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Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
martedì 15 luglio 2025
lunedì 14 luglio 2025
Flavia, la monaca musulmana - Gianfranco Mingozzi
ispirato a un fatto storico, Flavia è una ragazza che un padre di merda destina al convento, dove capirà lo schifo che la religione offre ai malcapitati.
quando arrivano i musulmani lei è felice dell'invasione, e sarà l'occasione per vendicarsi.
il film è davvero meritevole di essere cercato e visto, ci sono delle scene durissime, così erano quei tempi.
e Florinda Bolkan è di una bravura straordinaria.
un film da non perdere, provare per credere.
buona (non religiosa) visione - Ismaele
Con un'enfasi particolare sull'emancipazione femminile e
sull'anti-clericalismo, il film di Mingozzi rimane tuttora un prodotto
piuttosto scomodo e provocatorio. Il regista rimane pericolosamente in bilico
tra film d'autore (le lunghe sequenze mute, dal notevole gusto per l'immagine e
per l'allegoria) e cinemabis anni '70 (le numerose sequenze truci e sanguinose);
è supportato da un cast adeguato, guidato dalla brava Bolkan e da un comparto
tecnico di buon livello, specialmente riguardo a musiche e fotografia.
Bizzarro, ma alquanto interessante.
Avvertenza: darò forti spiegazioni sulla trama! Ispirato ad
una figura realmente esistita (così dice qualcuno!) un film estremo ed
impegnato. Mingozzi proviene dal documentario e si vede. La ricerca dei costumi
medievali del luogo è impeccabile. Flavia da piccola è stata salvata da un
saraceno. L'uomo poi è stato ucciso e Flavia cresce con i suoi connazionali che
le spiegano che i saraceni non possono essere nostri amici. Da ragazza viene
costretta (com'era uso per le primogenite) ad entrare in convento dove subisce
umiliazioni a non finire finché non passa con i saraceni che la usano per
invadere Otranto abbandonandola poi al suo destino dimostrando così che gli
uomini sono tutti uguali nel bene ma (sopratutto!) nel male. Tra deliri gore
(impalamenti, scorticazioni, etc.), deliri visivi (una donna nuda infilata
nella pancia di una mucca sanguinante, un affresco della chiesa che si anima
mostrando il volto del saraceno che aveva salvato Flavia e le strizza l'occhio,
etc.) una allegoria su temi quali la condizione della donna nella società
medioevale, il razzismo, i rapporti col Medioriente, le superstizioni, le
crudeltà di potere della Chiesa nel Medioevo, etc. Un'opera cruda e coraggiosa
come non se ne fanno più. Impeccabile e rigorosa nella messa in scena.
Tagliatissimo nei rari passaggi televisivi (l'ultimo dei quali forse una decina
d'anni fa su Odeon Tv). La versione integrale circola forse (così dicono!) solo
in Olanda. Capolavoro assoluto!!!
mingozzi non è l'ultimo arrivato, come sembra quando si parla
del suo film forse più celebre. ha imparato a dririgere da fellini, è stato un
grande documentarista lavorando sul tarantismo con ernesto de martino già negli
anni '60.
questo film non è una commedia priuriginosa di
quelle diffuse in quegli anni, è una pellicola che si prende parecchio sul
serio, e forse questo è il suo limite.
