lunedì 31 ottobre 2016

Guai con gli angeli – Ida Lupino

un piccolo film che fa ridere abbastanza, delle ragazzine che sembrano uscite dalla macchina del tempo, viste oggi, come quelle ragazzine degli stessi film degli anni '60 italiani, ragazze in collegio, con o senza suore, in un mondo che sta cambiando, con Ugo Tognazzi, Rita Pavone, Totò.
non aspettarti un capolavoro da Guai con gli angeli, ma qualche sana risata, che non fa mai male, quella sì - Ismaele





Un film leggero leggero tutto al femminile, per ridere e sorridere ma anche per cogliere un accenno garbato ai valori di vita e fede delle comunità religiose. Guai con gli angeli è uno di quei piacevoli intrattenimenti che si vede una volta per caso, da bambini o ragazzi e poi, stampatosi nella memoria, rimane un appuntamento piacevole ad ogni passaggio televisivo (ahimè rarissimo). Ha tutto il piglio della commedia per adolescenti, i toni distesi di una “simpaticheria” ambientata fra le mura, benevolmente austere, di un collegio retto da una preside/madre superiora dal viso severissimo (contesto ideale per un susseguirsi di marachelle ed appunto, i “guai” del titolo). Mary Clancy (alias Kim Novak) e Rachel Devery (alias Fleur De Lis) formano un duo affiatatissimo sin dal viaggio in treno che le condurrà alla loro nuova scuola, l’edificio (addirittura neomedievale) sede del convento di San Francesco. Forse i ragazzi di oggi lo troverebbero di scarso appeal, ma vi assicuro che la formula “collegiale”, (ricordiamo solo l’emblema: L’attimo fuggente, Peter Weir, 1989) un riuscito impasto di complicità studentesca, desiderio di ribellione ed emancipazione, scontro generazionale, risulta efficace anche qui, nonostante l’approccio deliberatamente scherzoso…

Mary e Rachel passano tre anni insieme in un collegio gestito da suore combinando guai in continuazione, poi le loro strade divergono. Commedia fresca e garbata, che si muove con elegante leggerezza in un ambiente religioso: sfiora con delicatezza temi alti, schiva il devozionismo gretto e ha qualche momento toccante; dà un po’ fastidio solo il manicheismo che emerge quando si tratta di fare il confronto con i metodi del collegio laico frequentato in precedenza da Rachel e con lo stile di vita dello zio di Mary. Ma in fondo vuole essere soprattutto la storia dell’amicizia esclusiva fra due ragazzine che maturano insieme e si preparano alla vita; e le loro marachelle, che mezzo secolo fa potevano sembrare gravi, oggi fanno solo sorridere. Rosalind Russell, col passare degli anni, è diventata inopinatamente credibile come madre superiora. Molto carini i titoli di testa animati in stile Pantera Rosa.

mercoledì 26 ottobre 2016

Baraka – Ron Fricke

Ron Fricke è stato direttore della fotografia di Koyaanisqatsi, di Godfrey Reggio, e si vede.
il film è musica e immagine, musica bellissima, come pure le immagini, un giro del mondo stando seduti in salotto.
Ron Fricke non è solo il regista, ma anche l'uomo con la macchina da presa.
qual è il messaggio, se c'è, ognuno se lo trovi da sé, ma intanto guardi questo film, toda joia toda beleza - Ismaele




ecco il film completo:





…Prendendo spunto dall’innovativo Koyaanisqatsi, Fricke elabora l’idea di un cinema che non preveda né l’uso della parola, né tantomeno della recitazione. La sua intenzione non è quella alla Lars Von Trier di creare film documentaristici di ciò che accade nella vita quotidiana nei rapporti interpersonali fra i membri di una comunità, bensì è quello di creare un poema visivo e sonoro che indaghi in maniera evocativa il rapporto fra uomo e natura. Anzi, forse converrebbe dire fra spirito-uomo e spirito-natura, in quanto buona parte delle immagini è dedicata a riti religiosi di varie religioni fra loro molto distanti. Questo non per sostenere la forza della religione, ma per documentare la sacralità del gesto che l’uomo compie durate le funzioni religiose. E’ un tracciare l’ombra dello spirito dell’uomo che sfrutta la materia per mettersi in contatto con lo spirito della natura.
Tutto ciò contrasta e stride con le frenetiche immagini metropolitane che caratterizzano la sezione centrale dell’opera, esattamente come avvenne nella parte centrale di Koyaanisqatsi. Ma sé là il regista finisce con il creare un ibrido di estrema ambizione filosofica, qui è una ben più umile immersione nei diversi ambienti che aiuta Fricke a liberarsi da una certa presunzione in favore di una semplice proposta di stili di vita differenti dal nostro…

…Time-lapse photography can be dismissed as a gimmick, but for me it's something more than that. It's a visual demonstration of how fleeting life is. Of how the decisions that seem momentous on our time scale are flickering instants in the life of the planet, too small to be observed except on the minute scale of human life.
Somehow the technique makes the earth and its inhabitants seem touchingly fragile.
Against this fragility, man has raised the bulwark of religion, and Frick's cameras show us man in the act of worship, from the Pope in St. Paul's to rabbis at the Wailing Wall, from monks in ancient temples to an extraordinary tribe of chanters who lean this way and that in time to their prayer, waving their arms like trees tossed in a storm, led by a man who seems immensely pleased to be in the center of such ecstasy…

BARAKA is the Sufi word for "blessing". In 1992, director Ron Fricke tried to do something that few filmmakers have ever done: produce a movie that generally has no distinct plot, only a series of beautifully filmed sequences set across the globe. Shown in 70mm large-format venues, the film's set of beautiful images combined with the hypnotic score by Michael Stearns could have been sleep-inducing if done wrong, but Fricke has really succeeded due to not only his cinematography, but editing.

