche il caso del reverendo Dariusz Olejniczak, che nonostante gli abusi a bambine di 7 anni, ha continuato a stare in contatto con i giovani per diverso tempo. Domenica, il giorno dopo la pubblicazione del film denuncia, Olejniczak ha annunciato che abbandonerà il clero…

Tra i preti accusati di pedofilia dai fratelli Sekielski c’è anche don Franciszek Cybula, ormai morto, che tra il 1980 e il 1985 fu il parroco della parrocchia di Lech Walesa, l’operaio e sindacalista che per anni ha guidato il movimento Solidarność ed è stato il primo presidente della Polonia dopo la caduta del comunismo. «Sono così sorpreso che non so cosa dire», ha detto Walesa al New York Times: «Se io, come cattolico, avessi saputo, non avrei mai permesso una cosa del genere».
Dopo la visione del video il primate di Polonia, Wojciech Polak, arcivescovo di Gniezno, ha ringraziato i due fratelli che hanno realizzato il documentario per il loro lavoro e si è scusato «per ogni ferita inflitta dalla Chiesa». Anche il nunzio apostolico vaticano in Polonia, monsignor Salvatore Pennacchio, ha portato le sue scuse e quelle di Papa Francesco ai sopravvissuti…

Un gatto nel cervello - Lucio Fulci

il film sembra un gioco, un regista di film horror (Lucio Fulci in persona) comincia a essere ossessionato dalle storie terribili che filma, e incrocia uno psicopatico a cui si affida, è un incrocio e una lotta fra finzione e realtà.
la storia è chiara e semplice, e però ha una sua dignità e profondità, e, sembra dirci, la realtà è molto peggio e più pericolosa della finzione.
merita la visione, se uno può sopportare teste e braccia tagliate con la sega elettrica (nella finzione, naturalmente) - Ismaele





L'idea di base è buona, ardita, intelligente: Fulci butta in campo tutto il suo coraggio, ci mette la faccia in tutti i sensi, pone parzialmente in discussione il suo ruolo di autore splatter negli ultimi anni di carriera ipotizzando e poi smentendo nettamente un'ipotetica nocività a livello nervoso di questo genere cinematografico, girando con molta autoironia, seppur in modo autoreferenziale e grezzo, e tratteggiando un'inquietante figura di psichiatra (categoria da lui mai troppo amata) completamente folle.
Un gatto nel ce
rvello 
è stato uno degli ultimi film da lui diretti, ormai malato e ancora sottovalutato, se non proprio stroncato, in Italia dalla critica (mentre ad esempio in Francia era già apprezzato), alle prese ormai da anni con produzioni e budget miseri, i quali hanno inficiato non di poco le sue ultime opere. Qui, invece, abbiamo a che fare con un film sperimentale e simpatico quanto si vuole e, a maggior ragione, ho voluto rimarcare i pregi che questa "chicca" per appassionati dell'innovativo "regista-artigiano" porta con sé, anche se non tanto a livello realizzativo ma a livello concettuale. Volendo essere obiettivo e sincero, però, è veramente un brutto film. E mi dispiace. A volte è proprio vero che "chi ha pane non ha i denti e chi ha i denti non ha pane".

Il regista Lucio Fulci (nella parte di se stesso!) è ossessionato dalle immagini crude contenute nei suoi lavori. Dopo l'ennesimo incubo si reca dallo psicologo che lo convince di essere l'autore di una serie di delitti. In realtà...Ispirandosi (probabilmente!) in parte al romanzo di Clive Barker "Cabal" (del quale nello stesso anno verrà girata la trasposizione cinematografica!) e (ri)utilizzando sequenze dei suoi ultimi film (e qualche insert dai backstage!) Fulci tenta la via sperimentale per raccontare quali potrebbero essere le ossessioni di un intellettuale che ha spesso a che fare con immagini di violenza che finiscono per ossessionarlo. Girato cucendo assieme maestria e rozzezza infila anche scene ironiche ma banali (il finale sulla barca con motivetto comico) per creare un interessante HELZAPOPPIN della follia artistica. Eccellente gioco intellettuale!!!

Serie Z pura, film estremamente brutto esteticamente e rozzo tecnicamente, ma a differenza degli analoghi americani (vedi gran parte della produzione Troma) assolutamente intelligente, sopra le righe, non gratuito e con numerose intuizioni geniali.
Lucio Fulci protagonista (dimostrandosi un discreto attore, purtroppo l’unico nel film) mette in gioco la sua persona, le sue ossessioni, la sua malattia (nella realtà colpito da un’epatite virale) ed il suo cinema (tutti gli spezzoni di scene horror mostrati provengono realmente da suoi lavori minori, all’epoca inediti) con grande abilità ed autoironia, riuscendo a fare di un film all’apparenza bruttissimo un lavoro capace di una riflessione profonda e abbastanza complessa sul ruolo del regista, i gusti del pubblico e i percorsi del cinema di genere (horror nel caso specifico).

Se siete deboli di stomaco, Un gatto nel cervello non è certo il film che fa per voi. La pellicola è infatti un campionario splatter, un concentrato di scene truculente che non risparmiano alcun orrore: corpi fatti a pezzi con la motosega, bambini decapitati, cadaveri in putrefazione con tanto di vermi, arti che saltano via a suon di accettate; e ancora: orge depravate, sesso e sadismo, necrofilia. Insomma, Un gatto nel cervello è un film perverso e morboso, oltreché un gioiellino gore tutto italiano. Si può dire infatti che sia uno dei pochi film italiani (e non) in cui le sequenze splatter non rappresentano un di più, ma costituiscono l’ossatura della pellicola: non si tratta di un thriller, né di un horror in senso stretto, ma di una pellicola “gustosamente” gore.
Un gatto nel cervello è certamente un film innovativo, e ciò si vede innanzitutto da come Fulci ne imposta la trama. E’ egli stesso, infatti, il protagonista del film, un regista ossessionato da visioni orripilanti e spaventose, preso di mira da uno psicopatico assassino. E’grazie a quest’impronta (già di per sé originale) che Fulci può inserire nella pellicola un elemento pressoché estraneo al cinema horror-splatter: l’autoironia. Il regista romano non solo sceglie se stesso come preda di turbe psichiche, non solo fa di sé la vittima ideale per un crudele assassino, ma infarcisce il film di momenti risibili, faceti, che controbilanciano la violenza efferata presente nella gran parte delle sequenze. Inoltre, le visioni terrificanti a cui è soggetto il regista non sono altro che scene di altri suoi film (Il fantasma di Sodoma, Quando Alice ruppe lo specchio) o di pellicole da lui presentate (Bloody Psycho – Lo specchio, Non aver paura della zia Marta): tutto ciò però non vuol essere assolutamente un’autocelebrazione; al contrario, Fulci ironizza sulla sua opera, facendo dei suoi film, che lo hanno reso immortale, il suo incubo peggiore: più autoironico di così si muore!...

