giovedì 24 aprile 2025

Sinners (I peccatori) - Ryan Coogler

un film che racconta gli Stati Uniti con lo sguardo dei neri, degli schiavi, degli ultimi.

due fratelli riescono ad aprire un locale dove i neri possano ballare e bere ascoltando la musica degli schiavi neri, il blues.

un luogo di libertà, per chi è sempre costretto a servire.

tutto va per il meglio, c'è anche un giovane superchitarrista, cugino dei fretelli per una serata indimenticabile.

ma i bianchi non ci stanno, e allora inizia la seconda parte del film, una questione di vita o di morte, una lotta senza quartiere, tutta da vedere.

e poi appaiono anche quegli assassini del Ku Klux Klan, è bellissimo vederli ammazzati, è quello che si meritano.

la fine è un dolce sogno, negli attimi prima di morire.

un film da non perdere, una bella sorpresa, andate e godetene tutti.

buona (musicale e mortale) visione - Ismaele 


ps: non uscite dal cinema subito, vi perdereste tre minuti importanti.


 

 

 

Si diventa immortali se ci si assimila all’elemento bianco. E quello che mette in scena Coogler è un conflitto fra identità culturali, all’interno del quale, una, la bianca, tenta in tutti i modi di appropriarsi dell’altra. Ancora più dell’utilizzo delle convenzioni di genere, corrette, ritmate, interessanti soprattutto nella rottura della suspense, ma non dissimili da molte altre altrettanto riuscite, è soprattutto nelle scene di raccordo dell’azione che va ricercato il senso più profondo. Quanto fascino e inquietudine c’è nella contrapposizione tra il blues grezzo suonato nel Juke Joint dal giovane Sammie (Miles Caton, esordiente nel cinema e musicista dall’ancora esiguo seguito: poco più di 2000 followers su YouTube, ma qualcosa mi dice che la cifra s’innalzerà a breve) e la Rocky Road To Dublin cantata e danzata da Jack O’Donnell nello spiazzo antistante insieme a tutti i vampiri? Sembra un numero coreografato da musical, e invece è uno scontro violentissimo in cui una cultura (quella europea, incarnata dal folk irlandese, in questo caso) cerca di fagocitare le radici di quella nera per assimilarla e poi riproporla. Vampirizzandola, appunto. Non è quello che è successo davvero nell’industria musicale? (faccio ammenda: anche da parte dei miei amati Led Zeppelin, che senza i bluesman avrebbero scritto non più di 4 canzoni originali). Non vedevo una scena del genere dal 1960, quando Lillian Gish ne Gli inesorabili di John Huston suonò un pianoforte a coda davanti alla sua casa nella prateria per contrapporre la propria superiorità (musicale, culturale, razziale) ai flauti kiowa che risuonavano minacciosi nella vallata. Come dire: beccatevi Beethoven, selvaggi. Peggio solo Vecchioni alla manifestazione per l’Europa…

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Aiutatemi voi a dire quanto è bello Sinners perché a me manca la favella. E pensare che non avevo idea di cosa fosse, perché il trailer è decisamente ingannevole e lo fa sembrare un action coi vampiri che ha, come unica particolarità, il fatto di essere ambientato nel Sud degli Stati Uniti negli anni ’30. Già di per sé, questo non è poco, chiariamo: è il motivo per cui sono andata a vederlo, data la mia nota debolezza per tutto ciò che può essere definito Southern Gothic. Ma niente vi può preparare a Sinners, neanche se io ci scrivessi un saggio sopra, cosa che non sono in grado di fare perché mi mancano gli strumenti culturali.
Per rendere la cosa più semplice possibile, nella seconda parte, diventa un film di John Carpenter, un western d’assedio violentissimo coi vampiri che spuntano da ogni angolo; c’è persino la scena del test de La Cosa, però con uno spicchio d’aglio come discriminante per capire chi è infetto e chi no.
Potrei chiuderla qui, dirvi di andare a vederlo e di non considerare niente altro sia nelle sale in questi giorni…

