domenica 28 dicembre 2014

Pride - Matthew Warchus

Matthew Warchus è al suo secondo film, il primo era del 1999.
è un miracolo, quindi, riapparire dopo tanto tempo e insieme fare un film bellissimo, praticamente perfetto.
il film fa ridere, pensare, piangere, non sono un medico, ma se a te non ti fa quell'effetto c'è da fare un piccolo controllo, ogni tanto può essere necessario.
dopo aver visto il film capisci di nuovo o per la prima volta una frase di Nicolas Gomez Davila: “Il racconto intelligente della sconfitta è la sottile vittoria del vinto”.

ps: per gli insegnanti che passano di qui:

cerca di portare i tuoi alunni a vedere questo film, oltre che vedere un bel film capiranno il significato di alcune parole che per loro sono vecchie, astratte, o a volte comprensibili solo in certi casi, magari poi capiranno meglio le tue lezioni.
provo a fare una piccola lista, alcune parole, senza presunzione di completezza:
pregiudizio,
amore,
solidarietà, 
passione, 
coerenza, 
altruismo,  
coraggio,
convenzioni, 
libertà,
condivisione.

a tutti: godetevi questo film! - Ismaele






Uno spunto narrativo dal potenziale micidiale che ha sorprendentemente atteso trent'anni prima di essere trasposto su grande schermo. Matthew Warchus - il sottovalutato Simpatico e un notevole curriculum teatrale alle spalle - raccoglie la sfida, forzando la verità storica (la solidarietà era molto più articolata e diversificata, non coinvolgeva solo una comunità gallese e un gruppo di attivsti londinese) quel tanto che basta per rendere Pride un possibile campione d'incassi. Di quelli destinati in egual misura a essere amati e detestati, per la capacità di concentrare cliché e situazioni già viste in anni di cinema popolare britannico, con in mente solo il grande pubblico privo di pretese intellettuali…

Amitié, rencontre d'intérêts communs, soutien, capacité à pardonner et à se réconcilier, autant de thèmes qui font de "Pride" une œuvre majeure de cette fin d'année, qui pourrait rencontrer le même type de succès qu'un "Full Monty". Jouant des clichés et des préjugés, "Pride" se révèle un film généreux et humain qui ne peut que susciter l'adhésion et redonner espoir en un monde plus juste. Attachant, drôle, il s'agit là de la parfaite comédie pour la rentrée.
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sabato 27 dicembre 2014

Once Upon a Time in the Midlands (C'era una volta in Inghilterra) - Shane Meadows

un Shane Meadows minore, che comunque resta un film solo discreto, senza sfiorare i vertici a cui alcune volte è arrivato.
bravi tutti, ma sembra un compitino, certo ben fatto, ma con una certa aria di deja-vu.
si vede bene, se non si aspetta l'eccellenza, e uno sa che esiste.
ma se ha visto altre bellissime cose di Shane Meadows rischia di rimanere un po' deluso - Ismaele





 non bastano un paio di campi lunghi e un personaggio che suona musica country a ridare contorno e sangue all’immaginario evocato, a ritrovare i sentieri spiazzanti di un altro paese. Si rimane sospesi in un limbo evanescente, in un carineria da souvenir. Paradossalmente, Meadows sembra trovare il western molto più in This is England, perché riesce a cogliere, più o meno consapevolmente, uno dei motivi fondanti del genere: il rapporto del singolo col gruppo, l’immedesimazione, più o meno critica, dell’individuo con l’idea (e la storia) della nazione. Ma sebbene la deviazione sia un giro a vuoto e l’atmosfera poco più che una pallida suggestione, C’era una volta in Inghilterra recupera slancio in quei momenti in cui Meadows ricorda la sua vera vocazione, quel saper guardare a personaggi ‘normalissimi’ e fregati dalla vita con una partecipazione totale e un amore incondizionato. Una vocazione che in parte attinge, è vero, al cinema ‘realista’ (senza re) di Loach e Leigh. Ma che per stile, toni, simboli, umori, sembra rispondere ancor più a una questione anagrafica, a un dato generazionale. Meadows, classe 1972, è figlio più che legittimo dell’era punk dei Sex Pistols e dei Clash. Per questo ogni richiamo ad altro, a un finto western, è solo una patina superficiale da rimuovere in fretta. Il suo cinema non può che essere il racconto di quest’Anarchy in the UK. E, tra amore e rabbia, è chiamato a compiere quel percorso che dal Free Cinema arriva alla densità dello sguardo di Stephen Frears, sempre capace di aprire le maglie del reale attraverso ogni trama e ogni genere (quanto My Beautiful Laundrette c’è nel cinema di Meadows?)…


