una piccola storia, un bambino, Jessie, sordomuto e orfano riceve l'informazione che la mamma, che lavorava in una radio, aveva raccontato di lui.
la curiosità del bambino è insaziabile e poi riesce a trovare la cassetta e a farsi ripetere le parole della mamma da un passante caritatevole e paziente.
la fine, bellissima, ricorda quella di Miguilim, romanzo di João Guimarães Rosa.
buona (lenta e miracolosa) visione, se lo trovate - Ismaele
…è il suono che, stavolta, (in)veste il ruolo dell'Immagine. In
sostanza, Naderi riesce ad infrangere la barriera del suono. Quindi, come già spiegato nelle
righe soprastanti, a spaccare la barriera dell'Immagine. Di conseguenza, del
cinema. Riportando quest'ultimo alla sua naturale stabilità e densità.
Riportandolo alla consistenza originale. Riportandolo alle origini: è sempre un
cinema delle origini, in fondo, quello del regista di "Acqua, Vento,
Sabbia". Ecco che, ancora una volta, avviene un miracolo.
Il cinema di Naderi è vita. È un cinema vitale. Un cinema ossessivamente
ottimista e verticale. Come spinta propulsiva. Che punta verso l'alto. Verso la luce.
Verso, appunto, il miracolo.
Jessie, a deaf-mute child of 11, journeys all through New
York, clutching a letter and a key, looking for a store in Queens. This
contains an audio cassette recorded by her mother before she died. "Both a
stylistic feat and an endless assault on the senses, Naderi's latest excursion
into black and white is perhaps the most extensive staging of pure frustration
in the entire history of cinema."
“All of my experience over the years
in making films came together in this film, to a point that I had wanted to
reach all my life. In making Sound Barrier I discovered how much I could push
beyond my limits, and in so doing learned many things about myself and my work.
Sound Barrier told me I could begin a film I have been planning for years, as
the second part of my sound trilogy. It was one of the reasons I left my
country. A film about the moon. I have always had a dream of being on the moon;
it is exactly where I want to be. This is the beginning of a new path for me.”(A. Naderi)
Sound
Barrier: Iranian master Amir Naderi's latest dispatch from the streets of his
adopted New York represents a return to the themes of his seminal The Runner.
Fending for himself in an indifferent city, a deaf boy searches for the
remaining traces of his dead mother, a radio talk show host who left behind a
collection of audio cassettes in a Greenpoint warehouse. As is customary in
Naderi's oeuvre, sound design is crucial, and the movie gradually builds to an
aural tour de force set on a congested bridge. Exhilarating and exhausting —
with a finale that is quite literally an epiphany.
Mina è una ragazzina perduta, la mamma non la va a prendere a scuola e lei prova a tornare a casa da sola.
solo che non vive in un paesetto di campagna, ma a Teheran, con milioni di persone e mezzi in movimento.
poi scopriamo che Mina è seguita da qualcuno, lei è la protagonista di un film-verità.
a un certo momento decide di non partecipare più, e va via e il film diventa un'altra cosa.
ma si dimentica il microfono addosso, resta la protagonista del film, a sua insaputa.
un piccolo grande film, da non perdere.
