domenica 31 luglio 2016

Jeziorak - Michal Otlowski

Iza è una poliziotta col pancione (come Marge in Fargo), e sta indagando sulla sparizione di due poliziotti, poi scopre altri morti, le danno un aiuto che sembra scarso, invece sarà bravissimo, scopre qualcosa di sé e del mondo marcio.
il film è un'opera prima, ma è già un gran film, peccato non poterlo vedere in sala, ma cercatelo, non ve ve pentirete, il cinema polacco è davvero una continua positiva sorpresa - Ismaele




Poco prima di sospendere temporaneamente la sua attività per partorire dei gemelli e prendere il congedo di maternità, Iza, giovane poliziotta in una città della provincia polacca, si occupa dell’indagine sulla misteriosa morte di una donna. Allo stesso tempo, altri due funzionari del suo ufficio spariscono, senza lasciare tracce. Uno di loro è il compagno di squadra di Iza, oltre che il padre dei figli che devono nascere. Iza, cercando di fare luce sull’omicidio, si immergerà sempre più profondamente in una ricerca della verità su se stessa.
Alla sua uscita nelle sale polacche il 17 ottobre, Waterline ha conquistato la critica secondo cui Michal Otlowski è il regista polacco che è riuscito meglio nel genere del thriller poliziesco. “Sorretto dall’intreccio, il film poliziesco è un genere che lascia molto spazio alla psicologia del personaggio. E credo fermamente che il cinema polacco abbia bisogno di donne forti. Waterline rappresenta una chance per una di loro”, ha spiegato il regista che ha anche scritto la sceneggiatura del film.

…Nel suo dispiegarsi il film del regista polacco accumula tutta una serie di indizi, valanghe di informazioni, che almeno all'inizio creano quasi confusione, persino false piste per poi riannodare lentamente, quasi impercettibilmente i fili, va a scavare nel passato che si ripresenta nelle stesse odiose forme nel presente: in questo intreccio la figura totalmente atipica della detective col pancione diventa essa stessa protagonista della torbida trama, dapprima con il coinvolgimento del marito e poi con il suo personale , intimo, che la porterà a dovere effettuare scelte ardue; soprattutto nella seconda parte del film il ruolo di Ize sembra quasi cambiare i suoi connotati e l'occhio del regista si posa con più decisione sui suoi tormenti interiori, scavando nella storia personale della donna.
Otlowski è bravo nell'ambientare la storia in una impersonale fredda campagna polacca, dominata dai colori lividi che desaturano quasi la pellicola, privilegiando atmosfere tendenti al tetro, per qualcuno addirittura al dark, mantenendo una rigida e appagante coerenza formale; forse è mancato quel guizzo di coraggio e di impudenza in più per regalare qualche sprazzo che facesse gridare veramente di sorpresa, come la sceneggiatura tutto sommato permetteva: è insomma tangibile la sensazione che il regista polacco abbia voluto rimanere fin troppo legato agli schemi classici del thriller piuttosto che sperimentare qualcosa di singolare.
Di fatto però Jeziorak è lavoro bello , ben diretto che si affida molto anche alla singolarità del personaggio (una bravissima Jowita Budnik) e che fa delle atmosfere e degli aspetti oscuri che racconta il suo reale punto di forza.

sabato 30 luglio 2016

Bug (Bug - La Paranoia è contagiosa) – William Friedkin

grandi interpretazioni di Ashley Judd e Michael Shannon, il film del grande William Friedkin ti tiene attaccato allo schermo, inizia come un film qualunque e poi inizia l'incubo.
Peter convince Agnes, lui è così gentile, Agnes non si ricorda di aver incontrato uno così.
e gli crede, lui è così convincente.
parlando di Bug Roger Ebert cita l'interpretazione di Peter Greene in Clean Shaven.
entrambi, Michael Shannon e Peter Greene, sono fuori di testa e assolutamente convincenti.
un gran film, non perdetevelo - Ismaele



Bug - La Paranoia è contagiosa ci restituisce un regista in forma smagliante come raramente si era visto negli ultimi tempi, pronto a sfruttare ogni singolo momento dell’ottimo testo di Tracy Letts (il cui Bug ha circolato per un bel po’ Off Broadway sottoforma di lavoro teatrale) per mettere in scena una vicenda che appartiene più a Cronenberg che all’ultimo Friedkin e che dal primo muta le ossessioni per una (non più tanto nuova) carne irrimediabilmente contagiata mentre dal secondo prende il senso del ritmo e il tono claustrofobico e moraleggiante.
Buona parte del valore è da riconoscere allo script, ricco di dialoghi fin troppo alti e di situazioni al limite, capace di prendere lo spettatore e immergerlo lentamente nel mare di follia che solo inizialmente è di esclusivo appannaggio di Peter che in realtà agisce poi quale catalizzatore in una situazione già feconda, trascinando la già instabile Agnes in una fosca trama di esperimenti militari, insetti sottopelle capaci di trasmettere su frequenze radio e molto altro ancora.
Quel che accade in realtà e un lungo grido in crescendo, un lamento sulla perdita di sicurezza e coesione da parte dell’uomo (e della coppia) contemporaneo, un conflitto lacerante fra il bisogno e la ricerca di una identità propria ben definita, da conservare come nucleo prezioso, e l’esigenza di aprirsi agli altri in cerca di un qualcosa che, se raggiunto, porterà alla perdita del senso di sé.
In Bug la paranoia innesta un circolo di autorafforzamento e degenera ben presto in schizofrenia. O perlomeno così pare, perché quando anche noi cominciamo a vedere gli insetti, in brevi flash semisubliminali, ogni certezza è perduta e continua a indebolirsi man mano che si rafforza nei due protagonisti…

Il cinema del terrore è sicuramente un comparto della settima arte che privilegia la forma, rispetto al contenuto. Dimostrazione, questa, che è sbagliato pensare che il fattore paura sia esclusivamente legato al tasso di sangue o di mistero inserito in una storia. Perché, di per sé, una storia è quasi mai spaventosa. Altrimenti tutti i casi clinici di un ospedale (anche non necessariamente psichiatrico) potrebbero esser letti come racconti dell'orrore. La paura, al cinema come nella letteratura, è frutto dell'attento assemblaggio di diversi frammenti che, selezionati attentamente dalla totalità del materiale narrativo e filtrati attraverso precisi accorgimenti stilistici, svelano (o nascondono) progressivamente la causa originaria. Ed è solo da questo delicato procedimento di pura costruzione formale che derivano il fascino e la tensione. "Probabilmente una storia vera alla Psycho non sarebbe stata per nulla emozionante, solo terribilmente clinica". Lo diceva Hitchcock, il maestro indiscusso della suspance sul grande schermo, il padre del modello antonomastico della paura cinematografica, colui che ha reso il proprio percorso artistico un laboratorio sperimentale di forme, tecniche e illusioni che attraversa tutta la storia della settima arte: dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dal piano sequenza al montaggio forsennato. Ora, si dirà: cosa diamine hanno a che fare tutti questi preamboli con il film in questione? Più di quanto sembra. E per due motivi. Il primo: William Friedkin è, insieme a Brian De Palma, il più dotato discepolo del maestro Hitch, nonché un esperto cultore del suo cinema. Il secondo: "Bug" è, sul solco di "Psycho", un eccellente horror da camera che, grazie alla sua infallibile strutturazione, terrorizza con l'invisibile…

