venerdì 13 settembre 2024

Patagonia - Simone Bozzelli

Yuri e Agostino sono due ragazzi ai margini della società.

decidono di lavorare insieme e vivere insieme, e il loro rapporto è speciale, amore/odio, ricatti e punizioni.

Yuri è poco più di un bambino, si consegna ad Agostino e vivono in simbiosi, in quel camper di Agostino.

opera prima di Simone Bozzelli, attori bravi e convincenti.

cercatelo, da non perdere.

buona (tormentata) visione - Ismaele

 

 

 

Patagonia è un esordio composto e sentito. Si attiene al restare aderente a questi due corpi che sussistono l’uno sull’altro, non fa il passo più lungo della gamba e per il momento è giusto così. Sottolinea un po’ qua e là, si accerta di specificare l’assorbimento totale a una condizione insostenibile. Ma funziona e introduce al palcoscenico un nuovo talento che sarà interessante seguire da qui in poi.

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Patagonia ricorda una fiaba inversa e macabra, dove punizioni e ricompense sono estreme e le regole non sono quelle universali. 

 

Tra i due protagonisti aleggia la figura di un Peter Pan inedito e spaventoso, come le dinamiche di rapporti in cui non si scorgono gli estremi: tra la mancanza di empatia di Yuri e l’unica relazione sana che Agostino sa instaurare - quella con i bambini, soprattutto con il figlio dell’amica Alma di cui si prende cura ogni giorno con rigore - l’unica cosa che può salvare il rapporto dalla subalternità, la gabbia in cui ci si è imbattuti, è la maturità delle scelte. 

Simone Bozzelli affronta in Patagonia temi mancanti nella cinematografia contemporanea, e lo fa benissimo: la normalità estranea al buon pensiero, lo sporco e lo schifo, la decisione sbagliata, i rapporti non definibili (ma lontani dall'amore)…

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Tutto è però propedeutico a quel che sarà: Per Ago, che con il fuoco tenta di alleggerire il peso dell’esistenza e delle relazioni senza riuscire a liberarsi delle radici che rispuntano nel suo sogno di libertà, per Yuri, che abituato a dipendere da qualcuno e a non essere abbastanza conquista gradualmente la forza di decidere da solo di voler subire anche le punizioni più ingiuste, e per gli spettatori. Che il film sottopone a diverse prove – molestie fisiche e psicologiche comprese – prima di ricompensare con un finale che giustifica le vessazioni, la perdita della speranza, dell’innocenza, il rischio di esser passati dal vivere rinchiusi in una famiglia tradizionale a un camper malmesso. Per una volta, la scuola della strada – e dell’arte di strada – tanto citata a sproposito dal popolo della rete, acquista corpo, e dignità. E offre spunti di riflessione sui concetti di libertà e dipendenza, anche nella fissità esasperata di certe sequenze, nell’accettazione del dolore e del male come reagente o dell’attesa di un Godot che stavolta potremmo essere noi.

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Patagonia è un film crudo, onesto nella sua “disonestà”, passionale e glaciale, tanto “corretto” quanto “scorretto”, un lungometraggio i cui protagonisti sono “santi” e “demoni” che siedono insieme in un “pezzo” di mondo, arcadico, aspro, selvatico. Yuri e Agostino, Andrea Fuorto e Augusto Mario Russi, vivono una relazione che mangia il cuore e consuma il fegato: prevaricazioni, abusi, perimetri asfissianti costruiscono una gabbia che sembra allontanare dal senso di sopravvivenza; sembra saccheggiare un’identità già isolata.. già smarrita nella profondità dell’umanità di un rapporto di dipendenza che assume i contorni di un reciproco tossico, distruttivo.  

