…Straordinari per intensità e potenza visiva le riprese dall'alto che
mostrano i tafferugli,così come gli inseguimenti che riportano in auge un certo
cinema poliziesco all'americana.
Il cuore della rivolta sembra dire il regista è in quella
zona oscura del sociale,di un mondo che sopravvive come può,alla base di una
legge e un codice creato dai luoghi e dalle circostanze.
Una teoria che si evince in questo film a metà strada tra la
visione radicale e manichea di Spike Lee e la corruzione della polizia
vista in "TrainingDAY", in mezzo vi è la lettura documentaristica e
cruda de "l'odio" di Kassowitz per un film mirabile nello stile e
nelle congetture sociali.
Il finale è poi sospeso in un limbo aperto e bruciante dove i
vincitori non esistono, quello che conta è che "NON ESISTONO CATTIVI
UOMINI O CATTIVE ERBE,MA SOLO CATTIVI COLTIVATORI" come disse il maestro
Victor Hugo nel suo capolavoro "I miserabili".
…In I Miserabili emergono come detto elementi comuni al
film di Kassovitz, lo sguardo protagonista è l’insieme di tre personaggi, in
questo caso sono tre prototipi di poliziotto, semplificando potremmo indicarli
come il buono, il cattivo e il perfido, in realtà rappresentano la molteplicità
dello sguardo analitico, non serve una divisione giudicante tra bene e male,
una verità mobile tra il bianco e il nero, il regista ci offre una terza via,
una ulteriore possibilità di interpretazione della realtà e nonostante ciò
sembra dirci che neppure questa sarà sufficiente. Perché la complessità dentro
quel mondo è troppo intricata per potere essere risolta o almeno compresa. Allora
il film cerca di rendere essenziale il suo messaggio, ci offre uno strumento
guida: in L’Odio c’era una pistola ritrovata per caso, nelle mani di un
emarginato che non sapeva se usarla, qui c’è una micro card con un video
ripreso da un piccolo drone che denuncia un grave sopruso commesso dalla
polizia. Dunque il potere dell’immagine, la video verità che diventa
testimonianza non più mediabile. È la potenza della visione che riporta l’uomo
alla dimensione pulsionale, più ludica e più crudele, senza niente altro che la
possa spiegare. L’altro elemento di analisi linguistica riguarda proprio la
polizia. Se nel film degli anni novanta si percepiva attraverso la sua azione
quella che è una legittima funzione autoritaria (nonostante già rivelasse la
presenza di agenti violenti irrispettosi di qualsiasi diritto civile) denotava
anche l’esistenza di un mondo-altro di riferimento con il quale la periferia si
confrontava ed ambiva paragonarsi o raggiungere attraverso i suoi feticci
consumistici e sociali. Quello che oggi ci apparirebbe quasi romantico e
sfiorato da un leggero soffio manieristico rispetto a tempi che sembrano
distanti anni luce, qui vengono messi a nudo dall’implacabilità dello sguardo
di Ladj Ly.
in un cupo bianco e nero, in una Danimarca nella quale il nazismo è in salute, Lars, di buona e ricca famiglia, viene attratto dai nazisti, dove trova quello che gli manca a casa, forse.
diventa amico di Jimmy, che lo deve guidare nell'organizzazione.
non troppo difficile diventare nazista, sembra, in Danimarca.
Lars e Jimmy sono bravissimi, e riescono a lasciar tutto e tutti, amore galeotto.