Michael is mad, and Agnes' personality seems to need him to express its own madness. Ashley Judd's final monologue is a sustained cry of nonstop breathless panic, twisted logic and sudden frantic insight that is a kind of behavior very rarely risked in or out of the movies. It may not be Shakespeare, but it's not any easier. 
Shannon, a member of A Red Orchid Theatre in Chicago, delivers his own nonstop rapid-fire monologue of madness; he has a frightening speech that scares the audience but makes perfect sense to Agnes. His focus and concentration compares in some ways to Peter Greene's work in Lodge Kerrigan's frightening "
Clean, Shaven" 
The film is lean, direct, unrelenting. A lot of it takes place in the motel room, which by the end has been turned into an eerie cave lined with aluminum foil, a sort of psychic air raid shelter against government emissions or who knows what else? "They're watching us," Peter says. 

The thing about "Bug" is that we're not scared for ourselves so much as for the characters in the movie. Judd and Shannon bravely cast all restraint aside and allow themselves to be seen as raw, terrified and mad. The core of the film involves how quickly Judd's character falls into sympathy with Shannon's. She seems like a potential paranoid primed to be activated, and yet her transformation never seems hurried and is always convincing…

Bug inizia come un saggio di cinema psicologico e finisce con un crescendo allucinato che sposta il tema della pellicola a una visione fanta-politica degna di Philiph Dick. Se nella prima parte si assiste alla nascita di una storia d’amore (all’incontro di due solitudini) tormentata tra due esseri umani che sembrano non poter fare a meno di cercarsi, nella seconda parte Friedkin fa virare il tono del film verso contenuti paranoici, innestando un vortice delirante che trascina con sé ogni cosa, impedendo di rintracciare coordinate chiare e percepibili. Peter rivela ad Agnes la presenza nelle stanze di insetti, risultato dell’inserimento di sacche di uova nel suo corpo da parte della CIA all’epoca della guerra del Golfo, come sistema di difesa di fronte a minacce batteriologiche. La donna, inizialmente titubante (poiché non vede gli insetti), poco per volta inizia a dare credito alle parole dell’uomo, condividendo con lui l’idea che entrambi siano al centro di una macchinazione internazionale. Fantomatici elicotteri solcano il cielo sopra il motel, e dopo aver isolato la stanza per proteggerla dagli insetti, ai due amanti non resta che darsi la morte con un enorme rogo che spazzi via ogni residua traccia del male che portano con sé…

venerdì 29 luglio 2016

Corazón de León - Marcos Carnevale

León è Guillermo Francella (Pablo Sandoval ne “Il segreto dei suoi occhi”), Ivana è Julieta Diaz (simpatica come Paola Cortellesi, a cui assomiglia molto), il loro dialogo all’inizio, da solo, vale la visione del film.
e poi, naturalmente, anche il resto merita.
magari non è perfetto, ma non importa, è un film che mi è piaciuto molto, e Guillermo Francella è bravo come Ricardo Darín, sembrano due facce dello stesso (bravissimo) attore.
cercatelo, e dopo che lo avrete visto mi direte - Ismaele




Ivana Correjo è un'avvocato esperta di dispute familiari ed è divorziata da Diego Bisoni, collega e socio. Dopo la perdita del suo telefono cellulare, Ivana riceve una chiamata da qualcuno che lo ha ritrovato ed ha intenzione di restituirlo. Colui che la chiama è Leon Godoy, un rinomato architetto con una forte personalità: amichevole, galante, carismatico e, cosa che non guasta, divorziato. I due decidono di darsi appuntamento per il giorno successivo ma, quando vede Leon, Ivana rimane fortemente perplessa. Ha di fronte a sé l'uomo che sarebbe perfetto per lei, ma c'è un problema: Leon è alto poco più di un metro e 35.

…Partiendo del precepto de que es una historia de amor, que además se desarrolla de manera bastante convencional, es imposible que la película no deba recurrir cada cierto rato a clichés obvios. Lo positivo es que los que más sobresalen son limados rápidamente con buen humor, el que a pesar de ser bastante blanco y seguro resulta efectivo por el carisma y encanto de las actuaciones: Guillermo Francella logra resultar adorable y nunca llega a cansar, a pesar de estar siempre sonriendo, y Julieta Díaz se desenvuelve con inmensa naturalidad, siendo su belleza lo único que la delata como actriz, aparte de secundarios bien logrados.
Si la cinta se hubiera quedado en un terreno un poco más complaciente, hasta liviano si se quiere, quizás podría haber sido un hito, pero son sus mismas ambiciones las que le terminan jugando en contra. Esto a causa de que cuando empieza a abrirse y buscar reflexionar con mayor seriedad, recurre a material poco novedoso que además se siente forzado, con diálogos que tienden a sonar a manual de narración. Al mismo tiempo, su carácter de historia pequeña y simple contrasta, brutalmente a ratos, con la banda sonora, que introduce violines y chelos demasiado prominentes y empalagosos en algunas de las escenas románticas.

…Carnevale expone los prejuicios de una sociedad, donde los físicamente menos afortunados deben sacar a relucir otros atributos, para contrarrestar aquello faltante y ser tomados en cuenta. 
A León, Carnevale lo hace como alguien maravilloso, en tantos sentidos, que su atractivo va más allá de su aspecto físico. Lo que, en términos más románticos podría definirse como que, lo a que a él le falta en centímetros, le sobra en conducta y personalidad. Por otro lado, a Ivana la muestra estresada y precisada de un apoyo, que al conseguirlo en una pareja, a nadie le parece que sea él, la elección correcta.
Todo esto llevará a un desenlace, en donde ella deba elegir, entre si hace caso a lo que otros dicen, o si se deja guiar por lo que ella quiere.