Simone Bozzelli denuncia un romanticismo puritano, tratteggiando una narrativa difficile e contrastante. Fatalità e fatalismo sono gli elementi dissacranti in una storia che si suicida sul sipario dell’etica e della moralità. Un film che necessita più punti di vista, ripetute visioni, osservazioni ossessive per delineare la grandezza e la cura impeccabile del lungometraggio che rendono Patagonia un film che affina la sperimentazione cinematografica nell’epoca della sua stessa desertificazione…

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Attorno alla presa di coscienza del giovane Yuri, che fin lì ha vissuto una vita nell'abbraccio ovattato e stringente di una famiglia dai contorni imprecisati, Bozzelli riesce soprattutto a evocare un mondo distinto di giovani che, in un Abruzzo svuotato e soporifero, vivono nella loro versione di una società alternativa. Agostino, che preso da solo con il suo camper e il lavoro con i bambini sembrava un esemplare unico, è in realtà parte di un sistema che si apre agli occhi di Yuri e inizia a presentargli delle scelte che il ragazzo non ha mai avuto prima.
Nel rapporto tra i due sta la sostanza dell'opera, che indaga come nascono i rapporti di potere, la dipendenza, la proiezione del proprio desiderio su quello dell'altro. Gli animali e le gabbie sono un motivo ricorrente, la corrente omoerotica e sentimentale è forse lasciata a un'eccessiva ambiguità, ma c'è del rigore autentico nel modo in cui Bozzelli mette in fila le piccole manipolazioni di Agostino, dotato di un istinto innato nel capire cosa l'altro è disposto a cedere per poi prenderselo col sorriso.

L'esordiente Augusto Mario Russi ha il giusto carisma per renderlo verosimile, e soprattutto sembra avere una conoscenza intima e naturale del milieu in cui si muove la storia. Il lavoro a quattro mani trova nel protagonista Andrea Fuorto un valido contraltare, più costruito, che delinea una condizione infantilizzata ma lentamente ricettiva alle esperienze del mondo, di cui si prende il bene come il male…

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mercoledì 11 settembre 2024

I Ragazzi del massacro - Fernando Di Leo

tratto da una storia di Giorgio Scerbanenco, il film nelle mani di Fernando Di Leo diventa un gioiellino.

una storia terribile, nei primi minuti si vede e si capisce tutto e poi tocca al commissario Lamberti cercare di capire cosa è successo.

una sceneggiatura che non lascia respiro, non perdetevelo.

buona (violenta) visione - Ismaele



QUI si può vedere il film completo

 

 

Qualche anno prima di “Arancia meccanica” di Kubrick, Di Leo ci mostra i “nostri” drughi nostrani, che bevono anice lattescente al posto di “latte più” e risultano molto ma molto più brutali e meschini di Alex e la sua banda. Di Leo prende come spunto il lavoro di Scerbanenco per costruire una storia che per l'epoca era davvero attuale e per alcuni fatti di cronaca quasi premonitrice.
Ottima la scelta di Pier Paolo Capponi, che riesce ad incarnare un commissario dalle mille sfumature: deciso ma tenero con chi capisce che potrà condurlo alla soluzione finale, convinto a catturare il mandante contro tutto e tutti, anche a costo della propria carriera.
Ottima la scelta di utilizzare per il “branco” ragazzi di strada, non attori professionisti, scelti esclusivamente per le loro caratteristiche fisiche e per i volti segnati da una reale vita difficile.
Alcuni di loro hanno cercato in seguito una carriera nel settore cinematografico, invano.

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Un' "Arancia meccanica" arrivata in anticipo e senza lo straordinario talento visionario di un genio come Kubrick, ma di Leo, con pochi mezzi (si notano alcune inquadrature da "buona la prima"!), riesce a rendere un'atmosfera angosciante e coinvolgente, tutta italiana ma esportabile. Viene voglia alzarsi dalla poltrona e stringere la mano al regista per dirgli: "Bravo! Davvero bravo!"