è proprio l'entrata in scena delle tarantolate
nella prima parte del film che ci deve dare la chiave di lettura. de martino
interpreta il tarantismo come una manifestazione di ciò che oggi gli
antropologi chiamano "violenza strutturale". le donne dell'italia del
sud, ancora a metà '900, sono vittime di una serie di violenze che fanno parte
dell'articolazione stessa della società. il tarantismo è semplicemente il
meccanismo socialmente riconosciuto attraverso cui possono esprimetre il
proprio disagio, assume i toni di una liberazione sociale, sessuale e
religiosa. nel film, dove occupano un ruolo marginale e sono quasi introdotte a
forza nella trama, forniscono la monade per l'interpretazione della figura di
flavia, cercando anche un appiglio in una teoria sociale. ad uscirne con le
ossa rotte è la religione come forma di dominio (sempre della donna in questo
caso), il film tecnicamente è curato ma risulta parecchio pesante da digerire
ed anche un po' tronfio. le immagini forti non mancano, ma con i miei gusti
cinematografici sono abituato a ben peggio. molto interessante la scena onirica
sul finale
Molte qualità tecniche: fotografia, interpretazione,
scenografia, musica... ma tutto ciò non basta per farne un buon film. Al di la
della storia, interessante anche questa, quello che non funziona è una sorta di
confusione che viene dalla regia, che non approfondisce mai nulla volendo
toccare tutto, una lentezza che spezza il ritmo e l'interesse. Quello che
emerge chiaramente di certo, è che le religioni, tutte, se usate per scopi non
meramente spirituali, sono crudelmente uguali e la donna è da sempre la vittima.
È già qualcosa.
sabato 12 luglio 2025
Quando il cinema guarda a destra è sempre un po’ astigmatico - Giampiero Frasca
Diciamoci la
verità. Però diciamocela francamente. Non si può dire che il cinema in
Italia sia di sinistra, malgrado le intemerate di Elio Germano all’indirizzo
del ministro Giuli e nonostante dall’altra parte si lamentino sempre che le
conventicole dei comunisti impediscono ai talentuosi giovani attori e registi
che non siano di sinistra (non dicono mai “di destra”, perché
alla fine «pare brutto», come diceva mia zia Silvia) di fare la loro giusta
carriera (qua Morrone. Chi è
Morrone? Non lo so, dev’essere un attore italiano che non lavora per colpa dei
comunisti).
Il cinema
italiano è sembrato di sinistra solo in qualche fase ben
definita. Pareva di sinistra durante il Neorealismo, ma solo perché
qualunque cosa fosse seguita al Ventennio, anche Papa Wojtyla, sarebbe sembrato
comunista (e comunque Rossellini era un cattolico, De Sica un bon
vivant, Visconti un comunista con il Rolex ante-litteram; solo De Santis si
poteva ascrivere alla genìa). È stato davvero di sinistra solo durante
gli anni settanteschi del cinema politico, perché la maggior parte dei
registi protagonisti di quel fertile periodo lo era (Petri, Rosi, Maselli. E
anche Lizzani, nonostante Goffredo Fofi lo considerasse lo stesso un regista di
destra). E lo erano, spesso, anche quelli che il cinema politico lo facevano
sotto mentite spoglie (Pasolini. Monicelli. Scola. E anche Sergio Leone). Ma
non era il cinema italiano a essere comunista: lo era un
terzo della società italiana. Per cui.
Poi, si sa,
e non voglio certo generalizzare, solo rammentare: quello che non era
governo, era cultura; se il governo spettava secondo risultato elettorale
alla Democrazia Cristiana, la cultura fu appaltata alla sinistra, mentre quelli
che ancora, pervicacemente, si rifacevano a fiamme mai del tutto spente, fez e
manganelli, si incaricarono di generare quella sana tensione sociale rompendo
il cazzo un po’ qua e un po’ là, mettendo qualche bombetta stragista con la
complicità dei servizi segreti deviati, nostalgici anche loro. Mica
avevano il tempo per fare cinema. Questo è il perché, in breve. Quindi, non
è che il cinema italiano sia di sinistra, è solo che molti di quelli di
sinistra, storicamente, fanno cinema.
Un giovane figurante missino,
attuale Presidente del Senato, in Sbatti
il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio (1972)
Quelli di destra non sono abituati, è evidente. Le poche volte che ci hanno provato sono state sinceramente imbarazzanti. Il loro campo di competenza è palesemente altrove, anche se la giustizia poi ci mette almeno vent’anni per accertarne i meriti. Sempre che li accerti. Chi ha avuto la sventura di vedere Barbarossa di Renzo Martinelli — quello che più ostinatamente cerca di rileggere la Storia dall’altra prospettiva — ricorda lo stupendo cameo di Umberto Bossi, non il film, accozzaglia di luoghi comuni sull’indomito carattere dei Comuni del Nord già protoleghisti.