Corazón de León es una historia de amor. Con un conflicto visible, claro, inequívoco. Pero también es una metáfora acerca de todos los conflictos que las personas enfrentan al elegir amar. La historia de amor perfecta, amenazada por los prejuicios sociales. Por el no poder luchar contra el afuera que intenta imponer reglas generales. Tiene humor, sí, y podría ser considerada una comedia. Pero Corazón de León tiene mucho de drama también, de película romántica. Y funciona. Funciona cuando quiere hacer reír y funciona, y cómo, cuando llega el momento de la emoción. Si queremos llevarnos una enseñanza, no literal, sino general, acerca de nuestra condición de individuos en una sociedad prejuiciosa que nos puede arruinar la vida, la película ofrece esa enseñanza. No lo tomemos como algo malo, la enseñanza que se desprende podrá ser políticamente correcta, pero sobre todas las cosas es de una gran humanidad. 

mercoledì 27 luglio 2016

Cosa avete fatto a Solange? - Massimo Dallamano

un film che non ti aspetti, nel 1972, dei preti con una faccia sospetta, musiche di Ennio Morricone, sceneggiatura praticamente perfetta, un meccanismo a orologeria, con flashback che non disturbano per niente, in una scuola femminile, a Londra.
attori azzeccati, ragazze brave, il mistero si scopre alla fine, in un film che non sarà stato digerito dalla chiesa e dai democristiani.
Solange parla poco, ma cattura l'attenzione, è, suo malgrado, il centro della storia.
un film da non perdere, abbiate fiducia, vi piacerà molto - Ismaele





Cosa avete fatto a Solange?, invece è una pregevole opera cinematografica dove le capacità narrative e descrittive del regista emergono in modo quasi imbarazzante ma anche il seme da cui germoglierà, troppi anni più tardi, quella serie televisiva ideata da David Lynch, che rivoluzionerà l’intrattenimento televisivo in modo quasi irreversibile: Twin Peaks.La metafora fallica del coltello, materia speculare di tanti revisionisti del cinema horror, è in questo caso fin troppo esplicita, come se Dallamano avesse voluto prendersi gioco di tutti quegli esperti con gli occhi foderati di prosciutto Freudiano.La colonna sonora di Ennio Morricone, nome prestigioso di certo, risulta un lusso sbagliato, con la sua mielosa epicità, stridente con le immagini essenziali scelte dal regista, così prive di quei lirismi di Argento o Leone che tanto giustificavano il romanticismo rarefatto di carillon, soprani femminili e percussioni Bartokiane del grande compositore. Fabio Testi, con la sua barbetta sulfurea e il fisico da atleta, interpreta perfettamente il ruolo dell’insegnante di italiano (creato da autori italiani ma figlio dei pregiudizi esteri): marito fedifrago, erotomane impenitente, fascinoso e aitante nel corpo, ipocrita e vigliacco nella mente.La costante del particolare dimenticato dal testimone, (in questo caso la giovane amante) che nel corso del film, gradualmente, si svela sciogliendo l’enigma, viene rivelato attraverso il sogno ricorrente, in un contesto fantastico, come a voler isolare e sminuire la moda Argentiana per l’onirismo estremo e per un escamotage narrativo in sé per sé venuto a noia ma imposto dalle leggi del mercato e dalla mediocrità di chi fa il cinema per motivi alimentari e non vuol dare al pubblico nulla che non abbia già voluto prima…

Straordinario thriller parargentiano dove si respira morbosa atmosfera di ninfette maliziose, di lolite cresciute troppo in fretta, di aborti, di mammane, di feroci coltellate, di vilipendio vaginale. Anticipando certi temi e alcune venature di Picnic ad Hanging Rock, Dallamano firma un thrilling carnale e sanguigno, dove "fulcianamente" pochi personaggi si salvano (non ultimo Testi con la passione per le ragazzine) e i flashback brillano di una bellezza visiva e narrativa da lasciare senza fiato. Valore aggiunto la fotografia massaccesiana e lo score morriconiano.

La trovata più accattivamente del film sta nella volontà di Dallamano di rendere ogni cosa non ben definita ed incerta: le ragazzine nel film sono delineate sia come vittime sia come carnefici, la vicenda si svolge all’interno di un collegio esclusivamente femminile ma appare subito chiaro che quasi tutte le alunne sono sessualmente attive, il ruolo del prete come educatore morale viene subito demolito dai sospetti che immediatamente si concentrano su una figura che “indossa la tunica nera” tipica dei prelati; e ancora lo stesso protagonista Rossetti viene dipinto a metà tra l’eroe della situazione e un professore interessato solo a corteggiare le ragazzine, mentre al contrario la moglie passa da essere una delle sospettate principali ad essere una delle collaboratrici più vicine all’ispettore Barth per la risoluzione del caso (con Rossetti stesso); infine, tutti i professori, che dovrebbero essere figure morigerate e di esempio per le alunne, sono invece ora donnaioli, ora maniaci guardoni, ora assassini.
Ma il segreto dell’impatto positivo di Cosa avete fatto a Solange? risiede innegabilmente anche nella bellissima fotografia e nella scelta delle ragazze che cadono una dopo l’altra sotto i colpi dell’assassino. Menzione particolare per una giovanissima Camille Keaton che interpreta con disinvoltura il ruolo non facile di Solange: oltre che essere bellissima riesce a conferire al personaggio quella particolare espressione in bilico tra la demenza assoluta e la consapevolezza del trauma subito, al confine tra l’angelica innocenza e la perversa colpa che l’ha conseguentemente portata alla sua condizione di persona a metà, tra la delicatezza estrema dei lineamenti tipici di una ragazzina di sedici anni e l’opprimente peso sul suo volto dei segni della follia che la possiede senza tregua.