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Quando osserviamo quel manipolo di delinquentelli farsi stupratori e assassini della loro giovane insegnante, la prima impressione che ne riceviamo è di essere dinnanzi a dei figli del demonio. Le loro facce torve sono il manifesto incontestabile del Male che li governa. La loro impassibilità, o meglio ancora la loro ferrea serenità, ci è insostenibile. Di fatto tutto ciò che vien dopo, nel film, si configura come un'umanizzazione progressiva di questi piccoli mostri, a partire da quella prima, orrifica, Polaroid iniziale. Per esempio uno dei ragazzi, il più giovane, non ha il coraggio di guardare la fotografia dell'insegnate straziata; un altro ha sonno, quasi in maniera infantile; un altro ancora sembra raggiungere il suo stato di beatitudine massima solo per il fatto di poter indossare giacca e cravatta, sotto la Galleria Vittorio Emanuele, come una persona perbene. Sono più gli adulti, incredibilmente, nel seguito, a farci ribrezzo: chi non ha intenzione di contribuire a risolvere il caso, chi vuole disfarsi dell'ingombrante presenza dei ragazzi il prima possibile, chi vuole conservare la poltrona... e soprattutto colui che ha empiamente corrotto le menti dei giovani prospettando loro soldi e donne facili. A quest'Omino di Burro è sufficiente una lucente Porsche - e un po' di alcol - per catturare la loro fantasia, e ingabbiarli in un bituminoso sogno da Paese dei Balocchi. Io tuttavia non credo ci sia un intento giustificazionista alla base: come dire, i giovani sono cattivi perché sono cattivi gli adulti. E non è neanche lontanamente presente un sottotesto consolatorio, del tipo, l'uomo nasce secondo principi di bontà, e viene contaminato dall'ambiente che lo circonda. Penso piuttosto che la poetica di Di Leo si cibi di una visione del mondo in cui tutto è nero, sia il giovane sia l'adulto, sia la persona perbene sia l'uomo dei bassifondi, sia il criminale sia il poliziotto. Solo il burbero commissario Lamberti rimane estraneo a questo inferno, ma la sua faccia ci dice moltissimo sul fardello della sua battaglia in solitario.

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martedì 10 settembre 2024

Chi si ferma è perduto - Sergio Corbucci

Antonio Guardalavecchia (Totò) e Giuseppe Colabona (Peppino de Filippo) fanno di tutto per diventare dirigenti del loro ufficio, tutti i trucchi vengono sviluppati, con gioia dello spettatore.

tante scene sono memorabili, e ogni volta che lo vedi ridi (se sei ancora vivo).

buona (strepitosa) visione - Ismaele

 

 

Qui si può vedere il film completo

 

 

Forse non sono in molti a ricordare questo film che li vede rivali sul lavoro. Antonio Guardalavecchia e Giuseppe Colabona sono due impiegati veterani della ditta Pasquetti (Trasporti perfetti!). Essi incarnano il prototipo di grigio travet, pronto a lavorare il minimo indispensabile, sempre al telefono con la moglie, scorbutico con il cliente di turno. Il loro capo, Cesare Santoro, ha già preparato i dossier per trasferirli in Sardegna. Purtroppo per lui, passerà, improvvisamente, a miglior vita, lasciando il compito di valutare i curriculum  a un ispettore aziendale di Milano. I due, intrufolandosi in ufficio, di notte, con tanto di mascherina da ladro e torcia elettrica, bruceranno le rispettive documentazioni, per non lasciare prova delle loro condotte. E da amici, i due sono anche vicini di casa, entreranno in guerra per un’agognata promozione, cercando di accattivarsi la simpatia del dirigente del nord. Se la trama può risultare non troppo originale, i duetti cui danno vita Totò e Peppino sono molto divertenti. I meccanismi comici sono quelli classici, l’errore di persona, lo jettatore, il triangolo amoroso, lo storpiamento dei cognomi, tanto per citarne alcuni. I due attori duellano senza esclusione di colpi, supportati da caratteristi di ottimo livello, come Luigi Pavese, l’immancabile Mario Castellani, e Luigi De Filippo, figlio di Peppino, nei panni di un fastidioso donnaiolo siciliano. L’atmosfera potrebbe essere antesignana di Fantozzi, non solo per la monotonia di certe situazioni, ma anche per l'ipocrisia e la cattiveria dei due, pronti a tutto per avere la meglio. Siamo in pieno boom economico, c'è la rincorsa al benessere e alla miglioria del proprio tenore di vita quotidiano, ma non tutti gli stipendi sono proporzionati alle esigenza personali, Antonio Guardalavecchia ha la colf a mezzo servizio... È un film invecchiato bene, che ancora oggi riesce a far ridere. Dirige Sergio Corbucci, è merito anche suo se i tempi comici del film rasentano la perfezione.