buona (innamorata) visione - Ismaele
…Muchas son las películas que retratan
con más o menos acierto la entrada de un joven en un grupo de extrema derecha,
pero pocas las que centran su mirada en la atracción sexual, y especialmente
afectiva, que pueden llegar a sentir dos miembros de un grupo en el que la
homosexualidad se persigue de una forma tan brutal como lo es el pertenecer a
una raza diferente a la aria. Donato sabe mostrar con acierto el camino que
recorre una persona en principio ajena al nacionalsocialismo hasta que llega a
convertirse en miembro de pleno derecho de un grupo neonazi. Pero la principal
virtud de Brotherhood es dotar de veracidad
una historia de amor que podría haberse quedado en los tópicos homoeróticos que
rodean el universo de los skins…
E’ un cinema fragile quello dell’italo danese Nicolo
Donato, fragile se osservato attraverso il percorso narrativo più
evidente, quello di un racconto didascalico sulla resistenza dello sguardo
ideologico alla frantumazione dell’identità. Sembrano lottare costantemente con
questa instabilità i corpi di Lars, sbattuto fuori dall’esercito per sospette
molestie, e di Jimmy, il neonazista che accoglierà l’ex militare in casa come
allievo per la sua nuova formazione all’interno del partito. Un percorso che li
porterà a collidere fuori dal binario preordinato e che a un certo punto
sostituirà l’osservazione interna di un processo antropologico estremo, come
poteva essere quella di Geoffrey Wright dentro la
società autoctona di Romper Stomper fuori dal bene e
dal male, con un cinema sempre più prossimo ai corpi filmati da un occhio
“morale”. Il confine tra rifiuto e assimilazione o quello tra violenza e
nutrimento sessuale serve a Donato per spostare la percezione sull’idea di
affratellamento in un processo di continua allusione, dallo scontro fisico selvaggio
ai corpi che si sfiorano e si abbracciano durante un Mosh Dancing rituale. E’
una materia suggestiva che nei momenti migliori, come per esempio quello della
punizione esemplare ai danni di Lars, riesce a mantenere molto alto il livello
di ambiguità interiore, raccontando il trauma del riconoscersi come “altro” con
una durezza che vivaddio non lascia spazio alle note a margine; al contrario
risulta meno convincente quando il passaggio all’alterità come modo di
percepire il mondo viene filmato con una tenerezza irreale che ottiene il
risultato opposto, ovvero quello di un racconto a tesi che filma corpi già
freddi, senza farsi mai completamente immagine della trasformazione.
…La forza di Brotherhood è tutta nei
contrasti, quello di toni e di situazioni. La crudezza nelle scene dei pestaggi
e nei discorsi tra i soci del gruppo cozza in maniera prepotente con la poesia
delle scene di seduzione e di dolcezza tra i due protagonisti, volti e sguardi
intrisi di odio e violenza grondanti di sofferenza ma mai di vergogna che sanno
apparire spigolosi e lividi in alcuni momenti e completamente trasformati,
illuminati dai colori caldi della passione nelle scene d'amore girate da Donato
con un'eleganza e una aggraziata voluttà degne dei migliori Gus van Sant e Lars von Trier, quest'ultimo responsabile in parte del film in quanto
'formatore' dell'esordiente Donato presso la Zentropa, casa di produzione
fondata dal regista di Dogville nel 1992 insieme al produttore Peter Jensen.
Straordinari i due attori Thure Lindhardt e David Dencik, coinvolgenti e
commoventi, eccezionali nel conferire ai loro personaggi un realismo e
un'umanità che toccano le corde giuste e arrivano dritti al cuore dello
spettatore, totalmente inerme sotto i colpi di una storia d'amore che graffia
l'anima e lascia l'amaro in bocca.
Cinema verità nudo e crudo, metafora
agghiacciante che evidenzia, mettendola in ridicolo, la violenza cieca di chi
non pensa ma agisce per inerzia, mosso unicamente da becere ideologie che
predicano il ritorno alla razza pura, bianca, che mirano a debellare qualsiasi
focolaio di diversità e di innaturalità. Un barlume di speranza si intravede
nel finale e questo è già un segno positivo. Certo è che non basterà un film a
smuovere le coscienze e probabilmente Brotherhood non verrà
mai neanche distribuito in Italia, ma sarebbe importante in questo momento di
omofobia dilagante dare un segnale forte e consegnare a questo bellissimo film
un premio importante.
opera prima di Pawel Pawlikowski, in una storia piena d'umanità.
regista polacco, in un film della BBC, ambientato in GB.