È infatti proprio nella sorprendente parte finale che Cosa Avete Fatto a Solange? si solleva nettamente dalla media dei film di quegli anni, nonostante una prima parte senza infamia e senza lode.
Massimo Dallamano infatti ha voglia di stupire e racchiude nel flashback rivelatorio conclusivo, con l’incredibile accompagnamento musicale di Ennio Morricone, una sequenza stilisticamente e contenutisticamente indimenticabile.
E sorprende che una tematica del genere, incredibilmente forte 45 anni fa, risulti ancora così disturbante e attuale al giorno d’oggi. Una nota a margine la merita senz’altro anche l’ottima fotografia di Aristide Massaccesi (Joe d’Amato), in un film sicuramente imperfetto ma potentissimo per il suo tempo e con delle idee visive le cui influenze nel cinema di genere contemporaneo sono riscontrabili da chiunque.



lunedì 18 luglio 2016

I cancelli del cielo (Heaven’s gate) – Michael Cimino

l'ho visto due volte in due giorni, tutto è magnifico, la musica, le immagini, la storia, gli attori.
magari è discontinuo, a volte, ma è una pietra miliare del cinema.
i liberi anni '6o e '70 stavano finendo, quelli della nuova Hollywood, nel 1981 verrà eletto Reagan, come fa un film come Heaven's gate a criticare così apertamente, anzi a smontare, i miti fondanti degli Stati Uniti d'America, paese di grandi banditi, al potere, dove l'accumulazione originaria è costruita sulla pelle di indiani, schiavi e immigrati poveri (come Gangs of New York di Scorsese ricorda nel 2002).
Heaven's gate è famoso per essere la causa del fallimento della United Artists (dicono), per gli incassi bassissimi rispetto al costo, per le stroncature fortissime all'uscita del film, è un film di cui si è parlato molto e che si è visto poco.
Michael Cimino l'ha pagata cara, dopo gli hanno fatto girare pochissimi film, a un geniaccio come lui.
esistono diverse versioni, io ho visto quella da 3 ore e 29' passata per Fuoriorario, sottotitolata in italiano, che si può trovare in rete.
non privatevi di questo film, che è d'amore, d'avventura, d'amicizia, politico, dentro c'è il Cinema - Ismaele






Provoca una certa vertigine emotiva l'apparizione quasi metafisica, all'inizio di Heaven's Gate di Micheal Cimino, del logo bianco in campo nero della United Artists. Un epitaffio. Una pietra tombale. Il canto del cigno di una delle più gloriose case di produzione dell'industria cinematografica americana, figlia dell'unione di intenti di gente come Douglas Fairbanks, Charlie Chaplin e Mary Pickford. Fallita (o fatta fallire) a causa dei numeri esagerati e spropositati legati a questo film.
Film "totale" e non-delimitabile già a partire dal titolo. Larger than life, larger than cinema. 220 ore originarie di girato in chilometri di pellicola, 44 milioni di dollari spesi, 1.5 milioni di dollari incassati, decine e decine di recensioni e commenti disastrosi in tutto il mondo ("il peggior film mai realizzato" secondo qualche dissennato osservatore), centinaia di comparse, gigantesche scenografie maniacalmente smontate e rimontate, almeno 5 versioni del film circolate dal 1980 ad oggi. Una tragedia, un disastro economico di proporzioni immani che spalancò i portoni dell'inferno anche al grande Cimino, da allora ostracizzato da tutte le grandi major hollywoodiane e costretto alla quasi completa inattività.
La fine dell'epoca dei grossi budget al servizio della libertà espressiva più ardita, fiduciosamente riversati da produttori magnificamente scriteriati nelle mani di registi-autori visionari come Coppola, Spielberg, Cimino. Una conclusione. Nel segno della meraviglia e dello stupore. Forse la più grande dichiarazione di fiducia, del tutto smisurata, ingenuamente folle e follemente ingenua (quindi fallimentare), nei confronti delle potenzialità espressive del mezzo cinematografico mai approdata sul grande schermo…

Like The GodfatherHeaven's Gate, now re-released in the director's cut, is deeply influenced in its stately pace and its extended sequences by Luchino Visconti's Marxist masterwork The Leopard and unfolds in three parts. First, a prologue set in 1870 Harvard, where a cheerful, upper-class Jim Averill graduates full of hope in America's post-civil war future but infected by a dangerous complacency. Second, the film's central narrative covers a couple of days in which Jim Averill (Kris Kristofferson), now a grizzled marshal sympathetic to the desperate settlers, views with horror the machinations of the Wyoming Stock Growers' Association.
These business men, representing Wall Street and east coast interests, have prepared a death list of "thieves and outlaws" in Johnson County, a virtual declaration of war against immigrants. Third, a brief coda in 1904 Newport, Rhode Island, sees the middle-aged Averill on his opulent yacht facing the betrayal of American idealism and a future of disillusion…

… This movie is $36 million thrown to the winds. It is the most scandalous cinematic waste I have ever seen…

Ce n’est pas une histoire qu’il nous raconte c’est lui qu’il met à nu. C’est pour cette raison que La Porte du Paradis fait partie de ces films si rares qu’on peut les compter sur ses dix doigts. C’est un cinéma comme on en fait plus: magistral, épique, brut. Un cinéma dans lequel les CGI n’avaient pas encore leur place, un cinéma où, pour représenter une foule, on engageait des milliers de figurants comme le montre l’incroyable scène de bal qui ouvre le film et dans laquelle des milliers de personnes entament une danse frénétique qui va se terminer en foire d’empoigne généralisée et trouver son apothéose lors d’un a cappella intimiste. On peut résumer les 3h36 en cette seule introduction. La maîtrise, la force, la sensibilité, la virtuosité. Tout est là mais on ne le sait pas encore. Place ensuite au western, au vrai, celui fait avec le cœur et les tripes, le western des hommes, pas celui des héros.
Dans l’Ouest de Cimino, un Ouest latin, John Wayne n’existerait même pas en rêve. Dans les premières scènes, un immigrant d’Europe central se fait cruellement abattre par l’homme de main d’un gros propriétaire terrien, un shérif débarque dans une nouvelle ville en pleine ébullition, Cimino démontre parfaitement son approche du western. Une approche qui doit autant à Hawks et Ford qu’à Léone et Sollima. Du western américain il garde le classicisme et le sérieux tout en empruntant l’iconoclasme et le coté baroque du western italien dans une symbiose parfaite de deux mondes à priori antagonistes. Ici, personne n’est ni tout blanc ni complètement pourri, le réalisateur mêle ces deux influences pour créer sa propre vision, sans doute la plus juste, de l’Ouest américain. Pour bien marquer la distanciation il délaisse les rivages désertiques du Rio Grande pour situer son action dans le Wyoming montagneux et verdoyant. Un cadre original qui sied à merveille à son récit. Si Ford a créé le western et si Léone l’a tué en 1968, Cimino lui rend un dernier hommage magistral.
Plus qu’un vrai western, Cimino signe ici l’anti western par excellence. Pour lui l’Amérique est déjà un pays pourri par l’argent, renfermé sur lui même, protectionniste, blanc et dirigé par une poignée de riches propriétaires au dessus des lois. Un pays qui s’invente lui même de nouveaux ennemis pour se sentir plus fort. Une Amérique figée qui était déjà celle qu’elle est aujourd’hui: sans pitié, écrasante et omniprésente, un pays construit sur le massacre et la violence incessante. C’est d’ailleurs ce que va stigmatiser le personnage joué par John Hurt, un homme sorti leader de sa promotion à Harvard devenu un ivrogne abruti par l’argent. Il dira d’ailleurs cette phrase magnifique qui résume 500 ans d’histoire américaine: «cette fois, ce ne sont pas des indiens, vous ne pourrez pas tous les tuer»

