domenica 31 maggio 2015

Gazi to Gezi - a stones throw away - Ross Domoney



grazie a Valentina per la segnalazione

I Miss Sonja Henie - Karpo Acimovic-Godina, Tinto Brass, Mladomir 'Purisa' Djordjevic, Milos Forman, Buck Henry, Dusan Makavejev, Paul Morrissey, Frederick Wiseman

grandi registi al lavoro, per ridere, non perdetevela, un quarto d'ora si trova, un gioiellino - Ismaele







Un'unica cinepresa riprende sempre dalla stessa posizione, un´unica mansarda arredata e otto giovani registi. Un unico mosaico dadaistico di sette storielle, legate tra di loro solo dalle stesse condizioni creative: ogni episodio deve durare tre minuti, deve svolgersi nella stessa stanza d´albergo  e deve includere la frase I miss Sonja Henie. Una pellicola sperimentale molto particolare, nata in una sola notte durante il festival cinematografico FEST di Belgrado del 1971.
Soggetto
La leggenda dice che l’idea di creare questo progetto cinematografico è nata nella tarda notte in uno dei locali belgradesi, quando Karpo Godina ha chiesto agli altri sette registi presenti di fare tutti insieme una pellicola dove ognuno avrebbe occupato una porzione di tre minuti. La frase „I Miss Sonja Henie“ („Mi manca Sonia Henie“) è poi un omaggio alla leggendaria pattinatrice artistica norvegese, che ha poi avuto successo anche a Hollywood.
All´elenco degli episodi  più o meno burleschi, Milos Forman ha contribuito, con una piccola farsa piccante nella quale ha anche recitato. Alla regia ha collaborato l’attore, sceneggiatore e regista  Buck Henry, che lo accompagnava al festival alla rappresentazione del film Taking Off. La loro storiella è un omaggio particolare allo sceneggiatore e scrittore statunitense Dalton Trumbo e al suo film E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun).
Forman interpreta Johnny, un veterano senza le braccia, il volto sfigurato, sordo e praticamente cieco che sta sdraiato sul letto, avvolto dalle bende . In visita al malato arriva il medico, interpretato da Buck Henry, un´infermiera e la moglie di Johnny.
Il medico afferma che ormai esiste una sola possibilità per Johnny di comunicare qualcosa al mondo. Così chiede all’infermiera e alla moglie di fare un piccolo spogliarello (fuori campo) per il paziente. L´ex militare eccitandosi può così scrivere con la matita legata al suo pene eretto (sotto una coperta) il suo messaggio per il mondo, che sta nella frase: „I miss Sonja Henie.“
Forman stesso considera questo siparietto un “bello scherzetto studentesco con una forte connotazione di black humor”. Tutto il mosaico, composto  da venti minuti di episodi dei diversi registi, montati tutti insieme in un unico film, conclude in un epilogo, il cortometraggio in bianco e nero Sun Valley Serenade (1941), nel quale recita e pattina la stessa Sonja Henie.
Curiosita´
In verità il cameraman e regista Karpo Godina aspettava prima dell’inizio del festival nella hall  dell´albergo, dove  contattava continuamente ogni regista che conosceva. Per ognuno di loro aveva pronta la descrizione del progetto, articolata in due pagine. Godina era convinto che il suo gioco sarebbe stato accettato al massimo da tre dei colleghi avvicinati , ma con sua grande gioia furono d’accordo tutti e otto.
Il regista Karpo Godina apparteneva ai movimenti artistici jugoslavi Amateur Movement e Black Wave, che erano un'altra versione della “Nouvelle Vague” francese e ceca e che attraeva dei cineasti che desideravano creare film indipendenti nella Jugoslavia degli anni settanta.
La mansarda, che Godina ha scelto come location, si trovava a Belgrado vicino a un teatro, dal quale gli artisti potevano prendere in prestito diversi costumi e attrezzi. La casa era talmente piccola che era possibile illuminare bene solo una sua parte, ovvero il corridoio d’ingresso e una parte della stanza.
Si dice che la scelta di Forman come interprete di Johnny fu una vendetta da parte di Buck Henry che fu costretto da Forman stesso a mettersi tutto nudo sul tavolo in una scena del film Taking Off.
Forman dice di essere stato d’accordo a farsi umiliare sullo schermo, perché nella parte di un eroe muto e in più tutto bendato non aveva dovuto imparare nessuna parte e ha potuto passare tutta la notte delle riprese bevendo cognac con la cannuccia.
Karpo Godina originariamente voleva proiettare tutti e otto gli episodi in successione, ma alla fine ha deciso di fonderli tutti in un unico film. L’unica eccezione   l´ha fatta per la parte di Milos Forman e Buck Henry, che è rimasta intera.
A causa della presunta ispirazione occidentale decadente della pellicola, la proiezione è stata vietata in Jugoslavia subito dopo la prima, quindi gli autori stessi hanno potuto vederla solamente nell’anno 2007, alla proiezione nel BAM Rose Cinema dell’Academia Musicale di Brooklyn.
Sonja Henie (8 Aprile 1912, Oslo – 12 Ottobre 1969) fu una pattinatrice artistica norvegese e un’attrice cinematografica. Negli anni venti e trenta vinse consecutivamente sei volte il campionato europeo, dieci volte i mondiali e tre medaglie ai giochi olimpici. Più tardi ebbe successo anche come attrice di cinema a Hollywood. In quel periodo faceva parte delle attrici in assoluto meglio pagate diventando anche proprietaria di una Ice Skate Revue presentando gli spettacoli sul ghiaccio. Morì di leucemia all’età di 57 anni.
Milos Forman sul film
„Ero invitato al festival di Belgrado, la Jugoslavia era un po’ in disparte, ma comunque rimaneva uno stato comunista. Non avevo molta voglia di andarci poiché  succedeva che la polizia segreta rapiva i fuggiaschi e li riportava nel paese di provenienza per accusarli e intentare  poi  un processo politico. Avevo paura, ma un mio amico, Dusan Makajev mi tranquillizzò, che si sarebbero presi cura di me e tutto sarebbe andato bene. Era tutto a posto, frequentavo normalmente le proiezioni, sino a quando un giorno, erano circa le  due del mattino, qualcuno bussó alla mia porta. Era Dusan:’Non chiedermi niente, prepara la tua roba ma le valige lasciale qui, le prendiamo dopo. Alle cinque devi essere pronto all’uscita d’emergenza dietro l’albergo. Ti vengo a prendere lì.’ Glichiesi perché, mi disse di dare uno sguardo dalla finestra. Di fronte all’albergo erano parcheggiate le auto che in quel periodo utilizzava solo la polizia segreta. Era chiaro che non era venuta per ammirare l’architettura del posto. Così lasciai  l’albergo alle cinque dall’uscita d’emergenza e mi sedetti  nella macchina che guidava Dusan. Non aveva il coraggio di portarmi all’aeroporto. Così presi  il treno insieme a un suo amico che mi accompagno´  sino alla frontiera austriaca.“

sabato 30 maggio 2015

A nyomozó (The Investigator) – Attila Gigor

un film del 2008 che avrebbe fatto la sua bella figura in sala, ma chi l'ha visto?
eppure ci sono diverse cose interessanti, una bella sceneggiatura, un protagonista credibile, un film di morte, ma non solo, con grandi momenti di umorismo nero.
cercatelo, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele






…sarebbe un profondo errore giudicare frettolosamente A Nyomozó come un film sul confine tra bene e male e su quello che sia disposto a fare un uomo per poter ottenere quel di cui ha bisogno. Tibor si ritrova infatti coinvolto in qualcosa più grande di sé quando viene abbordato da un sinistro straniero con un occhio sfregiato. Ha bisogno di soldi Tibor e lo straniero è disposto a darceli purché commetta un omicidio che avrà risvolti inaspettati. Il titolo, tradotto per il mercato anglofono con The Investigator, è sintomatico della svolta improvvisa del film con una incredibile sequela e catena di eventi che lo trascineranno in una investigazione ai limiti del grottesco.
Sono certamente altri i lidi dove cercare questo sotto testo del bene e del male che sembra ormai anche sciocchino da trattare in un film moderno. Per questo se c'è da apprezzare qualcosa  è proprio questo seguire l'evoluzione del personaggio che fa della sua anaffettività la sua forza. Sembra voler indossare la dura scorza di un Marlowe, ma a differenza del grande investigatore creato da Raymond Chandler rimane un impacciato ed un asociale e probabilmente non matura neanche nel finale. Non so quanto volontario fosse questo aspetto, ma è certo che la scena finale in cui trucca e pettina Judit Rezes analogamente a quanto faceva ad inizio film sui clienti del suo obitorio, mostra una sorta di adattamento del suo modo di essere al mondo dei vivi, piuttosto che una evoluzione interiore, come se ne fosse uscito solo brevemente perché costretto a salvarsi dagli eventi, per poi ritornarvi alla prima occasione.
Probabilmente non era questa l'intenzione del regista, ma è quel che passa. Purtroppo la realizzazione un po' asettica con qualche voluto picco di grottesco come le allucinazioni di cui è disseminato il film non aiutano assai, riducendo di gran lunga il potenziale del film e virando il discorso su altri binari, sin troppo esplorati dalla lunga tradizione del grottesco dell'est. Tutto ciò consegna un film interessante, che arricchisce l'impressione che il cinema ungherese sia in buona forma da anni e pochi ne parlino, ma non vorrei mai far passare un discreto film di esordio per un ottimo film. I premi ricevuti in patria (Miglior film di genere, Miglior attore, Miglior sceneggiatura e Miglior realizzazione) nel 2008 da questa coproduzione ungherese, svedese ed irlandese suppongo che debbano però rappresentare un buon punto d'inizio per un regista all'esordio. Prossimamente mi riprometto di tornare sul cinema ungherese, ma soprattutto sul registro del grottesco e dell'insolito come substrato su cui edificare le migliori architetture di certo cinema dell'est.

Objet lunaire et imprévisible, croisement improbable entre Polanski, Borges et une série télé allemande, ce film hongrois étonne et détonne par sa liberté de ton et la façon qu’a Attila Gigor de faire fi des conventions d’un genre ultra-codé. Le principe même de l’enquête policière est biaisé par le fait que l’investigateur, ici, travaille comme médecin légiste et non comme policier, et surtout qu’il est lui-même l’auteur du crime dont il recherche les mobiles. Tibor Malkav possède quantité de caractéristiques physiques et morales qui font de lui un être pathétique et repoussant : imposant et chauve, le regard fixe, la parole rare, et cette incapacité dérangeante à éprouver quelque sentiment que ce soit. C’est précisément pourquoi ce personnage est fascinant.

L’univers que tisse autour de lui le cinéaste n’existe pas en dehors du regard du personnage, et l’intrigue tarabiscotée qui forme la structure de l’investigation ne fait que refléter la complexité de la relation qu’entretient Tibor avec son environnement. Ainsi, l’entreprise de séduction d’une femme avec laquelle il se rend régulièrement au cinéma est mise en parallèle avec l’enquête qu’il poursuit, de manière à souligner que l’impossibilité de la première pourrait se résoudre dans la réussite de la seconde. L’intégration forcée de la femme désirée dans le déroulement de l’intrigue – en particulier à travers l’utilisation des tickets de cinéma que la demoiselle aime à conserver avec les séances – marque une collision révélatrice entre ces deux segments narratifs…

…Si l’univers de L’INVESTIGATEUR pourra paraître des plus sombres, son auteur transforme assez vite son métrage en comédie grinçante. Son personnage principal, frappé d’une très forte introversion, paraît en total décalage avec le monde qui l’entoure et ses relations avec les différents protagonistes offrent souvent des répliques ou situations assez étranges. Mais le réalisateur de L’INVESTIGATEUR va bien plus loin puisque le film est clairement narré selon le point de vue de son anti-héros. A de nombreuses reprises, le métrage pénètre carrément dans la tête du personnage principal et expose des situations pour le moins surréalistes. Les dialogues avec des morts deviennent alors monnaie courante et, dès lors, rien n’empêche d’échanger quelques mots avec une maladie représentée par un animal. Pas mal de séquences qui viennent donner une dimension assez bizarre à L’INVESTIGATEUR tout en lui donnant un cachet atypique. Certains rebondissements, amenés de manière parfois assez abrupte, vont ainsi dans le même sens et rendent peu prévisible une partie du déroulement de l’histoire. Déjà un poil humoristique en raison de la fantaisie déployée par la narration, le réalisateur et scénariste se permet aussi de lâcher ici ou là des réflexions acides comme les échanges avec les caissiers d’un cinéma. Enfin, L’INVESTIGATEUR n’oublie pas de proposer une romance qui défie toute logique et qui devient de fait, quelque part, plutôt touchante. Mais le cinéaste chamboule au final, lors de sa dernière séquence, cette relation sentimentale pour nous offrir un dernier pied de nez inquiétant. Autant dire que L’INVESTIGATEUR est une bonne surprise pour ceux qui cherchent à découvrir des films sympathiques et différents du tout venant!...
da qui

Szalontüdő (Tripe and onions) - Márton Szirmai

venerdì 29 maggio 2015

Madre Giovanna degli angeli - Jerzy Kawalerowicz

la storia di un convento e della madre superiora, e non solo, posseduta per anni, a più riprese, dal demonio.
diversi esorcisti lavorano per sconfiggere il demonio, per anni, senza riuscirci, qualcuno finisce anche posseduto lui dal demonio (il rogo sarà la soluzione), senza liberare l'anima della suora.
l'ultimo esorcista è Suryn (Jerzy Kawalerowicz ci mostra il suo lavoro), e alla fine, forse, riesce nell'impresa, perdendosi.
convento, osteria e studio del rabbino sono gli ambienti del film.
non servono altri ambienti per fare un grandissimo film, che non si dimentica, cercatelo - Ismaele