E così
arriviamo ad Albatross, uscito in questi giorni. Scritto
e diretto da Giulio Base, anche direttore del Torino Film Festival, che in
questi giorni sta facendo parlare di sé più per l’incarico assegnato alla
moglie, Tiziana Rocca (di cui ci interessa proprio il giusto), che per il suo
film, spalleggiato fin dalla sera della prima da una serie di figuri di chiara
appartenenza. Per raccontare la vicenda misconosciuta (perché cancellata,
direbbero dall’altra parte) del triestino Almerigo Grilz, già
picchiatore fascista del Fronte della Gioventù, poi fondatore di un’agenzia di
reporter (l’Albatross del titolo) per documentare con sprezzo del
pericolo le guerre dimenticate del mondo, fino a trovare la morte in Mozambico
a soli 34 anni, Base si è autoinvestito della funzione di «partigiano
della riconciliazione», come fanno tutti quelli che intendono ammannire un
prodotto dichiaratamente di destra sperando di non farselo distruggere dalle
critiche della parte avversa.
Albatross è un film revisionista caro
all’establishment meloniano, ergo: una gran leccata di culo,
inutile girarci attorno. Lo hanno scritto da ogni parte ma nessuno con la
classe di Marco Giusti su Dagospia,
per cui posso anche esimermi. Perché non è questo che m’interessa. M’interessa
proprio il prodotto film, il modo in cui è stato raccontato, la sua eventuale
qualità artistica, non perché sia ideologicamente discutibile (ancora con ‘sta
ideologia?, direbbe il qualunquista ammantato di retropensieri fascistelli. Sì,
ancora con ‘sta ideologia. Non esiste svolta di Fiuggi che mi farà dimenticare
su quali ceneri maleodoranti è nata questa scentrata Repubblica).
Il problema
di Albatross, ancora prima di essere un film fascista, è
che è un film fiacco. Fiacco, girato con uno stile piacione, illusoriamente
ggiovane, ma irrimediabilmente vecchio, come un settantenne nonostante il
rinfoltimento. In pratica è una fiction RAI (che produce) su grande schermo,
vivacizzata da un montaggio inutilmente convulso durante le
scene di dialogo in interni, del quale non si capisce onestamente la
motivazione, se non la ricerca di una vivacità posticcia. Tutto sembra
artefatto, ricreato in una recita che intende più che altro situare la
memoria invece di rappresentarla nella sua cruda realtà del tempo.
All’inizio del film c’è una scena di conflitto fra frange comuniste e fasciste.
Una scena anche fondamentale, perché spiega il legame che si instaura tra Grilz
e Vito Ferrari, avversario politico salvato dalla generosità del primo e
interpretato, da anziano, da uno sfibrato Giancarlo Giannini. Ma come dare
credito allo scontro, se la messa in scena è così basica (l’aggettivo è
indipendente dal nome del regista) da far affrontare i due sparuti gruppi
vestiti di sapido cliché al grido di «Fascisti carogne tornate nelle fogne» e
«Boia chi molla è il grido di battaglia» branditi come due alternati e
ossessivi refrain? 😲
E il
pestaggio susseguente? Non che per forza si debba sempre fare tutto come Guy
Ritchie, però, che cazzo, un minimo: spintoni visti al ralenti, talmente esili
e disarticolati che li avrei tanto sognati all’inizio degli anni Ottanta,
quando nell’estrema periferia nord della città a vocazione industriale smarrita
scendevano orde di tamarri in Vespa a riempirci di mazzate, una zuffa che manco
tra bambini di prima elementare con le braccia slogate. Non è esigenza
di realismo, è credibilità. Quella stessa credibilità che ambienta una
parte della vicenda in una Trieste che pare avere solo due luoghi, il Molo
Audace e il Monumento ai Caduti, ognuno con una sua valenza attributiva: il
primo è il luogo dell’amicizia, della socialità, il secondo quello dei
sentimenti e dei rimpianti.
