Diciamoci la
verità. Però diciamocela francamente. Non si può dire che il cinema in
Italia sia di sinistra, malgrado le intemerate di Elio Germano all’indirizzo
del ministro Giuli e nonostante dall’altra parte si lamentino sempre che le
conventicole dei comunisti impediscono ai talentuosi giovani attori e registi
che non siano di sinistra (non dicono mai “di destra”, perché
alla fine «pare brutto», come diceva mia zia Silvia) di fare la loro giusta
carriera (qua Morrone. Chi è
Morrone? Non lo so, dev’essere un attore italiano che non lavora per colpa dei
comunisti).
Il cinema
italiano è sembrato di sinistra solo in qualche fase ben
definita. Pareva di sinistra durante il Neorealismo, ma solo perché
qualunque cosa fosse seguita al Ventennio, anche Papa Wojtyla, sarebbe sembrato
comunista (e comunque Rossellini era un cattolico, De Sica un bon
vivant, Visconti un comunista con il Rolex ante-litteram; solo De Santis si
poteva ascrivere alla genìa). È stato davvero di sinistra solo durante
gli anni settanteschi del cinema politico, perché la maggior parte dei
registi protagonisti di quel fertile periodo lo era (Petri, Rosi, Maselli. E
anche Lizzani, nonostante Goffredo Fofi lo considerasse lo stesso un regista di
destra). E lo erano, spesso, anche quelli che il cinema politico lo facevano
sotto mentite spoglie (Pasolini. Monicelli. Scola. E anche Sergio Leone). Ma
non era il cinema italiano a essere comunista: lo era un
terzo della società italiana. Per cui.
Poi, si sa,
e non voglio certo generalizzare, solo rammentare: quello che non era
governo, era cultura; se il governo spettava secondo risultato elettorale
alla Democrazia Cristiana, la cultura fu appaltata alla sinistra, mentre quelli
che ancora, pervicacemente, si rifacevano a fiamme mai del tutto spente, fez e
manganelli, si incaricarono di generare quella sana tensione sociale rompendo
il cazzo un po’ qua e un po’ là, mettendo qualche bombetta stragista con la
complicità dei servizi segreti deviati, nostalgici anche loro. Mica
avevano il tempo per fare cinema. Questo è il perché, in breve. Quindi, non
è che il cinema italiano sia di sinistra, è solo che molti di quelli di
sinistra, storicamente, fanno cinema.
Un giovane figurante missino,
attuale Presidente del Senato, in Sbatti
il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972)
Quelli di
destra non sono abituati, è evidente. Le poche volte che ci hanno
provato sono state sinceramente imbarazzanti. Il loro campo di competenza è
palesemente altrove, anche se la giustizia poi ci mette almeno vent’anni per
accertarne i meriti. Sempre che li accerti. Chi ha avuto la sventura di
vedere Barbarossa di Renzo Martinelli — quello che più
ostinatamente cerca di rileggere la Storia dall’altra prospettiva — ricorda lo
stupendo cameo di Umberto Bossi, non il film, accozzaglia di luoghi comuni
sull’indomito carattere dei Comuni del Nord già protoleghisti.
E così
arriviamo ad Albatross, uscito in questi giorni. Scritto
e diretto da Giulio Base, anche direttore del Torino Film Festival, che in
questi giorni sta facendo parlare di sé più per l’incarico assegnato alla
moglie, Tiziana Rocca (di cui ci interessa proprio il giusto), che per il suo
film, spalleggiato fin dalla sera della prima da una serie di figuri di chiara
appartenenza. Per raccontare la vicenda misconosciuta (perché cancellata,
direbbero dall’altra parte) del triestino Almerigo Grilz, già
picchiatore fascista del Fronte della Gioventù, poi fondatore di un’agenzia di
reporter (l’Albatross del titolo) per documentare con sprezzo del
pericolo le guerre dimenticate del mondo, fino a trovare la morte in Mozambico
a soli 34 anni, Base si è autoinvestito della funzione di «partigiano
della riconciliazione», come fanno tutti quelli che intendono ammannire un
prodotto dichiaratamente di destra sperando di non farselo distruggere dalle
critiche della parte avversa.
Albatross è un film revisionista caro
all’establishment meloniano, ergo: una gran leccata di culo,
inutile girarci attorno. Lo hanno scritto da ogni parte ma nessuno con la
classe di Marco Giusti su Dagospia,
per cui posso anche esimermi. Perché non è questo che m’interessa. M’interessa
proprio il prodotto film, il modo in cui è stato raccontato, la sua eventuale
qualità artistica, non perché sia ideologicamente discutibile (ancora con ‘sta
ideologia?, direbbe il qualunquista ammantato di retropensieri fascistelli. Sì,
ancora con ‘sta ideologia. Non esiste svolta di Fiuggi che mi farà dimenticare
su quali ceneri maleodoranti è nata questa scentrata Repubblica).