La missione è compiuta e la firma è quella di Satana. Non so perché il film non goda, presso la critica, di una gran fama, eppure qui Kawalerowicz dimostra una grande padronanza di stile, ispirandosi (forse la pecca contestata è proprio una carenza di originalità?) ai maestri più grandi, come Dreyer, Bergman, Bresson ed il Buñuel di "Nazarin". Le sequenze sono potenti e al tempo stesso la loro drammaticità è mitigata dal ricorso all'ironia, come in un racconto di fantasmi alla maniera del "Manoscritto trovato a Saragozza". Qui si tratta di diavoli e non di fantasmi, di quei diavoli che successivamente saranno raccontati, in maniera più politicizzata, da Ken Russell, che li rappresenterà sotto forma orgiastica, mentre questa di Kawalerowicz somiglia molto di più ad una sacra rappresentazione. Il regista polacco ci dice che spesso il misticismo sconfina nell'estasi dei sensi e vi sono pochi paragoni ai mostri che possono essere generati dall'apposizione di tabù, dalla deprivazione sessuale e dall'allontanamento dal mondo. A mio modestissimo parere, un grande film.

…La pellicola vanta uno stile raffinato ed elegante, il bianco e nero funziona egregiamente tra le mura scarne e minimali del convento, la stessa location è un punto in più alle atmosfere desolate e perdute che si vuole creare, l'edificio sembra buttato e dimenticato in una enorme cava di tufo. Al di là dell'argomento trattato, il film poggia le basi su uno strato drammatico molto spirituale e filosofico, non c'è spazio per elementi horror anche se ci sono alcune scene che lo sono indirettamente e per questo riescono ad essere molto più spaventose ed inquietanti. A mio avviso ci ho visto parecchio Bergman, specie per quanto riguarda le scene della locanda…

Classique du cinéma polonais, Mère Jeanne des anges est une œuvre singulière qui interpelle toujours plus de cinquante ans après sa sortie. A découvrir ou redécouvrir de toute urgence.

Un métrage primé à Cannes – prix du Jury – et qui fut condamné par le Vatican pouvait donc faire de l'oeil aux cinéphiles. En effet, durant l'après-guerre le cinéma polonais ne fut pas avare en créativité, toujours en privilégiant l'angle humain ou historique et une technique aboutie.
Kawalerowicz est expérimenté mais sa reconnaissance est récente - « Train de nuit » (1959) – et on pouvait surement pas se douter de l'impact de ce film sur les décennies à venir…

Though calling itself a horror/drama, the film's unsettling aspects are derived more through disturbing inference than in-your-face viscerals. Its depiction of Suryn's mental breakdown during his efforts to save the soul of the possessed Joan whilst simultaneously dealing with his own personal self-abasement due to his devout religious fanaticism, is truly disturbing and undoubtedly leaves the film's strongest image.
The other most memorable aspect of Kawalerowicz' cult classic, which is likely to appeal more to students of serious cinematic technique and narrative than mainstream film audiences, is its visually arresting look. Shot in stark monochrome, the sparseness of the rural setting and the bleakness of the convent, with a bare minimum of props and costumes, are not only the prefect backdrops for the unfolding tale of religious mortification and sexual temptation, but also evocative realisations of the harshness of life in the middle-ages.
Mother Joan of the Angels is a film whose viewing is rewarding, though may require the patience of a saint to see it through to the end.


mercoledì 27 maggio 2015

(Senza) Parole - Valerio Mastandrea ricorda Claudio Caligari

“Muoio come uno stronzo. E ho fatto solo due film.” Se n’è uscito così, ad un semaforo rosso di Viale dell’Oceano Atlantico circa un anno fa. Stavamo andando insieme a parlare con un amico oncologo in ospedale. La risposta ce l’avevo pronta ma l’ho lasciato godere di questa sua epica attitudine alle frasi epiche che accompagneranno per sempre tutti quelli che lo hanno conosciuto. Ho aspettato il verde in un altrettanto epico silenzio (sono molti anni che era stato operato alle corde vocali). Ripartendo ho detto “C’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronza di te”. Il suono leggero della sua risata soffocata mi ha suggerito il suo darmi ragione, confermato dall’annuire ripetuto della sua testa grande. Di gente stronza Claudio se ne intendeva, ne ha conosciuta tanta, e tanta ne ha liquidata con quel metro di giudizio. Stronzo è una parola che detta da lui aveva un altro significato. Più potente. Più profondo. Il Nord “di lago” da cui proveniva deve avergli dato una dimensione molto particolare nello scegliere le parole e nella forza con cui scagliarle. E le parole che gli mancavano da parecchio tempo è sempre riuscito a fartele sentire anche se arrivavano scariche di suono. La grandezza di un uomo così viene anche da questo. Dal poter fare a meno delle armi convenzionali che servono per vivere la vita e dal continuare a battagliare con ogni mezzo  mosso solo dalla voglia di esserci e di fare della propria vita una vita. Il suo lavoro ne è l’esempio unico, assoluto. Non ha mai smesso di fare film Claudio. Ne ha girati tre ma ne ha scritti, fatti e visti almeno il triplo. Questo deve accadere ad un regista che vede sfumare i propri progetti per motivi enormi o a causa di persone piccolissime. Pensare, scrivere, vedere, riscrivere, ripensare, vedere ancora fino alla morte del progetto e , nonostante questo, continuare a vederlo finito, il proprio film. Così ha fatto anche lui. Noi che abbiamo avuto il privilegio di lavorarci questo lo sappiamo bene. Ogni film non fatto da Claudio, Claudio lo ha fatto eccome. Come ha fatto il suo terzo e ultimo. Con l’amore e la cattiveria che la malattia gli imponeva. Con la dolcezza di chi riconosce la magia del cinema e delle persone che lo fanno. Con la stronza intelligenza di chi urlava il diritto al cinema da conoscere e da poter fare. Con un winchester immaginario sotto l’impermeabile a ricordare che Ford e Sam Peckinpah erano li con lui anche se stavamo all’idroscalo di Fiumicino anzi, soprattutto per quello. Era pieno di roba e di gente Claudio. Il suo Martino in un angolo della testa. PPP sempre a portata di citazione. I suoi “ultimi” da raccontare, facendoli volare dal basso dei sondaggi sui quotidiani , all’alto del livello drammaturgico in un copione e poi sul set. Il suo cinema è stato e sarà sempre Politico. Non ha mai smesso di esserlo neanche quando non veniva materialmente realizzato. Bastava parlarne. Guardarlo mentre sceglieva il ritmo del respiro giusto per pronunciare la frase epica di turno. Ha sempre conosciuto i film che ha fatto. Li ha mangiati, bevuti, e vomitati prima di farli diventare un film. E’ stato forse l’ultimo intellettuale vecchie maniere. Con la capacità di sporcare la propria anima e la propria intelligenza del nucleo essenziale di quello che si apprestava a raccontare. Per Claudio “Ideologia” non è mai stata una brutta parola. Lo ha spinto a non fare mai un passo indietro e  gli ha permesso di difendere quello che faceva con una forza che non ho mai visto in vita mia. E gli ha consentito anche di lottare con il male  costringendolo ai supplementari più di una volta. Claudio ha perso ai rigori, che si sappia questo. E ai rigori non è mai una sconfitta reale. A tutti noi che lo abbiamo accompagnato nell’ultimo sogno realizzato è bastato questo. Onorarlo nel lavoro che più ha amato, maledicendo la sua ostinazione, ammirandone la tenacia, il coraggio e la passione. Ridendo alle sue battute crudeli. Commossi davanti alla sua commozione dell’aver iniziato e finito il suo nuovo e ultimo film. 
Ministero beni culturali. Interno giorno.
Claudio e Valerio sono seduti su due poltrone. Claudio ha con se la sua immancabile ventiquattrore. Valerio smanetta col telefono. Silenzio
Claudio- “se c’è un aldilà sono fottuto”
Valerio ride.