Heaven’s Gate parece una película todavía sujeta a los embates del tiempo y sobre la cual resulta difícil entablar un juicio definitivo hasta nuestros días. Vestigio de una práctica extinta de creación cinematográfica, dialoga con el cine de Von Stroheim, con el de Sergio Leone, con Lo que el viento se llevó, con Lawrence de Arabia, con Doctor Zhivago… pero sin duda alguna no lo hace con el cine de los últimos treinta años. Se imprime en la mirada de sus azorados espectadores tardíos como aquellas primitivas obras de las cuevas de Altamira. Habrá que hacerle caso a Cimino cuando se niega a seguir hablando de la película, argumentando que la que mejor puede hablar de sí es ella misma.

Rarement une œuvre cinématographique aura autant peiné à n'exister que pour elle-même. Vouloir s'exprimer sur La Porte du Paradis, c'est se forcer à emprunter des routes qui donnent sur de nombreux chemins de traverse qui eux-mêmes se divisent en sentiers plus ou moins balisés ; c'est évoquer une personnalité hors du commun, se confronter à l'histoire d'un genre, embrasser l'histoire d'une décennie singulière du cinéma américain, faire l'histoire d'une certaine presse critique et se frotter à l'histoire du cinéma. Rien que ça... La Porte du Paradis, un film maudit ? Cette question ne se pose même plus de nos jours ; s'il faut aller chercher des coupables, la tâche sera rude car d'innocents il n'y en a point dans cette histoire. Tout le monde est coupable : de cette culpabilité dont on se délecte avec fierté après avoir commis un geste aussi héroïque et essentiel que fou et inconscient, et de cette culpabilité dont on devrait avoir honte parce qu'elle est liée à un comportement grégaire d'une brutalité sans équivalent - qui n'a d'égal qu'un aveuglement incroyable - ayant conduit à immoler un artiste de premier plan après l'avoir porté aux nues trois ans plus tôt. L'histoire de Michael Cimino et de La Porte du Paradis, c'est la rencontre explosive de Prométhée avec le dieu argent, la problématique jamais élucidée entre les limites hypothétiques de la liberté artistique et les exigences et contraintes de l'industrie du spectacle. C'est donc peu dire que depuis le départ ce film a porté sur ses épaules bien trop de fardeaux pour ne pas sombrer corps et biens sous les coups de boutoir d'un microcosme économique en quête de revanche, d'une critique assassine, de producteurs occupés à sauver ce qui restait d'un glorieux et ancien navire et - hélas et surtout - devant l'indifférence générale d'un public de cinéma intéressé par d'autres horizons à une époque où les spectateurs cherchaient plusieurs formes de consolation après une décennie de fortes remises en question….

...I cancelli del cielo, diretto da Michael Cimino nel 1980 e massacrato dalla United Artists fino a ridurlo dalle originali tre ore e quaranta, sino a poco più di due – determinando contemporaneamente, sia il fallimento della casa di produzione fondata da Chaplin e Griffith, sia la fine prematura della carriera del suo regista – è un’opera-mondo, che sta nella stessa categoria di Novecento o Apocalypse now.
Un film smisurato, dalle ambizioni senza confini, magnificamente diretto e interpretato da quattro attori in stato di grazia: Kris Kristofferson, Christopher Walken, Isabelle Huppert e Jeff Bridges.
Cimino racconta ancora una volta l’America delle piccole comunità, la sfida della frontiera, la lotta di classe tra i potenti latifondisti e contadini ungheresi, arrivati nei grandi spazi del continente alla ricerca del proprio sogno di felicità: un pezzo di terra da coltivare.
Cimino si prende il suo tempo, comincia con il suo protagonista giovane laureato ad Harvard nel 1970, quindi lo trasporta nel Wyoming quasi vent’anni dopo. E’ diventato lo sceriffo di un piccolo villaggio, che l’associazione degli allevatori ha messo sotto tiro. C’è una lista nera di 125 persone ed una taglia su ciascuna di queste. L’esercito resta a guardare, il governatore ed il Presidente sono a fianco del Capitale, come sempre.
Il film, che era stato presentato al Lido in versione integrale nel 1982 e che non si vedeva in versione originale da moltissimi anni, è stato appositamente restaurato dalla Criterion.
Cimino ci riporta così magicamente ad un cinema che non esiste più.
Un cinema di idee e di antieroi, senza effetti e senza maschere, di grande spettacolo e di idee provocatorie e anticonformiste.
Basterebbe la lunga sequenza iniziale con l’arrivo dei laurenandi di corsa alla cerimonia di chiusura dell’anno accademico, che poi prorompe in un valzer, ballato nel cortile sino a sfinirsi, per capire la maestosità del sogno di Cimino…

Il film narra la storia di due amici dai tempi dell'università, che la vita mette contro per i loro ideali, il primo a favore degli immigrati, il secondo contro gli immigrati, e come antagonisti si scontrano per le loro ideologie in contraposizione.
All'america capitalista non è andato giù un film dalla parte dei lavoratori, piuttosto che dalla parte dei prorpietari terrieri.
L'america, che vede se stessa come terra delle opportunità non ha gradito di essere presa per quello che è in realtà, una nazione come un altra, coi suoi pregi e difetti, messi alla berlina da un autore sincero che non aveva paura dell'insuccesso, e coraggiosamente ha realizzato un opera maledetta che solo il tempo ha riconosciuto come un capolavoro assoluto del cinema.
Immenso, unico, lacerante, un film del genere era da pazzi solo a pensarlo, ma a volte fare pazzie è più interessante che fare film come gli altri li vorrebbero vedere.
I Cancelli del Cielo è un film che fa letteralmente a pezzi l'america, e le sue illusioni, come quella del sogno americano, della terra dell'abbondanza e tante altre cose…

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sabato 16 luglio 2016

Smetto quando voglio – Sidney Sibilia

un film che non ti stacchi un momento, all'inizio sembra quasi un documentario, poi il colpo di scena fa decollare il film.
attori divertenti e bravi, sceneggiatura che tiene, ma alla fine l'onnipotenza danna gli studiosi.
non si riesce (quasi) mai a smettere quando sei imbattuto, uno vuole sempre un po' di più.
davvero una bella sorpresa - Ismaele



