venerdì 26 luglio 2024

I Miserabili - Ladj Ly

poliziotti in qualche periferia di Parigi, alla ricerca di un leoncino rubato a uno zoo.

il ladro bambino è Issa, l'appassionato di droni è il figlio del regista.

la situazione scappa di meno, inizia l'inferno.

un film da non perdere, non è l'inarrivabile film di Kassowitz, ma non demerita al confronto.

buona (pacifica) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, su Raiplay


 

…Straordinari per intensità e potenza visiva le riprese dall'alto che mostrano i tafferugli,così come gli inseguimenti che riportano in auge un certo cinema poliziesco all'americana.

Il cuore della rivolta sembra dire il regista è in quella zona oscura del sociale,di un mondo che sopravvive come può,alla base di una legge e un codice creato dai luoghi e dalle circostanze.

Una teoria che si evince in questo film a metà strada tra la visione radicale e manichea di  Spike Lee e la corruzione della polizia vista in "TrainingDAY", in mezzo vi è la lettura documentaristica e cruda de "l'odio" di Kassowitz per un film mirabile nello stile e nelle congetture sociali.

Il finale è poi sospeso in un limbo aperto e bruciante dove i vincitori non esistono, quello che conta è che "NON ESISTONO CATTIVI UOMINI O CATTIVE ERBE,MA SOLO CATTIVI COLTIVATORI" come disse il maestro Victor Hugo nel suo capolavoro "I miserabili".

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In I Miserabili emergono come detto elementi comuni al film di Kassovitz, lo sguardo protagonista è l’insieme di tre personaggi, in questo caso sono tre prototipi di poliziotto, semplificando potremmo indicarli come il buono, il cattivo e il perfido, in realtà rappresentano la molteplicità dello sguardo analitico, non serve una divisione giudicante tra bene e male, una verità mobile tra il bianco e il nero, il regista ci offre una terza via, una ulteriore possibilità di interpretazione della realtà e nonostante ciò sembra dirci che neppure questa sarà sufficiente. Perché la complessità dentro quel mondo è troppo intricata per potere essere risolta o almeno compresa. Allora il film cerca di rendere essenziale il suo messaggio, ci offre uno strumento guida: in L’Odio c’era una pistola ritrovata per caso, nelle mani di un emarginato che non sapeva se usarla, qui c’è una micro card con un video ripreso da un piccolo drone che denuncia un grave sopruso commesso dalla polizia. Dunque il potere dell’immagine, la video verità che diventa testimonianza non più mediabile. È la potenza della visione che riporta l’uomo alla dimensione pulsionale, più ludica e più crudele, senza niente altro che la possa spiegare. L’altro elemento di analisi linguistica riguarda proprio la polizia. Se nel film degli anni novanta si percepiva attraverso la sua azione quella che è una legittima funzione autoritaria (nonostante già rivelasse la presenza di agenti violenti irrispettosi di qualsiasi diritto civile) denotava anche l’esistenza di un mondo-altro di riferimento con il quale la periferia si confrontava ed ambiva paragonarsi o raggiungere attraverso i suoi feticci consumistici e sociali. Quello che oggi ci apparirebbe quasi romantico e sfiorato da un leggero soffio manieristico rispetto a tempi che sembrano distanti anni luce, qui vengono messi a nudo dall’implacabilità dello sguardo di Ladj Ly.

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giovedì 25 luglio 2024

ricordo di Bill Viola

Bill Viola - Rinascimento Elettronico




martedì 23 luglio 2024

Brotherhood – Fratellanza - Nicolo Donato

in un cupo bianco e nero, in una Danimarca nella quale il nazismo è in salute, Lars, di buona e ricca famiglia, viene attratto dai nazisti, dove trova quello che gli manca a casa, forse.

diventa amico di Jimmy, che lo deve guidare nell'organizzazione.

non troppo difficile diventare nazista, sembra, in Danimarca.