Buon viaggio amico nostro. Se c’è pellicola non sei fottuto per niente.


martedì 26 maggio 2015

Kad svane dan (When Day Breaks) - Goran Paskaljevic

il film candidato per la Serbia all’Oscar come miglior film straniero (senza arrivare alla cinquina finale) e scritto anche da Filip David (qui) è davvero bello.
non racconto la storia, ma dentro ci sono ebrei, rom, la guerra jugoslava terribile degli anni ’90, passato presente e futuro, e il Profesor Misa Brankov (interpretato dallo straordinario Mustafá Nadarevic).
il professore, con pochi mezzi, dà lezioni gratis a dei ragazzini che non possono permetterselo, per capire il tipo, poi riceve una notizia incredibile e da lì parte il film.
al cinema avrebbe fatto una gran figura, ma pochi film arrivano in sala, dalla periferia dell’impero, ancora meno sono quelli che arrivano fuori dall’impero, ma cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele






Al nacer el día representa los males de la Europa meridional. Naciones divididas, cuyo capital cultural perece al intentar equiparse al lustroso progreso del Norte; dónde matar al vecino a palos no ha valido ni valdrá. Porque entre tanto civismo impostado se esconde un profundo sentimiento de desprecio a lo diferente. Marcado por el estatus económico, ideológico o espiritual. No hay lugar para la piedad. Sólo para el presente. El presente eterno. Paskaljević concentra todos sus esfuerzos en hacernos sentir las dos caras de la moneda. Poco importa ese envoltorio rugoso y precipitado. La verdad en 90 minutos. El cine como un apócrifo libro de Historia Contemporánea…

…El estilo del film podía calificarse de lírico en clima dramático, al tocar con tiento y elegancia una realidad horrenda. La elección del protagonista, Mustafá Nadarevic, es acertadísima, como las de los deuterogonistas del drama, cuyo lirismo no se eclipsa y al que colaboran la finura del guión y sus personajes femeninos. El horror brilla por su ausencia. De brutalidad formal, ni un solo plano. El ambiente es de honradez, ternura y reconciliación. La anagnórisis dramática, ejemplar entre gitanos y judíos, compañeros en la etapa martirial histórica. Acertada la recreación de la memoria y el recuerdo, de la nostalgia y del amor familiar. Ante semejante enfoque y realización, ciertos defectos como lentitud de algunas secuencias, pasan en nuestra opinión a un segundo término, desplazados por la creatividad y gran humanismo de un argumento original siempre al borde de la crueldad, pero no rebasando sus fronteras, empapado de humanidad y manteniendo temple, acierto y equilibrio que pide un tema fronterizo, dramático e inestable para hacerlo verosímil a la credibilidad humana…

Centrándonos en otros aspectos más allá de la historia o del mensaje transmitido, la última película de Paskaljevic adolece de ritmo lento, lastrado con los fundidos en negro para las transiciones entre escenas. Este “defecto” ya lo pudimos observar en la otra película que, hasta ahora, hemos visto de Paskaljevic, Sueño de una noche de invierno. Aunque bastante menos críptica que la mencionada -la cual contenía una metáfora crítica hacia una sociedad serbia a la deriva, en la que sobrevuelan los fantasmas del pasado-, Al nacer el día se nutre también del pasado reciente serbio sólo que, en vez de tan sólo denunciar la ceguera de un país retrasado, se opta por homenajear a las víctimas del holocausto para que su drama no caiga en el olvido. Un film que pretende ser emocional y emocionante, en el cual destacan los intensos primeros planos de su actor protagonista cuando revive (o más bien reinventa) recuerdos así como su aspecto de erial paisajístico, pero falla en su pesada narración.

Su ritmo pausado y su énfasis en los silencios pueden hacer mella en determinado sector del público y por ello es bueno ir con un sobre aviso. “Al nacer el día” es una de esas historias que o entras o te quedas fuera. Pese a ello, su sinceridad y buenas interpretaciones pueden ser dos motivos para ir a verla.

Dias sin luz - Jaume Balaguero

lunedì 25 maggio 2015

J'Attendrai Le Suivant - Philippe Orreindy

Caballos salvajes – Marcelo Piñeyro

ricorda un po' El ultimo tren, fuggitivi inseguiti dalla polizia, e ricevono solidarietà e complicità lungo la strada.
attori bravissimi e convincenti, in una storia che parte da un risarcimento, poi si estende, da una storia personale diventa una storia politica ed epica, di ideali e di vita e di morte.
a me è piaciuto, Marcelo Piñeyro non fa rimpiangere il tempo che dedichi ai suoi film - Ismaele



QUI il film completo, in spagnolo





Caballos Salvajes demuestra inequívocamente que Piñeyro es un buen director – la secuencia con Cipe Lincovsky y Federico Luppi así lo atestigua – y constituye un notable film, que pone de relieve que en el peor de los casos, las viejas generaciones siempre tendrán una misión que cumplir: transmitir un sistema de valores que no está en absoluto caduco y contribuir de forma decisiva a que los jóvenes tomen sus decisiones con absoluta libertad. Eso es lo que hace José en el desenlace del film, aunque le cueste la vida.

…La película exuda una fuerza temperamental encomiable, no tanto en el final, cargado de sentido poético y, por ende, inesperado, como en el deambular de esos seres por una realidad árida bajo el convencimiento, progresivo, de que no se logran los objetivos que no se pelean.
En una parte importante, lo que se ve en Caballos Salvajes no parece cine argentino. Vista desde una perspectiva industrial, ésta película que costó tres millones de dólares luce como un intento desesperado, pero al tiempo alegre, por romper las inercias que separan al cine argentino de su público potencial. La revolución es un sueño eterno, parece querer decir el guión.