Tanya e Artiom arrivano a Londra, alla ricerc di un amore impossibile.
i due finiscono in una struttura per migranti richiedenti asilo, quasi una prigione.
la loro fortuna è Alfie, che s'innamora dei due e li protegge, per quanto può.
un film triste, con sorrisi tristi, senza effetti speciali, che non può lasciare indifferenti, se sei ancora in vita.
gioiellino da non perdere.
buona (avventurosa) visione - Ismaele
…Fra Ken
Loach e i Dardenne, ma con un'ambientazione (il litorale desolato e
abbandonato) che ricorda certi film di Garrone (come "L'imbalsamatore"
o "Dogman"), un film ben fatto, semplice e coinvolgente, col merito
di affrontare il tema dell'immigrazione da un'angolazione originale, con
schiettezza e senza particolare retorica. Da ricordare le sequenze in cui Tanya,
lei che in patria faceva l'illustratrice di libri per bambini, si lascia
tentare per disperazione dall'offerta di recitare come modella in video
pornografici per internet, ma anche le scene degli anziani che giocano al
bingo, o quelle del ragazzino che bighellona con gli amici occasionali o che
rivernicia l'appartamento insieme ad Alfie. Evidente l'impronta est-europea del
regista (polacco), anche in un setting britannico. Il titolo ("Ultima
risorsa") fa riferimento proprio al resort di divertimenti dove si svolge
la storia, che naturalmente d'inverno ha un aspetto tutt'altro che turistico o
vacanziero).
Un piccolo film, una piccola storia, ma che drammaticamente arriva a
destinazione riuscendo a non sorpassare certi spiragli sentimentali che
avrebbero compromesso l'esito del film. Recitazione dosata, stati d'animo
accennati, sentimenti e problemi sociali che si incrociano. Una Ragazza con La
Valigia più consapevole e con un'autocritica ben specifica, che sa analizzare
sé stessa e prende il coraggio a piene mani per dare una svolta alla sua vita
futura. Certamente quello che vien fuori dal film sono le situazioni
sentimentali, ma molto importante è il contesto, che senza mai appesantire il
tono riesce a farci entrare nel cuore della situazione ed a renderci un'idea di
quelli che possono essere i problemi che degli sfollati politici possono avere.
Un esordio delicato e che mette in luce la derivazione documentaristica del
regista, che accoppia perfettamente paesaggio e situazione; una regia leggera,
che lascia in campo i comportamenti dei suoi protagonisti come spiati, da cui
vien fuori una storia semplificata, ma che nella sua asciuttezza riesce a fare
breccia.
…It's
intriguing the way Pawlikowski keeps his hand hidden for most of the movie. We
can't guess where things are headed. The movie is not on a standard Hollywood
romantic arc in which the happy ending would be Alfie and Tanya in each other's
arms. That's only one of several possibilities, and economic factors affect
everything. Dina Korzun's performance holds our interest because she bases
every scene on the fact that her character is a stranger in a strange land with
no money and a son to protect. "Last Resort" avoids all temptations
to reduce that to merely the setup for a romantic comedy; it's the permanent
condition of her life.
Some movies abandon their soul by
solving everything with their endings. Life doesn't have endings, only stages.
To pretend a character's problems can be solved is a cheat--in a realistic
film, anyway (comedies, fantasies and formulas are another matter). I like the
way "Last Resort" ends, how it concludes its emotional journey
without pretending the underlying story is over. You walk out of the theater
curiously touched.
Esordio del regista di IDA e COLD
WAR....sull'immigrazioe,crudo....da non perdere.