Lars e Jimmy sono bravissimi, e riescono a lasciar tutto e tutti, amore galeotto.

buona (innamorata) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Muchas son las películas que retratan con más o menos acierto la entrada de un joven en un grupo de extrema derecha, pero pocas las que centran su mirada en la atracción sexual, y especialmente afectiva, que pueden llegar a sentir dos miembros de un grupo en el que la homosexualidad se persigue de una forma tan brutal como lo es el pertenecer a una raza diferente a la aria. Donato sabe mostrar con acierto el camino que recorre una persona en principio ajena al nacionalsocialismo hasta que llega a convertirse en miembro de pleno derecho de un grupo neonazi. Pero la principal virtud de Brotherhood es dotar de veracidad una historia de amor que podría haberse quedado en los tópicos homoeróticos que rodean el universo de los skins…

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E’ un cinema fragile quello dell’italo danese Nicolo Donato, fragile se osservato attraverso il percorso narrativo più evidente, quello di un racconto didascalico sulla resistenza dello sguardo ideologico alla frantumazione dell’identità. Sembrano lottare costantemente con questa instabilità i corpi di Lars, sbattuto fuori dall’esercito per sospette molestie, e di Jimmy, il neonazista che accoglierà l’ex militare in casa come allievo per la sua nuova formazione all’interno del partito. Un percorso che li porterà a collidere fuori dal binario preordinato e che a un certo punto sostituirà l’osservazione interna di un processo antropologico estremo, come poteva essere quella di Geoffrey Wright dentro la società autoctona di Romper Stomper fuori dal bene e dal male, con un cinema sempre più prossimo ai corpi filmati da un occhio “morale”. Il confine tra rifiuto e assimilazione o quello tra violenza e nutrimento sessuale serve a Donato per spostare la percezione sull’idea di affratellamento in un processo di continua allusione, dallo scontro fisico selvaggio ai corpi che si sfiorano e si abbracciano durante un Mosh Dancing rituale. E’ una materia suggestiva che nei momenti migliori, come per esempio quello della punizione esemplare ai danni di Lars, riesce a mantenere molto alto il livello di ambiguità interiore, raccontando il trauma del riconoscersi come “altro” con una durezza che vivaddio non lascia spazio alle note a margine; al contrario risulta meno convincente quando il passaggio all’alterità come modo di percepire il mondo viene filmato con una tenerezza irreale che ottiene il risultato opposto, ovvero quello di un racconto a tesi che filma corpi già freddi, senza farsi mai completamente immagine della trasformazione.

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La forza di Brotherhood è tutta nei contrasti, quello di toni e di situazioni. La crudezza nelle scene dei pestaggi e nei discorsi tra i soci del gruppo cozza in maniera prepotente con la poesia delle scene di seduzione e di dolcezza tra i due protagonisti, volti e sguardi intrisi di odio e violenza grondanti di sofferenza ma mai di vergogna che sanno apparire spigolosi e lividi in alcuni momenti e completamente trasformati, illuminati dai colori caldi della passione nelle scene d'amore girate da Donato con un'eleganza e una aggraziata voluttà degne dei migliori Gus van Sant e Lars von Trier, quest'ultimo responsabile in parte del film in quanto 'formatore' dell'esordiente Donato presso la Zentropa, casa di produzione fondata dal regista di Dogville nel 1992 insieme al produttore Peter Jensen.

Straordinari i due attori Thure Lindhardt e David Dencik, coinvolgenti e commoventi, eccezionali nel conferire ai loro personaggi un realismo e un'umanità che toccano le corde giuste e arrivano dritti al cuore dello spettatore, totalmente inerme sotto i colpi di una storia d'amore che graffia l'anima e lascia l'amaro in bocca.

Cinema verità nudo e crudo, metafora agghiacciante che evidenzia, mettendola in ridicolo, la violenza cieca di chi non pensa ma agisce per inerzia, mosso unicamente da becere ideologie che predicano il ritorno alla razza pura, bianca, che mirano a debellare qualsiasi focolaio di diversità e di innaturalità. Un barlume di speranza si intravede nel finale e questo è già un segno positivo. Certo è che non basterà un film a smuovere le coscienze e probabilmente Brotherhood non verrà mai neanche distribuito in Italia, ma sarebbe importante in questo momento di omofobia dilagante dare un segnale forte e consegnare a questo bellissimo film un premio importante.