…La película va de un viejillo que va a una entidad financiera con una pistola a intentar recuperar un dinero por el que se siente estafado. Le atiende el típico joven, guapo, vividor y de repente y para que no maten al viejo se hace pasar por rehen. Pensando en que solo había un poco de dinero en un cajón, huyen con un dineral. Y van recorriendo Argentina haciéndose famosos porque salen en la televisión. El dinero lo reparten entre un grupo de trabajadores en huelga, les ayudan todas las personas de clase baja, etc. No contaré el final, que es lo que da título a la película! Es recomendable…

Se puede vivir una larga vida sin aprender nada.
Se puede durar sobre la tierra sin agregar ni cambiar
una pincelada del paisaje.
Se puede simplemente no estar muerto
sin estar tampoco vivo. 
Basta con no amar. Nunca. A nada. A nadie.
Es la única receta infalible para no sufrir.
Yo aposté mi vida a todo lo contrario
y hacía mucho tiempo que había dejado de importarme
si lo perdido era más que lo  ganado. 
Creía que ya estábamos a mano el mundo y yo,
ahora que ninguno de los dos respetaba demasiado al otro.
Pero un día comprendí que todavía podía hacer algo
para estar completamente vivo
antes de estar definitivamente muerto.
Entonces... me puse en movimiento!



sabato 23 maggio 2015

Mientras duermes – Jaime Balaguerò

un portiere tanto disponibile, una bambina ricattatrice, un'invasione di blatte e la disinfestazione, una vecchietta con due cani, intanto, un amore non corrisposto, bambini in arrivo, in una sceneggiatura che ti sequestra senza pietà.
al rilascio sarai contento, vedrai - Ismaele




…Lasciando da parte i temi religiosi che caratterizzarono le sue pellicole precedenti, Balagueró compie il suo mestiere alla perfezione come il suo protagonista César. Conosce il pubblico, conosce il genere, sa che un lieve movimento di macchina o un’imperfezione nella simmetria che richiama alla regolarità della vita come noi immaginiamo che sia, può causare un disturbo, creare un’aberrazione nel nostro modo di vedere il mondo e sconvolgerci.
Il risultato è raggelante, scoprire un passo alla volta le ossessioni di questo portiere è come sentire una mano che ti stringe il cuore sempre di più, lo stritola costringendoti in ogni modo a non provare alcun sentimento per questo anti-eroe. Il costante desiderio di vederlo fallire cresce sempre di più, ma quella mano lì nel petto ti impedisce di credere, di provare speranze, mentre il cervello sa, ha visto di cosa César è capace e sa che è tutto inutile. Straordinaria è la recitazione del protagonista Luis Tosar, inquietante anche quando si mostra sorridente per tener su la sua maschera di uomo innocente, nasconde dietro la sua ombra tutto il resto del cast grazie alla sua interpretazione perfetta e degna di entrare nella storia come uno dei personaggi cult dell’horror. Il mio consiglio è di far di tutto per recuperare questa pellicola non distribuita in Italia e di continuare a seguire Jaume Balagueró con insistenza, perché, fino ad adesso, non ha mai deluso.

"Bed Time" (titolo originale, molto più azzeccato, "Mientras duermes" cioè mentre dormi) è un thriller terrificante, inquietante, perfido, implacabile. I piani semplici ed efficaci di Cesar per avvelenare la vita altrui emergono progressivamente fino a un quadro finale mefistofelico. Mentre ci addentriamo nella mente di Cesar, Balaguerò ci sottopone incessantemente a scene di tensione molto efficaci, alcune delle quali lasciano senza fiato. Quello che terrorizza è la verosimiglianza dell'ambientazione, di ogni situazione, delle dinamiche dei personaggi. Anche Cesar non è un improbabile serial killer, un disturbato mentale o simili. Semplicemente, come molti, trova consolazione della propria vita grama nel dolore altrui, è solo più spietato ed efficace di altri.
La trama è così continuamente spiazzante che raccontarne troppo sarebbe un peccato. Lo spettatore ne sa più dei poveri coinquilini (che come in ogni buon thriller si vorrebbero continuamente avvertire di ciò che sta succedendo), ma sempre meno di Cesar, che ci sorprende di continuo. Il cast non è eccezionale, ma di attori bravi ce ne volevano solo due: la vittima e il carnefice, e Marta Etura e Luis Tosar (entrambi volti noti in Spagna) adempiono perfettamente al loro compito. La regia è efficace, di ottimo mestiere, invisibile per la maggior parte del tempo ma sempre intelligente (un po' come Cesar). Balaguerò fa un uso interessante della messa a fuoco per collegare ciò che sta di fronte, nitido, e ciò che si svolge sullo sfondo, quasi indistinto eppure presente…

César agisce mentre dormi, si avvicina e ti si sdraia accanto, dopo averti fatto sprofondare in un sonno senza sogni, drogato, averti reso un oggetto.
La filosofia, nei film la si vede quando c’è. A questo punto, l’oggettivazione che César impone alla sua vittima, sa di morte apparente, perché ogni mattina, invece, ella risorga a nuova vita, non avendone il minimo ricordo, fino a quanto questa sorta di inganno, un circolo vizioso che fa ripetere tutte i giorni lo stesso giorno, non viene svelato.
Grandioso Luis Tosar, idolo e mostro. Mostro che sa tanto, com’era d’uso eoni fa, di prodigio.
Regia cattiva, che sta a guardare. Facciamo il tifo per lui, Cèsar, perché non si arrivano a giustificare le sue azioni, ma a sentire il vuoto che lo identifica. Quell’abisso sul quale molti di noi hanno guardato.
La vita felice degli altri è specchio deformante della propria, inganno, conseguenza, la si subisce. A meno che, non entri in gioco la volontà di cambiare le cose, prendere in mano la propria esistenza. Solo che, César, non avendone una propria, prende quelle degli altri.
Ecco, questo è ciò che Balaguerò ci dice, alla fine. Spiega le ragioni del mostro, gli consente un punto di vista privilegiato, mai ipocrita, che atterrisce, proprio per quella profondità di sguardo che ci viene concessa.

Bancos - Alberto Rodríguez, Santi Amodeo



da quil

L’argent – Robert Bresson

ispirato a un racconto di Tolstoj, Bresson ci mostra delle persone, un pezzo della loro vita, che a Yvon, il più debole di tutti, costa la prigione e la rovina.
come un teorema geometrico, tracciato da una banconota falsa,
come tutto il cinema di Robert Bresson, da non perdere - Ismaele



...in L’argent non ci sono tanto singoli personaggi o un vero protagonista ma l’umanità in se stessa. Infatti nella prima parte il film è apertamente corale, perché intreccia più storie, ma resta tale anche quando viene in primo piano la storia di Yvon.  Per così dire “così fanno o sono tutti”. di cinema?
È il cinema, come è stato definito, del dépouillement, dell’ascesi. Ma qui, in L’argent, lo stile svolge una funzione più centrale che negli altri film perché serve ad attirare l’attenzione sull’impoverimento emotivo e psicologico di tutti i personaggi.
È impossibile empatizzare con questi personaggi. Per quanto buona volontà ci si voglia mettere, non ci riusciamo. Io non ci riesco. Il film mette in scena emozioni, ma non le fa provare o, meglio, fa provare fastidiosamente la loro assenza. I personaggi sono “stilizzati”, dei manichini, non hanno vero spessore, mancano di una vera interiorità. Neppure la terribile storia di Yvon riesce a coinvolgere. È insensata, non perché non abbia un senso ma perché questo senso è tutto cerebrale e nello spettatore non è mediato da una vera identificazione…
da qui