Il tema e' quello
dell'immigrazione clandestina,molto battuto nel cinema in questi ultimi
anni.Per intenderci : chi ha visto il bellissimo WELCOME questo film e' assai
simile,li l'immigrato era un maschio,qua e' una femmina con il figlioletto
dietro e la zona resta sempre la periferia di Londra o quantomeno la soglia del
paese inglese.Inutile dire che lo consiglio vivamente per mantenere desta
l'attenzione su un tema talmente attuale che lo tocchiamo con mano anche nel
nostro paese.
un film girato in Polonia, da un regista greco, con attori importanti, una storia contorta, e complicata.
ottimo Jim Carrey, ma in altri film è meglio, come pure Charlotte Gainsbourg.
un caso da riaprire, e può farlo solo Jim Carrey, poliziotto integerrimo, che però viene ingannato.
il film arranca, poteva dare di più.
buona (cupa) visione - Ismaele
…Il film
concede a Jim Carrey un solo momento per dimostrare la sua caratura di attore
drammatico con un collasso emotivo nel terzo atto. E comunque arriva
alla scoperta della morte di qualcuno che è apparso solo in una scena
singolarmente breve, lasciando il pubblico incapace di provare una qualche
reazione empatica.
In definitiva,
Dark Crimes illustra quello che accade quando una star sa di aver scelto un
progetto scadente, ma è contrattualmente obbligata a spendere comunque il
minimo sforzo, proprio come fa il resto della pellicola. Costellato di dialoghi
prosaici utili solo a mandare avanti le lancette, questo progetto
che ha coinvolto malauguratamente Jim Carrey chiede in silenzio di porre fine
alle sue sofferenze a ogni battuta. Un sentimento quasi certamente condiviso da
chiunque sia stato così avventato da arrivare fino alla ridicola conclusione.
…Di questo "Dark Crimes",
infatti, ogni svolta è programmatica, ogni smorfia già consumata, ogni epifania
annunciata, ogni dialogo corroso dall'eco di mille simili. Quasi catalogo di
spunti da corso di scrittura creativa, il film di Avranas denuncia sornione la
propria giocosa prevedibilità già nello scherzo della vittima - un depravato
battezzato Sadowski, come si fosse in "Invito a cena con delitto" - e
ammette il ricorso a un armamentario dozzinale di invenzioni per marcare ancor
più, con un ghigno e un ammicco, la sua natura di oggetto-parodia di certo
cinema e certo immaginario. Ed ecco, allora, una Polonia ovviamente sordida
e incolore, un intreccio che lega un erotismo corrotto - e come potrebbe
essere, altrimenti? - a imbarazzi famigliari, uno scrittore arguto e
debosciato, dalla penna felice e la mente turbata, un agente segnato da un
passato torbido, che potrebbe attendere quietamente il congedo e, invece, si
getta in una rete che lo invischia.
Jim Carrey,
occhio inquieto e pelo ispido, tradisce una certa inquietudine morale nei
gesti; Charlotte Gainsbourg si produce nei consueti tic di nervoso erotismo. In
definitiva, nessuno dei due pare aderire più di tanto al personaggio, ma val la
pena domandarsi come altrimenti avrebbe potuto essere, date le premesse.
La regia di
Avranas, dal canto suo, fa collidere questa parodia del thriller/noir cinico e
dissoluto - che ha spesso abitato, con le sue maschere grezze e incarognite,
gli schermi delle occasioni festivaliere - con una messa in scena, al solito,
raggelata, di quadri fissi e geometrie spigolose. Se, però, con "Miss
Violence", il gioco poteva ancora dirsi efficace per l'attitudine del
greco alla produzione di immagini sì shockanti, ma tali da fare attrito
con le consuete forme di rappresentazione e, dunque, capaci di denunciarne
l'irriducibile mediocrità, in "Dark Crimes" esso non viene ad alcuna
epifania, al punto che il marchiano epilogo ci appare come la definitiva beffa
di un cinema condotto sotto il segno del dispetto.
una commedia sul biglietto vincente della lotteria che non si trova più.
la ricerca del biglietto da parte di tre amici è divertente e amara, la Romania, come l'Italia, si affida alla lotteria per vincere nella vita.
un film che ti fa divertire, in certi momenti sembra un film neorealista del dopoguerra.
buona (vincente) visione - Ismaele
…Questa
opera di Paul Negoescu potrebbe essere incasellata, in modo semplicistico, nel
genere commedia di evasione. Non è così perché, sin dall'inizio, nella sequenza
in cui vediamo i tre protagonisti nel bar, ci parla delle condizioni della
Romania passata dalla mancanza di libertà del regime di Ceausescu che in
qualche misura garantiva un minimo di prestazioni sociali a una democrazia in
cui le donne sono costrette ad emigrare (in Italia) e finiscono nelle mani
della mafia, il sospetto sul malaffare regna sovrano e di speranze ne restano
ben poche.