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Le nuove generazioni di comici dovrebbero, se già non lo hanno fatto,non solo guardare e gustare,ma anche studiare,queste magiche pellicole, che per quanto vecchie, non sono per niente invecchiate.Il duo Totò e Peppino, è stato sicuramente,insieme a tanti illustri del passato,come Stanlio e Onlio, Ric e Gian,Gianni e Pinotto,Franco e Ciccio, solo per fare qualche esempio,una coppia comica delle più affiatate e sfavillanti,del panorama cinematografico,regalando al pubblico preziose perle di umorismo,semplice, sano, immediato,composto,politicamente corretto e soprattutto immortale.Questo film,dalla storia semplice ma mai banale,ci consente di apprezzare alcune delle tante sfumature artistiche di questi indimenticabili attori. "Guardalavecchia" e "Orabona" impiegatucci,piccini ma ambiziosi , della "ditta  Pasquetti", si rintuzzano, si fanno i dispetti,si  rincorrono, per guadagnarsi l'ambito posto di capo-ufficio,dando vita a dei siparietti divertentissimi e producendosi in numeri comici, assolutamente esilaranti.L'elogio funebre di Totò al superiore defunto,fa simpaticamente il verso al monologo su Cesare di Marlon Brando.Citazione d'obbligo per la scena del corteggiamento "alla Romeo e Giulietta"con la Zoppelli sul balcone e Totò che recita versi aulici.Semplicemente deliziosa.

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Sbeffeggia il clichè dell'italiano campione del mondo tra i lacchè, e che sotterra la dignità pur di ottenere un minimo di carriera e soldi in più, giusto per salvarsi agli occhi degli altri e dei familiari (tanto poi non sta bene ugualmente).
E' assurdo che sia così, ma è una fotografia fedele dell'impiegato tricolore: questa penosa competizione sul luogo di lavoro rappresenta forse lo spirito più diffuso tra noi italiani sul posto di lavoro, come poi è stato affrescato da  Fantozzi.

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lunedì 9 settembre 2024

Campo di battaglia - Gianni Amelio

Stefano e Giulio sono due medici che lavorano in un ospedale militare, durante la prima guerra mondiale.

Stefano rimanda tutti a morire per la patria, se ancora quei soldati respirano, Giulio cerca di fare il possibile per rimandare a casa quei poveri cristi che ancora respirano, mandati a morire per una guerra maledetta, come tutte.

Anna, la loro amica infermiera, prima sposa le tesi di Stefano, poi Giulio la convince.

alla fine Giulio paga per la sua umanità, per il suo elogio della diserzione, quando possibile.

non è un film perfetto, ma il suo compito (quasi un documentario) lo svolge benissimo.

buona (pacifista) visione - Ismaele


 

 