Una
scrittura un po’ rigida che certo non è aiutata dai dialoghi. Uno su tutti, il
conflitto verbale tra Vito Ferrari e i camerati nella loro redazione del
giornale, ai limiti dello sfottò da bar, ma magari fosse di Caracas: «È che voi
neri siete brutti. Ma dico brutti brutti, eh, anche solo da vedere». «Ha
parlato Alain Delon» è l’affilatissima risposta offerta a muso duro prima
dell’eventualità di una rissa, doverosa almeno per la qualità delle battute, ma
che, visti i risultati precedenti, non scatterà.
Ma il vero
equivoco è l’autoattribuzione di genere. Albatross sceglie pericolosamente,
molto pericolosamente, un antesignano illustre per dotarsi di una ben precisa
struttura: L’uomo che uccise Liberty Valance. Non
sono rincoglionito, ascoltate. Un sopravvissuto torna in età matura — in treno!
— dove tutto si è originato. Il personaggio cui deve rendere omaggio non c’è
più. C’è una narrazione ufficiale che punta a negare ciò che effettivamente s’è
svolto (a Shinbone John Wayne se lo sono dimenticato; a Trieste negano a Grilz
una targa commemorativa). Racconto à rebours per svelare ciò
che è davvero accaduto. Il sopravvissuto, figura rispettabilissima grazie anche
all’opera del personaggio che non c’è più, desta la memoria dello scomparso e
lo riabilita pubblicamente, per poi tornare da dove è venuto. Dimenticavo: il
sopravvissuto gli fotte anche la donna di cui il Nostro era innamorato. Buum.
Manca la dicotomia progresso-anarchia, ma il resto c’è tutto. È una
storia epica. L’epica di un eroico fotoreporter di guerra osteggiato nel
riconoscimento dei giusti meriti solo per la sua ideologia. Il John Wayne di
Trieste. L’equivalente missino dell’eroismo western. Diosantissimo.
Peccato che
l’impianto si contraddica da solo. La frase simbolo di Liberty Valance era
«When the legend becomes fact, print the legend», ossia, come tutti o quasi
sanno, se la leggenda è più interessante di ciò che realmente è accaduto, fai
riferimento alla leggenda. In modo tale che le narrazioni si basino su un
florilegio immaginifico di fantastiche bugie. È ciò che fece John Ford,
svelando l’inghippo, uccidendo l’epica western e introducendo la fase
crepuscolare, critica e antieroica. Base non uccide l’epica fascista
perché è una cosa che si rimpallano tra loro e «Il Secolo
d’Italia» («ben girato, ben recitato, ben costruito, un piccolo
miracolo di produzione» si leggeva il 30 giugno), ma quantomeno circoscrive
storicamente la già isolata figura di Grilz, ammettendo implicitamente di
averne raccontato la leggenda, la loro versione, parziale e
agiografica, non la realtà.
Sublime autogol,
anche se da quella parte parleranno di fantastica rovesciata.
Ma si sa che di queste cose non ne capiscono davvero un cazzo.
https://www.dissequenze.it/quando-il-cinema-guarda-a-destra-e-sempre-un-po-astigmatico/
Chişinău - Corso Salani
nel quinto episodio ai confini d’Europa Corso Salani accompagna Raluca, giovane regista, in un viaggio dalla Romania in Moldova per fare un piccolo film.
non succedono grandi cose, ma il rapporto fra Corso (operatore di macchina che non vediamo mai, solo lo sentiamo) e Raluca è bellissimo.
buona visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo
Il quinto episodio ai confini d’Europa è una densa
stratificazione semantica sotto un’apparente ed esibita semplicità naif. Salani
pare interessato non tanto alla Moldova e alla sua capitale (che sono descritte
con sguardo curioso) quanto alle problematiche che coinvolgono i media e i
giovani. Non a caso è una diplomanda di regia (e pseudo-regista di questo
docufilm) a fargli da guida, con una complicità intrigante che sfocia in
imbeccate reciproche e discussioni alla moviola. Un film sul gusto di fare un
film, sottilmente insinuante.