I tre amici divengono i rappresentanti di tre modi di rapportarsi con la
realtà. Uno perde tutti i suoi soldi in scommesse, un altro si illude che ci
siano ancora delle regole da rispettare e il terzo vede complotti ovunque. La
ricerca del biglietto vincente, con l'indagine porta a porta nel condominio in
cui è avvenuto il furto, ci fa scoprire un'umanità che o si lamenta di ciò che
non funziona oppure cerca di arrangiarsi come può con lo spaccio, la
prostituzione e altri mezzi più o meno leciti. Quando il percorso si trasforma
in un on the road altre sfumature vengono aggiunte alla
tavolozza, completando così un quadro non lusinghiero delle condizioni di vita
nella Romania d'oggi. Tutto questo viene però trattato con la giusta dose di
leggerezza che non travalica mai né nel pamphlet né nella gag fine a se stessa.
Da antologia è la scena in cui bisogna decidere quale colore abbia un'auto. Qui
Negoescu dimostra che si può gestire il livello surreale senza perdere di
credibilità.
…Nelle mani di Negoescu
il mood dimesso e malinconico che abbiamo imparato a
conoscere nei tanti capolavori del cinema romeno diventa la chiave di volta per
una comicità che risulta tanto più efficace quanto maggiore è l’understatement con cui i tre amici affrontano le
diverse tappe del viaggio che li vede diretti alla volta dei balordi che
inconsapevolmente gli hanno rubato la possibilità
di cambiare vita e di essere felici. Ciò che colpisce in “2 biglietti della
lotteria” è la maniera con la quale il regista riesce a non essere scontato
all’interno di una trama semplice e lineare: prova ne sia l’andamento narrativo
delle situazioni in cui, volta dopo volta, si ritrovano i protagonisti, quasi
sempre caratterizzate dall’imprevedibilità dell’umanità con cui i nostri
(magnificamente interpretati da Dorian Boguta, Dragos Bucur, Alexandru
Papadopol) si confrontano. Uscito in un numero limitate di sale “2 biglietti
della lotteria”conferma
il buon stato di salute del cinema romeno e, come tale, meriterebbe ben altra
distribuzione.
…Due biglietti della lotteria è un road-movie
in forma di commedia che usa l’espediente narrativo del gioco della lotteria
per raccontare i sogni, le speranze e le difficoltà della vita di persone
comuni nella Romania di oggi. Un Paese fatto di contraddizioni.
Il viaggio viene compiuto da tre personaggi, tra loro amici, che sapranno
sostenersi e compensarsi a vicenda nelle proprie mancanze, arrivando poi a
capire che il viaggio era più importante della destinazione.
Il finale è positivo ma inaspettato, sia per i personaggi che per gli
spettatori. Il messaggio che passa sotto traccia è: “I soldi non
danno la felicità, ma a volte la felicità viene per conto suo”.
Anche in Romania, dove si sogna di vincere alla lotteria e di possedere un’auto
costosa, ma dove in fondo, per essere felici, basta l’amore.
piccolo trattato cinematografico applicato sull'arte dell'omicidio.
omicidio puro e semplice, senza difficoltà e senza un motivo, così, per amore dell'arte dell'omicidio.
un giovane e allucinato Benoît Poelvoorde viene seguito dalla cinepresa, e si festeggia la morte, poi si va al bar a bere, in allegria, anche quando, per sbaglio, viene ammazzato un membro della troupe.
la troupe non solo documenta gli omicidi, a volte (o sempre) è complice.
visto due volte di seguito, merita davvero, questo gioiellino belga.