buona (vagante) visione - Ismaele
grande film. In certi casi, l'allievo (Panahi) puo' superare
il maestro (Kiarostami). Questa pellicola sviluppa brillantemente i vari
elementi del cinema kiarostamiano: narrazione anti-ellittica, utilizzo frequente
di voci fuori campo, pedinamento, bambini, sguardo critico ma composto
sull'Iran moderno e soprattutto la raffinata fusione tra cinema e realta'. Nel
film di Panahi, le due cose arrivano a convergere: il personaggio che la bimba
interpreta nel film subisce l'arroganza e l'indifferenza degli adulti nel suo
ostinato viaggio verso casa; la stessa crudelta' subisce la bimba-attrice nella
vita reale ad opera della troupe...Apologo sul cinismo di cio' che sta dietro
al cinema e, insieme, sguardo impietoso su un mondo maschilista e autoritario
…Ottimamente capace di riprodurre gli umori e i rumori
della ordinaria quotidianetà cittadina, Panahi guarda di sottecchi la città di
Tehran e c'è ne mostra gli aspetti retrivi attraverso la rappresentazione delle
sue assonanze con l'occidente (il traffico cittadino, la partita di calcio, i
cittadini affaccendati). La piccola Mina, nel suo girovagare cittadino, si
insinua tra le pieghe di una società maschilista e sorda alle richieste d'aiuto
dei più deboli, una società complessa e contraddittoria in cui il formalismo
delle azioni ha una forza tale che rischia di anestetizzare anche gli
slanci emotivi più puri. Il film è sinceramente poetico oltre che tecnicamente
ineccepibile. Sorprendente la piccola Aida Mohammadkhani.
…il cinema si pone con occhio vigile ed indagatore,
privo da condizionamenti, come colui che non sa e cerca strenuamente di capire.
Ma quello che gli giunge, dalla tumultuosa storia quotidiana dell'umanità, è
solo un confuso ed assordante rumore di fondo, che fa da colonna sonora
ad una sfilata di icone arrugginite, irrigidite nei loro ruoli prestabiliti ed
immutabili. I personaggi che Mina incrocia lungo il cammino sono gli esponenti
di una società cristallizzata intorno a pochi tipi: la madre, la nonna, la
giovane sposa, la chiromante, la maestra, il faccendiere, il maschilista, il
mendicante, il disoccupato: lo stesso regista e la sua troupe fanno parte di questo teatro incapace di
cambiare, di venire veramente incontro ai bisogni di chi non afferra il senso
di tutto ciò, e perciò si ribella e invoca aiuto. La piccola che non vuole più
recitare, che chiede di essere libera di vivere la sua età, di giocare e
partecipare alle festicciole, è come l'arte che, di fronte all'indifferenza
degli uomini, alla loro indisponibilità a servirla, aprendo la mente in suo
onore, decide di ripiegare sulla creatività pura ed individuale, svincolata dai
canoni che vorrebbero assoggettarla alle mode. Tornare a casa, rifugiarsi nel privato, è l'extrema ratio a cui si ricorre per proteggere un tesoro minacciato
dalla cinica prepotenza della massa, dei regimi, dell'oscurantismo. Jafar
Panahi non è mai stato così critico, nei confronti della sua gente, della sua
nazione (e di se stesso) come in questo film: Ayneh è lo specchio in cui anche lui si riflette, e forse si
vede e si scruta, o forse si vede e distoglie lo sguardo.
…It makes for a most fascinating
film, one that breaks new ground and challenges Hollywood to look more closely
at the product it’s putting out and the tremendous influence it has on the
world market. It seems astonishing that a country like Iran, which has a
government censor for films, can make a film like this that makes you think and
is more challenging than most films put out by Hollywood with all its freedoms,
big-budgets, special-effects and pools of talent.
El espejo, de Jafar
Panahi, es un film extraño, original, y al mismo tiempo netamente inscripto
dentro de lo que podríamos denominar cine iraní. Participa por un
lado de esa inquietud que Majid Majidi plasmó en Niños del cielo (y
en menor medida, en El padre): abrazar el mundo infantil. Estoy
hablando de historias protagonizadas por niños, narradas desde su punto de
vista y mínimas, absolutamente simples, en su núcleo argumental. Recuerdo un
slogan publicitario. En las cosas simples está el verdadero sabor de
la vida. El cine iraní, este cine, también existe
por ellas y para ellas. Pero demostró, tal vez allí su mayor mérito, que las
cosas simples de la vida no son cursis... como un aviso de Criollitas. La
primera parte de El espejo gira en torno de una niña
extraviada en el centro de Teherán. Su mamá no aparece por la escuela a
buscarla y ella, a tientas, busca el rumbo de regreso a casa. La ternura de
Mina (Mina Mohammad Khani), su vocecita aguda, que el desamparo afina más y
más, parecen polizones en las calles indiferentes y atestadas de la metrópolis.