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lunedì 22 luglio 2024

Last resort - Amore senza scampo - Pawel Pawlikowski

opera prima di Pawel Pawlikowski, in una storia piena d'umanità.

regista polacco, in un film della BBC, ambientato in GB.

Tanya e Artiom arrivano a Londra, alla ricerc di un amore impossibile.

i due finiscono in una struttura per migranti richiedenti asilo, quasi una prigione.

la loro fortuna è Alfie, che s'innamora dei due e li protegge, per quanto può.

un film triste, con sorrisi tristi, senza effetti speciali, che non può lasciare indifferenti, se sei ancora in vita.

gioiellino da non perdere.

buona (avventurosa) visione - Ismaele


 

 

Fra Ken Loach e i Dardenne, ma con un'ambientazione (il litorale desolato e abbandonato) che ricorda certi film di Garrone (come "L'imbalsamatore" o "Dogman"), un film ben fatto, semplice e coinvolgente, col merito di affrontare il tema dell'immigrazione da un'angolazione originale, con schiettezza e senza particolare retorica. Da ricordare le sequenze in cui Tanya, lei che in patria faceva l'illustratrice di libri per bambini, si lascia tentare per disperazione dall'offerta di recitare come modella in video pornografici per internet, ma anche le scene degli anziani che giocano al bingo, o quelle del ragazzino che bighellona con gli amici occasionali o che rivernicia l'appartamento insieme ad Alfie. Evidente l'impronta est-europea del regista (polacco), anche in un setting britannico. Il titolo ("Ultima risorsa") fa riferimento proprio al resort di divertimenti dove si svolge la storia, che naturalmente d'inverno ha un aspetto tutt'altro che turistico o vacanziero).

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Un piccolo film, una piccola storia, ma che drammaticamente arriva a destinazione riuscendo a non sorpassare certi spiragli sentimentali che avrebbero compromesso l'esito del film. Recitazione dosata, stati d'animo accennati, sentimenti e problemi sociali che si incrociano. Una Ragazza con La Valigia più consapevole e con un'autocritica ben specifica, che sa analizzare sé stessa e prende il coraggio a piene mani per dare una svolta alla sua vita futura. Certamente quello che vien fuori dal film sono le situazioni sentimentali, ma molto importante è il contesto, che senza mai appesantire il tono riesce a farci entrare nel cuore della situazione ed a renderci un'idea di quelli che possono essere i problemi che degli sfollati politici possono avere. Un esordio delicato e che mette in luce la derivazione documentaristica del regista, che accoppia perfettamente paesaggio e situazione; una regia leggera, che lascia in campo i comportamenti dei suoi protagonisti come spiati, da cui vien fuori una storia semplificata, ma che nella sua asciuttezza riesce a fare breccia.

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It's intriguing the way Pawlikowski keeps his hand hidden for most of the movie. We can't guess where things are headed. The movie is not on a standard Hollywood romantic arc in which the happy ending would be Alfie and Tanya in each other's arms. That's only one of several possibilities, and economic factors affect everything. Dina Korzun's performance holds our interest because she bases every scene on the fact that her character is a stranger in a strange land with no money and a son to protect. "Last Resort" avoids all temptations to reduce that to merely the setup for a romantic comedy; it's the permanent condition of her life.

Some movies abandon their soul by solving everything with their endings. Life doesn't have endings, only stages. To pretend a character's problems can be solved is a cheat--in a realistic film, anyway (comedies, fantasies and formulas are another matter). I like the way "Last Resort" ends, how it concludes its emotional journey without pretending the underlying story is over. You walk out of the theater curiously touched.

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Esordio del regista di IDA e COLD WAR....sull'immigrazioe,crudo....da non perdere.