Fricke is not only the director, but the cinematographer. Traveling to places that are still wild and not overshadowed by civilization, we are lead into the middle of tribes to watch their daily lives or into the middle of mountainous areas to watch the beauty of the scenery. Many will be frustrated by the film's lack of narration, as many are likely used to the popular IMAX-style of filmmaking that offers a near-consistent discussion of what we're seeing. Fricke's images flow smoothly from one location to another, gradually heading towards busier sequences like one where baby chicks are sorted as they roll down a conveyor belt, looking as if they're not entirely pleased with their current situation. These sequences are intercut with people trying to squeeze themselves into a subway train.

The obvious message behind "Baraka" is not only that we must take care of our planet and that we are all humans; rather than focusing on our differences, we should appreciate each other. The film's lack of narration actually helps; with the film's masterful editing, the images still manage to deliver the message in a delicate and effective way. It's a gorgeous and visually stunning film which will hopefully enjoy a re-release in large-format theaters sometime soon.

Ce n’est pas parce qu’il est « non-verbal » qu’un film ne raconte rien. Ce n’est pas parce que les péripéties classiques ne surviennent jamais qu’il ne se passe rien. Ron Fricke, chef opérateur surdoué, créa avec Baraka une sorte de pont entre le cinéma expérimental contemplatif et un cinéma plus conventionnel. Ce n’est pas pour rien que George Lucas fit appel à ses services pour quelques plans de Star Wars épisode III. Baraka peut même être considéré comme un grand film sur la foi en le cinéma. D’ailleurs, il s’ouvre sur toute une série de plans de croyants. De tous horizons, leur ferveur religieuse dépasse le type de divinité célébrée. Juifs, bouddhistes, animistes, tous, au fil des plans, construisent une seule et même puissance introspective. Baraka parle avant tout de foi : celle en l’Homme, en la nature, en la beauté du quotidien. Le silence est d’or, pas la moindre parole ne sera échangée. Tout juste a-t-on droit au rituel Kecak où le geste et la coordination des chants rappellent le ballet et l’opéra. D’ailleurs, plus qu’un rituel, c’est une histoire de chasse au démon que racontent ces habitants de Java. Si leurs chants nous demeurent incompréhensibles, la puissance crescendo de la traque ne peut échapper à la caméra de Fricke qui fait de cette tradition hindouiste un spectacle merveilleux…
da qui

lunedì 24 ottobre 2016

Io, Daniel Blake - Ken Loach

la Gran Bretagna ha anticipato il Welfare (qui lo racconta Ken Loach), e anche la fine del Welfare
il Welfare inizia come una grande primavera politica, lotte, unione, speranze, sol dell'avvenire, e termina per via burocratica, senza più lotte, in triste solitudine.
nel film due solitudini s'incontrano e nasce una solidarietà.
sono passati i tempi dei diritti, è arrivata l'epoca della carità, mala tempora currunt (si soffre per le pene dei ricchi, come cantano qui Enzo Jannacci e Dario Fo), 
Ken Loach racconta storie di gente in carne e ossa, non teoremi, poi ciascuno decide se fermarsi al caso e commuoversi o pensare anche che quello è un caso fra molti, e che quello è cinema politico (come i film degli altri, d'altronde, solo che non lo dicono), si scelga a piacere.
non perdetevelo - Ismaele







La regia di Ken Loach è eccezionale, perché lo spettatore non la percepisce. Si è dentro alle vite dei protagonisti di Io, Daniel Blake in punta di piedi; si ha l’impressione di essere con loro in ogni momento, in bilico fra il volerne prendere la mano e la paura di disturbare Katie nel lettone che rassicura la figlia Daisy o Daniel, che in silenzio guarda che cosa poter mai vendere dei suoi ricordi di una vita, in attesa che il sussidio arrivi. La delicatezza della macchina da presa del regista britannico si fa spazio nelle anime di questi ultimi d’Occidente senza morbosità, senza rumore. Nessun piagnisteo, nessuna lagna, solo la forza e la dignità di gente perbene che continua a lottare a viso alto per un posto nel mondo, per i propri sacrosanti diritti. Loach non cerca mai lo squallore, non c’è traccia dell’usuale compiacimento nel contemplare “i poveri” che hanno alcuni registi. L’immersione rarefatta e costante che lo spettatore vive grazie a questo film non è mai un pugno nello stomaco, piuttosto è un attivatore di coscienza…

Quando però il messaggio e l’ideologia li nasconde molto bene, come sa fare lui, in microstorie di gente qualunque e ne fa narrazione pura, allora giù il cappello, e massimo rispetto. Io, Daniel Blake è uno dei suoi esemplari racconti di gente sconfitta che però mai deflette, mai si piega, mai rinuncia alla dignità e a quello in cui crede. Sì, i famosi e oggi innominabili valori. Commovente, anche. E ricordo a Cannes i molti kleenex usati, ed erano lacrime di destra e di sinistra perché il vecchio Ken sa come arrivare dritto a cuore e alle viscere di tutti. Vero Io, Daniel Blake è esemplarissimo, troppo esemplare, un film che ci vuole istruire e coinvolgere nella triste sorte di un signore ultracinquantenne che con fatica dopo un infarto cerca di risalire…
Due sconfitti, che tutto subiscono senza però mai perdere la dignità. Perché questo è il miracolo del cinema di Ken Loach. Sarà veteroideologico, sarà un vecchio socialista fuori tempo massimo, ma ha il dono di saper raccontare la gente con rispetto, e di farcela amare. Un tocco che aveva Vittorio De Sica, che hanno Ermanno Olmi e i Dardenne, e pochi, pochissimi altri. Cascan le braccia in certi momenti di Io, Daniel Blake, sbuffi nel vedere come il poveretto sia bersaglio di troppe sfighe, una via l’altra, in una via crucis che sta lì didascalicamente a denunciare la malvagità del capitale. Ma, come di fronte al pensionato Umberto D. che per vergogna manda il cane a chieder l’elemosina con il cappello in bocca, poi ci si commuove e si piange anche per Daniel Blake.
da qui