El espejo también comparte muchas de las
obsesiones de Abbas Kiarostami, el más famoso y prestigioso realizador iraní de
estos tiempos, de quien Panahi se considera con toda justicia un discípulo. Me
refiero al interés por explorar las conexiones entre la realidad y la ficción.
En Detrás de los olivos, una entre varias de Kiarostami, hay un
director de ficción que convoca a los mismos actores que el director verdadero.
Y hace los mismos esfuerzos por dirigirlos, muchas veces en las mismas tomas,
con lo que, de alguna forma, la película es la historia de sí misma. Más o
menos cautivante, el planteo de Kiarostami es bastante transparente allí. No se
puede decir lo mismo del que irrumpe en la segunda parte de El espejo.
Que comienza cuando Mina, abrupta e imprevisiblemente, mira a cámara y,
hastiada, dice que ya no va a actuar. El director y los técnicos intentan
convencerla en vano. Procuran sonsacarle las razones del desplante, pero no hay
caso. Mina está empacada y lo único que quiere es irse a casa... y sola. Al
director, entonces, se le ocurre aprovechar la crisis (y el hecho de que Mina
no se haya quitado el micrófono inalámbrico) para seguir a la niña en su
periplo. Prosiguiendo de algún modo, sin que ella lo perciba, el rodaje de la
anécdota. Al fin de cuentas, la niña sigue sin hallar el camino a su hogar...
anche senza effetti speciali The Banshees of Inisherin è davvero un film speciale.
una piccola isola dove tutti sanno di tutti, nascondersi è impossibile.
il tempo che passa, fra una birra e l'altra e due chiacchiere fra amici, è il motore della scelta di Colm (Brendan Gleeson), di non perdere più tempo, solo darsi alla musica è importante.
da qui nasce il dramma della storia, Padraic (Colin Farrell) si sente rifiutato dal suo migliore amico, e sta male, molto male, e non si rassegna.
e tutto si complica quando la banshee (una specie di strega) dell'isola comincia a parlare.
musica di Carter Burwell, che fa la sua parte.
attori straordinari,e poi c'è anche Jenny, l'asinella.
un film da non perdere, se non si era capito.
buona (musicale) visione
ps: a chi l'ha visto tornerà in mente il bellissimo Il segreto dell'isola di Roan, di John Sayles, e a chi l'ha letto tornerà in mente Nel cuore dell'inverno, un bellissimo e terribile romanzo di Dominic Cooper, pubblicato da Einaudi nel 1997.
…Il film dimostra che
una scrittura inattaccabile e una recitazione superlativa bastano per avvincere
lo spettatore, magicamente calato in un microcosmo dove ironia e dramma si
alternano senza soluzione di continuità e che diventa specchio universale
della tragica follia umana. Sublime.
…È un cinema di parole quello di Martin McDonagh.Parole urlate (come quelle di Siobhán, interpretata
perfettamente da Kerry Condon), sussurrate, balbettate (come quelle di Dominic
Kearney, alias Barry Keoghan), tenute in silenzio.