domenica 27 ottobre 2019

Boris - Il film - Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo

anche per chi non ha visto la serie, il film riesce a farsi seguire bene.
è una piccola storia sul cinema, la tv, e tutto quello che c'è in mezzo e dietro, ma in fondo è una storia sull'Italia e i suoi (nostri) vizi.
gli attori funzionano, il regista Renè Ferretti è bravissimo a galleggiare in un mare complicato e ostico.
anche Boris fa la sua figura.
un piccolo film da non perdere - Ismaele



Il salto di Boris dal piccolo al grande schermo, ma soprattutto da un pubblico di nicchia al grande pubblico, "laurea" definitivamente i suoi tre autori con lode, per l'umorismo finissimo (anche laddove fa della volgarità il suo humus), lo sguardo implacabile, la scrittura diretta e coraggiosa, la capacità di scelta (nell'abbondanza da loro stessi prodotta, in fase di sceneggiatura e di riprese) e soprattutto l'eleganza e la coerenza con cui sono passati dal ritrarre la televisione in televisione al fotografare il cinema nel cinema. Non di parodia si tratta, infatti, spessissimo, ma di fotografia vera e propria, ritoccata ad arte e virata sul comico.
Sono tante le battute o le scene del film che potrebbero essere estrapolate come costole per offrire un'idea dell'organismo nel suo insieme; dal produttore cinematografico che spiega: "non c'ho i sordi per tutta 'sta sensibilità", al regista che paventa: "non si esce dalla televisione, è come la mafia, non se ne esce se non morti". Ma è nella scena in cui Antonio Catania alias Lopez immagina il destino di René qualora lo abbandonasse per passare alla concorrenza e, dopo avergli fatto chiudere gli occhi, gli riappare davanti uguale identico a pochi secondi prima esclamando: "eccola la concorrenza!", che il film si rivela maggiormente. Nella terribile verità di quello sketch ci sono, infatti, sia un'indicazione di tono, cinico, dissacrante, spoetizzante, sia l'indicazione sulla natura dell'umorismo in gioco -si ride per non piangere- sia la lucidità e la schiettezza di sguardo e parola rispetto all'argomento trattato, vale a dire lo stile, che fanno di Boris qualcosa di unico in Italia.
La prima vera serie televisiva italiana di qualità (che aveva per soggetto la pessima qualità della televisione italiana) si congeda dagli schermi, parrebbe, con questo maxi episodio dedicato al mondo del cinema nostrano, massacrandone il mito con straordinaria capacità di sintesi e umorismo, nonostante il cinema non solo abbia già raccontato spesso il suo dietro le quinte ma soprattutto abbia sempre avuto maggior autoironia rispetto alla nipotina televisione…

…Perché, al di là del giudizio non completamente positivo sull’insieme dell’opera, Boris – Il film va difeso perché ha il coraggio di inserirsi nel contesto della commedia nostrana da box office – zona liminare piuttosto intasata nel corso degli ultimi anni – operando una scelta popolare e mai populista: per questo la critica ai cinepanettoni, pur “semplice” nella sua goliardia visiva, coglie decisamente il nocciolo della questione. Certo, è indubbio che nel complesso la serie vinca a mani basse nel confronto diretto con il film, ma nel passaggio tra due medium espressivi troppo spesso assimilati senza una reale ragione, ha la capacità di non disperdere il motivo della propria esistenza: Boris – Il film fa ridere, a tratti in maniera quasi irrefrenabile, e allo stesso tempo dimostra di avere le capacità per raccontare a un pubblico italiano inebetito da una pletora di commediole senza arte né parte, la mediocrità di una “nazione dello spettacolo”, anche nei tratti meno immediatamente percepibili. In attesa di capire come reagiranno le masse, il bicchiere appare comunque mezzo pieno. Un (piccolo) passo in avanti è stato fatto. Buon(in)a la prima…

…L'autoconsapevolezza di Boris è più profonda, struggente: perché non c'è vittimismo, perché i suoi protagonisti sono frutti, certo, ma anche, insieme, responsabili dell'immaginario di un Paese. Perché se René non riesce a liberarsi dal linguaggio e dal mondo della Tv è – ed è ciò che determina lo spessore dello script - anche colpa sua. Perché, in fondo, si tratta di una tragica questione antropologica, di un circolo vizioso soffocante. “Non si esce dalla televisione: è come la mafia, non se ne esce se non da morti”…

venerdì 25 ottobre 2019

Grazie a Dio - François Ozon

se pensi che sia un film noioso, documentaristico, a tesi, estremista, mangiapreti evidentemente non hai visto il film.
e non saprai mai che grande film ti perdi, se non lo cerchi in uno dei (pochi, solo una trentina) cinema dove viene proiettato.
Grazie a Dio è parente stretto di questo film, sempre francese, nel quale le vittime trovano la forza e il coraggio di agire, sostenendosi reciprocamente, anche per chi non può o non c'è più.
con François Ozon non si sbaglia mai, buona visione - Ismaele

ps: ecco qui il sito francese protagonista di Grazie a Dio.






Dice Mons. Milani
«Il film mostra la nascita e l'azione dell'associazione La Parole Libèrèe, che ha dato coraggio agli abusati per accusare Preynat, ritrovare dignità, ricostruire l'entità dei reati, costringere la Chiesa a prendere provvedimenti», scrive Mons. Milani. «Il limite è che si ferma qui, quando la vicenda non era chiusa e in questo modo altri fatti avvenuti dopo non vengono presi in considerazione». E aggiunge: «Il tema non è nuovo, ma l'approccio è talmente originale da raccomandarne la visione: per capire come sia altrettanto colpevole non considerare le conseguenze di questi reati sulle vittime e archiviare un abuso sessuale come effetto collaterale della malattia di un reo confesso».