…Dek, a gentle soul who is devastated by being turned down on national TV, is now prepared almost to surrender, since Shirley obviously doesn't love him. But her daughter Marlene does, and in her mind Dek has always been her father. That leads to scenes of surprising tenderness, in a movie that has enormous affection for all of its characters -- except for Jimmy.
There's a slapstick sequence in the film: the botched robbery, which involves clowns and a Morris Mini, and it would almost break the spell except that we can just about believe these characters are goofy enough to pull off something like that (maybe they saw it in a movie?). And there's always the undertone of danger with Jimmy, who can be charming and then turn mean in an instant.
Rhys Ifans is the key player…

venerdì 26 dicembre 2014

Jimmy’s Hall – Ken Loach

come sempre, anche questo film di Ken Loach è prevedibile.
ogni volta prevedo che mi piace, e ogni volta la previsione si avvera.
certi suoi film sono eccezionali, questo è “solo” un bel film, pulito, chiaro, onesto, con i buoni e i cattivi senza mezze misure, e con il parroco che concede a Jimmy l’onore delle armi.
sembra solo una storia del passato, in molte parti del mondo (anche da noi) è presente, per moltissimi sarà il futuro.
e c'è un ballo, da trattenere il respiro, di Jimmy e Oonagh, verso la fine, che da solo si vale il biglietto - Ismaele





…Quello che Jimmy Granton (attivista socialista realmente esistito) edifica per due volte è di fatto un centro sociale ante litteram in cui si possono condividere saperi ma anche la gioia dello stare insieme. Definire 'peccaminose' le danze che vi si praticano è, per la chiesa locale e per gli esponenti della destra, solo un pretesto per impedire la circolazione di idee ritenute pericolose. Chi frequenta la Pearse-Connolly Hall è spesso anche un buon cristiano che partecipa alla messa domenicale. È proprio questo che va colpito e debellato da quel potere ecclesiastico che però, a differenza dei reazionari più retrivi, è ancora capace di comprendere l'onestà degli intenti dell'avversario. Il film esce in un tempo in cui a Roma siede un pontefice che ha dichiarato di saper ballare la milonga e di non sostenere ovviamente il comunismo ma anche di aver conosciuto tante brave persone che erano comuniste. Jimmy's Hall potrebbe piacergli.

Le récit est efficacement construit, l'histoire d'amour sous-jacente fait mouche. Mais surtout, Loach enfonce le clou sur les périls qui guettent ses personnages et l'être humain en générale. Il fait même dire à l'un de ses personnages, une phrase qui résume presque tout un pendant de son œuvre : « nos opposants sont toujours les mêmes ; les maîtres et les prêtres ». Il rappelle aussi que l'ennemi n'est pas une mouvance politique, « mais la pauvreté ». Choisissant de mettre en avant les rouages d'une persécution facile de la part des gens installés, le scénario signé une nouvelle fois Paul Laverty, fait un parallèle évident avec la situation de crise actuelle, désignant clairement le coupable de celle de 29 : l'homme, « pas le destin ». Superposant une nouvelle fois à tous ces enjeux politiques, une histoire d'amour contrariée, l'émotion s'impose, ample et belle.