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…La regia e il montaggio danzano a ritmi a volte placidamente insidiosi e spesso invece forsennati o irruenti, in un assedio che più volte viene fragorosamente interrotto prima del faccia a faccia finale. La musica non si spegne nemmeno quando iniziano i titoli di coda, che anzi danno solo il via al vero epilogo del film. Sarebbe un crimine raccontarlo, quindi ci limitiamo a dire che se da una parte può essere un eccesso didascalico - quasi Coogler volesse chiarire in modo del tutto esplicito il senso del suo film - dall'altra è però un colpo di coda. Riscrive quel che poteva passare per una risoluzione convenzionale sui toni, ancora una volta, di un dolente blues.

Coogler si avvale di un ottimo cast, spesso chiamato a performance canore o di danza. Tanto che non è la doppia performance di Michael B. Jordan (interpreta i due gemelli) a emergere, ma sono soprattutto l'esordiente Miles Caton, la nemesi Jack O'Connell e, in una scena di ballo indimenticabile, Jayme Lawson. Ha una forte presenza anche Wunmi Mosaku, black mama in contatto con gli spiriti e interesse romantico fuori dalle convenzioni per uno dei due gemelli Jordan. Più sexy che mai è poi Hailee Steinfeld, in controcasting rispetto ai ruoli cui ci aveva abituato di teenager deliziosamente a modo, in un film come Bumblebee e nelle serie Dickinson e Hawkeye. Michael B. Jordan ha soprattutto il merito di saper rendere facilmente distinguibile per la mimica facciale e del corpo i due gemelli Stack e Smoke: un'impresa non trascurabile. Che ciò nonostante siano gli altri a rubargli spesso la scena, non fa che testimoniare il valore di un cast in stato di grazia.

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…Un film che osa, azzarda, persino esagera nel suo costruire un racconto che parte sin troppo lentamente e si trasforma poi repentinamente in un film di genere che osa utilizzare una metafora vampiristica per denunciare un malessere insito nella innata malvagità umana.

Un horror, inoltre, che sa cogliere l'essenza del male fine a se stesso e elevato a qualcosa di assoluto e sin teorico, utile a giustificare una inguaribile indole umana predisposta alla violenza e alla prevaricazione.

Poi certo I Peccatori si evolve, si trasforma, esagera accavallando finali su finali, senza farsi mancare nemmeno sparatorie esaltate degne di Rambo, più che di Apollo Creed, per rimanere in zona di "zio Stallone".

Ma è anche un film sostanzialmente riuscito e coraggioso nel suo azzardare sin spudorato temi e tematiche che riguardano l'uomo nella sua inquietante essenza.

Scegliendo il vampirismo come metafora riuscita di un male che avvolge a sé e trasforma le proprie vittime attraverso una mutazione-dannazione da cui è impossibile tornare indietro.

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Quello di I peccatori è il medesimo territorio che percorrono Tarantino e Jordan Peele, ovvero lavorare in modo politico sui generi classici e rimettere in scena parte dell’immaginario tradizionale del cinema con una prospettiva personale. Solo che qui non c’è alcuna prospettiva personale ma un film che fa quello che fanno tutti gli altri, che obbedisce a ogni regola come un horror dozzinale, anche la parte di effetti digitale creazione del fantastico non ha nessuna personalità visiva! Una fotografia di primo livello, un montaggio estremamente abile e una confezione in generale professionale, danno l’idea di essere davvero davanti a un film importante. Peccato che non lo sia. Avrebbe potuto esserlo, viste le idee. E invece no.

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domenica 20 aprile 2025

Lavoro a mano armata (Dérapages) - Ziad Doueiri

Tratto da un romanzo di Pierre Lemaitre, diretto da Ziad Doueiri (regista de L'insulto e L'attentato), protagonista è Eric Cantona, circondato da tanti bravissimi attori e attrici.