Non ho mai amato il cinema del compianto Corso Salani. L'ho
sempre trovato piuttosto autoreferenziale e un po' ossessivo
nell'incollare la mdp addosso alla ragazza di turno (una per ogni nazione
visitata, in pratica). Tuttavia, mi affascina l'opera nel suo complesso: quasi
una enciclopedia dell'Europa più marginale, formata da diari di viaggio al
confine fra documento di realtà quasi aliene ed umile poesia. E forse
il primo passo verso una sua rivalutazione da parte mia potrebbe essere questo
Chisinau, opera che ho apprezzato, tanto per la capacità di evocare uno
scenario quasi surreale per mezzo di carrelli su staccionate verdi e baracche
azzurre o con inquadrature ravvicinate di prodotti alimentari kitsch,
quanto per la testimonianza di una realtà geo-politica paradossale: la Moldova
visitata da Corso e Raduca è una repubblica ancora subalterna allo strapotere
russo, eppure include al suo interno uno stato indipendente fantasma (la
Transnistria), del tutto isolato dal resto del mondo. Si ha una come la
sensazione che i confini geografici non abbiano più senso, perchè ce ne sono
troppi, dappertutto, e che ciascuno di questi confini delimiti
dei "non-luoghi", più che degli Stati. Com'è lontana
l'Europa di Salani rispetto a quella degli atlanti!
Corso Salani viene
chiamato a fare da operatore per il saggio finale in regia di Raluca,
studentessa alla Scuola Rumena di Cinema. Il tema scelto per l’ultimo esame è
la Moldova, il paese confinante con la Romania, e suo vicino povero. Insieme,
Corso e Raluca scopriranno questo stato appartato e sconosciuto. Il loro
viaggio sarà anche l’occasione per andare alla ricerca delle radici di Raluca,
che come molti altri rumeni ha origini moldave.
La posizione
geografica del paese, stretta tra Romania e Ucraina, fa della Moldova una sorta
di stato-cuscinetto tra l’Europa e la Russia post-comunista. Questa condizione
è divenuta emblematica quando nel 1990 la Transnistria dichiarò l’indipendenza
con l’aiuto militare di Mosca. La regione ancora opera come uno stato
indipendente, ma non è riconosciuta da alcuna nazione. L’influenza politica ed
economica dell’ex-Unione Sovietica resta una realtà opprimente per la Moldova.
Quando Raluca intervista dei giovani giornalisti di una radio locale, questi
rivelano che hanno rinunciato alla loro lingua madre a favore del russo, per migliorare
il proprio status sociale.
La piccola troupe
guidata da Salani, consapevole di quanto i media possano essere rivelatori
dello stato di salute di una giovane democrazia, visita la radio di Stato e una
Ong indipendente, attenta alla comunicazione, che cerca di fare i conti con la
mediocre industria cinematografica locale. Negli studi di Promoldova TV viene
intervistata una giovane presentatrice. Corso registra questi ed altri brevi
incontri nelle sue note di viaggio, riflettendo su dettagli sorprendenti e
sostando su interludi di luce. Sembra andare oltre, fare più di quello che la
sua giovane regista gli chiede. Nel loro insieme le sue immagini disegnano il
ritratto di un popolo genuino e schietto, che merita tutto il rispetto per come
affronta la povertà e il flagello dell’emigrazione. Per Corso l’incontro con
Raluca e con questa terra ha il sapore di un’esperienza vissuta molto
intensamente ma, come spesso accade, lo accompagna anche la sensazione che le
cose siano passate troppo in fretta. Il residuo di questa esperienza – come
dice Raluca nella sua ultima lettera – è un senso di gioia per tutto ciò che
hanno conosciuto e fatto, congiunto a un senso di tristezza per ciò che ci si è
lasciati indietro.