Which might be the film's true subject--money not as a source of evil per se, but as symbol and operative medium (both fuel and lubricant) of a larger concept, civilization itself. Money here is the crust on which we all subsist on, stand on, and we'll do anything--lie, cheat, steal, kill--to keep that brittle, fragile crust from crumbling, and us falling through. Yvon has fallen through, and has found the experience strangely liberating--he kills, then carelessly spends the little money he has taken from the murders. Money has stopped being the motivating factor--it never was meant to be one anyway; rather, it was the signpost that marked where society begins and ends, a signpost Yvon has uprooted and is swinging wildly over his head…

Faux billets, faux témoignages, faux coupables. Les actes s’enchaînent et il est évident que les actions d’Yvon auront des répercussions que le film n’évoque pas. Le mal est comme une chaîne qui parcourt le monde, et chaque crime en est maillon. Bresson observe le « cheminement tragique du mal ». Un individu ne naît pas mauvais et c’est ce que Bresson observe, décortique, cette route tragique que tout un chacun peut un jour emprunter.,,

… The film, in its rigor, economy and intensity, has a kind of brilliance. As always with Bresson, one is in the presence of moral and artistic seriousness of the highest order. Whether one agrees with his choices or not, one knows that the filmmaker has a persuasive reason for each of them.
The filmmaker, a deeply religious individual, although not in any orthodox sense, had very definite views about art and film. He claimed to have been horrified by the artificiality of his actors during the making of his first feature film. Subsequently he used non-professionals almost exclusively. Bresson referred to them not as actors, but as models, whose unconscious ‘states of soul’ he was seeking to reveal. He asked his ‘models’ not to act but to speak as though they were speaking to themselves, requiring twenty, thirty, forty or more takes to obtain what he wanted from a particular moment.
He commented: “I want the essence of my films to be not the words my people say or even the gestures they perform, but what these words and gestures provoke in them. What I tell them to do or say must bring to light something they had not realized they contained. The camera catches it; neither they nor I really know it before it happens. The unknown.” This mystery that Bresson pursued relentlessly no doubt had divine significance to him.
Explaining his approach to directing his models, he remarked: “I tell my actors to speak and move mechanically. For I am using these gestures and words—which they do not interpret—to draw out of them what I want to appear on screen.” The actors are raw material, but “precious raw material.”…

Si Tolstoi muestra la relación brutal de campesinos y amos en  la época zarista, Bresson traslada los personajes a París de la Francia contemporánea. Ivón es empleado de una compañía proveedora de combustible y no un leñador. Reminiscencias del escenario campestre, sólo aparecen hacia el final de la película cuando la acción se traslada al suburbio donde vive la mujer que brindará asilo a Ivon, y a la que éste matará sin razón explícita. Tolstoi es mesurado en la descripción de los personajes, pero se extiende en la narración de sus acciones y pensamientos. Bresson, por su lado, nos hace prestar atención a la vestimenta, a la manera de caminar, neutralizando los tonos de voz de los actores y dejando al espectador la tarea de reconstrucción, en este caso múltiple, de los móviles y de la vida interior de sus criaturas  A veces son los objetos los que se convierten en factores dominantes, ocupando la escena y resaltando por medio de su mudez o, más a menudo, por medio de su sonido, la atmósfera inquietante de la historia: el pasillo vacío del subte como a la espera, el hacha sobre el heno anticipando la comisión de los últimos crímenes, el crujido de los billetes de banco subrayando el carácter perturbador de las transacciones, el sonido chirriante  de las puertas de la cárcel abriéndose y cerrándose con un golpe. Los ruidos de los vehículos, de los pasos de la gente o el murmullo del río,  compiten con los diálogos escasos y recortados y con los silencios de los personajes. La persistencia de los ruidos los convierte en testigos y tal vez  en un coro que comenta los sucesos.,,

… En la historia de Bresson no hay inocentes; incluso las víctimas de una estafa o de un calamitoso error del sistema moral, policial y penal de la sociedad son absolutamente culpables. Todos los personajes resultan realmente odiosos por una u otra razón, exceptuando a Elise (Caroline Lang), la desgraciada esposa de Yvon, la mayor sufridora de todos, y quizá a la anciana del tremendo capítulo final del filme (Sylvie van den Elsen). Los adolescentes del comienzo encarnan a la ociosa juventud producto de la sociedad del bienestar que sus padres les han regalado; internamente carecen del concepto de esfuerzo, de trabajo, de sacrificio, de ganarse su situación privilegiada. Lo tienen todo hecho y al alcance de la mano, les basta con pedirlo, o exigirlo, dado que en su mentalidad creen que tienen derecho a todo. De hecho, la película se inicia con uno de ellos abriendo la puerta del despacho de su padre para pedirle la paga, y es la circunstancia de que ésta no colme sus expectativas, de que no llegue a la cantidad que compañeros suyos de escuela reciben de sus padres y de que su madre no lleve suelto en el bolso, el detonante de que, en compañía de un amigo que le da la idea, la espiral de desgracias de Yvon dé comienzo con el cambio del billete falsificado en la tienda. Estos adolescentes, lejos de afrontar su responsabilidad, huirán como cobardes, en la escuela eludirán dar la cara (uno de ellos escapa literalmente de clase), mientras qne en casa su propia madre, amante protectora inconsciene de que el efecto de este hecho en su hijo será fatal, evita poner al padre en conocimiento de lo ocurrido, con lo que la trampa de Yvon comienza a cerrarse: ni siquiera la contemplación de cómo un inocente va a sufrir las consecuencias despierta la humanidad del muchacho o de su madre, ni su piedad ni sus remordimientos. Los dueños de la tienda de fotografía no son mejores; son las víctimas, y sin embargo Bresson los carga de sospecha: su comportamiento no resulta claro, diáfano, sus movimientos, sus diálogos, las situaciones que viven parecen fruto de algún tipo de maniobra turbia, de ocultamiento, de clandestinidad, de secreto inconfesable. Se mueven en silencio, apenas hablan, y cuando lo hacen se refieren a hechos crípticos que el espectador desconoce pero que quizá encierren algo no del todo admisible. Su comportamiento, su forma de actuar, resulta en todo momento culpable, hasta el punto de manipular a su joven ayudante Lucien (Vincent Ruiterucci) para que dé falso testimonio en el juicio de Yvon y forzar su condena, a pesar de que ellos saben que es inocente porque desde el principio han identificado a los chicos como autores de la estafa. Lucien tampoco es ejemplar, ni mucho menos: aprovecha cada venta en la tienda cuando sus jefes no están para cobrar sobreprecios a los productos que se embolsa directamente en su billetero; cuando es despedido por esta razón, se guarda su odio y su rencor dentro, y junto a dos amigos no solo roba la caja fuerte de la tienda, sino que incluso le clona la tarjeta de crédito a su jefe y le “indemniza” con sus propios fondos en un aparente ejercicio de petición de perdón. Todos son culpables, todos están embrutecidos a causa del materialismo de una sociedad excesivamente preocupada por lo accesorio, que crea autómatas o zombis inconscientes o desconocedores de su propia humanidad…