Alain (che nel doppiaggio viene pronunciato da schifo, a Netflix sono ignorantissimi!), interpretato da Eric Cantona, è un disoccupato della felice età capitalista neoliberista, nella quale chi lavora ci mette un minuto (a volte meno) per diventare uno scarto umano.

I capitalisti sono descritti come sono nella realtà, vampiri assetati di licenziamenti e di soldi.

Alain vuole ritrovare una dignità che gli hanno tolto, accetta un lavoro pericoloso, mettere su un sequestro come ultimo rimedio di selezione del personale,  per riuscire a essere riamato e rispettato di nuovo in famiglia, e decide di rubare ai capitalisti, con l'aiuto di un amico hacker (Gustave Kervern), rubare ai ladri non è un peccato, pensa.

Una serie breve, si vede come un film lungo, non delude.

Buona convincente visione - Ismaele

 

 

 

L'Eric Cantona che troviamo a recitare in questa serie tv è esattamente quanto ci si possa aspettare: in grado di accentrare l'attenzione su di sé, ma anche di apparire naturale e di mostrare eccellente capacità di immedesimazione. Non si può certo dire che la vita di Alain Delambre possa essere simile a quella dell'ex star calcistica, ma il marsigliese di origine italo-spagnola rende benissimo nel ruolo dell'uomo di mezza età devastato dalla disoccupazione e dall'incapacità di trovare sbocchi. A livello caratteriale invece Delambre diventa abbastanza affine a Cantona, che deve riportare un personaggio tendente all'irascibilità e di estrema passionalità: e Cantona convince molto, anche nelle parti riflessive, dimostrando (ma ormai confermando) di essere ben più di una star sportiva prestata alla recitazione, ma di essere un attore a tutto tondo….

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Il titolo originale della trasposizione è Dérapages, slittamenti, sbandate: e Alain scivola progressivamente, nei sei episodi della miniserie, ai margini (e oltre) di una società dove tutto, dai luoghi istituzionali alle relazioni interpersonali, sembra dominato da quel «modello aziendale» iper-competitivo per cui «chi cerca lavoro è in guerra».

Ma è anche uno slittamento morale, perché lo stesso Alain, che ci narra a posteriori la sua vicenda da una cella di prigione, è il primo a dover fare sua la legge marziale non scritta che regola (ormai) i rapporti sociali: e la sua lotta per riconquistare una vita dignitosa si confonde allora col desiderio di rivalsa verso quel sistema e col rischio di diventarne lui stesso un perfetto esemplare...

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…Lavoro a mano armata risulta solido ed efficace, nella sua trattazione del capitalismo immorale, disumano e avido, che mantiene la povertà per arricchire i benestanti. Ma la buona riuscita dell’opera è data anche da altri due elementi, legati a doppio filo tra loro. Questo tipo di prodotti si focalizza normalmente solo su un aspetto del racconto, omettendo o elidendo il prima e il dopo. Lavoro a mano armata, invece, offre una visione completa e onnicomprensiva non solo sul sequestro ma anche sulla vita in carcere e sulle conseguenze economiche ed esistenziali di ciascun carattere in gioco…

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“Lavoro a mano armata” potrebbe sembrare estremo, strabordante, eccessivo. A ben pensare però riesce perfettamente nell’intento di rappresentare con ardimento e onestà l’immorale avidità del sistema economico che governa le nostre vite. La serie non si limita a raccontare l’umiliazione dovuta alla perdita del lavoro, né vuole concentrarsi sulla furiosa ribellione di un uomo ferito. Si spinge oltre, narrandoci le conseguenze, materiali e esistenziali, subite da ogni singolo attore in gioco. Ci si aspetterebbe ragionevolmente un malinconico finale, una qualche resa, un’ammissione di colpa? La sceneggiatura sceglie di invertire nuovamente la rotta, spazzare via ciò che restava del dramma sociale, per cedere nuovamente il passo ad un ritmo carico di tensione.  Un finale narrativamente accattivante, che non teme di svilire l’autenticità della critica sociale che la serie avanza.