giovedì 10 luglio 2025
mercoledì 9 luglio 2025
Bassifondi - Francesco Pividori (Trash Secco)
scritto dai fratelli D'Innocenzo, il film mostra uno spicchio di vita di due senzatetto, Callisto e Romeo, in una Roma sconosciuta.
vivono sotto un ponte sul Tevere e cercano di sopravvivere, senza dimenticare la loro vita è stata (e sarà) anche altro.
faticano per mettere insieme gli spiccetti per mangiare, e quando Romeo sta male, cioè peggio, Callisto fa di tutto per curarlo.
un film su due amici, loro malgrado, che non lascia indifferenti,
da non perdere, promesso.
buona (senzatetto) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, su Raiplay
…L’asciutta
ed essenziale scrittura dei fratelli D’Innocenzo riesce a costruire
sapientemente, a partire dalle parole e dai gesti quotidiani e ripetitivi di
una vita in convivenza, l’imperfetta sintonia che lega questi
due senzatetto talmente diversi tra loro che, messi assieme, non possono non
ricordare una classica coppia di comici alla Stanlio e Ollio o,
meglio, alla Franco e Ciccio.
Eppure di
comico nel film c’è ben poco. Viene utilizzato, a partire
dalla sceneggiatura, ogni possibile strumento per impedire, il più
a lungo possibile, l’immedesimazione o almeno un certo
avvicinamento emotivo e patetico con i personaggi. Lo spettatore si ritrova a
sentirsi quasi in colpa di provare una certa ripugnanza nei
confronti di Romeo e Callisto, ma è esattamente
ciò che Trash Secco ha voluto suscitare. Perché quell’istinto
di distogliere lo sguardo è, in fondo, il germoglio
dell’indifferenza e l’unico modo per contrastarla oggi
sembra essere attraverso l’arte: costringere lo spettatore
a fare i conti col mondo in cui vive, risvegliarlo dal torpore indotto
dalle fantasmatiche illusioni che lo circondano, sbattendogli in faccia tutto
lo schifo in cui è invischiato.
Così
la scenografia e la regia arrivano a dividere nettamente in due Roma,
una divisione in cui, come in Parasite di Bong Joon-Ho, le
differenze a livello architettonico-spaziale delle varie ambientazioni sono
funzionali ad evidenziare una profonda crepa sociale.
La
fotografia illumina gli ambienti, prevalentemente esterni, in cui si muovono i
protagonisti di colori smorti, spenti, acidi.
Quasi come una scia tossica che, proveniente dal degrado della Roma “di sotto”,
segue costantemente i due senzatetto, ovunque essi vadano.
A
sua volta la scrittura è brutalmente cruda e realistica,
specie nei dialoghi. Callisto in particolare utilizza un volgare vocabolario
“di strada” impregnato di omofobia e misoginia che,
oltre a rappresentare un’assoluta novità sul grande schermo, soprattutto oggi
dove la libertà dell’artista si ritrova ingabbiata all’interno dei paletti
imposti dal politicamente corretto e da una censura sempre più pressante,
finisce per distanziare ancor di più lo spettatore.
Addirittura
gli zoom in avanti che portano ai primissimi piani sul volto rigato dalle
lacrime di Romeo, in un procedimento speculare a quello che Kubrick in Barry
Lyndon ha utilizzato per rendere un certo effetto di straniamento,
lasciano lo spettatore assolutamente impassibile. Perché l’occhio di
quest’ultimo, pur seguendo per tutta la durata della pellicola solo ed
esclusivamente i due clochard, è quello alieno e giudicante del
passante.
Non c’è pathos, non c’è drammaticità.
C’è solo indifferenza…
…Bassifondi non consola, non propone soluzioni, non
denuncia con retorica. Semplicemente guarda. E chiede di guardare. È un pugno
nello stomaco, ma anche una carezza, una storia d’amore senza morale. Una
parabola discendente che però ci lascia col cuore pieno. “L’unica cosa che i
protagonisti possiedono sono loro due e la loro relazione morbosa”, per dirla
con le parole di Trash Secco. È abbastanza. Ed è devastante.