Ken Loach e Daniel Blake, con cui, se non tutto il suo corpus cinematografico possiamo identificare l’idea di un cinema Ideologico , romantico e fuori dal tempo ( “Datemi un pezzo di terra e vi costruirò una casa, ma non sono nemmeno com’è fatto un computer”  dice Daniel con spirito naif alle insensibili impiegate con la faccia da arpie che gli intimano di seguire procedure on-line) rimangono imperturbabili, rocciosi baluardi di una visione che denuncia come dovrebbero andare le cose invece di provare a comprendere come stanno andando e magari suggerire, anche per contrasto o sottrazione, un ‘alternativa o una scelta differente:  rimaniamo nella dicotomia tra burocrati dotati in gran misura di anonima e indifferente crudeltà e martiri del proletariato con cui simpatizzare, visto che qui c’è pure una madre sola con due figli piccoli che vive in una catapecchia, ruba gli assorbenti al supermarket e si prostituisce per comprare cibo e vestiario alla sua prole, e nell’immancabile picco melo’ si prende il monito, pur compassionevole, di Daniel che si finge un cliente per dissuaderla e restituirle la dignità perduta di donna e di genitore.
Detto questo, non si riesce a provare un reale fastidio davanti a Daniel/Ken , sarà pure per la scelta molto azzeccata della faccia sbarazzina e furbetta di Dave Johns, non a caso un  comico inglese, che, a parte forse nel crescendo finale, evita il rischio del patetico o del ruffiano, puntando maggiormente su un’umanissima e calda empatia.
E si esce dal cinema colmi di tenerezza  e anche gratitudine , di uno sguardo e di un sorriso per tanta nobiltà d’animo, prima di immergersi nuovamente in una realtà frammentata e disgregante, dove si fa molta più fatica a pronunciare quella parola: IO.

Ma I, Daniel Blake riesce pure a farci ridere, le battute sono pungenti, sarcastiche, perfette e ci fanno riprendere fiato dopo scene in cui anche solo uno sguardo, o un gesto, è in grado di metterci a disagio. Perché la nuova fatica del cineasta britannico è un meraviglioso calcio nello stomaco che manda in lacrime tutti, indistintamente dalla nazionalità e dalle storie alle spalle. Impossibile rimanere insensibili difronte a una persona (un magnifico Dave Johns) che fotogramma dopo fotogramma è destinata all’elisione; impossibile non rendersi conto che la società in cui viviamo sta subendo una involuzione e accetta con disinvoltura la propria disumanizzazione in nome di un fantomatico “progresso”; impossibile non notare che sullo schermo ci sono persone non troppo diverse dai nostri vicini di casa, ci sono i figli della crisi economica degli ultimi anni, c’è il nostro scricchiolante e sempre più imperfetto mondo che va a rotoli.

Loach acentúa la gravedad de la ausencia de respuestas colectivas y organizadas de los trabajadores frente a la avalancha de injusticias lacerantes de la que somos testigos a diario por un régimen despótico. El director no busca que empaticemos con sus personajes, sino que nos apiademos de ellos, que simpaticemos con su causa y volvamos a unirnos, como hemos demostrado que podemos hacerlo, para vencer a las grandes adversidades de nuestros tiempos. Se trata de recuperar los derechos sociales y laborales básicos, conseguidos a lo largo de décadas de lucha y decenas de víctimas, mártires como los de Chicago a los que hoy sólo recordamos por tener un día festivo más en el calendario. Es imprescindible que se elimine el estigma del profeta solitario, del personaje aislado en busca de un fin perdido; debemos evitar reír las gracias a quienes llaman a este tipo de historias batallitas de viejo senil, o a quienes disfrazan de caricaturesco Don Quijote a personas que se dejan la piel por una buena causa general, porque haciendo esto, Ken Loach nos dice que estamos dando la razón al que sólo busca el beneficio individualizado, la privatización y la supresión de la clase media. Este filme está destinado al público desligado del problema, aquél que tiene la última palabra y puede poner voz a los verdaderos héroes. Héroes que ni tan siquiera se han enterado de que aparecen en una película, porque ellos no van al cine. Así que volvamos al término inicial, el de resistencia, para mantenernos unidos en una oposición ética y política que nos lleve a una colectividad capaz de construir una defensa eficaz frente al avance neoliberal. La perseverancia y la tenacidad de este director por encontrar justicia para el pueblo sólo podía quedar recompensada con tres palabras: Palma de Oro.

…anche con Io, Daniel Blake il cinema di Loach fa meno danni di altri autori. Ma non significa che non ne faccia. La colpa maggiore è avere privato Daniel Blake di quello spirito autenticamente ribelle di Il mio amico Eric e soprattutto La parte degli angeli. Che si vede solo in uno slancio, la scritta sul muro con lo spray. L’unico sussulto di una disperazione che diventa visione-spettacolo. Quello di un cinema politico che cerca il suo pubblico per essere applaudito. Il cineasta mostra la rivolta solo come un teorema (come spesso ha fatto nei suoi film). Le pietre hanno al momento smesso di piovere e gli angeli non volano più.