Le battute di McDonagh sono lasciate
scorrere con calma, trascinandosi stanche, colme di sarcasmo e sputate fuori da
teatranti inconsapevoli su palcoscenici naturali.Belfast è lontana, e con lei
la guerra civile che la distrugge, la lacera, la rasa al suolo riducendola in
cenere. Tra le colline erbose dell'isola immaginaria di Inisherin si
combatte un'altra lotta, più silente, privata, tra un'anima pura,
umile e quella del suo migliore amico che quella parola così confortante e di
vicinanza, ha voluto negargliela. Un'esplosione senza ordigno, che scoppia in
silenzio, e proprio per combattere quel silenzio che Pádraic chiama a sé
parroco e sorella, gestori dell'unico pub del paese e il giovane del villaggio,
facendo di ogni conoscente soldato di un esercito senza uniformi - ma tante
domande - comandati dall'adorata asinella nel ruolo di generale, per cercare la
verità e convincere Colm di svestirsi della funzione di nemico, e ritornare in
quello di complice. In un abbraccio intimo, continuo, dove la commedia si unisce al dramma generando un ibrido
commovente e terribilmente umano, Gli spiriti dell'Isola si
sveste dei fasti dell'ironia superficiale, per abbigliarsi di brillante
malinconica, svelando così la reale natura dei sentimenti di chi prova
difficoltà ad aprirsi al mondo…
…Quindici anni dopo In Bruges McDonagh riprende la coppia Farrell-Gleason
immergendola nel paesaggio ventoso e selvaggio di un’isola irlandese della
costa occidentale e in un contesto narrativo anche stavolta scandito
dall’impasse, dall’attesa di un evento drammatico di là da venire. All’inizio
sembra una commedia dell’assurdo in costume scritta da Beckett: due uomini un
tempo amici litigano senza un motivo preciso e la situazione via via degenera
fino a sposare linee sanguinolente, quasi horror. Poi il ritmo diventa tragico,
quasi ineluttabile, come quello di una ballata irlandese. Gli spiriti dell’isola riprende un testo che l’autore ha
inizialmente scritto a chiusura della sua trilogia teatrale sulle Isole Aran (Lo storpio di Inishmaan e Il tenente di Inishmore sono le opere precedenti). Anche in questo caso, come
negli altri film scritti e diretti dal drammaturgo di origini irlandesi, emerge
la natura di scrittore e fine battutista, con i dialoghi ostentatamente
“perfetti” nel condensare ironia ed elementi stranianti. E quindi permane
quella sospetta inclinazione all’intrattenimento a cronometro, gigionesco,
quasi a voler offuscare l’anima dark delle storie e dei personaggi…
…Il
crescendo narrativo sempre più carico di dramma in cui l’amicizia si trasforma
ben presto in contrapposizione carica di odio soprattutto da parte di Padraic,
trova nel finale un epilogo che per alcuni versi appare persino ambiguo, nel
quale è chiara e nitida l’incapacità di entrambi i protagonisti della faida di
liberarsi dal giogo della solitudine che l’isola infonde in chi ci vive, e da
quel legame ancestrale che risulta impossibile da troncare.
Gli spiriti
dell’isola è un ritorno all’antico per Martin McDonagh, un rivolgere lo sguardo
a quei toni più intimistici che avevano contribuito nel suo film
d’esordio In Bruges ad un’opera di grande valore, a tutt’oggi probabilmente
ancora il suo miglior lavoro; di certo il regista irlandese dà ancora una volta
prova di una grande capacità di scrittura, grazie ai dialoghi e a quella
maniera molto abile che ha nel passare dal dramma alla commedia nell’arco di
poche battute, che è in Gli spiriti dell’isola una delle caratteristiche più
valide, supportata peraltro splendidamente da una regia poderosa.
L’aver
ricostituito la coppia di attori protagonista di In Bruges, Collin Farrell e
Brendan Gleeson, si è dimostrata infine una scelta azzeccata, soprattutto
riguardo al primo, premiato a Venezia con la Coppa Volpi per il migliore attore
e candidato all’Oscar per il premio come miglior attore protagonista, dà una
definitiva ed inappellabile prova della sua grande versatilità e della sua bravura
che non sempre hanno trovato estimatori; con Gli spiriti dell’isola ogni dubbio
viene definitivamente fugato riguardo alla bravura e alla classe dell’attore
irlandese.