Decía Rust Cohle que no existe el perdón como acto voluntario, sino que es la corta memoria del ser humano lo que nos lleva a remitir la merecida deuda ante la ofensa recibida. Precisamente por ello, el nihilista y ateo protagonista de True Detective colgaba sobre su cama un crucifijo; no para rendirle pleitesía o como una frívola representación de su austeridad idiosincrásica, sino como recordatorio del sacrificio personal que marca su carácter. Y a base de sacrificio ha conseguido Irlanda mantenerse con vida en su corta historia como república independiente, donde no lo ha tenido nada fácil —salvo quizá, aquella fugaz etapa en la que fue conocida como “Celtic Tiger”, pese a que ésta no fue más que un espejismo pre-recesión—. Un pueblo dividido, a menudo por la propia iglesia, cuyas calles están inundadas de estatuas y placas conmemorativas que, como el crucifijo, recuerdan a sus habitantes el motivo de su lucha. Grandes personalidades como Jim Larkin, C.S. Parnell o James Gralton (protagonista de esta Jimmy’s Hall), han jugado el rol de mártir para escribir el curso de una historia que será recordada gracias, no sólo a sus protagonistas, sino también a sus historiadores. Y aquí es donde reside la gran importancia del cine de Ken Loach, un director que, como el detective Cohle, siempre ha permanecido fiel a sus principios sin importarle las críticas subyacentes.
Loach se retira —o eso ha anunciado— de la misma manera que empezó, retratando las injusticias que han sufrido los “working class heroes” en su intento de liberarse de las opresoras garras del capitalismo…

Non si può che volere bene a Ken Loach, cineasta da sempre politicamente impegnato, coerente, disponibile. Un uomo del popolo, il portavoce cinematografico della working class, in tutte le sue possibili declinazioni, a qualsiasi latitudine. Ma l’affetto, come il senso di gratitudine, comporta qualche responsabilità. In primis, almeno dal nostro punto di vista, il dovere di rilevare la progressiva e preoccupante deriva del suo cinema, di una poetica che sembra essersi impelagata da anni nelle sabbie mobili della retorica politica, della comunicazione didascalica, nella mappatura frettolosa delle ingiustizie sociali e storiche, nella beatificazione degli eroi di una lotta senza fine. In Jimmy’s Hall le vallate sono verdi, la colonna sonora è coinvolgente e onnipresente, gli eroi sono giovani e belli e i proprietari terrieri frustano le figlie ribelli, i fascisti digrignano i denti, i preti bacchettano e comandano, la polizia esegue gli ordini. Non c’è una crepa, una sfumatura…

Novecento Pianiste - Sarah Van den Boom



giovedì 25 dicembre 2014

Oro rosso - Jafar Panahi

per "Umberto D." Vittorio De Sica ha 'subito' la frase di Andreotti: "I panni sporchi si lavano in famiglia", per osare lavare i panni sporchi al cinema per Jafar Panahi c'è la galera.
il film è stato naturalmente censurato in Iran, e già solo questo è un motivo sufficiente e necessario per vedere il film.
i guardiani della rivoluzione islamica che si occupano di morale sono dipinti come stupidi e prepotenti (ecco la galera).
Hossein è il protagonista, un povero disgraziato come tanti, lui anche di più, che, come Michael Douglas in "Un giorno di ordinaria follia", un giorno non ce la fa più.
a me è piaciuto molto, ma chi ama solo i film "e vissero tutti felici e contenti" lasci perdere - Ismaele










…L'intento del regista è quello di raccontare gli avvenimenti senza preconcetti, e nel fare questo utilizza attori non professionisti. Il risultato però non è molto entusiasmante: i lunghi silenzi, le ambientazioni squallide e soprattutto la voglia di Panahi di analizzare fino in fondo, troppo a fondo, le motivazioni dei personaggi snervano lo spettatore. Non si capisce bene perché bisogna sorbirsi Hossein che, con fatica arranca per quattro piani di scale (si vedono tutti i pianerottoli e tutti gli scalini) o che aspetta in ascensore di arrivare al dodicesimo piano di un palazzo per consegnare una pizza (si vede quest'omone grosso e triste che con la fronte appoggiata alla parete dell'ascensore aspetta, per interminabili minuti, di arrivare al piano selezionato). Dai dialoghi si capiscono molte usanze iraniane, molti pregiudizi che a volte accompagnano le donne o i più miseri, ma il tutto ci viene presentato in modo così patetico da risultare fastidioso.
Consigliato solo ai più convinti amanti del genere.