"Il Cameraman e l'Assassino è un
film atipico. Girato in un anacronistico bianco e nero da tre (aspiranti)
registi, è stato forse il primo mockumentary nel senso attuale del termine ad
arrivare al grande pubblico.
Perché film atipico, allora? Perché Il Cameraman
e l'Assassino sembra rifiutare, fondamentalmente, l'idea alla base del
mockumentary, ovvero quella di "cinema verità". In quest'opera manca
fondamentalmente l'idea di riflettere il reale: è esagerata, esasperata,
grottesca, iperbolica.
Una troupe di tre ragazzi sta realizzando un
documentario che racconti la vita di un killer. Il killer in questione si
chiama Ben che tra una bevuta e l'altra, una poesia e un pranzo in famiglia,
una visita a casa di amici e un incontro di boxe, uccide uomini e donne, vecchi
e bambini per poi rubare il loro denaro. La troupe, che filma tutte le gesta dell'uomo,
si ritroverà a divenire complice dello stesso.
Ben, l'assassino, è un serial killer che vive ammazzando
e rubando i soldi delle sue vittime. Rubare però non è essenzialmente il motivo
per cui uccide: essere un assassino fa parte della sua natura, non più uomo ma
soggetto, che ha motivo di esistere proprio perché viene ripreso. Narcisista, folle e logorroico, Ben si rivela un
fiume in piena di fronte la camera. Un essere spietato e persino affascinante
ma triste nel suo essere "ai margini", un outsider che non vede l'ora
di primeggiare e che trova nella troupe cinematografica un modo per farlo.
Ben non sembra provare veri sentimenti, uccidere
lo rende vivo ed è il proprio modo per auto-affermarsi, lo capiamo soprattutto
quando uccide volontariamente un suo amico sparandogli e poi continua a
mangiare un pezzo di torta come niente fosse, rendendo palpabile il terrore che
provoca nei suoi "seguaci" ma che si mischia con l'ammirazione degli
stessi.
La troupe lo segue. inizialmente lo fa con il
solo scopo di "raccontare" ma, lentamente, viene risucchiata dal
vortice di violenza che l'assassino rappresenta. Se inizialmente il suo scopo è
mostrare la realtà di un serial killer in maniera distaccata, in un secondo
momento diventa parte attiva delle attività di Ben, godendone in maniera
scellerata, arrivando ad aiutarlo prima con il suo silenzio e poi divenendo
parte attiva delle scelleratezze psicotiche dell'uomo. Se Ben è una forza
malvagia ma a tratti primordiale i membri della troupe sono l'umanità che da
quella malvagità si fa attrarre e possedere divenendone riflesso.
In uno dei momenti più belli e interessanti
della pellicola, Ben e la sua troupe si incontra/scontra con una troupe
televisiva. La differenza tra i due gruppi non viene subito
colta dal killer che li definisce "colleghi". Al che Remy, il
regista, spiega la sostanziale differenza tra i due: "noi facciamo
CINEMA". Ecco, è in quella scena o meglio in questa frase che il senso di
un film come Il Cameraman e l'Assassino viene a galla. Il rifiuto del cinema
verità in un finto documentario, la consapevolezza di essere finzione, cinema,
un mezzo che la realtà la rielabora, così diverso dal mass media televisivo che
ha invece la pretesa di riproporla tale e quale. In una frase sola uno dei
capostipiti del mockumentary contemporaneo rifiuta l'idea stessa alla base del
mockumentary contemporaneo negandone l'essenza.
La succitata scena è però anche l'occasione per
rifiutare l'idea di una TV che pretende di raccontare la verità, un atto
denigratorio verso un mass media che spaccia una realtà contraffatta per
verità, senza sporcarsi, osservando di nascosto, dal buco della serratura. Un
confronto impari tra cinema (povero di mezzi) e televisione (ricca e
seducente), con il cinema che uccide il concetto di "spettacolo"
televisivo."