...Collettivo e al contempo intimo, mettendo per la prima volta al centro storie maschili e non femminili, il nuovo lungometraggio di Ozon sovverte lungo la storia le apparenze del processo narrativo, così come le apparenze ingannano dietro la tonaca: quello che pareva il protagonista principale, Alexandre (Melvil Poupaud, vera star del cinema d’autore francese, lanciato da Eric Rohmer), al quale spetta il grande merito di aver lanciato il sasso nello stagno, lascia improvvisamente la scena a un secondo personaggio, Denis, che si potrebbe quasi definire protagonista al pari di Alexandre. Ma anche questo secondo “protagonista” dovrà poi lasciare il posto a un terzo, Emmanuel. Per poi tornare tutti insieme, in un’alchimia collettiva, forte quanto delicata.....20% … 60%

...Con molta finezza, trovando sempre il momento e il modo giusto per una forma di leggerezza e delicatezza, senza nulla togliere alla gravità della questione trattata, il regista francese, che firma anche la sceneggiatura, non riduce il film a una dimensione illustrativa o documentaria, anzi la usa per farne un’opera a più livelli permettendogli di porre uno sguardo etico senza che si risolva in facile moralismo.

Tutti i leimotive di Ozon ritornano nel film, configurandolo come un’indagine sui meccanismi familiari, coniugando un film di denuncia, un film-inchiesta che riassume un caso che non può non riguardare tutta la Francia con una parte più teatrale, radicata nell’ambito sentimentale dei protagonisti, ai quali il regista aggiunge poco o niente, limitandosi a concentrarsi molto sulla direzione attoriale passando come autore più in secondo piano, scelta comprensibile per non alterare troppo un equilibrio elegante venutosi a formare durante la fase di scrittura. Per certi versi magari Grazie a Dio è un’opera scolastica senza nerbo in alcune parti, ma non si può trascurare la finezza con cui Ozon allinea i vari intrecci ed elabora i personaggi con due ordini di ripartizioni. Uno Spotlight meno stitico e ruffiano, più sagace e sottile.

...il film, che diventa una "rete" di destini (stile Micheal Haneke prima maniera) è coraggioso e resta insostenibile, sia per i dialoghi che per le prove maiuscole degli attori, in particolare delle attrici. Il tutto sembra/è piuttosto affettato ma ognuno esprime il Sé stesso come se avessero vissuto davvero quei drammi. Un film importante anche con il limite, appunto, di diventare troppo "rotocalco" di essere impostato troppo sulla sua sacrosanta condanna morale. Non il miglior Ozon in assoluto, ma di certo quello che ricorderemo di più in futuro

… Uomini fragili più del normale, più esposti ad alterazioni dell’equilibrio psicofisico, spesso aggrediti da ritorni d’immagine, un vissuto che non si dimentica cammina con loro e stabilisce anche la qualità dei rapporti con gli altri, la famiglia in primis.
Dall’individuo alla società, Grazie a Dio è uno spaccato lucido, sobrio e severo di un mondo segnato da tare di vario genere: egoismo, indifferenza, perbenismo, pregiudizio, violenza.
A pagare stavolta sono i bambini, esercitare fascino su di loro è facile, usare violenza altrettanto. Le loro strade proseguiranno comunque, anche infiorate da successo, come Alexandre, manager al top che sforna cinque figli, li battezza, li cresima, li porta a messa ogni domenica, ma alla domanda finale del figlio più grande: “Papà, ma tu credi ancora in Dio?” non risponde.

Se c'è qualcosa che ci colpisce profondamente del nuovo film di François Ozon, è l'abilità camaleontica del cineasta parigino, capace di passare da commedie e drammi aggressivi sul piano narrativo e visivo a un solido film che bandisce completamente qualsiasi forma di tensione melodrammatica, preferendo mettere in scena un racconto privo di coinvolgimento sentimentale (tranne alcune sequenze dimenticabili). Ma anche questa scelta, forse, soprattutto considerando ciò di cui "Grazie a Dio" parla, ci restituisce la personalità di un regista deciso a portare fino in fondo un lavoro di analisi e comprensione dell'essere umano che non accetta compromessi…

La " lezione " morale (ed estetica) del regista, anche sceneggiatore dei suoi film, scaturisce non da un " a priori " che si cala nella vicenda e nelle immagini di cui questa è rivestita, ma dalla reazione intellettuale e dalle emozioni visive dello spettatore, posto di fronte alle semplici, nude risultanze di quanto viene offerto al suo sguardo. Cinema, pertanto,  di grande suggestione, che fa appello alla sensibilità e all'autonomia di chi osserva e che di queste si alimenta,non cibo precotto nel solo immaginario dell'autore e scodellato in tavola.
Film in cui il dialogo e la recitazione sono altrettanto importanti , se non di più, dell'elemento puramente visivo, " Grazie a Dio " si avvale di una eccellente interpretazione di Melvil Poupaud ( il protagonista ) coadiuvato in modo egregio da due altri attori poco conosciuti da noi ma assai validi, Denis Ménochet e Swann Arlaud nella parte degli amici. Girato con uno stile che diremmo da inchiesta televisiva ( abbondanza di primi piani, montaggio serrato) il film lascia pienamente soddisfatti e, dopo un moderato successo in Francia ( paese troppo laico, forse , per apprezzare fino in fondo i temi del film)si raccomanda ora ad una difficile, ancorchè non impossibile carriera in un paese come l' Italia in cui, ad un cattolicesimo di facciata, fa da molto tempo riscontro un sostanzioso agnosticismo. Importante comunque vederlo, al di là del problema religioso e morale che agita, per apprezzare un'ottima pagina di cinema ed il coraggio di un autore sempre più completo.