Il tema e' quello dell'immigrazione clandestina,molto battuto nel cinema in questi ultimi anni.Per intenderci : chi ha visto il bellissimo WELCOME questo film e' assai simile,li l'immigrato era un maschio,qua e' una femmina con il figlioletto dietro e la zona resta sempre la periferia di Londra o quantomeno la soglia del paese inglese.Inutile dire che lo consiglio vivamente per mantenere desta l'attenzione su un tema talmente attuale che lo tocchiamo con mano anche nel nostro paese.

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domenica 21 luglio 2024

Dark Crimes - Alexandros Avranas

un film girato in Polonia, da un regista greco, con attori importanti, una storia contorta, e complicata.

ottimo Jim Carrey, ma in altri film è meglio, come pure Charlotte Gainsbourg.

un caso da riaprire, e può farlo solo Jim Carrey, poliziotto integerrimo, che però viene ingannato.

il film arranca, poteva dare di più.

buona (cupa) visione - Ismaele  


 

 

 

 

 

Il film concede a Jim Carrey un solo momento per dimostrare la sua caratura di attore drammatico con un collasso emotivo nel terzo atto. E comunque arriva alla scoperta della morte di qualcuno che è apparso solo in una scena singolarmente breve, lasciando il pubblico incapace di provare una qualche reazione empatica.

In definitiva, Dark Crimes illustra quello che accade quando una star sa di aver scelto un progetto scadente, ma è contrattualmente obbligata a spendere comunque il minimo sforzo, proprio come fa il resto della pellicola. Costellato di dialoghi prosaici utili solo a mandare avanti le lancette, questo progetto che ha coinvolto malauguratamente Jim Carrey chiede in silenzio di porre fine alle sue sofferenze a ogni battuta. Un sentimento quasi certamente condiviso da chiunque sia stato così avventato da arrivare fino alla ridicola conclusione.

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Di questo "Dark Crimes", infatti, ogni svolta è programmatica, ogni smorfia già consumata, ogni epifania annunciata, ogni dialogo corroso dall'eco di mille simili. Quasi catalogo di spunti da corso di scrittura creativa, il film di Avranas denuncia sornione la propria giocosa prevedibilità già nello scherzo della vittima - un depravato battezzato Sadowski, come si fosse in "Invito a cena con delitto" - e ammette il ricorso a un armamentario dozzinale di invenzioni per marcare ancor più, con un ghigno e un ammicco, la sua natura di oggetto-parodia di certo cinema e certo immaginario. Ed ecco, allora, una Polonia ovviamente sordida e incolore, un intreccio che lega un erotismo corrotto - e come potrebbe essere, altrimenti? - a imbarazzi famigliari, uno scrittore arguto e debosciato, dalla penna felice e la mente turbata, un agente segnato da un passato torbido, che potrebbe attendere quietamente il congedo e, invece, si getta in una rete che lo invischia.

Jim Carrey, occhio inquieto e pelo ispido, tradisce una certa inquietudine morale nei gesti; Charlotte Gainsbourg si produce nei consueti tic di nervoso erotismo. In definitiva, nessuno dei due pare aderire più di tanto al personaggio, ma val la pena domandarsi come altrimenti avrebbe potuto essere, date le premesse.

La regia di Avranas, dal canto suo, fa collidere questa parodia del thriller/noir cinico e dissoluto - che ha spesso abitato, con le sue maschere grezze e incarognite, gli schermi delle occasioni festivaliere - con una messa in scena, al solito, raggelata, di quadri fissi e geometrie spigolose. Se, però, con "Miss Violence", il gioco poteva ancora dirsi efficace per l'attitudine del greco alla produzione di immagini sì shockanti, ma tali da fare attrito con le consuete forme di rappresentazione e, dunque, capaci di denunciarne l'irriducibile mediocrità, in "Dark Crimes" esso non viene ad alcuna epifania, al punto che il marchiano epilogo ci appare come la definitiva beffa di un cinema condotto sotto il segno del dispetto.