… “Il cameraman e l’assassino” gioca a carte scoperte, Ben sarà anche uno che parla di cinema e di architettura, quindi non
nasconde aspirazioni di cultura alta, ma poi è mosso dai più bassi istinti, quelli che ne fanno puro materiale da cinema perché andiamo, se fosse stato un colto professore impegnato a parlarci di cultura dalla poltrona di casa sua, come pubblico avremmo deciso di seguirlo? Si sa che il male ha un fascino maggiore, infatti Ben sembra saperlo, alla festa di Natale si veste da prete, si ubriaca e parte a sbraitare che è lui il cinema, non lo stanno cacciando
dalla
festa e lui che se ne va, e con lui, se ne va anche il cinema stesso, perché è
luiquello che mette in moto tutti gli eventi.
Che a ben guardare, sarebbe anche la
verità, ma è il fatto che qualcuno continui a riprendere a rendere le sue azioni cinema, quindi quel certo grado di distacco
iniziale con il passare dei minuti scompare. L’apice arriva quando i membri della
troupe diventano complici di Ben, nella terribile scena dello stupro, me la ricordavo tremenda ma mi sono ritrovato ad annodarmi sulla poltrona del cinema Massimo, brrrr!
A quel punto vale tutto, perché la
distanza tra l’assassino,
chi lo riprende e noi spettatori che assistiamo (in parte complici) è stata azzerata, utilizzando un registro grottesco, sempre meno carico di umorismo nero con il passare dei minuti, “C’est arrivé près de chez vous” non finge mai di essere realtà. The Blair witch projectera stato venduto al grande
pubblico come un vero nastro recuperato, found footage appunto,
il film di Rémy Belvaux ad una prima occhiata potrebbe passare per un falso documentario,
quando invece è tutta finzione, che ci chiede di riflettere sul nostro rapporto con la violenza sullo schermo, ma anche su come la realtà viene raccontata.
Proprio come Ben il film è pazzo, selvaggio, violento, volutamente cinico e disgustoso, ma siamo noi spettatori che decidiamo di diventare suoi compliciguardandolo…
…Ciò a
cui mira Ben non sono i delitti diretti alle persone più
facoltose, bensì volti alle più povere. Attaccare la gente comune per
Ben significa non essere catturato dalla polizia, non essere ripreso dai media
e di conseguenza non essere visibile dall’audience televisivo.
L’obiettivo dei reporter, invece, è
raggiungere lo scandalo, il clamore. Essi giocano con
l’orgoglio dell’assassino, spingendolo ad aggredire una famiglia di un
ricco sobborgo della città: il servizio sulla famiglia borghese sterminata nel
soggiorno della loro casa riversa più psicosi nella gente comune che uccidere
un senzatetto.
ll fine dei giornalisti è dunque filmare
ciò che accade davanti ai loro occhi, mettendo in scena il lavoro di Ben
chiedendogli di commettere un crimine ben preciso.
Dove risiede la moralità dei sicari e
dove quella dei giornalisti?
La barbarie in TV
Il fine dei media è pertanto trasmettere
storie squallide, perché sanno che lo spettatore non può fare a meno di
guardare. Provocano la violenza banalizzandola.
Se Quentin Tarantino, per
esempio, a proposito di questo argomento, ribatte da un lato sulla brutalità
nei suoi film che “la violenza nel cinema non è poi così
problematica, è un codice inteso come tale dallo spettatore che sa benissimo
che il mondo in cui si svolge il film è un mondo di finzione“,
dall’altro critica i media per la violenza delle loro
immagini, poiché sono ben radicati nella realtà.
Quando si guardano i telegiornali,
infatti, si sa che le immagini provengono dal mondo
reale e che la veemenzadescritta è reale
e non messa in scena, ciò che è più colpevole agli occhi del regista americano.
Inoltre, guardando ‘Il cameraman e
l’assassino’ salta alla mente “Munich” di Steven
Spielberg, in cui il regista americano ripercorre la vera presa in ostaggio
degli atleti israeliani alle Olimpiadi del 1972 da parte di
terroristi palestinesi.