venerdì 22 maggio 2015

Mad Max: Fury Road - George Miller

parte come I figli degli uomini, il salvataggio di donne in attesa di un figlio, Furiosa è alla guida di una spedizione di salvataggio, senza che il Padrone assoluto ne sappia niente.
già prima Miller ci aveva mostrato un futuro prossimo, nel quale chi possiede l'acqua comanda, e gli altri sono poca cosa.
e poi una caccia, con Tom Hardy che sarà con Charlize Theron, Max con Furiosa, e le ragazze saranno inseguite da una banda di simil-Isis, con tamburi che danno il ritmo, e un chitarrista sputafuoco, e un deserto che è quello della Namibia e dell'Australia, e la fuga verso un'oasi nel deserto, e delle motocicliste simil-Tuareg, e il mondo sta morendo, e allora alla conquista della fortezza-cittadella, è una corsa continua, poi alla fine capisci che hai visto un film come pochi, contento di essere andato in sala, che sul monitor del computer questo film sarà poca cosa.
e andate al cinema, fatevi stupire e conquistare, aprite occhi e orecchie, non ve ne pentirete - Ismaele






quando tornando a casa troverete i bambini, prendeteli in braccio, date loro una carezza e raccontate di quando il cinema vinse sul tempo, troverete forse lacrime da asciugare, non abbiate paura, sono lacrime di gioia, la nostra gioia. Mad Max: Fury Road...

…L’altro grande merito del film è quello di aver rivoluzionato il concetto direboot o remake. Se da ormai più di un decennio Hollywood sembra essere interessata unicamente a riattualizzare vecchi franchise, riproponendoli alle nuove fasce di pubblico modificandone il significato ma spingendo semplicemente sugli aspetti estetici più riconoscibili, qui si procede in direzione opposta. Mad Max: Fury Road è un film del 2015, pensato per un pubblico nuovo. Non dipende dalla nostalgia o da quella malinconia che sembra ormai indispensabili per la costruzione di un blockbuster. Ovviamente chi è cresciuto con gli originali conosce quell’immaginario e sa da dove viene, ma non è il dato fondamentale. George Miller ha azzerato tutto quello che aveva messo in scena trent’anni fa ed è ripartito per una nuova strada. Ha cambiato l’attore protagonista, l’ha messo volontariamente in secondo piano e costantemente in pericolo, ha tolto i riferimenti al western e all’epica – quelli alla base del secondo e del terzo film – e ha dato vita a un entusiasmante spettacolo visivo che rende giustizia al suo feticismo per il montaggio hitchcockiano, qui esasperato a dei livelli quasi incredibili. In ambito action, difficile vedere di meglio al momento. Un film, un regista e una storia entusiasmante. Lunga vita a George Miller.

Il ritorno sul grande schermo dell'antieroe del deserto australiano era da tempo una scommessa sulla quale molti amanti del genere come il sottoscritto avevano deciso di puntare, in parte perché fortemente voluto e finalmente costruito con i mezzi desiderati dallo stesso Miller ed in parte per un cast che prometteva scintille a partire dai due protagonisti, Tom Hardy e Charlize Theron.
Senza troppi altri giri di parole, la suddetta scommessa è stata vinta e stravinta da un film strepitoso, tiratissimo dall'inizio alla fine, un fumettone da esaltazione pura che mi ha riportato a quei giorni lontani sul divano accanto a mio padre e riflesso nelle tante coppie padre/figlio presenti in sala, un inseguimento a perdifiato di centoventi minuti inserito in una cornice stupenda, curato in ogni dettaglio - dai costumi, al trucco, agli stupefacenti mezzi - e visivamente da restare a bocca aperta: basterebbe la prodigiosa sequenza della corsa all'interno della tempesta di sabbia per far venire la pelle d'oca a chiunque riesca a spalancare ancora occhi e bocca per questa macchina meravigliosa che chiamiamo Cinema…

…Mad Max: Fury Road è un lunga, continua, incessante rincorsa verso un futuro di umanità e speranza tutt'altro che possibile, quasi commovente nella strenua difesa di un'idealismo assoluto e primordiale. Anche se, certo, non c'è proprio tempo e spazio per la melensaggine: Miller lascia parlare le immagini, decretando saggiamente la superiorità dell'azione rispetto ai dialoghi: nessuno dei personaggi pronuncia più di trenta parole in tutto il film, in un tripudio di inseguimenti folli, incidenti, combattimenti corpo a corpo, esplosioni, sparatorie: un autentico bombardamento visivo reso affascinante anche dalla splendida fotografia di John Seale, che alterna gli abbaglianti colori oro/seppia della sabbia arsa dal sole al nero degli spettrali paesaggi notturni. Un film che, nel suo genere, è assolutamente perfetto. Finora, la vera sorpresa della stagione.

 Chi l’ha visto sarà rimasto impressionato, tra le altre cose, dal folle chitarrista che guida l’armata dei Figli di Guerra del cattivo “Immortan Joe“: il nome del personaggio è “Coma (Doof Warrior)“, ed è un mutante cieco che veste un vestito rosso (molto simile alla tuta da meccanico degliSLIPKNOT) sopra un camion fatto di amplificatori e speakers, e che suona una chitarra sputafuoco a guida dei suoi compagni, accompagnato da una serie di percussionisti sul retro (un’altro riferimento abbastanza esplicito alla band, come ha confermato lo stessoTom Hardy). 
Il ruolo è interpretato da iOTA, cantante autore e attore australiano che è cresciuto con la trilogia di Mel Gibson e per avere il ruolo, come riporta Yahoo Movies, si è presentato alle audizioni come un personaggio di “Mad Max 2“, vestito di pelle e catene, con trucco nero agli occhi e denti anneriti. La produzione cercava un mix tra Keith Richards e uno spaventapasseri…

las dos horas y cuarto de película son un compendio de grandilocuencia aplastante, brutalidad apoteósica, desenfreno alucinante, locura catarquica y majestuosidad elefantiásica (creo que debo ir a buscar el diccionario a buscar más adjetivos) que nos van a dejar pegados a la silla cual amebas babeantes. Pero es que además sí, la película es bastante más que una sucesión de escenas apoteósicas. Miller tiene tiempo para construir a este nuevo y lacónico Max, interpretado con solvencia por Tom Hardy, haciendo que no echemos de de menos en absoluto a un personaje tan icónico como el Max interpretado por Gibson. Con el ya consabido trauma interno reflejado a través de flashbacks que emergen como destellos de montaje en momentos puntuales de tensión, Max Rockatansky adquiere la profundidad necesaria para que Hardy actúe. Y bien que funciona esta caracterización porque, manteniéndose en un hierático segundo plano, en esta nueva versión, el peso narrativo de la acción no va a recaer en Max sino en Imperator Furiosa, el personaje femenino definitivo del cine de acción, la “Tank Girl”que nunca fue. Un personaje hecho a la medida de una Charlize Theron en apogeo como heroína de acción, demostrándonos totalmente su potencial como protagonista en este tipo de cine...