mercoledì 23 ottobre 2019

Danza macabra - Antonio Margheriti, Sergio Corbucci

peccato che Sergio Corbucci non abbia portato a termine il film, pare abbia girato la prima metà lui, e la seconda metà Antonio Margheriti.
il film è tratto da una storia di Edgar Allan Poe, e racconta di una scommessa, fra la vita e la morte.
si inizia ridendo e scherzando, come accade in tutte (o quasi) le storie dell'orrore che si rispettino, e poi si cade in un buco nero da cui l'uscita è impossibile.
il film è un gioiellino in cui tutte le cose sono al loro posto, ci sono le giuste dosi di spavento e quanto basta di umorismo nero.
davvero un gran bel film, non trascuratelo - Ismaele




QUI il film completo in italiano



Danza macabra è un film bellissimo. Ottima la storia (del resto Poe non era uno sprovveduto) atmosfere gotiche degne del miglior Bava, fotografia curata e bellissimo b/n. La Steel è bellissima e bravissima ma degna di nota è anche l'incantevole Margarete Robsahm che innesca una morbosa scena saffica proprio con la Steel. Audace anche per i tempi in cui è uscito perché oltre all'immaginario horror c'è una componente erotica (e sentimentale) che non lascia indifferenti. Se siete amanti del genere horror vecchio stile è un film da vedere senza esitazione.

Danza macabra è un film dolce, sensuale e funereo, un noir che probabilmente ha sorpreso anche il regista, di cui si può ben distinguere l’impronta. La sfacciata sensualità delle protagoniste e la scena saffica oltre a far scalpore per l’epoca, sono precursori di un cinema che ben presto sarebbe diventato cult. Ma necessariamente bisogna sottolineare altri pregi che hanno fatto sì che questo film sia considerato uno dei migliori film horror-gotici italiani. L’attenzione dello spettatore e la sua meraviglia, di fronte a cotanta lascivia, si amalgamano alla giusta trepidazione per l’ attesa del momento culminante; l’Eros e il Pathos, mantengono alta la tensione, una storia d’amore in un incubo, un incubo che diventa, nel suo culmine, l’inizio di una storia d’amore che va aldilà della vita...

Danza Macabra rappresenta sicuramente l’opera omnia di Antonio Margheriti (qui firmatosi Anthony Dawson) ma soprattutto il clou dell’horror gotico italiano.
Pellicola inizialmente commissionata a Sergio Corbucci dagli sceneggiatori (fra i quali anche il fratello Bruno), Danza Macabra trovò la propria potenza espressiva solo grazie ad un Margheriti alle prime armi nel genere gotico. Lo stesso regista, consapevole delle difficoltà che avrebbe avuto nel ritentare una simile impresa, ha sempre riconosciuto questo film come il suo grande capolavoro.
Nel cast compare il nome di una grande Barbara Steele, fossilizzata sul genere grazie a grandi registi quali Mario Bava e Roger Corman (e nuovamente con Margheriti in “I Lunghi Capelli della Morte”) e sempre incastonata nei suoi ruoli.
Fra gli addetti ai lavori invece Riz Ortolani, musicista agli esordi di una carriera promettente ed il giovane aiuto-regista Ruggero Deodato (entrambi avrebbero fatto tremare il mondo nel 1979 per l’inaudita violenza dell’esplicito “Cannibal Holocaust”).
Danza Macabra è un film stilisticamente perfetto, impeccabile sia sotto il punto di vista narrativo che da quello prettamente orrorifico. Spettri, vampiri, mummie e zombi si intrecciano in un crescendo di emozioni gotiche dalle delicate venature lesbo (abbastanza espliciti i baci e gli sguardi fra le due conviventi).
Una sola pellicola in grado di fondere i capolavori di Freda, Bava e Caiano ma soprattutto di anticipare e condizionare il cinema di genere.
…Au début des années 60, l'Italie se met à produire avec un certain succès des films d'épouvante très inspirés par les productions anglo-saxonnes. Alors que IL MONACO DI MONZA est en train de se tourner sous la direction de Sergio Corbucci, le réalisateur du film et le scénariste Giovanni Grimaldi, pensent exploiter le filon de l'horreur gothique. Pour cela, ils écrivent un scénario qui prend place dans les décors de IL MONACO DI MONZA, une comédie en costumes. Une astuce de façon à produire rapidement un film tout en opérant une économie substantielle pour la production. Logiquement, le film aurait dû être réalisé par Sergio Corbucci mais cela ne va pas se dérouler exactement comme prévu. Engagé dans un autre projet, Sergio Corbucci ne peut assumer la réalisation de DANSE MACABRE. Il n'est alors pas possible d'attendre que le cinéaste italien se libère car les décors du film précédent doivent être démontés. Sergio Corbucci suggère alors d'en proposer la réalisation à Antonio Margheriti.
Le réalisateur italien va alors utiliser son pseudonyme habituel, Anthony Dawson, et prendre les rênes d'une production qui doit se boucler dans l'urgence. La distribution est d'ailleurs déjà faite, le rôle principal reviendra à Barbara Steele. L'actrice est alors très en vue dans le domaine de l'épouvante suite au succès du MASQUE DU DEMON de Mario Bava. Dans l'intervalle, elle sera ainsi apparue devant la caméra de Riccardo Freda pour L'EFFROYABLE SECRET DU DR. HICHCOCK et LE SPECTRE DU DOCTEUR HICHCOCK mais aura aussi tourné pour Roger Corman dans LA CHAMBRE DES TORTURES. Si l'épouvante italienne est surtout influencé par les productions britanniques de la Hammer Films, DANSE MACABRE lorgne justement du côté du cycle de films inspirés des écrits d'Edgar Allan Poe et réalisés par Roger Corman pour le compte de l'A.I.P. Dans le métrage réalisé par Antonio Margheriti, le fameux écrivain apparaît dans le prologue et l'épilogue de l'histoire. Toutefois, en dehors de cette «présence» prestigieuse et le fait qu'il soit crédité au générique, DANSE MACABRE n'est pas vraiment une adaptation d'une œuvre existante de l'auteur. Par contre, le scénario s'amuse à nous présenter un Edgar Allan Poe affirmant que ces œuvres ne sont pas de la fiction mais seulement la retranscription de faits divers réels. L'aventure d'Alan Foster sera ainsi, pour l'écrivain, une nouvelle histoire vraie a relater…

inizia così:

giovedì 17 ottobre 2019

Joker - Todd Phillips

musica, colori, movimento, violenza e la straordinaria interpretazione di Joker non ti fanno annoiare.
il film non fa impazzire, almeno a me non è successo, e però merita la visione, di sicuro per Joaquin Phoenix.
dentro c'è di tutto, politica, servizi sociali, solitudine, accelerazioni e citazioni.
mai prendersela con i clown, non sai cosa rischi.
al cinema rende di sicuro più che alla tv di casa, su questo saranno tutti d'accordo.
e allora, buona visione in sala - Ismaele