The lead actor, who plays a pizza delivery man, is actually a pizza delivery man in real life. He is also a paranoid schizophrenic, which may explain some of the character's traits and behavior.

…What seems impulsive and reckless at the beginning of the film takes on a certain logic after we have spent some time in Hussein's company. In his case, still waters run deep and cold. He has been still and implacable for the entire film, but now we understand he was not frozen, but waiting.
Note: In real life, Hussein Emadeddin, a non-actor, is a paranoid schizophrenic. Having learned this information, I felt obliged to share it with you, but the film does not refer to the disease; perhaps Jafar Panahi found that Emadeddin's demeanor, whatever its source, provided the kind of detachment he needed for his character. Hussein (the character) is doubly effective because he does not seem to be an active participant in the story, but an observer carried along by the currents of chance.

…Panahi and Kiarostami have strong observational skills, and each of the episodes displays at least one or two wonderful little insights about human behavior.  Hussein’s silent sulking after being snubbed by a jeweler.  The old crime veteran trying to impress with his wisdom.  The man who tries to be casual and flippant about his opulent wealth.  Some moments are even quite comic.  A couple is arrested leaving a party… the man protests that they’re married and the cop says, “Yeah right, like married people would go out.”
But this isn’t among the best for either filmmaker.  For one thing, the events we see are ostensibly to provide some psychological rationale for Hussein’s acts in the beginning, but it doesn’t really accomplish that.  It goes part of the way there, but there’s too much of a leap.  Also, the theme of class difference is hammered home a bit too heavily, certainly in comparison to the more subtle social commentary we’ve seen from both Panahi and Kiarostami.  We know these guys are capable of finer nuance.
Nonetheless, although it doesn’t work in the grand sense, it works in smaller ways.  It’s worth seeing as an easy film to watch with some very good moments and the unusual presence of Emadeddin.
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martedì 23 dicembre 2014

Il ragazzo invisibile – Gabriele Salvatores

come nell'ultimo film di Tornatore, anche qui Trieste è "teatro" dove il film respira.
ho letto molti giudizi prudenti, se non peggio, a me è piaciuto molto.
è una bella storia di avventura, ci sono i buoni e i cattivi, ma non lo sai fino all'ultimo minuto, questa e altre cose, ci sono tanti colpi di scena, c'è la Russia (L'educazione siberiana ha fatto scoprire un mondo nuovo a Salvatores), ci sono dei supereroi che sembrano un po' così, ma sono veri supereroi, i ragazzini sono convincenti, anche se a volte quasi caricaturali, ma ci sta, e poi Valeria Golino sembra a suo agio, insomma, il cinema vi aspetta - Ismaele





Gli effetti speciali de Il ragazzo invisibile sono artigianali nel senso migliore del termine: niente di fantasmagorico o strabiliante, piuttosto un recupero della meraviglia e dell'incanto infantile, sempre profondamente radicati nella concretezza di una quotidianità riconoscibile. Anche il montaggio si tiene lontano dalla frenesia da action movie hollywoodiano, ancor più se legato all'immaginario fumettistico. 
Il ragazzo invisibile lavora soprattutto sulla costruzione dei personaggi e sulla semina dei grandi quesiti esistenziali di cui sopra, sempre enunciati a misura di adolescente…

Sicuramente “Il Ragazzo Invisibile” è diverso dai prodotti tipici di questo periodo, probabilmente vincerà al botteghino, complice la curiosità di quella fetta di pubblico normalmente non Salvatores oriented, e con un po’ di fortuna tra qualche anno tutti ci beeremo di avere dato i natali a una saga di super-ragazzini di successo (inter)nazionale, speriamo…