Si inizia alla Ken Loach e si finisce alla Tarantino. Tutto ha inizio da un realismo sociale così ben fotografato da risultare violento. Si continua con un pathos crescente, iperbolico. Si conclude, o si ricomincia, là dove non ci aspetteremmo, o forse dove non vorremmo. Come in ogni storia in-credibile che si rispetti.

Una narrazione che si insinua nelle nostre menti, sgomita tra altre frivole visioni e resta lì, ad occupare il posto conquistato, domandandoci: assecondare un sistema disumano, magari illudendoci di giocare semplicemente la nostra personale partita, non ci rende forse altrettanto disumani?

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giovedì 17 aprile 2025

Panique – Julien Duvivier

tratto da un romanzo di Georges Simenon, Michel Simon (immenso) è Monsieur Hire, un uomo che non disturba nessuno, ed è mal sopportato da tutti.

il problema fatale è che s'innamora di una donna, lui si dà completamente, lei lo inganna dall'inizio e lo mette in trappola.

la calunnia è un venticello, dicono Gioacchino Rossini ed Edoardo Bennato, così in quel quartiere di Parigi la folla, non anonima, ma composta da persone che conoscevano l'antipatico barbuto, si attiva per linciare Monsieur Hire.

l'esito è terribile, con una sorpresa finale.

un film da non perdere, nessuno se ne pentirà.

buona (simenoniana) visione - Ismaele


  

QUI il film completo, in francese



Dal romanzo di Georges Simenon “Les fiançailles de Monsieur Hire” sono stati ricavati due adattamenti cinematografici:  “Panique” di Julien Duvivier (1946) e il più noto “L’insolito caso di Monsieur Hire” di Patrice Laconte (1989). Si tratta di due capolavori e non saprei dire quale sia il migliore. Alla sceneggiatura del primo lo stesso Simenon collaborò con Charles Spaak. Siamo di fronte ad un noir d’epoca di raffinatissima fattura, degno di titoli come “Le jour se lève” o “Quai des brumes” di Marcel Carné. Rispettando lo spirito del romanzo, regista e sceneggiatori non si interessano tanto al giallo, quanto all’atmosfera che si viene a creare intorno, al carattere del protagonista e alla mentalità del mondo meschino che lo circonda. In una località imprecisata della Francia, è  stato ritrovato il cadavere di una donna. Allo spettatore viene ben presto rivelata l’identità dell’assassino, come avviene in molti film di Alfred Hitchcock. I sospetti della collettività cadono invece sul taciturno e misantropo Monsieur Hire, uomo solitario e innamorato della giovane Alice (Viviane Romance), legata sentimentalmente ad Alfred, un malvivente cinico e volgare, che sappiamo essere l’autore dell’omicidio. Pur di salvare il suo compare, la ragazza fingerà di accettare la corte di Monsieur Hire, per poi abbandonarlo ad un atroce linciaggio. Film nerissimo, dunque, ma perfetto nella descrizione della piccola gente assetata di vendetta, di quel passa-parola meccanico e irrazionale che sfocia nella più feroce violenza. Michel Simon, che in questo ruolo non sembra proprio essere già un cinquantenne, ci appare alto, slanciato, con folta barba nera, occhi roteanti, ironico e talvolta sarcastico. Oscilla costantemente tra ingenuità e saggezza, incomprensione della realtà che lo circonda e giudizi sferzanti. La sua imponenza, la fermezza della sua recitazione ricordano le fenomenali prestazioni del migliore Orson Welles. Un film gigantesco, da riscoprire e valorizzare.

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Il misantropo Hire, astrologo di professione e fotografo per diletto, "immortala" un omicida e si innamora della donna di questi. Esemplare racconto sull'irrazionalità della "folla", con Duvivier che trasforma il caustico racconto di Simenon in apologo sul bisogno di capro espiatorio nella Francia non ancora libera dal "fascismo" di Vichy. Simon, possente e misurato reietto quanto ingenuo e delicato innamorato, è superlativo, accerchiato da una congerie di tipi "infami": la prostituta, il macellaio, il ladro inamidato, la donna perduta (sensuale Romance).