…C’è un incredibile e continuo gioco di dare e
avere tra questi due, e mentre diamo per scontato il carisma eccentrico di
Gleeson da The General del 1998, la performance che lascia il segno
è quella di Farrell (Coppa Volpi a Venezia 79). È difficile pensare a un
ritratto che trovi così tante sfumature emotive e livelli di profondità
nell’incomprensione; il suo Pádraic non riesce a cogliere la logica dietro la
decisione del suo amico più di quanto possa controllare le sue reazioni, il suo
illogico bisogno o la vergogna di aver fatto qualcosa di sbagliato non avendo
sfruttato a pieno la sua vita. Capirete anche perché un amico potrebbe essere
tentato di allontanarsi pure da lui, eppure non percepirete mai che Farrell
provi simpatia o antipatia per quest’anima straordinariamente semplice. Non è
un caso che i due uomini diano alla fine del film un senso di ambiguità
riguardo a ciò che potrebbe accadere dopo i titoli di coda. Eppure non è
sbagliato che Farrell abbia l’ultima parola, e che sia il tipo che ti lascia
con la sensazione di aver appena assistito a ferite che potrebbero non
rimarginarsi mai. Possano gli spiriti gridare sempre per questo duo. E per
quanto riguarda McDonagh: bentornato.
un film che parte lento e poi cresce e quando sembra fermarsi c'è una seconda parte ancora più bella (se possibile) della prima.
omicidi e amore impossibile legano Seo-rae e Hae-joon, assassina e poliziotto.
il film è pieno di indizi, tracce, messaggi e Hae-joon riesce a trovare, con difficoltà e intelligenza, le molliche di pane di Pollicino/Seo-rae, nel suo viaggio senza ritorno.
grande film, senza se e senza ma.
buona (misteriosa e imperdibile) visione - Ismaele
ps: i due protagonisti sono attori bravissimi e importanti, Tang Wei è una spendida protagonista in Un lungo viaggio nella notte, un gran film cinese di Bi Gan, e Park Hae-il è ottimo interprete di tanti film coreani, uno a caso The host, di Bong Joon Ho...
Cinema
puro e senza compromessi, non soltanto esercizio estetico ed estatico ma
raffinata riflessione sul genere, capace di innalzare le vie del thriller
investigativo a vette inesplorate, guardando ai classici con una personalità
spiccata e intransigente, pronta ad ammorbidirsi su quei sussulti romantici e
su un alone mystery che d'altronde ne caratterizza le fondamenta. Con Decision
to leave il maestro coreano Park Chan-wook firma forse la sua opera più
consapevole - e in una filmografia dove spicca tra i già tanti capolavori la
Trilogia della vendetta, non è certo cosa da poco - e ci riporta ad un piacere
della visione dove le immagini vanno di pari passo con la storia e il relativo
contenuto, tra colpi di scena e soluzioni geometriche che intrecciano le dinamiche
di una vicenda dove niente è come sembra, e non soltanto a livello meramente
narrativo. Un neo-noir di istinti e di istanti, dove il cuore e lo sguardo sono
veicoli di emozioni a 360° gradi, partitura affascinante e irresistibile che
rapisce in un vortice di sensazioni eterogenee e primigenie.
…Sobrio e asciutto nella messa in
scena, hitchcockiano nello spirito di un neo-noir che guarda consapevolmente ai
classici del genere ma li veste di panni contemporanei: un uomo oggettivizzato
e passivo, disarmato di fronte all'iniziativa di lei, e i dispositivi
elettronici - chat e messaggi vocali, ma anche geolocalizzazione e tracciamento
degli spostamenti - come mezzo principe (e talora anche un fine) nello
svolgimento della loro liaison proibita. Quel che non ci si
aspetterebbe da Park, e che invece giunge, è un film all'insegna del less
is more, in cui la gratuita spettacolarizzazione è fuggita, tanto nel lato
thriller che in quello romantico.