Salvatores rimarca le origini fumettistiche del film (già diventato romanzo, edito da Salani, e graphic novel presentata a Lucca Comics dalla Panini-Marvel), gira con didascalismo, forse segno di umiltà, ma a tratti esasperante. Nella parte centrale il film diventa soporifero e si attende con impazienza il finale, qualunque sia purché ristabilisca la normalità. La location per la resa dei conti è il porto vecchio di Trieste, città mai nominata, ma che ha ospitato tutte le riprese esterne. All'azione, comunque sempre soft, si accompagna la rivelazione progressiva dei legami che uniscono le forze in gioco. Ci sono tutti i presupposti perché il ragazzo invisibile abbia un seguito: Salvatores ci ha messo il coraggio, noi tutti una buona dose di amor patrio, il botteghino farà il resto.

Salvatores lavora di continue semplificazioni narrative, scegliendo di non problematizzare mai la materia che si trova a maneggiare. In questo modo i personaggi risultano superficiali, spesso spediti nell’agone della contesa in maniera improvvida, creando un inevitabile spaesamento nello spettatore e impedendo quel percorso di identificazione che è al contrario indispensabile per un prodotto cinematografico di questo tipo. Gli stessi Michele e Stella, di fatto i veri e propri protagonisti della vicenda, appaiono in fin dei conti sfocati, scialbi agli occhi del pubblico, anche per una doppia scelta di casting in tutta sincerità poco convincente…

…Al di là del fatto che questo film ha certamente scardinato un tabù davvero resistente (secondo cui i comic movies sono superficiali, privi di significato e adatti al solo pubblico giovanile, e dunque appare privo di utilità procedere con la produzione di un progetto cinematografico di questo tipo), in questo caso più che il coraggio, è l’ingegno a garantire la buona riuscita del film.
I rischi di incappare in errori non erano un miraggio (e in parte dal punto di vista della sceneggiatura, nella seconda parte la storia ha subito una netta accelerazione, affievolendo la qualità complessiva della narrazione), ma dietro la macchina da presa c’era Salvatores, e la pellicola dal punto di vista tecnico ha dell’incredibile…

Salvatores realizza così un’opera intima e tenera nella rappresentazione dei disagi adolescenziali e del loro riscatto, dei quali la cornice superoistica diventa un’efficace metafora, uno strumento più che il vero “focus” narrativo principale. Sapendo di non potersela giocare, non solo per motivi di vil denaro, sullo stesso campo delle grandi produzioni americane, il regista prende in prestito, cita, e rielabora tutto in una cornice più intimista, cercando un difficile equilibrio tra le regole del genere e le convenzioni nostrane. Laddove il film si mostra più debole è proprio nelle scene in cui non si smarca abbastanza da un certo orizzonte del nostro cinema: momenti didascalici, spiegoni superflui e qualche sentimentalismo non necessario né ben calibrato…
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lunedì 22 dicembre 2014

Hugo och Josefin - Kjell Grede

la Svezia è un paese di film un po' pazzi, come lo era Pippi calzelunghe e come lo sono i personaggi di questo film.
forse è la realtà un po' pazza, ma non si vede spesso al cinema.
qui c'è una bella storia di Josefin e Hugo, che fanno amicizia e si aiutano nel mondo.
si aggiunge poi un gigante buono, che è come loro, si capiscono e giocano e si proteggono.
più bello di come ti aspetti, promesso - Ismaele






I've been waiting for eight years - since September 1968, to be exact - to review "Hugo and Josefin." It was one of the genuine hits of that year's New York Film Festival, a gentle, charming and scary children's film that was for adults, too. It came from a young Swedish filmmaker named Kjell Grede, who was somehow able to project himself back into a children's world in which grown-ups, empty barns and saying goodbye are hard to understand. The film was purchased for the American market by Warner Brothers, which still holds the rights. But the studio changed hands soon afterwards, and the film was never released commercially. At a time when every summer Saturday brings a rip-off kiddie matinee, this is a film to treasure. 
It's not an easy film, although I suspect kids will find it easier than their parents. Adults are always looking for meanings and connections; kids know nothing makes sense and that the most amazing surprises are around the next corner. What Grede does so magically is to create two worlds within the same film. After the New York screening, adults were trying to apply a realistic structure to the film, but the children in the audience matter-of-factly accepted it as a series of events in the life of the heroes…