Ok, il film.
Meraviglioso.
Un film praticamente perfetto, in ogni singolo aspetto in cui possiamo vederlo.
Cinematograficamente uno spettacolo, dinamico, inquadrature una più bella dell'altra, fotografia eccellente, scene dirette magistralmente, anche quelle più concitate e d'azione (dai, basta quella corsa nel prologo per capire il livello).
Poi c'è lui, Phoenix, in una delle più grandi interpretazioni degli anni 2000. Lui è già grande di suo ma se poi gli affidi il ruolo della vita, quello dove poter mettere Joaquin insieme a Phoenix ,allora crei una bomba atomica praticamente devastante.
Poi c'è la componente tematica, anche questa di grandissimo spessore. Niente di nuovo (ma esistono tematiche nuove?) ma è impressionante come questo film riesca ad essere incisivo in quello che racconta.
E poi c'è la componente che forse rende Joker un vero capolavoro, quasi un aspetto "fortunato" (o forse no, forse Joker è uscito adesso apposta).
Perchè questo film, pur essendo ambientato in altra epoca, non poteva essere "più perfetto" nel 2019 rispetto a qualsiasi altra decade, qualsiasi.
Perchè è un film che racconta di un mondo al collasso, di un mondo che non ce la fa più, di una rabbia repressa che si accumula, di un pianeta di ultimi e di oppressi che è arrivato allo stremo.
Dirò di più, il personaggio di Phoenix non rappresenta solo un uomo, non rappresenta solo una categoria di uomini, nè una città, nè una nazione.
Joker sembra proprio l'intero nostro Pianeta Terra, un Pianeta martoriato, vessato, ferito, non rispettato, sfruttato e torturato dai potenti.
La ribellione di Joker è un'apocalisse privata che sembra tanto un collasso mondiale, uno tsunami, un terremoto, una bomba atomica…

Già sovrastano i titoli delle recensioni più entusiastiche: il primo cinecomic drammatico. Premettendo che probabilmente non è vero, e che già tanti altri cinecomic belli o brutti hanno preso pieghe drammatiche decisamente più interessanti e innovative, possiamo dire che Joker è un film fallimentare, residuo informe di un immaginario hollywoodiano cinematografico che ha preso ormai un’unica direzione, quella dell’enfasi gratuita e dello spiegone che chiarisca allo spettatore (preso per stupido 9 volte su 10) tutti i possibili punti oscuri. Nel caso di Joker, ciò avviene anche quando quei punti oscuri sono in realtà chiarissimi, evidenti fin dall’inizio, ma a quanto pare da privare di qualsiasi ambiguità. Non sia mai che qualcosa non sia chiaro. E quindi via di piccoli flashback riassuntivi, ridondanze narrative e filler inutili, o meglio, utili solo a farci godere un po’ Phoenix che ride, urla, sbraita, si contorce e parla da solo. Per entrare nel dettaglio, è bene chiarire che la regia di Todd Phillips non esiste. E se esiste, il montaggio non ce la fa vedere. Ogni momento potenzialmente intenso è stroncato da tagli violenti che interrompono qualsiasi suggestione, come se il film volesse mantenersi su una medietà più prudente ma comunque incisiva sulla carta. I momenti di delirio di Phoenix non sono mai delirio, sono sempre vissuti da fuori, il distacco è sufficiente affinché possiamo capirne le motivazioni pseudo-psicologiche che il film accampa con una banalità che è meglio tacere. La scrittura è invece devota alla fantapolitica più elementare e scontata, figlia delle divagazioni nolaniane della trilogia di Dark Knight, qui evidente riferimento (anche se un momento è preso paro paro dal Batman di Tim Burton, 1989, ancora capolavoro incontrastato). I plot twist, che chiaramente si riallacciano alla mitologia di Batman, sono prevedibili e privi di qualsiasi novità, se non su un piano narrativo che viene molto presto rimosso per dar spazio ad altro, a mo’ di lima, di sfrondo che semplifichi la confezione. E infine, quello stesso universo supereroistico viene arrogantemente e anche un po’ infantilmente accostato all’universo scorsesiano di uomini disperati che vivono in un mondo disperato (ma che qui ha al massimo la logica del liceo in cui ci sono i bulli che fanno del male al malcapitato ragazzo un po’ diverso; c’è giusto un po’ di sangue a sorpresa in più, e manco tanto). Forse sarà impossibile evitarlo quando uscirà, è già il film più discusso dell’anno, in corsa agli Oscar e a tutti i premi coevi. Legittimo però, visto quella sola informativa volta, ignorarlo per sempre

,,,il film è soprattutto il one man show di Joaquin Phoenix, incontenibile, versatile e strabiliante con o senza la maschera grottesca che gli incornicia il viso in un ghigno di crudele follia. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a un campione di una compagine sportiva lasciato libero di esprimersi a suo piacere a patto che porti a casa il risultato anche per gli altri. Joaquin di certo lo fa, perché accanto a lui a fare un figurone sono il regista e gli altri attori, davvero di contorno (anche Robert De Niro) rispetto agli assoli di Phoenix.
Comunque la si pensi, siamo di fronte a un modello di recitazione degna del miglior Actor's Studio, dunque a quell’immersione totale nel personaggio che ha come contropartita gli eccessi legati al surplus di enfasi dovuto al fatto di recitare a briglie sciolte. In realtà, considerata la natura a dir poco sopra le righe del protagonista, certi surplus di ego ci possono pure stare. Certo, siamo lontani dalla rigorosa sobrietà di Jean Dujiardin (anche lui candidato a vincere un premio come migliore attore) e non c’è dubbio che quando si muove a passo di danza, oppure mentre si rivolge all’interlocutore con dei primi piani degni del Perkins di "
Psyco", la performance del nostro diventa davvero irresistibile.,,