Ken Loach et son scénariste, Paul Laverty, ont déjà été plus (et mieux) inspirés. Plus fins aussi. Au film de son développement, le film perd inexorabement sa propre énergie. Pourtant le cinéaste nous fond d’emblée au désarroi de son protagoniste avec une note d’humour délectable. D’abord au centre de son attention, le combat de Daniel Blake est ensuite parasité par celui de Rachel nous donnant l’impression que le réalisateur mélange sans y parvenir deux lignes narratives et autant de points de vue. Les réalités de Daniel et de Rachel se répondent-elles en miroir que leur rencontre, aussi humaine soit-elle, semble réécrite au fil d’un montage dont la temporalité est trouble. La démonstration pêche par son caractère didatique et épuise autant qu’elle s’épuise, malgré l’interprétation vérisimilaire d’un casting séduisant.



in inglese:


sabato 22 ottobre 2016

The Lesson - Scuola di vita (Urok) - Kristina Grozeva, Petar Valchanov

inizia in classe e finisce in classe, in mezzo succedono cose terribili, in Bulgaria.
Nadhzeda è una professoressa d'inglese in una scuola di un paesetto di campagna e deve combattere per insegnare l'inglese (e altre cosette come l'onestà ai suoi giovani studenti, e studentesse).
i casi della vita, un marito non proprio perfetto, il capitalismo rampante, bancomat asciutti, strozzini di merda, come dappertutto, trasformano un film normale in un pericolosa discesa verso l'abisso, quasi in  un film dell'orrore, con sorpresa finale.
la protagonista, Margita Gosheva, è bravissima.
nessuno si pentirà di averlo visto, promesso - Ismaele





…“La lección” posee una estructura argumental y un ritmo magistrales. El orden de los acontecimientos está minuciosamente articulado. La primera escena expone la moral social de la protagonista en su máxima expresión: han robado la cartera de una alumna suya y trata de averiguar quién ha sido el ladrón. Esa pequeña historia, que abre y cierra la película, sirve para trazar la evolución del personaje principal y al mismo tiempo para darle un sentido completo a “La lección”. La trama principal consiste en la búsqueda de dinero para poder pagar las deudas con el banco; de lo contrario perderá su casa, donde vive con su marido y su hija. Esa búsqueda se convierte en frenética ya que Nadhzeda tiene que encontrar, prácticamente céntimo a céntimo y en un corto periodo de tiempo (tres días) , la cifra que le librará de la subasta de su casa. Hay un momento de la película donde la angustia que siente el personaje se transmite a las mil maravillas al espectador, debido a las barreras que tiene que ir sorteando el personaje y también, en mayor medida, a la impotencia y a la desesperación que produce su firme rigidez moral…

La lección es un drama social que se desarrolla a contrarreloj, siguiendo el esquema narrativo y el ritmo de thriller, de películas como La mujer del chatarrero, La muerte del señor Lazarescu, Dos días, una noche, o de la también moderna y fundacional Cleo de 5 a 7 (Agnès Varda, 1962), y en la que el estilo se adapta a la transpiración de Nade a través de la cámara al hombro, los planos cortos y un enfoque selectivo que aísla al personaje del entorno, y también al espectador, y que luce especialmente en los planos que se desarrollan dentro de la escuela, toda vez que en el exterior predomina esa atmósfera de colores fríos e iluminación difusa pergeñada por el director de foto Krum Rodríguez (DoP de Viktoria, otra de las películas representativas del nuevo cine búlgaro).
Aunque rehúye del psicologismo y apuesta más por la fisicidad, no es La lección una película autista en lo circunstancial. En la peripecia de Nade por salvaguardar la precaria morada en la que habitan ella y su familia late una profunda crítica a la política neoliberal, a esa Europa de dos velocidades en la que se impone la sobreexplotación, el pluriempleo, lo especulativo y la corrupción. Personajes como el del evasivo editor, el lujurioso y acomodado padre o el del usurero y extorsionista dan fe de ello. Con hallazgos sorprendentes y algún que otro giro precipitado también, el guión sigue a Nade en su atribulado descenso a las cloacas morales de ese universo familiar y social. Más que la supervivencia de su núcleo más próximo, entra en juego su orgullo y honestidad, por la misma razón que Nade se niega a dar su brazo a torcer hasta descubrir al ladrón de la clase, y poderle dar así una lección…

. Es una cinta severa que busca incomodar al público, sin edulcorar la aflicción ni la ternura de una madre que intenta salvar a su hija de la miseria. No es cine para el esparcimiento (aunque hay una tensión y una intriga nada desdeñables); pero tampoco es el de la desventura gratuita. Sin duda, una oportunidad de oro para acercarse al (castigado) cine de la sombría vertiente levantina del viejo continente en general y al búlgaro en particular, que desde 2010 ha visto reducido el apoyo del gobierno a siete largometrajes por ejercicio.