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sabato 20 luglio 2024

Due biglietti della lotteria - Paul Negoescu

una commedia sul biglietto vincente della lotteria che non si trova più.

la ricerca del biglietto da parte di tre amici è divertente e amara, la Romania, come l'Italia, si affida alla lotteria per vincere nella vita.

un film che ti fa divertire, in certi momenti sembra un film neorealista del dopoguerra.

buona (vincente) visione - Ismaele

 

 

Questa opera di Paul Negoescu potrebbe essere incasellata, in modo semplicistico, nel genere commedia di evasione. Non è così perché, sin dall'inizio, nella sequenza in cui vediamo i tre protagonisti nel bar, ci parla delle condizioni della Romania passata dalla mancanza di libertà del regime di Ceausescu che in qualche misura garantiva un minimo di prestazioni sociali a una democrazia in cui le donne sono costrette ad emigrare (in Italia) e finiscono nelle mani della mafia, il sospetto sul malaffare regna sovrano e di speranze ne restano ben poche.

I tre amici divengono i rappresentanti di tre modi di rapportarsi con la realtà. Uno perde tutti i suoi soldi in scommesse, un altro si illude che ci siano ancora delle regole da rispettare e il terzo vede complotti ovunque. La ricerca del biglietto vincente, con l'indagine porta a porta nel condominio in cui è avvenuto il furto, ci fa scoprire un'umanità che o si lamenta di ciò che non funziona oppure cerca di arrangiarsi come può con lo spaccio, la prostituzione e altri mezzi più o meno leciti. Quando il percorso si trasforma in un on the road altre sfumature vengono aggiunte alla tavolozza, completando così un quadro non lusinghiero delle condizioni di vita nella Romania d'oggi. Tutto questo viene però trattato con la giusta dose di leggerezza che non travalica mai né nel pamphlet né nella gag fine a se stessa. Da antologia è la scena in cui bisogna decidere quale colore abbia un'auto. Qui Negoescu dimostra che si può gestire il livello surreale senza perdere di credibilità.

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Nelle mani di Negoescu il mood dimesso e malinconico che abbiamo imparato a conoscere nei tanti capolavori del cinema romeno diventa la chiave di volta per una comicità che risulta tanto più efficace quanto maggiore è l’understatement con cui i tre amici affrontano le diverse tappe del viaggio che li vede diretti alla volta dei balordi che inconsapevolmente gli hanno rubato la possibilità di cambiare vita e di essere felici. Ciò che colpisce in “2 biglietti della lotteria” è la maniera con la quale il regista riesce a non essere scontato all’interno di una trama semplice e lineare: prova ne sia l’andamento narrativo delle situazioni in cui, volta dopo volta, si ritrovano i protagonisti, quasi sempre caratterizzate dall’imprevedibilità dell’umanità con cui i nostri (magnificamente interpretati da Dorian Boguta, Dragos Bucur, Alexandru Papadopol) si confrontano. Uscito in un numero limitate di sale “2 biglietti della lotteria”  conferma il buon stato di salute del cinema romeno e, come tale, meriterebbe ben altra distribuzione.

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Due biglietti della lotteria è un road-movie in forma di commedia che usa l’espediente narrativo del gioco della lotteria per raccontare i sogni, le speranze e le difficoltà della vita di persone comuni nella Romania di oggi. Un Paese fatto di contraddizioni.

Il viaggio viene compiuto da tre personaggi, tra loro amici, che sapranno sostenersi e compensarsi a vicenda nelle proprie mancanze, arrivando poi a capire che il viaggio era più importante della destinazione.

Il finale è positivo ma inaspettato, sia per i personaggi che per gli spettatori. Il messaggio che passa sotto traccia è: “I soldi non danno la felicità, ma a volte la felicità viene per conto suo”.

Anche in Romania, dove si sogna di vincere alla lotteria e di possedere un’auto costosa, ma dove in fondo, per essere felici, basta l’amore.