Il problema
di Albatross, ancora prima di essere un film fascista, è
che è un film fiacco. Fiacco, girato con uno stile piacione, illusoriamente
ggiovane, ma irrimediabilmente vecchio, come un settantenne nonostante il
rinfoltimento. In pratica è una fiction RAI (che produce) su grande schermo,
vivacizzata da un montaggio inutilmente convulso durante le
scene di dialogo in interni, del quale non si capisce onestamente la
motivazione, se non la ricerca di una vivacità posticcia. Tutto sembra
artefatto, ricreato in una recita che intende più che altro situare la
memoria invece di rappresentarla nella sua cruda realtà del tempo.
All’inizio del film c’è una scena di conflitto fra frange comuniste e fasciste.
Una scena anche fondamentale, perché spiega il legame che si instaura tra Grilz
e Vito Ferrari, avversario politico salvato dalla generosità del primo e
interpretato, da anziano, da uno sfibrato Giancarlo Giannini. Ma come dare
credito allo scontro, se la messa in scena è così basica (l’aggettivo è
indipendente dal nome del regista) da far affrontare i due sparuti gruppi
vestiti di sapido cliché al grido di «Fascisti carogne tornate nelle fogne» e
«Boia chi molla è il grido di battaglia» branditi come due alternati e
ossessivi refrain? 😲
E il
pestaggio susseguente? Non che per forza si debba sempre fare tutto come Guy
Ritchie, però, che cazzo, un minimo: spintoni visti al ralenti, talmente esili
e disarticolati che li avrei tanto sognati all’inizio degli anni Ottanta,
quando nell’estrema periferia nord della città a vocazione industriale smarrita
scendevano orde di tamarri in Vespa a riempirci di mazzate, una zuffa che manco
tra bambini di prima elementare con le braccia slogate. Non è esigenza
di realismo, è credibilità. Quella stessa credibilità che ambienta una
parte della vicenda in una Trieste che pare avere solo due luoghi, il Molo
Audace e il Monumento ai Caduti, ognuno con una sua valenza attributiva: il
primo è il luogo dell’amicizia, della socialità, il secondo quello dei
sentimenti e dei rimpianti.
Una
scrittura un po’ rigida che certo non è aiutata dai dialoghi. Uno su tutti, il
conflitto verbale tra Vito Ferrari e i camerati nella loro redazione del
giornale, ai limiti dello sfottò da bar, ma magari fosse di Caracas: «È che voi
neri siete brutti. Ma dico brutti brutti, eh, anche solo da vedere». «Ha
parlato Alain Delon» è l’affilatissima risposta offerta a muso duro prima
dell’eventualità di una rissa, doverosa almeno per la qualità delle battute, ma
che, visti i risultati precedenti, non scatterà.
Ma il vero
equivoco è l’autoattribuzione di genere. Albatross sceglie pericolosamente,
molto pericolosamente, un antesignano illustre per dotarsi di una ben precisa
struttura: L’uomo che uccise Liberty Valance. Non
sono rincoglionito, ascoltate. Un sopravvissuto torna in età matura — in treno!
— dove tutto si è originato. Il personaggio cui deve rendere omaggio non c’è
più. C’è una narrazione ufficiale che punta a negare ciò che effettivamente s’è
svolto (a Shinbone John Wayne se lo sono dimenticato; a Trieste negano a Grilz
una targa commemorativa). Racconto à rebours per svelare ciò
che è davvero accaduto. Il sopravvissuto, figura rispettabilissima grazie anche
all’opera del personaggio che non c’è più, desta la memoria dello scomparso e
lo riabilita pubblicamente, per poi tornare da dove è venuto. Dimenticavo: il
sopravvissuto gli fotte anche la donna di cui il Nostro era innamorato. Buum.
Manca la dicotomia progresso-anarchia, ma il resto c’è tutto. È una
storia epica. L’epica di un eroico fotoreporter di guerra osteggiato nel
riconoscimento dei giusti meriti solo per la sua ideologia. Il John Wayne di
Trieste. L’equivalente missino dell’eroismo western. Diosantissimo.
Peccato che
l’impianto si contraddica da solo. La frase simbolo di Liberty Valance era
«When the legend becomes fact, print the legend», ossia, come tutti o quasi
sanno, se la leggenda è più interessante di ciò che realmente è accaduto, fai
riferimento alla leggenda. In modo tale che le narrazioni si basino su un
florilegio immaginifico di fantastiche bugie. È ciò che fece John Ford,
svelando l’inghippo, uccidendo l’epica western e introducendo la fase
crepuscolare, critica e antieroica. Base non uccide l’epica fascista
perché è una cosa che si rimpallano tra loro e «Il Secolo
d’Italia» («ben girato, ben recitato, ben costruito, un piccolo
miracolo di produzione» si leggeva il 30 giugno), ma quantomeno circoscrive
storicamente la già isolata figura di Grilz, ammettendo implicitamente di
averne raccontato la leggenda, la loro versione, parziale e
agiografica, non la realtà.
Sublime autogol,
anche se da quella parte parleranno di fantastica rovesciata.
Ma si sa che di queste cose non ne capiscono davvero un cazzo.
https://www.dissequenze.it/quando-il-cinema-guarda-a-destra-e-sempre-un-po-astigmatico/