…Se a tratti il modello sembra essere un “cinéma vérité” alla maniera dei fratelli Dardenne, l’applicazione di simili schemi concede troppo all’ulteriore drammatizzazione di un quadro già piuttosto problematico, poco all’esplorazione più coerente dei meccanismi che hanno creato tale problema. Intendiamoci, la ricerca disperata di quel denaro che per Nadežda, la protagonista, vuol dire esattamente questo, risolvere i problemi con la banca e salvare la propria casa, possiede di suo una suspance che tiene sulle corde lo spettatore fino alla fine. Ma questo bonus emozionale viene giocato in malo modo. Contrariamente ai personaggi di certo cinema francese politicamente impegnato (mettiamoci pure l’eccelso Guédiguian, a questo punto), la nostra Nadežda non appare del tutto con le spalle al muro. Il suo rifiutare un aiuto economico da figure che la potrebbero sostenere, ma che lei critica sul piano della condotta personale, morale (essenzialmente il padre, messosi con una donna molto più giovane), falsa e non di poco il discorso, lasciando che certi dialoghi famigliari scadano al livello di un’insulsa sit-com. Davvero un peccato. Perché procedendo in questo modo il film mantiene viva una certa curiosità per l’esito finale della vicenda, ma riduce notevolmente il livello dell’empatia, nei confronti di una protagonista le cui decisioni da un certo punto in poi possono apparire eccessivamente brusche, nonché evitabili e in fin dei conti poco motivate.

mercoledì 19 ottobre 2016

Kreuzweg (Kreuzweg – Le stazioni della fede) – Dietrich Brüggemann

mi è venuto in mente Camino, in tutte le recensioni su Kreuzweg si citano diversi film, mai Camino, o l'ho visto solo io, o il legame fra i due film non esiste; credo che l'abbiamo visto davvero in pochi.
Kreuzweg è un film coraggioso, e rigoroso.
non c'è niente da ridere, in un film e in una religione che richiede sacrifici umani, di bambini, tra l'altro.
Maria è una ragazzina ostaggio di convinzioni del suo ambiente, famiglia e chiesa, il diavolo è fra noi, molta musica è diabolica, non si parla con i compagni, siamo soldati di Cristo, senza se e senza ma, con la pesantezza di un carro armato, magari anche la bicicletta è un'arma del diavolo.
se questo film non ti colpisce, o sei lefevriano, o ti sei addormentato, o sei morto.
meno male che quel dio della bibbia non esiste, esiste chi crede, e che di questa credenza fa business, di soldi e di anime.
buona visione - Ismaele








Il rigore della regia è assoluto e convincente, Brüggemann sa quel che vuole e si rivela regista di alto valore, perché ogni regia dovrebbe esser mossa da una scelta e dalla coerenza nell’applicarla e queste sono qualità molto rare. A tratti fa pensare a Bresson e ai nordici più “protestanti”. Sa costruire una storia quasi per atti unici drammaturgicamente autosufficienti, e ciascuno di un’intensità e di una pregnanza inusitate, ha un’idea di cinema non compiacente che invita insieme più alla riflessione che all’identificazione. Sa comunicare allo spettatore la tensione intima di Maria, che è spirituale più che sociale o culturale. Ma, come in un bel film di qualche anno fa, Lourdes dell’austriaca Jessica Hausner, Kreuzweg termina con il dubbio, nella giusta esigenza di rispettare chi ha la fede: è certo che Maria muore perché vittima di un’educazione intransigente e crudele (il giovane prete e sua madre sono figure antipatiche, anzi odiose), ma nel momento in cui muore il fratellino parla. Il suo sacrificio ha prodotto un miracolo? Si resta nel dubbio, e gli autori non scelgono fino in fondo la loro parte…

Il cinema ci ha raccontato molto spesso percorsi di santità laica, cioè donne (meno di frequente uomini) che senza alcun interesse o spunto religioso decidono di intraprendere un percorso faticoso, immolandosi in maniere non diverse da quelle tipiche dei martiri poi diventati santi, in una sorta di purificazione laica del proprio animo che è sempre contigua in maniera interessante a quella religiosa. Dietrich Brüggemann compie il percorso opposto e mostra apertamente quel brandello di vita della protagonista di cui si occupa il film come un vero e proprio percorso di santificazione religioso, con l'obiettivo dichiarato fin dalla caratterizzazione bigotta della famiglia di smontare tutto questo, salvo poi tirare un ultimo beffardo calcio nel finale.
Station of the cross non lascia nulla intentato e sembra voler spiazzare lo spettatore ad ogni svolta (o ad ogni stazione) e, mentre lo conduce su un percorso di deduzione dei valori in campo abbastanza semplice (lo capiamo immediatamente, fin dalla prima stazione, chi è la vittima, chi il carnefice e chi l'aiutante), non rinuncia ad instillare dubbi e complicare la questione. Perchè se qualcosa ci dice sul cinema questo film colmo di insofferenza per la religione, è che esso non deve essere come la fede, non deve vivere di dogmi e non deve convincere nessuno delle proprie tesi; il regista non è un prete che evangelizza le proprie tesi ma un uomo che racconta storie con l'obiettivo di mettere in crisi (quindi far riflettere lo spettatore)…

…Deviata da un’educazione bigotta cattolica la bambina al centro della storia desidera essere rigorosa, ha interiorizzato i precetti e li vuole eseguire alla lettera per aiutare il fratello malato. Tutta la forza d iKreuzweg sta nella maniera minimale, controllata e molto precisa con la quale la situazione sfugge sempre più di mano.
Se vi siete mai chiesti a cosa serva e che radici o motivazioni abbia lo stile rarefatto e lento del cinema più autoriale Kreuzweg è la risposta. Controllando tutto Bruggeman realizza effettivamente dei quadri, delle immagini in cui la composizione è al limite della perfezione tra estetica e funzionalità, tra montaggio interno (l’entrata e uscita dei protagonisti e il loro movimento nell’inquadratura) e scelte visive. Il tono dimesso della recitazione e il ritmo frenato sono la maniera migliore per entrare in una storia che è difficile da comprendere e frustrante da seguire. Quello raccontato infatti è un martirio che una persona infligge a se stessa per instradarsi su un impossibile percorso di santità ma Bruggeman lo fa senza un odio eccessivo o un punto di vista di condanna per la religione (tanto che inserisce anche personaggi dal credo più morbido)…