La cattura dei prigionieri si trasforma
poi in una strage quando i giornalisti, volendo seguire in
diretta l’intervento della polizia per fare audience, rendono un servizio ai
sequestratori che, con l’aiuto di una televisione accesa, riescono a monitorare
l’andamento delle squadre di intervento in tempo reale.
A forza di voler essere spettacolari,
i giornalisti a volte dimenticano le loro responsabilità verso la gente comune
e la deontologia che detta le regole del mestiere.
Ben, la forza del film
Possiamo così considerare che la forza de
‘Il cameraman e l’assassino’ risiede proprio in Ben, il protagonista.
Un uomo dalle molte qualità come il suo profilo culturale e la passione per
l’arte sopracitata, accompagnata da un atteggiamento arrogante e
intollerante.
Azzardiamo. Potremmo dire che in ogni
persona risiede un “Ben”: non siamo tutti assassini o razzisti, ma in
ognuno di noi si nasconde un lato negativo e spiacevole, testimone
dell’eterno dualismo bene-male.
Insomma, se siete curiosi e
non avete visto questo piccolo capolavoro, ‘Il cameraman e
l’assassino’ è da aggiungere velocemente alla vostra lista di pellicole da
scoprire.
Non è un film per tutti: come già
abbiamo accennato è un’opera molto forte, ma se amate il cinema di
genere che adopera un linguaggio audace, è una pellicola che
ricorderete a lungo!
“Questo non è un film sulla violenza. È
un film sull’arte di fare cinema. E il protagonista non è un assassino. È uno a
cui piace parlare davanti alla telecamera.” Con questa efficace sintesi, Rémy
Belvaux, in un’intervista, commentava, insieme ai suoi amici André Bonzel e
Benoît Poelvoorde, l’opera che avevano appena finito di girare: una pellicola
autofinanziata, a bassissimo costo, realizzata da tre studenti di cinema come
una provocatoria sperimentazione sul campo di quanto avevano imparato in un
corso sul documentario. È così, un po’ per scherzo, che il politicamente scorretto diventa una cinica storia
in cui si uccide per divertimento, per distrazione, per abitudine, per
fare scena, per vincere la noia. Un serial killer e
la troupe cinematografica che lo segue in diretta
diventano complici di una serie di omicidi crudeli ed assurdi, vissuti come
bravate, che all’inizio fanno sensazione, ma poi col tempo creano assuefazione,
diventando poco più che una fastidiosa routine. Alla fine,
a tenere vivo lo spettacolo, ormai scontato e ripetitivo, sono soltanto i fiumi
di parole che il protagonista riversa sulle immagini, raccontando di sé, delle
proprie gesta, delle proprie emozioni, anticipando l’eloquenza trash dei reality e
dei talk show. D’altronde, nella moderna società dei mass media, ciò che meno conta sono i fatti: l’occhio
dello spettatore vuole sì vedere, ma non importa cosa, e ciò che accade è, di
per sé, un dato anonimo, perché la verità è una questione di interpretazione,
il bene il risultato di un abbellimento retorico, il male la conseguenza della
denigrazione, la gioia il prodotto di una battuta che gira il tutto in burla.
Questo film rappresenta magistralmente il clamoroso paradosso su cui si fondano
le odierne politiche della comunicazione, che prescrivono di mostrare
tutto, e tutto camuffare, sovrapponendo all’orrido ghigno del mostro il
grottesco belletto di un clown che sorride. Il film, premiato dalla critica al festival di
Cannes, suscitò, però, molte polemiche per la sua crudezza; fu sottoposto ai
tagli della censura e la sua distribuzione venne ostacolata. A metterlo in
ombra contribuì anche la contemporanea uscita di altre due opere altrettanto
“forti”, quali Le iene di Quentin Tarantino
e Benny’s Video di Michael Haneke. Oggi nessuno
parla più de “Il cameraman e
l’assassino”, che corrisponde perfettamente al cliché del film “maledetto”: è stato il primo e
unico film di Rémy Belvaux, che abbandonò il cinema subito dopo averlo
terminato, e morì suicida all’età di 39 anni.