Campo di battaglia riesce a comunicarci visivamente molto altro, un senso continuo di minaccia, di orrore, di collasso di un mondo. Di apocalisse. Con una fotografia livida che, soprattutto negli esterni, ci restituisce la desolazione di edifici massicci e grigi adibiti a ospedali, caserme, luoghi di contenzione e concentramento. Edifici squadrati, arcigni, come protesi verso il nulla (con un che, ma sì, di kafkiano, se volete di buzzatiano, di profondamente mitteleuropeo e poco italo-mediterraneo). E l’insistere della cinepresa sui corpi malati e vulnerati, sul sangue rappreso, sui bendaggi, sulle protesi, sulle stampelle, finiscono col configurare, forse al di là delle intenzioni dello stesso regista, un universo concentrazionario da cinema del mistero e dell’orrore. Di un orrore coporale e ancora di più mentale, psicologico. Che è una cifra assai rara nel nostro cinema e che fa di Campo di battaglia qualcosa di audace e anomalo. Ancora di più si slitta dal cinema bellico al gothic nella seconda parte, quando scende in  campo un altro nemico, l’epidemia che prenderà il nome di spagnola. I due medici amici-nemici, Siefano e Giulio, si troveranno ad affrontare anche questa nuova battaglia, ognuno a modo suo e con ruoli diversi: mentre il tasso visionario si alza e Campo di battaglia si fa sempre più incubo notturno, con quel lazzaretto dove vengono accumulati e isolati i malati per contenere il contagio, fino alla grande sequenza dei cadaveri buttati nella fossa comune e bruciati (ogni riferimento alla recente pandemia da Covid è probabilmente voluto). Si resta alla fine con la sensazione di avere assistito non a un classico film sulla guerra, piuttosto a un cinema di esplorazione del lato oscuro, nostro e della Storia, individuale e collettivo. Gabriel Montesi, attore in ascesa, è perfetto quale medico carogna, Alessandro Borghi forse un filo troppo manierato come Giulio. Federica Rosellini, gran nome del nostro teatro (non solo) di ricerca, è la crocerossina che voleva essere medico.

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…Bei dialoghi che rispettano le etimologie meravigliose dei nostri dialetti unici, così diversi da sembrare lingue differenti, ma non per questo passibili di non fare comprendere i sentimenti di chi li esprime ad altri coscritti, uniti da lingue differenti ma capaci di comprendersi con un semplice sguardo.

Un film scientemente lento e riflessivi, lucido e schietto che non rinuncia a ottime ricostruzioni di campi di battaglia e trincee, ospedali devastato da urla e dolore.

I tre interpreti citati sono davvero bravi, e Gianni Amelio si conferma, c'è ne fosse bisogno, un caposaldo versatile e sensibile del cinema di casa nostra.

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Gianni Amelio è uno dei grandi vecchi del cinema italiano, continua per la sua strada senza tentennamenti, anche se la critica nostrana sembra avergli voltato le spalle già da anni. "Campo di battaglia" è un film certamente dignitoso, magari non una delle sue opere maggiori in assoluto, ma non è un film di cui ci si possa liberare in maniera sbrigativa, come ha fatto una parte della stampa alla mostra di Venezia.

Il film è una requisitoria contro la guerra e un'analisi del conflitto di coscienza da parte di due ufficiali medici che si trovano a curare soldati feriti provenienti dal fronte della prima Guerra mondiale: il dottore interpretato da Gabriel Montesi vuole che i soldati guariscano in fretta per tornare al fronte, quello interpretato da Alessandro Borghi invece è pronto a causare ferite ulteriori per allontanare definitivamente il ritorno alla trincea…

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incredibile a dirsi, ma i presupposti di Campo di battaglia di Gianni Amelio sono tutti giusti. L’obiettivo, è chiaro, è di fare un film sulla prima guerra mondiale (in realtà poi vuole usare quello scenario per parlare d’altro, ma a questo ci arriviamo) e l’osservatorio scelto è perfetto: il Friuli Venezia Giulia nel 1918. Vuole raccontare di come le persone vivessero la guerra e per farlo sceglie anche le figure perfette: due medici che lavorano in un ospedale militare che non fa che ricevere feriti veri e feriti che si sono procurati le ferite (anche gravi) per essere mandati a casa. E poi ancora ha la caratterizzazione giusta: questi due medici sono uno molto patriottico, spietato, che indaga, cerca, scopre le truffe e non fa che rimandare al fronte al minimo dubbio; l’altro molto compassionevole che, di nascosto, opera e peggiora le condizioni di alcuni pazienti (in accordo con loro), così che non possano che essere davvero mandati a casa.