Kreuzweg – Le stazioni della fede è un film dove il “credere” che fonda ogni religione e ideologia genera uomini-mostri, i quali, convinti di intraprendere la più retta delle vie, in realtà la smarriscono irrimediabilmente fino a toccare l’esatto opposto della fede più sentita.
Ma non solo. Kreuzweg – Le stazioni della fede ci interroga anche su come nasce un santo, su chi può essere considerato tale e chi no. È santo colui che sacrifica la propria vita anche se Dio non gliel’ha chiesto? È santo chi, pensando di fare il volere di Dio, in realtà sta solo facendo il proprio, verso una liberazione che non è salvezza? Ecco quindi che il fondamentalismo, invece di innalzare, conduce al peccato, la fede non libera ma incatena, succubi di un Dio che non è più Padre ma Padre padrone.

Ovvio che Kreuzweg – Le stazioni della fede è un film completamento permeato da uno spirito anticlericale, ma il trattamento della questione non è mai solamente accusatorio, e, nonostante il funesto esito della vicenda, che non sveliamo, non sono pochi i dubbi che sorgono nello spettatore, che, se non viene mosso da un semplicistico spirito laico-progressista, è convocato a fare i conti con degli argomenti su cui non può non tornare ad interrogarsi, perché se è vero che non ci può immolare a un Dio fantasmatico e spesso assente, altrettanto disdicevole è smarrirsi nella vacua fluidità della società liquida contemporanea, inseguendo gli spettri degli ultimi scampoli di benessere rimasti. Un film in controtendenza dunque, che, pur denunciando l’eccesso religioso di una comunità, stimola non poche riflessioni su come interpretare i nostri tempi, privati di quella inesauribile riserva di senso che certe pratiche, pur erroneamente, paiono ripristinare, fornendo un illusorio barlume di speranza a chi brancola da tempo nel buio. Nel panorama dell’offerta cinematografica attuale, dunque, questo film si distingue, diciamolo pure, come un raggio di sole nell’oscurità, e di questa preziosa opportunità bisogna dare merito al distributore, Satine Film, che sta portando avanti una politica culturale davvero degna di lode. Caldamente consigliata, ovviamente, la visione…

Lo straordinario di questo film è che prende sul serio Maria e la sua aspirazione a un personale calvario, non la liquida trivialmente come una matta da legare, ce la racconta sospendendo ogni giudizio e standole invece vicino e facendocela amare. E anche se il regista (pure autore della sceneggiatura insieme alla sorella Anna, che pare abbia sperimentato un’educazione simile) ci mostra la durezza iper rigorista del contesto familiare e soprattutto della madre, si astiene da ogni rozza polemica antireligiosa…

…La fissità della narrazione  rimanda alla fissità della morte. Pochi i movimenti dei personaggi all’interno dei quattordici quadri. Esternamente la macchina da presa si muove la prima volta dopo un’ora e tredici minuti. Eppure l’intensità drammatica aumenta ad ogni pagina che si gira e ad ogni quadro che si esaurisce. Cresce un po’ alla volta la “pietas” del regista e dello spettatore verso questa quattordicenne indifesa, che, in preparazione alla Cresima, decide di “immolare” la sua vita per raggiungere Nostro Signore in paradiso.
Quello che è davvero inquietante in questo film è che la causa della morte è la fede cattolica. Una fede ossessionata dal peccato e dal demonio, implacabile verso i sentimenti, insensibile alle fragilità, senza nessuna misericordia, votata al sacrificio e all’autopunizione. Questa Chiesa è una specie di sètta giansenista,  anoressica all’amore e alla vita, che odia la musica moderna come fosse il diavolo.
Dietrich Brüggemann traccia il ritratto di una Chiesa cattolica che non esiste più, se non nella sua mente. Tira fuori della soffitta una Chiesa incartapecorita e arteriosclerotica, che non ha riscontro nella realtà di oggi. Una Chiesa che vive la sindrome dell’accerchiamento e che continua ad adoperare la lingua latina come una barriera contro le ondate furibonde del male

martedì 18 ottobre 2016

Les Héritiers (Una volta nella vita) - Marie-Castille Mention-Schaar

come a volte succede il titolo italiano è fedele a quello originale allo 0%.
e però il film non è male, una storia di scuola dove i reietti emergono e riescono a fare qualcosa di inimmaginabile, per tutti.
il film è in certi momenti retorico, ma ci sta.
bravi gli attori studenti, e anche Ariane Ascaride, ma di lei si sapeva.
non resterà nella storia del cinema, ma una visione ci sta tutta, senza rimpianti - Ismaele







En la película hay muchos temas complejos y muchos personajes que hablan de ellos con voces sinceras. Y, sin embargo, nada parece escaso. En 105 minutos transcurre todo un curso académico, que en realidad parece toda una vida (y que vuelve a empezar en la magnífica secuencia con la que se cierra el filme), y han sucedido tantas cosas a tantos personajes diferentes que da la impresión de haberles conocido más profundamente de lo que en realidad hemos visto. Esa es la maravillosa labor que hacen su directora, que con muy poco cuenta muchísimo. Eso hace que la película sea espléndida. Sus mensajes, además, son inspiradores. Habla del trabajo en equipo, de la integración, del respeto al diferente, de la empatía, de los sueños y de la enorme capacidad que casi todos llevamos dentro para llegar lo más lejos posible. Y sale triunfante por su sinceridad. Casi nada.