Non mancano i movimenti di macchina magistrali e le riprese dall'alto mirabili,
ma la misura con cui sono gestite è inedita. Lo sviluppo di quest'ultimo, in un
crescendo di messaggi in codice e sguardi, di ammiccamenti e intese invisibili,
è costantemente gestito con delicatezza, in contrasto con le macabre vicende
poliziesche che permettono ai due amanti prima di conoscersi e poi di
frequentarsi…
…Diventare un caso irrisolto. Restare una
di quelle foto appese su quel muro dei delitti che non hanno trovato una
soluzione, e, in questo modo, restare per sempre nella mente di qualcuno, fino
a levargli il sonno. È un’aspirazione che punta a far diventare un amore
qualcosa di eterno, senza fine, destinato a durare tutta la vita e al di là
della vita. Trovare una dichiarazione d’amore in un messaggio in cui non si
dice “ti amo”, ma qualcos’altro, e capire lo stesso. Perdersi nel significato
delle parole tra coreano e cinese, lost in translation, ma riuscire a
comunicare. È anche in queste piccole sfumature, e in un finale ancora una
volta strepitoso, che si vede quello che è un grande film.
…Di fatto più che concentrarsi sul delitto, sul colpevole e sulle
modalità tramite il quale il delitto viene messo in scena, il regista coreano
indaga le regioni più oscure dell’animo umano. Cosa si è disposti a fare pur di
non rinunciare alla persona che si ama? Cosa non si è disposti a fare per non
compromettere la propria integrità di essere umano? Il risultato è un mix
piuttosto statico di scene bellissime, tenui momenti di tensione e dialoghi (spesso)
inutilmente dilatati (n.d.r. nonostante un discreto doppiaggio in italiano si
consiglia ovviamente la visione in lingua originale, anche solo per
l’impagabile resa dell’incomunicabilità tra il protagonista coreano e la
protagonista cinese).
Eppure c’è questa sorta di dipendenza che Decision To Leave riesce a instillare
nello spettatore. Come se il morboso legame tra i due protagonisti fosse
riuscito a strisciare fuori dallo schermo e a serpeggiare per la sala per poi
avvinghiarsi alle caviglie dello spettatore, trascinandolo in un fangoso ed
angosciante abisso di amore e sofferenza.
Manca qualcosa in Decision To Leave però.
Manca una dirompente esplosione di violenza (di solito marchio di fabbrica di
Park Chan-wook). Manca un fendente che dia la scossa al film, che lo faccia
innalzare da mero gioiello registico a vero capolavoro, il suggello di una
carriera incredibile. Attenzione, non stiamo parlando né di occasione sprecata
né, tantomeno, di delusione. Decision To Leave è
un film bellissimo e visivamente una gemma rara. Ma ogni regista ha nella sua
filmografia dei totem e dei film minori, come dicevamo nell’apertura di questa
recensione.
Decision
To Leave è
un Park Chan-wook minore. E se questo è un suo film minore, forse
dovrebbe rendere bene l’idea della grandezza di questo regista.
un film misterioso, quattro personaggi appaiono, bussando alla porta, quattro cavalieri dell'Apocalisse, che hanno scelto, o loro o qualcun altro, una famiglia per risolvere i problemi del mondo.
i quattro, guidati da un gigantesco, in tutti i sensi, Dave Bautista fanno le loro richieste, con fermezza e gentilezza, qualcuno deve morire per salvare il mondo.
un po' mi ha ricordatoColossal, di Nacho Vigalondo, una minaccia implacabile che sembra inarrestabile.
niente di nuovo, quindi, ma la "versione" di M. Night Shyamalan è sempre molto interessante.
un film che non vi dispiacerà.
buona (catastrofica e claustrofobica) visione - Ismaele
...Nel corso del film, dunque, in modo semplice e diretto,
Shyamalan ci mette a confronto con ciò che siamo diventati e con ciò che
potremo diventare se non vengono compiute le giuste scelte. La tensione è
palpabile, sin dalle primissime scene, dove il giocare spensieratamente nel
bosco di Wen viene interrotto dalla comparsa in scena di Leonard. Parlando
proprio di quest’ultimo personaggio, difficile non accorgersi di quanto Dave
Bautistasi riveli un interprete capace di dar equilibrio agli
opposti, non minimizzando la sua possenza ma anzi arricchendola dotando il suo
Leonard di una gentilezza a cui non si è realmente pronti.