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venerdì 19 luglio 2024

Il cameraman e l’assassino (C'est arrivé près de chez vous) - Rémy Belvaux

piccolo trattato cinematografico applicato sull'arte dell'omicidio.

omicidio puro e semplice, senza difficoltà e senza un motivo, così, per amore dell'arte dell'omicidio.

un giovane e allucinato Benoît Poelvoorde viene seguito dalla cinepresa, e si festeggia la morte, poi si va al bar a bere, in allegria, anche quando, per sbaglio, viene ammazzato un membro della troupe. 

la troupe non solo documenta gli omicidi, a volte (o sempre) è complice.

visto due volte di seguito, merita davvero, questo gioiellino belga.

buona (assassina) visione - Ismaele



QUI si può vedere il film completo, in italiano

 

 

"Il Cameraman e l'Assassino è un film atipico. Girato in un anacronistico bianco e nero da tre (aspiranti) registi, è stato forse il primo mockumentary nel senso attuale del termine ad arrivare al grande pubblico.

Perché film atipico, allora? Perché Il Cameraman e l'Assassino sembra rifiutare, fondamentalmente, l'idea alla base del mockumentary, ovvero quella di "cinema verità". In quest'opera manca fondamentalmente l'idea di riflettere il reale: è esagerata, esasperata, grottesca, iperbolica.

Una troupe di tre ragazzi sta realizzando un documentario che racconti la vita di un killer. Il killer in questione si chiama Ben che tra una bevuta e l'altra, una poesia e un pranzo in famiglia, una visita a casa di amici e un incontro di boxe, uccide uomini e donne, vecchi e bambini per poi rubare il loro denaro.
La troupe, che filma tutte le gesta dell'uomo, si ritroverà a divenire complice dello stesso.

Ben, l'assassino, è un serial killer che vive ammazzando e rubando i soldi delle sue vittime. Rubare però non è essenzialmente il motivo per cui uccide: essere un assassino fa parte della sua natura, non più uomo ma soggetto, che ha motivo di esistere proprio perché viene ripreso.
Narcisista, folle e logorroico, Ben si rivela un fiume in piena di fronte la camera. Un essere spietato e persino affascinante ma triste nel suo essere "ai margini", un outsider che non vede l'ora di primeggiare e che trova nella troupe cinematografica un modo per farlo.

Ben non sembra provare veri sentimenti, uccidere lo rende vivo ed è il proprio modo per auto-affermarsi, lo capiamo soprattutto quando uccide volontariamente un suo amico sparandogli e poi continua a mangiare un pezzo di torta come niente fosse, rendendo palpabile il terrore che provoca nei suoi "seguaci" ma che si mischia con l'ammirazione degli stessi.

La troupe lo segue. inizialmente lo fa con il solo scopo di "raccontare" ma, lentamente, viene risucchiata dal vortice di violenza che l'assassino rappresenta. Se inizialmente il suo scopo è mostrare la realtà di un serial killer in maniera distaccata, in un secondo momento diventa parte attiva delle attività di Ben, godendone in maniera scellerata, arrivando ad aiutarlo prima con il suo silenzio e poi divenendo parte attiva delle scelleratezze psicotiche dell'uomo. Se Ben è una forza malvagia ma a tratti primordiale i membri della troupe sono l'umanità che da quella malvagità si fa attrarre e possedere divenendone riflesso.

In uno dei momenti più belli e interessanti della pellicola, Ben e la sua troupe si incontra/scontra con una troupe televisiva.
La differenza tra i due gruppi non viene subito colta dal killer che li definisce "colleghi". Al che Remy, il regista, spiega la sostanziale differenza tra i due: "noi facciamo CINEMA". Ecco, è in quella scena o meglio in questa frase che il senso di un film come Il Cameraman e l'Assassino viene a galla. Il rifiuto del cinema verità in un finto documentario, la consapevolezza di essere finzione, cinema, un mezzo che la realtà la rielabora, così diverso dal mass media televisivo che ha invece la pretesa di riproporla tale e quale. In una frase sola uno dei capostipiti del mockumentary contemporaneo rifiuta l'idea stessa alla base del mockumentary contemporaneo negandone l'essenza.

La succitata scena è però anche l'occasione per rifiutare l'idea di una TV che pretende di raccontare la verità, un atto denigratorio verso un mass media che spaccia una realtà contraffatta per verità, senza sporcarsi, osservando di nascosto, dal buco della serratura. Un confronto impari tra cinema (povero di mezzi) e televisione (ricca e seducente), con il cinema che uccide il concetto di "spettacolo" televisivo."