 il titolo originale Les Héritiers tiene proprio conto di questa funzione di raccolta della memoria storica dei fatti in questione, tant’è che in un’emozionante sequenza assistiamo all’intervento di un anziano signore che testimonia della sua sventurata esperienza ad Auschwitz, provocando commozione nei giovani ascoltatori, i quali per la prima volta dimostrano un sincero interesse per quelle vicende, inondando di domande l’inatteso ospite. E poi, torna la questione, molto spesso affrontata dal cinema francese contemporaneo, della convivenza delle diversità culturali che abbondano nel tessuto sociale, anzi il concorso che la professoressa propone ai suoi alunni diviene il collante per tenere insieme armoniosamente quelle differenze che tanto spesso degenerano in conflitto. Ma il tema del multiculturalismo meriterebbe una trattazione a parte, nella misura in cui si rivela troppo spesso essere un’invenzione nominalistica per promuovere, attraverso l’elogio della differenza, uno sfruttamento indiscriminato dei soggetti interessati. Insomma non basta la laicità dello stato per gestire una faccenda che culturale in realtà non è, ma in ultima analisi ascrivibile alla sempre operativa legge dei rapporti di produzione.
Una volta nella vita è un buon film e, nonostante scivoli talvolta in qualche patetismo per fare breccia sull’emotività dello spettatore, fornisce, per i motivi sopra elencati, l’occasione per tornare a meditare sulla Storia e soprattutto sul rapporto che intratteniamo con essa. Da vedere.

Una volta nella vita ha due compiti: da una parte è un film sugli orrori dell’Olocausto che deve “ricordare e spaventare”, dall’altra è un film sullo statuto della scuola e quindi deve “raccontare la società contemporanea”. Incredibilmente non riesce a portare a termine nessuno dei due. Attraverso la metafora della classe e delle interazioni tra ragazzi si racconta come di consueto cosa sia la nuova Francia, un’unità multirazziale in cui a confliggere non sono più le etnie e i colori ma le religioni (che da questi sono indipendenti). I ragazzi sono le antenne che recepiscono e ripetono i segnali della società dei genitori, i conflitti delle loro famiglie e quindi della nazione. Dalla loro situazione e dai loro problemi poi si parte per andare a finire nel mondo dell’Olocausto.
I compiti di questo genere di film sono di “non dimenticare” andando a ribadire ciò che gli altri film hanno già spiegato, in questo caso lo si fa attraverso il racconto di alcuni ragazzi che apprendono essi stessi i veri orrori nazisti per una ricerca finalizzata ad un concorso nazionale, una che li unirà da che erano un gruppo allo sbando. Ma come al solito è tutto troppo dolce, tutto troppo favolistico, edulcorato e manicheo per poter essere anche duro e realista come si vorrebbe…
Appesantito inizialmente da un prologo a tesi sul muro contro muro tra la legge francese e l'identità culturale in materia di velo sul capo delle donne, con il tramite tenero e serio allo stesso tempo di una grande attrice, Ariane Ascaride, Una volta nella vita diventa in corso d'opera un film più che riuscito, anche perché perfettamente adeguato alle ambizioni di partenza. C'è un momento preciso che decreta la vittoria del film sul rischio di scivolare nel cliché, ed è il momento in cui l'ex deportato Léon Ziguel parla al gruppo di attori e comparse, tutti studenti. In quel momento, girato per forza di cose in un'unica ripresa, la finzione che struttura il film e la realtà storica che lo sostanzia raggiungono la simbiosi e la classe si apre ad annettere il pubblico tutto, in sala o altrove. 
La scuola, origine e destinatario ideale di questo lavoro, è ritratta, con ottimismo e speranza, come il luogo possibile della trasmissione, non solo del sapere, ma ancor più del saper imparare.

Determinante per volgere in positivo l’iniziale disinteresse degli studenti, oltre all’incontro con Ziguel, sicuramente la volontà e il carisma della professoressa promotrice dell’iniziativa, che nel film ha l’autorevolezza di un’interprete sensibile come Ariane Ascaride, capace di dare fiducia ai suoi allievi ponendoli al centro del percorso didattico. Per raggiungere il suo scopo la regista non abbandona quasi mai le aule scolastiche, resta sui volti dei giovani interpreti e cerca di rendersi trasparente. Facilmente attaccabile come buonista (ma è il soggetto stesso ad esserlo), il film affronta tematiche universali con onestà: il conflitto tra la libertà di espressione e il principio della laicità, la necessità di mantenere viva la memoria della Storia in modo da comprendere il passato per vivere con consapevolezza il presente e il bisogno dei giovanissimi di sentirsi percepiti come individui. Se gli intenti sono quindi lodevoli e il punto di vista prezioso, non mancano però eccessive sottolineature (quei palloncini colorati in volo a illuminare il grigiore del paesaggio, la signora sull’autobus che non accetta il posto offerto da una donna musulmana), alcuni stereotipi (la ragazza più ritrosa che diventa una delle più partecipi, lo studente introverso ai limiti del mutismo che trova poi modo di dare voce al proprio sentire, in generale l’equità dei caratteri all’interno della classe) e semplificazioni. Resta infatti piuttosto brusca, al di là della pacatezza dell’approccio, la maturazione dei ragazzi, troppo rapidamente in grado di capire l’importanza del progetto in cui sono coinvolti. Titolo italiano anonimo rispetto all’originale Les héritiérs, cioè gli eredi, che va invece dritto all’essenza.