…quello che rimane impresso dopo la visione sono i dialoghi, che a tratti tolgono il fiato dalle risate, tanto per gli spunti di umorismo surreale (i latinisti benzinai) quanto per l'ironia con cui affondano il coltello nell'assurdità della vita dei ricercatori precari e di riflesso di una generazione (l'amarissimo finale). L'ex-chimico Alberto (Stefano Fresi), in particolare, conquista alla prima scena in cui appare e diverte fino all'ultima. Ci sono delle imperfezioni: a parte lo spunto non proprio originale, un paio di battute sono un po' facili e i personaggi secondari rimangono quasi delle idee di personaggio. Ma complessivamente siamo su livelli che la maggior parte delle sceneggiature di commedie italiane neanche tentano di raggiungere. Il tutto senza nessun elemento televisivo, senza uno stereotipo, senza una scena prevedibile, si veda ad esempio il taglio leggero e inedito con cui viene gestita l'importante sottotrama che ha luogo nella comunità Sinti di Roma. La scelta fondamentale è il rifiuto del conformismo speculare del moralismo e della volgarità, tipico delle commedie italiane. Il film risulta al contrario di una freschezza rara, in cui la critica sociale affilata e non banale e le risate continue convivono con naturalezza.
Smetto quando voglio" è un'opera prima notevole per divertimento, intelligenza e ritmo. Andate a vederlo se volete essere sorpresi da una commedia italiana, o semplicemente se volete passare due ore davvero divertenti. E se siete o siete stati coinvolti nella ricerca universitaria, non perdetelo per nulla al mondo.

…Sydney Sibilia, il regista, è un esordiente, giovane salernitano con in testa il sogno del cinema. Smetto quando voglio oltre ad essere un film che intercetta una condizione sociale diffusa, il precariato d'eccellenza, è anche un tuffo vertiginoso nel cinema contemporaneo di genere, soprattutto americano. Questa strana combinazione, ovvero una storia tipica della commedia italiana, certo rivista ai tempi della crisi, messa in scena come fosse un film hollywoodiano è il suo elemento di originalità.
Per essere all'altezza di questo mandato, ed evitare la figuraccia del "vorrei ma non posso", Smetto quando voglio garantisce sin dalle prime inquadrature aeree su di una Roma notturna, che a momenti sembra la Los Angeles, una qualità rilevante. Parliamo della fotografia (una color correction tipo "flou pop", acida e satura), degli effetti speciali (misurati), della regia fresca, del montaggio ritmato e vivace. C'è inoltre un lavoro piuttosto riuscito sui personaggi, ben caratterizzati, soprattutto quando si pesca nel coro, nella banda, nelle seconde linee…


venerdì 15 luglio 2016

I racconti delle luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari) - Kenji Mizoguchi

un film del 1953 che non finisce di stupire.
violenza, amore, fantasmi, avidità, la vita sotto i nostri occhi.
Genjurō lascia moglie e figlio, Miyagi e Gen’ichi, novello Ulisse, parte per fare soldi, e sarà stregato da una magia, tornerà a casa, distrutto e pentito, tutto (anche lui) sarà cambiato.
la condizione umana è fragile.
non perdetevelo, se vi volete bene - Ismaele



QUI il film completo con sottotitoli in italiano



Bellezza, tristezza ed essenzialità...Mizoguchi è un autore cui basta poco per dire tanto. In questa storia di fantasmi, ma non di paura, l'effetto è garantito dall'atmosfera fatta di pochi elementi scelti egregiamente. La luna pallida d'agosto (che si dice sia quella di ferragosto, straordinariamente bella quando si affaccia nel cielo dopo la pioggia) è perfetta come la vediamo ripresa nel bianco e nero nebbioso di Kazuo Miyagawa, direttore della fotografia che ha illuminato tante opere importantissime. Del resto il bianco e nero si addice al cinema di Mizoguchi, che ha utilizzato il colore solo in un paio di occasioni. In particolare per la coproduzione con gli Shaw Brothers di Hong Kong "L'imperatrice Yang Kwei-Fei" ("Yokihi", 1955), altro film idolatrato da alcuni critici da (ri)scoprire, anche per la curiosità di vedere come ha lavorato Mizoguchi con gli studios che stavano dietro ai lavori di Li Hanxiang, che nei primi anni sessanta ci regalò la sua versione della stessa storia (a proposito, a quando la riscoperta di Li Hanxiang?).
E' stato detto quanto i critici e gli studiosi di cinema siano legati alla figura di Mizoguchi, che nel corso degli anni ha ricevuto moltissimi attestati di stima. Su tutti piace ricordare quella di Serge Daney, che nel suo "Lo sguardo ostinato" si lancia in un entusiastica dichiarazione nei confronti di "Ugetsu", soprattutto per la scelta stilistica di mostrare un certo tremore della macchina da presa nell'immortalare la scena di un omicidio brutale, come a suggerire pudore e riluttanza nel riprendere la morte. Un tocco di finezza da parte di un autore consapevole di come il cinema, prima ancora che una questione estetica, sia una questione morale.

Un’opera quindi imprescindibile per chi ama il  "vero" cinema, da "assaporare" lentamente per lasciarsi davvero travolgere dalle profonde emozioni che suscita oggi quasi più di "allora".
 P.S. Come semplici note di costume, si può aggiungere che il film fu realizzato con grande difficoltà, perchè la produzione non condivideva le idee del regista, e che lo stesso si dichiarò al termine della sua fatica, insoddisfatto del risultato. 
Ancora una volta transitato dalla Mostra del cinema di Venezia, il film si aggiudicò “soltanto” un semplice Leone d’Argento, al termine di una rassegna che – se non vado errato – si rifiutò di assegnare il Leone d’oro (sic!!) per la mancanza di opere effettivamente degne di fregiarsi di tale titolo (c’è da inorridire no? considerato ciò che accade ai giorni nostri).