Sono le due anime del paese di fronte alla guerra, ma anche di fronte a qualsiasi cosa: quella rigorosa che crede nelle istituzioni, in quello che dicono e nella necessità di un atteggiamento intransigente; e quella che invece opera al di fuori di tutto, a proprio rischio, anteponendo l’umanità e i propri valori a quelle che sono le decisioni dello Stato, rispondendo a una morale che è sia sua che (nella sua testa) più alta. E nonostante entrambi gli attori, Gabriel Montesi e Alessandro Borghi, siano molto bravi a fare (da romani) due medici veneti, è Montesi a stupire di più, con questo personaggio davvero di altri tempi, una tipologia umana che non c’entra niente con il presente e ha un altro modo di fare, di relazionarsi, di muoversi e di parlare, che sembra venire dal passato. Duro e inflessibile, regio in tante cose, e che con abilità lascia trapelare ogni tanto un’umanità nascosta sotto strati di un senso del dovere come lo si poteva concepire solo a inizio Novecento…

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sabato 7 settembre 2024

Il Bi e il Ba - Maurizio Nichetti

il film ha un protagonista, Frassica, che non delude mai, circondato da attori e attrici (ottimi) al suo servizio.

film folle e fiabesco, un Nichetti che non ti aspetti, c'è da ridere e ridere ancora.

cercatelo e godetene tutti.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele

 

 

 

Diciamolo subito: il film è geniale, fa ridere (questo l'intento) e scorre via che è un piacere; d'altro canto due anime comico-surreali accorpate quali la regia di Nichetti e il perno de Il bi e il ba Frassica, creano l'ambiente ideale per dare un'insperata forza ridanciana - con una vena poetico/infantile - a una pellicola che, nonostante tutto, si rivelò un clamoroso flop al botteghino che ancor'oggi chiede giustizia e che di fatto relegò l'attore siciliano a fenomeno televisivo; insomma, il Frassica-movie n. 2 non c'è stato.

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E' una piacevolissima commedia interpretata da Nino Frassica e diretta da Maurizio Nichetti.Maurizio Nichetti e Nino Frassica rispettivametente regista e protagonista realizzano un film spassossimo ingiustamente snobato da critica e pubblico. Se avete voglia di sorridere di non pensare è un piccolo gioiellino

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venerdì 6 settembre 2024

Faccia d’angelo – Andrea Porporati

una bella sorpresa, Elio Germano è grandissimo, il boss del Brenta sembra lui.

una storia semplice e appassionante, con una sceneggiatura che non lascia nessuno spettatore indifferente.

provare per credere, un film che non delude.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele


 

QUI si può vedere la prima parte del film

QUI si può vedere la seconda parte del film

 

 

 