giovedì 21 maggio 2015

Chet Baker - Tromba Fredda - Enzo Nasso

I disperati di Sandor (Szegénylegények) – Miklos Jancsò

niente montagne, un fortino nella puszta ungherese, guardie e prigionieri dopo le mancate rivoluzioni del 1848.
in una prigione ispirata al panopticon si tratta di far parlare qualcuno, hanno arrestato tutti gli uomini di un villaggio che dà aiuto e riparo ai ribelli, per ottenere informazioni utili ai militati austroungarici, precursori dei metodi nazisti e del Vietnam e di Abu Ghraib (non si inventa niente).
la delazione e le promesse di liberazione e di punizione sono il motore della macchina assassina.
è un film geometrico, come il panopticon, girato in cinemascope.
la tensione non si allenta, e cresce fino all'epilogo.
da non perdere - Ismaele










Il film restituisce il claustrofobico senso di prigionia a cui sono costretti i ribelli di un ordine costituito; e non gli sono certo estranee le memorie brucianti dei lager (e forse dei gulag), ma il distacco emotivo dalla vicenda descritta esclude il dramma storico. Persino le musiche sono bandite, salvo le parentesi della fine e dell’inizio, dove non a caso riecheggiano le note del Lied der Deutschen, l’inno nazionale tedesco. Nella stessa sigla a ben guardare v’è sorta di dichiarazione d’intenti: essa è costruita con l’assemblaggio di immagini in bianco e nero, scheletri di piantine progettuali suddivise in blocchi, in cui vengono messe a confronto la nuova civiltà borghese e industriale e quella contadina, soffermandosi soprattutto su abitazioni e strumenti da lavoro. Alla civiltà borghese vengono attribuite anche la paternità dei nuovi ritrovati scientifici, dalle armi ai nuovi mezzi di trasporto. Sul finire appare poi una breve teoria di strumenti di tortura, mentre la voce fuori campo finisce di illustrare il tempo e il luogo a cui fa riferimento il film. Di là quindi dall’esplicito rimando alla più recente epifania nazi-fascista dei campi di sterminio, è evidente che I disperati di Sandor (e più in generale tutto il cinema di Jancsó) rivolge un’accusa contro l’arco di storia che si distende dal tempo della rivoluzione industriale e dall’Illuminismo sino ad oggi. È da lì, dall’astratta logica delle macchine, che nasce il moderno potere tirannico e burocratico, il quale riduce in un solo schieramento tutti i suoi detentori al pari ottusi.
Jancsó vive come un incubo surreale, una trappola metafisica, la Storia e i suoi travestimenti successivi.
A dispetto quindi delle apparenze si dovrà meditare su un motivo più riposto, fino a toccare il nervo scoperto della rivoluzione subìta…



I disperati di Sándor è, indubbiamente, tra le opere chiave del cinema moderno europeo. Parallelamente, il suo autore, Miklós Jancsó, è stato il regista che meglio ha rappresentato la új hullám – ovvero, la Nouvelle vague ungherse – durante gli anni Sessanta. In un periodo di grande rinnovamento nel campo del linguaggio cinematografico, infatti, I disperati di Sándor ha rappresentato un punto di svolta fondamentale, gettando le basi per tantissimo cinema, storico, politico e d’avanguardia di quegli anni. Questo, sia per l’aver affrontato tematiche scomode e spinose – ovvero, un periodo di forte repressione, di quasi cent’anni addietro, ma ancora tabù in Ungheria -, quanto per l’aver utilizzato uno stile e un approccio nuovi e innovativi...

… Il soggetto è, nonostante si riferisca ad avvenimenti di un secolo prima, molto delicato. Infatti, non solo la storiografia borghese tradizionale ha tramandato di Ràday una valutazione positiva (politico illuminato che molto fece perché l'impero diventasse, anche se troppo spesso solo formalmente, austro-ungarico, che così si chiamerà dal 1867, data del noto “compromesso” con Vienna), ma la stessa saggistica del dopoguerra non si cimentò in un'operazione di revisione del giudizio su quello che oggi viene considerato come uno dei responsabili principali della subalternità del paese, ridotto ad una dimensione feudale, la cui popolazione è costretta ad una servitù totale.
Significativamente, lo spettatore non vede mai Ràday, nemmeno il rastrellamento da lui ordinato, né l'eliminazione dei “senza speranza”. La Storia resta in qualche misura fuori campo, in un film che seppure sia intensamente drammatico, evita accuratamente il ricorso a strutture drammatiche esteriori e convenzionali, ad esmpio il personaggio principale che qui, come nei futuri film di Jancsó, non esiste…
da qui


…I disperati di Sandor è una lezione di cinema estremo e austero, impressionante e maestoso: quelli che si credono i protagonisti vengono spazzati via da un momento all’altro,  la prevaricazione (di una parte dell’altra, e dell’immagine sul tutto) è totale, la lezione della Storia, segnata dall’ultima scena, è tragica e cruda.


… Il discorso da particolare, locale, si fa più ampio, universale, eterno: si eleva dai limiti dell'aneddoto. Tutto questo perché quello di Jancso è un discorso autentico: ogni inquadratura é il risultato di uno sforzo analitico di tuttigli elementi figurativi, di una scomposizione geniale di questi elementi che portano il discorso su una dimensione immateriale così come lo esige il tema trattato.
Una pianura che imprigiona, una costruzione come oggetto esemplare di oppressione, delle figure circoscritte in queste dimensioni, una composizione linguistica che si organizza progressivamente, alla ricerca di un quadro perfetto di equilibri e di significati. Con dei segni, dei movimenti, delle contrapposizioni di luci e di ombre il grido di Jancso, nasce così puro, logico, fino a diventare una sintesi perfetta delle intenzioni ideologiche dell'autore.

Nel film il confinamento e l’eliminazione sistematici dei rivoluzionari superstiti che parteciparono ai moti del 1848 per l’indipendenza di Ungheria rimandano esplicitamente alle conseguenze dell’invasione sovietica del ’56. Il susseguirsi dei pianisequenza è quasi impercettibile, ma non lascia scampo: il Cinemascope è perfetto per esaltare gli spazi e le rigorose geometrie, ma paradossalmente espande al massimo il senso di oppressione, nonostante la vastità degli spazi e l’orizzonte a perdita d’occhio ricordino certe inquadrature western.Nemmeno per un secondo le distese pianeggianti e il cielo sgombro comunicano un qualsivoglia senso di apertura o libertà, fosse anche come mero, speranzoso anelito…

Es magistral como Jancsó, al escamotearnos una historia al estilo tradicional, se puede permitir mostrarnos la denigración del otro en estado puro. Quien quiera ver en este filme reminiscencias del funcionamiento de los campos de concentración de la última dictadura militar en Argentina, no estará para nada errado…