…A distanza di anni la maestosa perfezione stilistica di Ugetsu mostra forse con maggiore chiarezza la molteplicità semantica di cui è portatore, non solo l'oppressione della donna, non solo le radici violente della società ma una visione articolata della vita umana e delle ambiguità cui il reale si presta agli occhi degli uomini. Così la maestria tecnica della sequenza del ritorno a casa di Genjuro (una panoramica da destra a sinistra a destra in cui l'uomo entra nella sua catapecchia, non trova nessuno ad attenderlo, esce a sinistra per ripetere l'entrata e trovare l'immagine dei suoi desideri: la moglie che prepara la cena) anticipa solo la chiusura che, con un lento movimento a salire dal bimbo sulla tomba della madre, inquadra la vallata con gli uomini al lavoro, in contrasto con la desolazione della medesima immagine che apre il film, evitando ogni semplicistica morale  ed al contempo esaltando la "duplicità dell'essere umano teso tra il mondo fisico e quello spirituale" (Acquarello, Strictly Film School).
…Riconosciuto da subito come uno dei grandi capolavori del cinema, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa (e nello stesso Giappone, nonostante alcune resistenze cui si faceva cenno dianzi), I racconti della luna pallida d’agosto rappresenta ancora oggi una delle visioni irrinunciabili per ogni cinefilo degno di questo nome. Racchiuso all’interno di una regia di rara compostezza formale ed eleganza, mai attirata dal superfluo ma in grado di restituire attraverso limpidi carrelli laterali e piani sequenza – comunque meno elaborati e “lunghi” di altre opere di Mizoguchi – un vero e proprio senso di meraviglia, si cela un racconto morale dolorosissimo, in cui l’avidità e la brama di possesso sono il motore dell’esistenza stessa nonché le responsabili della sua distruzione. Mizoguchi non rinuncia ad alcuni dei punti essenziali della sua poetica espressiva (si prenda ad esempio il modo in cui vengono descritti i personaggi femminili, siano essi demoni tentatori o mogli abbandonate a un destino tutt’altro che rassicurante) e utilizza la macchina da presa non come un mezzo per “riprendere” la vita, ma come un luogo di accesso alla vita ricreata sullo schermo. Non una macchina/occhio, dunque, ma una macchina/soglia, elemento di passaggio che dona la possibilità allo spettatore di entrare e non solo di guardare.
Da questo punto di vista acquistano un valore quintessenziale i due movimenti di macchina che aprono e chiudono il film, panoramiche atte a svelare la “verità” senza mai permettersi stacchi, in un continuum che è il senso stesso, per Mizoguchi, del cinema. In particolar modo il finale, dal ritorno a casa di Genjurō fino alla presa di coscienza sulla vera natura della moglie e al gesto del figlioletto Gen’ichi di porre del cibo sulla tomba della madre, sembra svelare con una naturalezza annichilente il senso del cinema e della narrazione per Mizoguchi: quella macchina da presa che letteralmente svela allo spettatore (e anche a Genjurō) la presenza in casa di Miyagi – o meglio, del suo fantasma – ridando luce e pienezza a un luogo fino a quel momento mostrato come spoglio e inospitale, già morto, produce considerevoli sussulti al cuore a ogni nuova visione…

…The characters in "Ugetsu" are down to earth, and in the case of Tobei, even comic, but the story feels ancient, and indeed draws on the ghost legends of Japanese theater. Unlike ghost stories in the West, Mizoguchi's film does not try to startle or shock; the discovery of the second ghost comes for us as a moment of quiet revelation, and we understand the gentle, forgiving spirit that inspired it.
Nor are Lady Wakasa's seduction techniques graphic; she conquers Genjuro not by being sexy or carnal, but by being distant and unfamiliar. Always completely cloaked, often hidden by veils, she enchants him not by the reality of flesh but by its tantalizing invisible nearness. I was reminded of Murnau's silent masterpiece Sunrise (1928), also about a country man who abandons his wife and child to follow an exotic woman across a lake to the sinful city.
The period detail is accurate and rich. The city marketplace, the headquarters of the samurai, Tobei's visit to a shop to buy armor and a spear, Genjuro's haste when he asks another merchant to watch his prized pots (for he must hurry after Lady Wakasa) -- all of these create a feudal world in which life is hard and escape comes through the silly dreams of men. Women are more cautious, and there is a blunt realism in the sequence where Miyagi, left behind, tries to protect and feed their son as armies loot and rape the countryside. At the end of "Ugetsu," aware we have seen a fable, we also feel curiously as if we have witnessed true lives and fates.

Película que combina hasta sus últimas consecuencias el realismo más cruel de las imágenes sobre la violencia con la serena belleza de los momentos sobrenaturales,Cuentos de la luna pálida culmina, como no podía ser menos, con una secuencia absolutamente magistral que pone de manifiesto, una vez más, la genialidad de la puesta en escena de Mizoguchi: de regreso su poblado, Genjuro entra en su abandonada casa con la vana esperanza de reencontrarse con Miyagi; la cámara recoge al personaje entrando en la casa y le sigue en panorámica a través de la estancia vacía hasta que sale de nuevo al exterior, da la vuelta por fuera y vuelve a entrar para descubrir, en donde antes nadie había, a Miyagi cocinando en la estancia. La secuencia entre Genjuro y el espíritu de Miyagi, bellísima escena de reconciliación y absolución del marido derrotado por parte de la esposa fallecida, seguido del plano final del pequeño Genichi depositando un cuenco de comida sobre la tumba de Miyagi, es el sobrecogedor y bellísimo final de esta obra maestra, una de las más hermosas películas sobre el amor y la muerte de la historia del séptimo arte.

ricordo di Hector Babenco





À propos de Nice - Jean Vigo

martedì 12 luglio 2016

Busker - David Wigram

Unagi (L’anguilla) - Shohei Imamura

film vincitore nel 1997 della Palma d’Oro al festival di Cannes (insieme al film di Abbas Kiarostami “Il sapore della ciliegia”).
una storia di gelosia e amore, di amicizia e di redenzione, senza troppe parole e prediche.
inizia come un thriller, e poi cambia del tutto, comico e tragico.
sorprendente e semplice, apparentemente.
bel film davvero, bravissimi gli attori e Shohei Imamura, naturalmente - Ismaele




…Dal dramma alla commedia.
In mezzo un filo rosso, l'anguilla con cui Yamashita parla e si confida. L'animale, ben trattato col massimo riguardo, è docile e paziente, ascolta con tolleranza e non commenta.
Pesce molto amato dai palati nipponici, è anche simbolo di tenacia nella sofferenza per le incredibili avventure che deve compiere per la riproduzione, paragonabili nel sacrificio solo a quelle del salmone.
E' poi un pesce che si pascia nel fango, un elemento importante. Il fiore del loto che cresce nello stagno melmoso è una metafora molto importante nel Buddismo.
Decisamente da vedere.
Stringere i denti all'inizio, sembra senza senso ed incomprensibile, poi tutte le pedine si posizionano magicamente ed anche alcune scene iniziali diventano divertenti, col senno di poi.