…Se Faccia d'angelo merita la visione perché, come si è detto, illumina pur con le sue libertà narrative una parte poco raccontata della storia del nostro paese, se va probabilmente fatta la riflessione su un gusto del pubblico televisivo che vira al nero e rende (finalmente!) possibile la realizzazione di un prodotto come questo, va anche detto che il film TV di Porporati è, preso in sé, un buonissimo prodotto. Se la già citata presenza di Germano, con il suo volto, la sua parlata e le sue studiate movenze, innerva di sé ogni momento del racconto, anche quelli in cui il suo personaggio non è presente, il meccanismo narrativo del film, con i suoi frequenti salti nel tempo, si rivela perfettamente funzionale allo scopo del regista: quello di raccontare la parabola di un uomo dedito al crimine, e la sua ingenua, infantile pretesa di dominare anche la sua brama di potere. Il Toso è infatti un boss cinico e beffardo, uno scaltro imprenditore del crimine, ma anche un uomo ingenuo: la sua illusione di poter amare, nella sua posizione, senza alcun rischio per la persona amata, di fare il bene di sua madre (un'intensa Katia Ricciarelli) con gli sterminati proventi delle sue attività criminali, di ridurre il suo vorticoso giro di affari illeciti a una pulita, incruenta attività imprenditoriale, è quanto di più illusorio si possa concepire. Una figura figlia di una classicità dal taglio tragico, parente di tanti altri boss malavitosi visti sul grande e piccolo schermo, ma di cui viene accentuato l'aspetto infantile, la convinzione di operare in fondo per il bene proprio e delle persone a sé vicine, l'illusione di un futuro luminoso mentre il cammino è in realtà segnato verso un'oscurità nerissima. In più, va ricordato il contrasto, anche questo figlio di decenni di storia del genere, con i rappresentanti della legge, guidati da un sempre più determinato (e ostinato) Carmine Recano; e lo sguardo antropologico, rivelatore, su una realtà contadina che, anche dentro a una regione che è motore economico dello sviluppo, conserva le sue tradizioni ancestrali e rende possibile, nel suo seno, la crescita di un'esperienza criminale come questa. Compito del noir è in fondo, da sempre, anche quello di restituirci un po' della nostra realtà, trasfigurata ma sempre (e mai come ora) attuale.

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Diciamolo subito, Felice Maniero, in arte “Toso” è un personaggio che ben si presta ad essere immortalato in un film, ed anche bello lungo dato che tantissime azioni (e situazioni) hanno segnato la sua (lunga) esistenza da criminale.

Si tratta di una parabola classica, gli inizi in piccolo (ma con un certo stile, altri tempi, altri realtà), seguiti dalla collusione con gli ambienti che contano, soldi a palate in entrata, agenti alle calcagne, arresti, fughe impossibili e poi la resa dei conti che, bene o male, prima o poi tocca a (quasi) tutti coloro che intraprendono una vita del genere.

Un film zeppo di occasioni per sviluppare il racconto, gestito con un ordine e con tante variabili al seguito (anche l’amore e la famiglia hanno ruoli tutt’altro che secondari) che probabilmente pecca soprattutto nei momenti chiave.

Insomma ci sono diverse scene fondamentali, ma quando il registro deve alzare i toni, che siano essi drammatici o meno, non si riesce ad andare oltre uno standard onorevole, ma non rinvigorito come si sarebbe potuto aspettarsi.

Ciò detto rimane un prodotto di tutto rispetto, un piatto ricco di sapore (aperto e chiuso dalle musiche degli Afterhours), che vive anche di un interprete di alto (a altro) rango qual’è Elio Germano che nei panni di un personaggio che si crede onnipotente può dar sfoggio del suo istrionismo senza troppi pudori.

Visione piacevole.

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giovedì 5 settembre 2024

Gli imbroglioni – Lucio Fulci

il film si apre con una bellissima canzone di Giorgio Gaber, e poi inizia il film a episodi. 

José Luis López Vázquez è il giudice che tiene insieme gli episodi del film.

il film è discontinuo, Franco e Ciccio appaiono tre volte,per la disperazione del giudice.

l'episodio con Walter Chiari, l'ultimo, è un capolavoro.

film divertente.

buona (funerea) visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo


 

Uno dei pochi film ad episodi dell'epoca non datati.

In un aula di tribunale, si intrecciano varie storie...

Uno dei pochi film comici ad episodi del periodo non datati e ancora oggi divertenti. Tra i tanti attori famosi dell'epoca che vi partecipano, i migliori e i più divertenti sono Franchi e Ingrassia, ma anche Chiari strappa molte risate. Fulci dirige con una certa diligenza.

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Fulci è regista che ha sempre un suo perché. Anche in una commedia come questa, non delle migliori, riesce a farsi guardare, proprio per l'originalità di alcune trovate: Franco e Ciccio con tripla identità ad esempio, o lo spassoso episodio con Walter Chiari. Curioso notare, in una scena, come il regista anche nelle sue commedie faccia riferimento a elementi che richiamano alla morte.

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