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 “Il cameraman e l’assassino” gioca a carte scoperte, Ben sarà anche uno che parla di cinema e di architettura, quindi non
nasconde aspirazioni di cultura alta, ma poi è mosso dai più bassi istinti, quelli che ne fanno puro materiale da cinema perché andiamo, se fosse stato un colto professore impegnato a parlarci di cultura dalla poltrona di casa sua, come pubblico avremmo deciso di seguirlo? Si sa che il male ha un fascino maggiore, infatti Ben sembra saperlo, alla festa di Natale si veste da prete, si ubriaca e parte a sbraitare che è lui il cinema, non lo stanno cacciando dalla
festa e lui che se ne va, e con lui, se ne va anche il cinema stesso, perché è luiquello che mette in moto tutti gli eventi.

Che a ben guardare, sarebbe anche la verità, ma è il fatto che qualcuno continui a riprendere a rendere le sue azioni cinema, quindi quel certo grado di distacco iniziale con il passare dei minuti scompare. L’apice arriva quando i membri della troupe diventano complici di Ben, nella terribile scena dello stupro, me la ricordavo tremenda ma mi sono ritrovato ad annodarmi sulla poltrona del cinema Massimo, brrrr!

A quel punto vale tutto, perché la distanza tra l’assassino,
chi lo riprende e noi spettatori che assistiamo (in parte complici) è stata azzerata, utilizzando un registro grottesco, sempre meno carico di umorismo nero con il passare dei minuti, “C’est arrivé près de chez vous” non finge mai di essere realtà. 
The Blair witch project era stato venduto al grande pubblico come un vero nastro recuperato, found footage appunto, il film di Rémy Belvaux ad una prima occhiata potrebbe passare per un falso documentario,
quando invece è tutta finzione, che ci chiede di riflettere sul nostro rapporto con la violenza sullo schermo, ma anche su come la realtà viene raccontata. Proprio come Ben il film è pazzo, selvaggio, violento, volutamente cinico e disgustoso, ma siamo noi spettatori che decidiamo di diventare suoi compliciguardandolo…

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Ciò a cui mira Ben non sono i delitti diretti alle persone più facoltose, bensì volti alle più povere. Attaccare la gente comune per Ben significa non essere catturato dalla polizia, non essere ripreso dai media e di conseguenza non essere visibile dall’audience televisivo.

L’obiettivo dei reporter, invece, è raggiungere lo scandalo, il clamore. Essi giocano con l’orgoglio dell’assassino, spingendolo ad aggredire una famiglia di un ricco sobborgo della città: il servizio sulla famiglia borghese sterminata nel soggiorno della loro casa riversa più psicosi nella gente comune che uccidere un senzatetto.

ll fine dei giornalisti è dunque filmare ciò che accade davanti ai loro occhi, mettendo in scena il lavoro di Ben chiedendogli di commettere un crimine ben preciso.

Dove risiede la moralità dei sicari e dove quella dei giornalisti?

La barbarie in TV

Il fine dei media è pertanto trasmettere storie squallide, perché sanno che lo spettatore non può fare a meno di guardare. Provocano la violenza banalizzandola.

Se Quentin Tarantino, per esempio, a proposito di questo argomento, ribatte da un lato sulla brutalità nei suoi film che “la violenza nel cinema non è poi così problematica, è un codice inteso come tale dallo spettatore che sa benissimo che il mondo in cui si svolge il film è un mondo di finzione“, dall’altro critica i media per la violenza delle loro immagini, poiché sono ben radicati nella realtà.

Quando si guardano i telegiornali, infatti, si sa che le immagini provengono dal mondo reale e che la veemenza descritta è reale e non messa in scena, ciò che è più colpevole agli occhi del regista americano.

Inoltre, guardando ‘Il cameraman e l’assassino’ salta alla mente “Munich” di Steven Spielberg, in cui il regista americano ripercorre la vera presa in ostaggio degli atleti israeliani alle Olimpiadi del 1972 da parte di terroristi palestinesi. 