Tornando al film, dall’arrivo dei
quattro estranei sarà dunque un susseguirsi di attese, non detti e colpi di
scena che accrescono sempre più il senso di agitazione, avendo poi sempre in
mente la premessa di base, ovvero la scelta che i protagonisti dovranno prima o
poi compiere. Chissà se similmente a The Village questo Bussano
alla porta si affermerà come il miglior film capace di raccontare il
nostro contemporaneo, di certo si rivela un’opera coerente con la produzione
precedente del regista, sia a livello estetico che tematico, offrendo una
convincente evoluzione nella sua ricerca dell’essenza della società attuale.
Attraverso l’allegoria proposta con
questo film, Shyamalan ci invita infatti ad una riflessione sul valore delle
scelte che compiamo ogni giorno, sull’importanza imprescindibile della fede e
dell’amore, ma anche a ripensare il ruolo delle immagini e il loro peso sulla
coscienza umana. Un film estremamente lucido e importante, dunque, al quale si
possono perdonare alcuni passaggi narrativi meno convincenti, e capace
soprattutto di tenere con il fiato sospeso in modo intelligente e spingere lo
spettatore ad una partecipazione attiva (cosa non frequente oramai), dal quale
difficilmente si uscirà delusi. Ancora una volta, dunque, Shyamalan si conferma
un magnifico narratore dei suoi (e nostri) tempi.
…È infatti Bautista che
regge questo thriller di parola, tutto dialoghi, confronti e
tentativi di convincere gli altri, è lui ad impostare il tono terrorizzato ma
anche molto empatico che ha la storia, quel misto di paura per
la fine di tutto ma anche di avvicinamento agli altri e tentativo di trovare
una soluzione insieme senza la violenza: “Quando ho incontrato Dave ho
realizzato che era davvero il personaggio che pensavo potesse interpretare,
così innocente, dolce e fragile anche nei miei confronti. È un uomo da 150 Kg
di muscoli ma non è così che affronta la vita, anzi lo fa come una persona
fragile. Gli ho detto: “Non cambiare. Io dirò azione e lo registreremo!”.
E la grande idea (del romanzo ma poi
ben tradotta nel film) è che ci sia qualcuno di così grosso in quella parte,
qualcuno che associamo alla violenza e di cui temiamo la forza, che anche se
non fa nulla è minaccioso. Quello crea la tensione, che poi è
sempre il punto: “Spesso guardo le proiezioni dei miei film in sala per
controllare che la gente non vada in bagno, perché davvero non dovresti essere
in grado di poterci andare mai!”. Non è infatti la tensione il problema
di Bussano alla porta ma, come spesso è capitato a
Shyamalan, semmai lo è la maniera in cui questa tensione è organizzata in una
trama, gli obiettivi della storia e poi la sua risoluzione. Anche in questo
caso è facile trovarsi un po’ delusi dagli esiti, dopo che per
tutto il film è stato costruita così bene un’aria di grande enfasi e si sono
alzate le poste in gioco.
Shyamalan da sempre
però è così, è un regista a cui importa molto di più come un film fa sentire lo
spettatore che il fatto di avere una trama pulita, coerente e scritta
rispettando tutte le regole. Questo gli ha consentito di creare filmche
dividono e spesso deludenti ma anche di creare ogni volta una tensione
che è solo sua, che tutti riconosciamo e che (caso raro) sa nutrirsi anche di
niente, cioè non esce per forza dalla logica degli eventi ma lui riesce a farla
comparire da sola. Non a caso i suoi film apocalittici preferiti sono La
notte dei morti viventi e Gli uccelli di
Hitchcock in cui non esiste un’origine chiara per gli eventi: “Entrambi quei
film evocano in me la sensazione di cui sono drogato: essere parte di
un evento oscuro e pazzesco di cui ho appena realizzato le implicazioni”.