…Unagi is still a fascinating, tightly structured and deftly observed study of loneliness, redemption and gradual healing, one that in spite of the early violence remains one of Imamura's most accessible and enjoyable films. Takuro's eel tank hallucinations aside (one of which briefly echoes a memorable sequence from the previous year's Trainspotting), the handling is resolutely low-key, the largely immobile camera quietly observing Takuro predominantly in wide and mid-shots and rarely in close-up, the traditional cinematic approach to character connection. The film is also well cast and engagingly performed. I have a particular soft spot for veteran actor Satô Makoto's turn as the grizzled Takada and the young boy who practically bellows his appreciation at being given a potato snack, and showing commendable restraint as Takuro is Yakusho Kôji, a now busy performer who really came to prominence in the late 1990s with lead roles in films such as Shall We Dansu? and Kurosawa Kiyoshi's mesmerizing Cure.
Unagi will always have a special place in my heart for being the film that belatedly introduced me to the cinema of Imamura Shôhei. Since then many more of Imamura's films have been made available in the UK through Eureka's Masters of Cinema label and I'm now in a better position to judge the film in relation to the director's previous work. That so many of the earlier films now feel even more exciting and innovative is perhaps unsurprising – Imamura was 70 when he made Unagi – but this is still an entrancing work that shines quietly its performances, its storytelling, its extraordinary opening sequence, and – in its belief that no-one should be denied the possibility of redemption – its gentle humanity. Just spare a thought for Emiko, who although the catalyst for the story, died a violent and unjustified death at her husband's hands for nothing more sinister than having the hots for another man…

Quella descritta ne "L'anguilla" non è nient'altro che la storia di uomo e della sua solitudine. L'uccisione della moglie ha provocato in lui una ferita profonda: continua a soffrire e a vergognarsi di ciò che ha fatto. Per questo motivo preferisce evitare qualsiasi tipo di relazione col prossimo e preferisce parlare con la sua anguilla, l'unica che conosce la sua storia, che riesce ad avvertire il suo dolore. Yamashita assomiglia in questo ad un altro personaggio, Masaki, che, come lui, non riuscendo ad entrare in sintonia con gli altri, cerca di creare un possibile contatto con gli UFO, gli unici che forse riuscirebbero ad accettarlo. Ed è qui che Imamura fa entrare in campo un'altra figura importante, una donna, Keiko, che fisicamente ricorda molto la moglie defunta del protagonista. Quest'ultimo, dopo averla salvata da un tentato suicidio, si ritrova obbligato ad offrirle un lavoro come assistente nel suo negozio ed inizialmente la tratta con particolare freddezza e indifferenza. La pellicola però ci mostra come il loro reciproco amore si evolve lentamente, a fatica, da un lato quello di Keiko, più evidente e speranzoso, dall'altro quello di Yamashita, più lento e sottaciuto…


sabato 9 luglio 2016

Ecstasy of the angels - Kôji Wakamatsu

un quarto di secolo prima del capolavoro "United Red Army", Wakamatsu racconta di rivoluzionari giapponesi, le loro strategie, i loro conflitti, le loro follie.
cellule in contatto fra di loro, ma non sempre, sesso e rigore rivoluzionario, armi e attentati, obiettivi e strategie perdenti.
e però c'è una disperata testardaggine in quei rivoluzionari, con fughe verso l'anarchismo, difficile tenere insieme tutti.
musica ottima, e la voce straordinaria di Junko sono un grande valore aggiunto per il film.
Wakamatsu merita sempre, promesso - Ismaele





The film’s visual style is low-tech expressionism achieved with stark lighting, and static long takes with deep focus for interior scenes, mixed with exterior shots of moving hand held camera. The opening scene at the cabaret which introduces the four characters of the ultra-left paramilitary group the Four Seasons Association, establishes the film’s off-kilter tone. A woman sings on stage while at a table sits a disinterested group of three men and a woman. Wakamatsu cuts from CUs of the singer to high angle establishing shots of the bar, then to a medium shot of the table which is then punctuated by a slow dolly in to one of the seated men. All the signs, especially the repeated slow dolly in shots, suggest the portence of violence. We may even think we are in a Yakuza film, and half expect the quiet to be interrupted by a burst of violence. But nothing happens.
By contrast, in the earlier described setpiece a romantic liason between a couple is interrupted by a knock on the door which leads to an eruption of violence. The rash act of violence conditions the audience to expect the unexpected, and at two other points in the film there is a door knock which causes us unease. The film ends with an interesting montage of the remaining militants turned flat-out anarchists planting bombs all across Tokyo in a last ditch political act of desparation before they are all wiped out by their enemies. The final credit scene runs over a hand held long take following October from behind as he makes his way through a crowded Tokyo street…

dice Wakamatsu
Ecstasy of the Angels, (1972, Tenshi no Kukutsu) racconta le tensioni esistenziali all’interno di una cellula di sinistra impegnata a sabotare le operazioni di rifornimento militare dal Giappone vero il fronte vietnamita. Quando decido di affrontare un tema politico per il grande schermo, lo faccio con la stessa tensione emotiva che cerco di mettere nelle scene di amplesso…

La vorticosa sequenza finale di Ecstasy of the Angels insegue sulle note jazz del Yosuke Yamashita Trio la traiettoria cittadina di un terrorista con una soggettiva nervosa. A volte sembra che la tua macchina da presa non riesca a posare un sguardo stabile sugli scenari urbani.
Certo le città possono essere anche osservate da luoghi statici come la panchina di un parco oppure la sedia di un caffè. In realtà in paesaggi urbani sono sempre spazi transitori: gli spazi all’aperto acquistano una forma definita soltanto quando sono concretamente attraversati con le proprie gambe Non importa che il personaggio della scena a cui ti riferisci stia preparando un attentato. Potrebbe essere anche un bambino che cerca i propri genitori tra la folla, oppure di un impiegato in ritardo a lavoro. Il movimento precario della macchina da presa serve soltanto a simulare la visione concreta di un passante in movimento che taglia la città con il proprio sguardo…

Un gruppo di attivisti anarchici, in nome della lotta personale, entra in conflitto con gli alti gradi del loro movimento anti-istituzionale incominciando una guerra personale contro tutto e tutti.
La cellula è composta da quattro membri (il gruppo di “Ottobre”), ridotta di numero a causa di uno scontro a fuoco, con la perdita della vista del loro capo.
Qualcosa è cambiato nel movimento principale: la moderazione come prima cosa, disciplina e staticità…
ma la cellula in questione non cederà e continuerà la propia lotta personale coi propri mezzi pressoché nulli…