La cattura dei prigionieri si trasforma poi in una strage quando i giornalisti, volendo seguire in diretta l’intervento della polizia per fare audience, rendono un servizio ai sequestratori che, con l’aiuto di una televisione accesa, riescono a monitorare l’andamento delle squadre di intervento in tempo reale.

A forza di voler essere spettacolari, i giornalisti a volte dimenticano le loro responsabilità verso la gente comune e la deontologia che detta le regole del mestiere.

Ben, la forza del film

Possiamo così considerare che la forza de ‘Il cameraman e l’assassino’ risiede proprio in Ben, il protagonista.

Un uomo dalle molte qualità come il suo profilo culturale e la passione per l’arte sopracitata, accompagnata da un atteggiamento arrogante e intollerante. 

Azzardiamo. Potremmo dire che in ogni persona risiede un “Ben”: non siamo tutti assassini o razzisti, ma in ognuno di noi si nasconde un lato negativo e spiacevole, testimone dell’eterno dualismo bene-male.

Insomma, se siete curiosi e non avete visto questo piccolo capolavoro, ‘Il cameraman e l’assassino’ è da aggiungere velocemente alla vostra lista di pellicole da scoprire.

Non è un film per tutti: come già abbiamo accennato è un’opera molto forte, ma se amate il cinema di genere che adopera un linguaggio audace, è una pellicola che ricorderete a lungo!

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“Questo non è un film sulla violenza. È un film sull’arte di fare cinema. E il protagonista non è un assassino. È uno a cui piace parlare davanti alla telecamera.” Con questa efficace sintesi, Rémy Belvaux, in un’intervista, commentava, insieme ai suoi amici André Bonzel e Benoît Poelvoorde, l’opera che avevano appena finito di girare: una pellicola autofinanziata, a bassissimo costo, realizzata da tre studenti di cinema come una provocatoria sperimentazione sul campo di quanto avevano imparato in un corso sul documentario. È così, un po’ per scherzo, che il politicamente scorretto diventa una cinica storia in cui si uccide per divertimento, per distrazione, per abitudine,  per fare scena, per vincere la noia.  Un serial killer e la troupe cinematografica che lo segue in diretta diventano complici di una serie di omicidi crudeli ed assurdi, vissuti come bravate, che all’inizio fanno sensazione, ma poi col tempo creano assuefazione, diventando poco più che una fastidiosa routine. Alla fine, a tenere vivo lo spettacolo, ormai scontato e ripetitivo, sono soltanto i fiumi di parole che il protagonista riversa sulle immagini, raccontando di sé, delle proprie gesta, delle proprie emozioni, anticipando l’eloquenza trash dei reality e dei talk show. D’altronde, nella moderna società dei mass media, ciò che meno conta sono i fatti: l’occhio dello spettatore vuole sì vedere, ma non importa cosa, e ciò che accade è, di per sé, un dato anonimo, perché la verità è una questione di interpretazione, il bene il risultato di un abbellimento retorico, il male la conseguenza della denigrazione, la gioia il prodotto di una battuta che gira il tutto in burla. Questo film rappresenta magistralmente il clamoroso paradosso su cui si fondano le odierne politiche della comunicazione,  che prescrivono di mostrare tutto, e tutto camuffare, sovrapponendo all’orrido ghigno del mostro  il grottesco belletto di un clown che sorride.
 
Il film, premiato dalla critica al festival di Cannes, suscitò, però, molte polemiche per la sua crudezza; fu sottoposto ai tagli della censura e la sua distribuzione venne ostacolata. A metterlo in ombra contribuì anche la contemporanea uscita di altre due opere altrettanto “forti”, quali Le iene di Quentin Tarantino e Benny’s Video di Michael Haneke. Oggi nessuno parla più de “Il cameraman e l’assassino”, che corrisponde perfettamente al cliché del film “maledetto”: è stato il primo e unico film di Rémy Belvaux, che abbandonò il cinema subito dopo averlo terminato, e morì suicida all’età di 39 anni.

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