…Capolavoro o film mediocre, critica sociale o trionfo degli istinti incel, cinecomic o no, Joker nasce con un grosso budget e forse l’idea, in sé banale e al contempo abbastanza originale, di scontentare ugualmente tutti. Joker è un blockbuster-bait, un testo esca, o meglio ancora un epitesto dei commenti-rete a strascico che, nella congiuntura storica attuale, è impossibile isolare dal corpo testuale del film. Come ha osservato ancora Lane, ogni elemento del film, dai discorsi prima del lancio alla presentazione a Venezia, sembra essere stato studiato per suscitare la polemica: ciò che a noi pare funzionale a un dibattito (incluso questo articolo), in realtà è un servizio al dipartimento di marketing della Warner Bros. 
Poco conta che il film sia ambientato in un’era pre-social media. La democratizzazione e al contempo la crisi dell’attività interpretativa e argomentativa messa in atto dai social network (anche questa rassegna di idee è viziata dalla personale filter bubble di chi scrive), e resa in essere dallo scontro sistemico e quotidiano di posizioni che si dispiegano sotto forma di commenti, articoli, litigi sulle ecologie mediali che abitiamo, fa un servizio a Joker. Vero e proprio testo-tricksterJoker è confezionato a questo scopo da professionisti che continuano a lavorare in una industria motivata da profitti: Phillips dà un colpo al cerchio e uno alla botte purché se ne parli, forse proprio come lo humour “politicamente scorretto” del resto della sua filmografia.

La discussione su Joker continuerà per anni o sarà dimenticata tra poco? La compressione spaziale e temporale del tardo capitalismo informatico in cui viviamo, la stessa che genera il film e ne anticipa e accompagna il discorso, è talmente accelerata che questa meta-recensione, scritta all’incirca una settimana dopo l’uscita del film, non solo è già incompleta e selettiva, ma anche obsoleta. La recensione non parla più del film ma del discorso sul film, aspetti che sembrano ormai inscindibili fra loro. Il fatto che sia stata una “Top Five” si deve al tentativo di arginare il pericolo che il vostro indice o pollice si possa trovare da un momento all’altro orfano di un titolo corrente, e dunque immediatamente portato ad abbandonare la lettura e rivolgersi a un altro link o a una notifica in arrivo.
In un futuro prossimo, le intelligenze (o deficienze) artificiali scriveranno sia i film che le recensioni, mentre forse gli umanisti saranno fuori, a sparare come il Joker.

…La brutta giornata di Arthur Fleck è figlia di due punti di rottura, che riescono a tranciare quel sottile filo di sanità mentale che ancora esisteva (resisteva?) nel protagonista. La prima crisi è rappresentata efficacemente dall’acquisizione di una pistola. Metaforicamente, quest’ultima dona al vessato di turno una roccaforte in cui rifugiarsi, un bastione in cui difendersi. La pistola fa assaporare un illusorio potere, che paradossalmente, però, non dona al portatore una vera sicurezza ma un’ulteriore vulnerabilità. La follia parte da una pallottola sparata per legittima difesa condannando Arthur a una strada da cui non c’è via d’uscita. Quest’ultime – le vie d’uscita – sono agognate da tutti ma ancor di più dai disperati, che ne anelano l’esistenza, ne anticipano l’arrivo, spesso, svelandone la loro natura “facile”, “comoda”.
La via più semplice è spesso una trappola da cui non si può fuggire e Arthur ne farà le spese. Ma certamente non è solo colpa di chi riceve e acquisisce ma anche di chi dà, e qui troviamo la prima critica importante al sistema statunitense, che spesso regala facili vie di fughe a buon prezzo attraverso il folle e permissivo mercato delle armi. Arthur è un uomo che ha bisogno d’aiuto, è esposto al pericolo di essere schiacciato e la risposta della “società” è di “regalargli” una pistola. La fiamma è vicino alla miccia, che si accende e consuma senza soluzione di continuità. Unica speranza rimasta al futuro Joker è l’assistenza sanitaria che gli permette di poter parlare con specialisti e di accedere a medicinali altrimenti inaccessibili a un modesto cittadino come lui. L’aiuto sanitario statale è la classica “via più difficile”, quella in cui sia chi dà che chi riceve deve mettere tutto se stesso per poter assaporarne i risultati. Tale metodo è un patto tra le due parti, un impegno umano, sociale e morale che vincola e rassicura. Purtroppo, e qui siamo nell’ambito della seconda critica che l’opera apporta al sistema americano, il servizio statale chiude i battenti per mancanza di fondi. Le parole dell’assistente sociale appaiono come una verità e una condanna allo stesso tempo: “a nessuno di loro importa nulla delle persone come te e in realtà neppure delle persone come me”.
La paralisi è totalizzante, pervasiva e lascia nelle mani del vessato poco e nulla. Ma siamo in America, quindi ad Arthur resta poco, nulla e… una pistola. Il dado è tratto, la strada verso la distruzione spianata, e la colpa è di entrambe le parti ma la bilancia delle responsabilità sembra pendere maggiormente dal lato della collettività, esempio fulgido di mala organizzazione e indifferenza verso il prossimo…

…In quanto puro spettacolo, al netto di un finale frettoloso e un po’ deludente, Joker è di prim’ordine: dalla fotografia alle scenografie, dalle scene di violenza (quella in metropolitana è già un classico) all’interpretazione di Joaquin Phoenix, su cui chiaramente lui ha lavorato con la stessa serietà che si riserva oggi alla preparazione di un biopic a caso, o comunque di un ruolo “importante”, di quelli “da Oscar”, tutto si somma alla perfezione. È exploitation di serie A. Non dice un cazzo ma lo dice benissimo.
Il guaio è che Todd Phillips qualcosa invece lo vorrebbe anche dire. Ma appena apre bocca, tutto quello che esce è di una banalità micidiale. Il suo Joker è l’ennesimo matto che sbrocca perché la madre lo trattava male e la società lo tratta male e la gente fa schifo una volta qua erano tutti campi e ci si conosceva per nome adesso invece sono tutti maleducati. Con tutte le sue buone intenzioni di creare un nuovo villain scorsesiano memorabile, il film finisce solamente per confermare ancora una volta la dura legge del prequel: che se racconti troppo di un’icona, la svilisci…