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Da un Simenon senza Maigret (Il fidanzamento di Monsieur Hire), Duvivier si conferma abilissimo nel catturare atmosfere, il crimine resta secondario, ed è opportuno evidenziare due date: il romanzo uscì nel 1933, fra i primi in cui lo scrittore si firmò con il suo vero nome, il film arrivò tredici anni dopo, compiuta la parabola delle leggi razziali e del collaborazionismo, categorie di persone erano state schedate, perseguitate, sterminate.

Nel 1895, il sociologo Gustave Le Bon aveva pubblicato Psicologia delle folle, testo discutibile ma terribilmente profetico; Le Bon si era interrogato sulle cause della paranoia e sulla malvagità in cui sprofondano le folle, attizzate da qualcuno o preda di paure irrazionali. Fritz Lang ne ricaverà M, il mostro di Dusseldorf, Clouzot il non meno tragico Il corvo. Anche Simenon aveva annusato l’aria, percepito l’incubo che stava arrivando, quanto è facile seminare sospetti e identificare un colpevole, pur di sentirsi innocenti.

Duvivier può contare su tre punti di forza: lo sceneggiatore belga Charles Spaak (il padre di Catherine, che aveva firmato La grande illusione); lo scenografo Serge Piménoff (sue le scene del Napoléon di Abel Gance); un attore come Michel Simon (L’AtalanteIl porto delle nebbie e tanto altro), fisicamente antitetico al personaggio narrato da Simenon.

La trama si sviluppa a Villejuif, sobborgo parigino. Monsieur Hire è un tipo solitario, non lega con nessuno, “diverso” dalla brava gente che compone quella comunità. Viene trovato il cadavere di una donna, proprio quando Hire si sta innamorando di Alice (Viviane Romance), che si è fatta qualche mese di prigione pur di salvare Alfred, il suo uomo. Certo, Hire è brutto, è un voyeur, ma il suo corteggiamento è gentile, delicato, si illude di poter iniziare una nuova vita, non sa del patto fra l’assassino e Alice, che – per amore – si presta a incastrare un innocente.

Il finale del film è ancora più tragico del romanzo.

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…Sin duda el encanto de la realización de Duvivier, con un guión firmado por él mismo y Charles Spaak, reside en la complejidad del triángulo romántico y la decrepitud moral de fondo: Hire la ve a ella desde la ventana de su habitación porque ambos comparten hotel, así se enamora y le hace saber que su novio es el verdugo de Noblet, algo que el susodicho le confirma en la cama para luego espantarse cuando la fémina le aclara que su vecino incluso tiene una prueba incriminatoria irrefutable que a su vez lleva al dúo de criminales a manipular a Hirovich ganándose su confianza para que ella plante la cartera de la occisa en el cuarto del hombre, estrategia que para colmo complementan con la “difusión” de nuevos chismes acerca del misántropo que incluyen la hipnosis, la pederastia y hasta el clavar agujas en las fotos para desencadenar dolencias varias en los retratados de ocasión. El opus explora con lujo de detalles lo fácil que resulta direccionar el odio popular hacia un chivo expiatorio que libere de culpas al verdadero responsable del crimen o los crímenes de turno, sobre todo en una dinámica social conservadora y claustrofóbica que castiga de manera tácita a cualquiera que no se amolde a los patrones prefijados y/ o cierto ideario en común. Varios son los personajes que encarnan a esta pusilanimidad obrera y burguesa en general: está Capoulade (Max Dalban), el carnicero con ocho hijos del barrio que ataca a Hire porque le critica la carne, luego viene Sauvage (Guy Favières), un patético recaudador de impuestos que la va de intelectual y despotrica contra las artes ocultas, y finalmente está el mismo Chartier, un payaso que fanfarronea cual criminal experimentado ante Alice pero que frente a Hirovich no puede hacer nada ante el ingenio, la rapidez y el brío del hombre.

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