domenica 16 ottobre 2016

Le tre scimmie - Nuri Bilge Ceylan

il cinema di Nuri Bilge Ceylan è un po' come quello di Wes Anderson, riconoscibile e un po' a parte, diverso.
Le tre scimmie è fatto di silenzi, attese, scelte, rinunce, viltà, prepotenze, convenienze, passività, rancori, privilegi, vendette, e anche dell'assenza di tutto questo.
astenersi quelli che "il cinema di Nuri Bilge Ceylan è troppo lento, è noioso, non succede quasi niente, ecc. ecc."
per me merita il tempo che gli si dedica - Ismaele







Cosa colpisce in questo film? Non la storia, quasi inesistente.
Ceylan non ama raccontare, nessuno dei suoi film é appagante sotto questo profilo, un modo coerente, peraltro, con la cifra di fondo del cinema del suo paese.
Con Ceylan é facile usare parole sbagliate, parlare di lentezza, noia, banalità di trame.
Piccole eresie, i tempi di Ceylan si misurano con il tempo reale, se colpo di scena interviene a rimuovere il torpore consueto (incidente, adulterio, omicidio) resta abilmente fuori campo, vediamo quello che vedremmo nella vita vera, frammenti riflessi in uno specchio.
Eppure non parliamo di naturalismo per questo cinema, anzi, é quanto di più costruito ci sia, con quella tecnica di ripresa che punta l’obiettivo a fil di pelle, sudore e pianto colano sullo schermo, gli occhi, una piega delle labbra, il linguaggio silenzioso del corpo, tutto é scelta di un autonomo punto di vista e riconoscimento della dimensione soggettiva, che é propria dell’esperienza personale.
E’ performance lirica, che mentre testimonia progetti, pensieri e tensioni dell’ambiente umano di cui è partecipe, afferma la propria individuale percezione e interpretazione del reale.
Il senso del bello é profondo.
Come Mahmut in Uzak,Eyut  viene lasciato a guardare i battelli che sembrano immobili, in lunghe file sul Bosforo, mentre un tuono lontano annuncia pioggia.

Nessuno riesce a capire chi è, che cosa vuole e chi ha davanti. Ma tutti -e qui risiede la grandezza sottovalutata da molta critica- sono belli, luminosi. Perchè hanno un’anima. L’anima è data dalla solitudine in cui i protagonisti con poca autonomia si interrogano; l’anima è la connessione-sconnessione nei loro rapporti che il regista scolpisce nella successione fenomenologica degli attimi in PPP alternati.
In fondo il vero protagonista -come succede ai registi-autori- è forse Ceylan stesso, è, cioè, il suo stile. Da qui forse l’accusa da parte di alcuna critica di estetismo. Non c’è estetismo. C’è invece estetica e necessità. Ceylan compone una tragedia senza tragedia, perché la prosciuga, la depura da ogni melodramma. Ceylan fa un film realistico ed insieme simbolico, narrativo e insieme filosofico, un film di rapporti psicologici senza psicologismi. Non inventa uno stile, è uno stile.

I personaggi, poi, appaiono ancor più vuoti del film: la madre, per esempio, fin troppo arrendevole e pronta a farsi urlare in faccia da chiunque; o il politico, talmente inetto e inconsistente da rendere non solo non credibile, ma persino ridicola la scena del litigio con l'amante, esempio perfetto di come confrontare la bellezza della forma (lo scenario mozzafiato di una scogliera sotto un cielo burrascoso), con la sciatteria del contenuto (un dialogo imbarazzante).
A proposito di forma, la fotografia "sporca" e i colori virati "a seppia" non sono male, ma alla lunga confermano comunque l'idea che si tratti di un manierismo abbastanza inutile.
Un consiglio: recuperatevi "Uzak", film migliore del regista e lasciate perdere questa ennesima dimostrazione di chi, come Ceylan, crede che bastino ancora i silenzi, le pause prolungate, le battute date con quel secondo in più di ritardo o lo sguardo della macchina da presa buona solo a soffermarsi troppo sui corpi plastici degli attori per fare cinema "d'autore".
E per favore, lasciamo stare Antonioni.

como si estuviésemos en un lienzo de Caspar David Fiedrich, destaca  el protagonismo esencial que dota a los fenómenos atmosféricos en un claro y arrebatador aliento romántico.
La película se abre y se cierra con una tormenta y la escena clave del reencuentro del político y la madre en un espacio abierto, certifica las posibilidades dramáticas que en él destilan los cielos fuertemente nubosos. Esa escena en la que están filmados en la lejanía, donde casi solo podemos advertir sus siluetas, ocupa gran parte del plano un cielo grisáceo y oscuro que se va poblando de nubes lóbregas. A medida que la discusión va acrecentado en intensidad, ese cielo que ocupa tres cuartas partes del cuadro, va adueñándose de forma progresiva de un magma negro por la acumulación de nubes que avecinan una gran tormenta. Como si estuviésemos ante un renovado Victor Sjöström, quedamos subyugados por el cautivador poder expresivo que en este film tienen los preludios de tormentas meteorológicas en consonancia con los estados anímicos de sus personajes.

It's a slow moving and deliberate film with minimal dialogue that dares to try and intelligently understand such human nature and what leads ordinary people to deviate so far from the path of what's right. Fascinating stuff if one has the patience to get into the film's intrigues and somber tragic moments that sometimes seem too plotted and melodramatic. But when hitting on all cylinders, it's a film that boils over with provocative cityscapes, subtle black humor, the banality of evil and the complications that arise from an emotional situation that can get out of hand.