…Tutte le discussioni sul pericolo emulazione, il timore di sparatorie in sala nel paese in cui le armi automatiche le trovi in omaggio nei sacchetti di patatine, vanno necessariamente inquadrate in una premessa e una considerazione. La premessa è che qualsiasi cosa può esercitare un'influenza pericolosa su una mente squilibrata, da una certa canzone dei Beatles, metti, alla Bibbia o alle palline di mais al formaggio. E non puoi censurare per questo l'arte, per la semplice ragione che altrimenti dovresti eliminare le favole e praticamente qualsiasi altra forma di narrazione. Ma qui si è nel clubbino del videoludo, sapete bene di cosa parlo.
La considerazione, data la premessona da mani avanti qui sopra, è che un soggetto che si senta ai bordi dell'esistenza, rifiutato dal sistema, possa trovare facile in Arthur un simbolo, tanto quanto avviene nel film per chi indossa le maschere da clown. Questo perché la pellicola di Phillips ti porta ad empatizzare con il personaggio, sottolinea come ogni data azione violenta di Arthur sia rivolta a chi gli ha fatto del male, lo ha attaccato, ha provocato o accresciuto i suoi traumi psicologici. Sia meritata. Sia, almeno fino a un certo limite, giusta. Il Joker di Phillips è un Punitore triste con la risata incontrollata, un Giustiziere della Notte, e come tale viene visto nella storia dalla parte di Gotham che si sente parimenti lasciata fuori dalla società dei ricchi e dei potenti…

mercoledì 16 ottobre 2019

Le verità - Hirokazu Koreeda

non tutte le ciambelle escono col buco, direbbe un pasticciere.
non è facile per un regista cambiare paese, solo perchè la produzione del nuovo paese finanzia il film.
non si parla di Billy Wilder, che cambiò paese, definitivamente.
penso a un regista iraniano che ha girato un film a Parigi (lì c'era un iraniano nella storia, almeno), nel film di Koreeda tutto il film è ambientato a Parigi, con personaggi francesi, nessuno giapponese.
non dico che è un brutto film, solo che ha perso l'anima, i ritmi, l'alito della storia nipponica.
non è facile fare un salto mortale così, pochi ci riescono, Denis Villeneuve, per esempio.
e però il film merita lo stesso, con due protagoniste bravissime - Ismaele




Con Le verità il regista dà vita a un film sospeso tra commedia e dramma, lieve in superficie ma turbato nel profondo da inquietudini esistenziali sul punto di esplodere, in cui il tema dominante è la riflessione sulla percezione della verità e della menzogna, sul loro stretto legame, sulle loro ricadute indirette, quando esse diventano ineluttabilmente strumento di equilibrio delle relazioni famigliari e non. Crudeli verità e innocenti bugie si sovrappongono e confondono: la famiglia come il regno della finzione, sembra suggerire sottovoce il regista, e viceversa, con il cinema che sua volta trae linfa dal privato (non a caso una buona parte del film si concentra sulle peripezie della lavorazione di una pellicola a cui prende parte la diva protagonista).
Verità e menzogna che peraltro erano già state al centro di un altro film di KoreedaThe Third Murder, passato sempre a Venezia nel 2017, ma con esiti, pur nelle diversità di genere tra i due lavori, ben diversi. Perché sfortunatamente, per noi che amiamo il cinema di KoreedaLe verità è un’opera minore nella filmografia del regista, la meno appagante tra quelle che portano la sua firma. Dimenticate la naturalezza dell’umanità raccontata per sottintesi, silenzi, non detti e quel continuo gioco di distanze tra lo sguardo del regista e i personaggi che hanno fatto grande il cinema di KoreedaLe verità appare in tutto e per tutto un film francese per un pubblico europeo, molto parlato, con inquadrature per lo più schiacciate sui volti dei protagonisti, appiattito – per non dire annichilito – dalla presenza scenica della Deneuve (magnifica, non c'è dubbio) che come un magnete attira tutta su di sé l'attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Si faticherebbe a riconoscere la mano del regista se non leggessimo il suo nome nei titoli di coda.
Nel suo viaggio in Europa Koreeda perde quindi per strada molta della sua cifra autoriale, mostrandosi incapace di incidere con il suo stile in un contesto a lui nuovo. E così alla fine resta il mistero sul perché il regista abbia accettato di spostarsi per dirigere un film che avrebbe potuto tranquillamente realizzare in Giappone, evitando di doversi adattare – e forse scendere a compromessi – in una realtà sconosciuta. Non è il primo caso di regista asiatico che fallisce nelle mani del sistema delle produzioni o coproduzioni straniere: forse andrebbe aperto un dibattito sulle ragioni di questa tendenza. La lista di nomi è lunga, ma soprattutto i produttori francesi (forse per le loro maggiori ingerenze?) sono quelli che hanno inanellato le più cocenti delusioni: per restare al periodo più recente, pensiamo a cineasti come Lou Ye con Love and BruisesJohnnie To con VendicamiNaomi Kawase con VisionHong Sang-soo con Claire's Camera, film che sicuramente non sono da annoverare tra le migliori opere dei rispettivi autori.

Le verità tenta di replicare nel nuovo contesto le atmosfere all’insegna delle nuances, e la problematizzazione di sguardo, che hanno reso fondamentali lavori come Little Sister o Un affare di famiglia; ma la levità costantemente ricercata dal regista, i toni che si fermano a un passo dal dramma esplicito, andando poi a flirtare con la commedia, appaiono qui leggermente forzati. Si avverte che il soggetto, nato altrove e probabilmente con altre premesse, ha finito per adattarsi in modo troppo marcato ai gusti del “medio” pubblico mainstream europeo, fidando quasi completamente su una Deneuve che riempie lo schermo, e su una Binoche il cui personaggio richiama una catarsi emotiva che semplicemente non arriva.
Al di là dell’inconsistenza delle figure accessorie (tra queste inseriremmo anche il personaggio del marito di Lumir, interpretato da Ethan Hawke) il problema di Le verità sta proprio nella difficoltosa conciliazione tra i temi del regista con un contenitore narrativo che tende inevitabilmente a normalizzarne (e appiattirne) lo sguardo. In questo senso, la stessa ambientazione cinematografica, e il ragionamento sull’arte del recitare e sulle sue implicazioni, appaiono motivi pretestuosi, al di là della scontata identificazione tra la figura di Fabienne e la sua interprete al di qua dello schermo. D’altra parte, i segni e i riferimenti al suo cinema che il regista inserisce (la caduta delle foglie dagli alberi, il generale clima autunnale della storia, il poco invasivo commento musicale) sembrano più contentini dati al suo pubblico, riferimenti a una poetica che qui fatica ad adattarsi al nuovo contenitore. Un contenitore che ha portato il regista nipponico a quello che risulta finora l’episodio più debole della sua carriera, tenuto in piedi solo dal mestiere suo e da quello del cast: ma il cinema di Kore-eda, finora, aveva mostrato ben altra sostanza.

Caratterizzato da una storia quasi tutta al femminile, sebbene i personaggi maschili di contorno svolgano al meglio le proprie funzioni, Le verità è un film gradevolissimo, lieve ma non superficiale; capace di commuovere, anche e soprattutto grazie alle brillanti interpretazioni delle due protagoniste, come anche della piccola Clémentine Grenier, attrice che interpreta Charlotte. I tanti non detti di una vita, le divergenze che in realtà legano due donne pienamente in grado di capirsi, si concentrano nel tormentato ricordo di Sarah, amica, collega e rivale per Fabienne e seconda madre per Lumir, la cui prematura scomparsa ha avuto un impatto fortissimo su entrambe, tanto da essere ancora in qualche modo presente nella vita delle due donne. L'amore e il rancore che legano Fabienne e Lumir sono trattati da Hirokazu Koreeda secondo i dettami più tipici della produzione francese, in modo così rigoroso da far perdere al regista giapponese un po' del suo tocco. Lo stile di Koreeda resta ben evidente solo in alcuni brevi inquadrature e in un finale che, forse in conseguenza di ciò, risulta essere quasi accessorio rispetto alla perfetta scena conclusiva appena precedente. Molto bello l'accompagnamento musicale, mai preponderante e sempre puntuale nell'accompagnare le sequenze cui è accoppiato…

Kore-eda ha ripreso per Le verità un soggetto che aveva scritto molti anni fa. Ma è il cast la qualità essenziale che fa la differenza di un film in cui la musa francese si interpreta per come pensiamo che sia, per come vorremmo che fosse, per come presumiamo debba essere. Forte, dispotica, crudele, menefreghista, sublime, elegante, superiore alla morale e alla realtà, ignobile, una perciò superba, straordinaria Catherine Deneuve interpreta Fabienne e “guida” – anche nelle scene in cui, come una chioccia egotica, cammina sempre davanti a tutti – gli altri attori principali ossia Juliette Binoche nella parte di sua figlia Lumir ed Ethan Hawke nella parte del marito di Lumir. Ovviamente Fabienne, come da copione, è stata assente durante l’infanzia della figliola (sebbene nelle sue memorie fresche di stampa l’attrice sostenga il contrario), per la quale è stata ugualmente ingombrante come pietra di paragone, monito costante, dover essere impossibile. Lumir (che da ragazzina voleva recitare ma poi si è dedicata alla sceneggiatura) è sospinta da recriminazioni di vario genere: tra le molte accuse mosse all’ormai vecchia madre aleggia anche quella di aver “ucciso” almeno moralmente un’altra attrice della sua epoca, Sarah, che per tutto il film sarà un fantasma ricorrente, un rimosso occultato, un sacrificio necessario alla gloria di Fabienne. La Binoche, grande attrice di una generazione in cui il cinema è meno impattante sull’immaginario collettivo, si presta volentieri a far rifulgere il narcisismo ontologico della Deneuve, l’originale cui è impossibile sottrarsi, il modello che muove il sole e le altre stelle e soprattutto tutti quelli che ha intorno cui in fondo (tralasciando apparenti moine) non importa mai nel film se di verità o menzogna si tratti, se sia stato talento o fortuna o qualità superiore o capacità di manipolazione. Quel che meno importa è proprio la verità evocata dal titolo, tanto che la “riconciliazione” tra madre e figlia avverrà nel finale attraverso recite e finzioni ma perfettamente funzionanti. Ethan Hawke è Hank, il marito americano di Lumir, un attore di serie B negli Usa, magari affascinato dal magnetismo potente di Fabienne ma un po’ più scettico (del resto fa serie tv che passano anche su youtube) circa gli effetti taumaturgici o traumatici che questo carisma può causare. In una parte piccolissima quanto significativa, Hank – che capisce il francese ma non parla francese e viene sempre tagliato fuori dalle conversazioni – è lo straniero sulla scena europea delle sacrali dinamiche narrate: se non è il punto di vista di Kore-eda (e non lo è) certamente il suo personaggio gode di una sana distanza rispetto a ciò che vede ma che nessun altro vuole o può permettersi. Discorso a parte merita Charlotte (Clémentine Grenier), la figlia di Lumir e Hank, che a differenza del padre parla un perfetto francese e che immagina la nonna come una strega buona e cattiva a un tempo, capace di sortilegi e incantesimi cui volentieri gli adulti soccombono. Ma è un mondo di “magia” ancora infantile, primaria e ben diversa dalla magia orchestrata degli adulti…

Il personaggio interpretato da Catherine Deneuve è diverso, difficile da collocare: Fabienne è magnetica, irrispettosa, incapace di ammettere i propri errori, talmente grottesca da risultare esilarante, capace di far sorridere anche solo con una posa, con uno sguardo ingannevole, furbesco. Una donna un po’ fata e anche strega, talmente strana da far credere a sua nipote di saper trasformare le persone in animali, come il suo ex marito Pierre, che quando non è in forma umana diventa la tartaruga di famiglia che si chiama, non a caso, Pierre. Un concetto quasi kafkiano, in cui la metamorfosi assume il carattere proprio del romanzo epocale dello scrittore praghese, in cui un personaggio si sente incongruente col suo contesto familiare, talmente discordante da scegliere l’alienazione…