…It is hard to imagine anybody not being caught up in the spell of this small, gentle masterpiece about two children, their private kingdom of nature and their relationship with a wise giant of a gardener.
This striking first feature film of a new director-scenarist named Kjell Grede would have been exquisite even in black-and-white, but the exquisite color photography makes it fresh, movving and memorable…
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domenica 21 dicembre 2014

Laurence Anyways – Xavier Dolan

in sintesi, la mia sintesi, Laurence Anyways è una bellissima storia d’amore, che non ha bisogno di aggettivi.
Laurence, che sta con Fred(erique), confessa che vuole diventare una donna, e Fred le starà vicino, anche quando saranno separati.
gli eventi si svolgono in una decina d’anni, il film dura quasi tre ore, non guardi mai l’orologio.
per gli occhi il film è una gioia, e ti affezioni ai due straordinari protagonisti.
quello che Xavier Dolan fa, tra l’altro, è anche di farci vergognare di come Laurence viene trattato da tutti, a partire dall'università dove insegna (va), la sua è una scelta personale, e anche molto naturale, e non si capisce perché tutti debbano metterci becco.
un’altra bellezza del film è che non c’è niente di morboso e scandaloso, se non negli occhi e nei pensieri e pregiudizi degli altri, il dolore è tutto per Laurence e Fred.
c’è più dolore che gioia, nel film, e dopo averlo visto non te lo dimentichi più.
grazie a Xavier Dolan.
cercate questo film, non ve ne pentirete, sono sicuro - Ismaele





…Laurence Anyways è inevitabilmente un film che scavalca la sintesi professionale di Dolan, lo è perché un minutaggio imponente come questo non può riguardare solamente la riproposizione di quanto già proposto prima, è un’opera che sa e che vuole essere ambiziosa, che sacrifica qualche raccordo logico (il bisogno impellente che Laurence ha di diventare donna non ha basi illustrate: un bel giorno lui dice a Fred che vuole diventare una lei, stop) in favore di un fermento audio-visivo che praticamente non conosce sosta. Chi si attendeva un’introspezione psicologica sull’atto di cambiare sesso (cosa che tra l’altro non avverrà completamente) dovrà soccombere sotto le carezze inferte da Dolan a cui i tormenti del personaggio-Laurence sembrano interessare relativamente, Xavier è uno che crede ancora nella permeabilità del cinema intesa come percorso biunivoco lui e noi + ritorno e ciò che ha da esprimere, da dirci, lo ripone nei suoi personaggi dando del tu allo spettatore (sto cercando una persona che…)…

riesce a comunicarci il legame speciale che unisce i suoi Laurence e Fred al di là di tutto, al di là di ogni ragionevolezza. Sono, semplicemente, fatti l’uno per l’altra (l’una per l’altra?), e devono arrendersi a questa evidenza. Non c’è grottesco alla Almodovar. Lo stile di Dolan è sì camp, assai pop e colorato, anche sgargiante, ma i suoi protagonista ce li presenta con molta naturalezza, consegnandoci uno dei film più belli di questo festival, e una delle migliori storie d’amore da molto tempo in qua. Inverosimile? Sì, l’ho pensato. Ma la bravura del regista sta anche nel renderci credibile l’incredibile mentre lo racconta…
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La sensazione che si ha guardando le inquadrature perfettamente studiate di Dolan   ricorda molto di più pellicole storiche come Il bacio della donna ragno o Le lacrime amare di Petra von Kant. In questi drammi lirici, il problema della differenza di genere è quasi accidentale e interessa molto di più ispezionare le conseguenze che questa scelta di vita ha sull’individuo. Di Laurence Alia (sorprendentemente) non ci interessa tanto che voglia diventare una donna ma il suo malessere, i suoi drammi e la sua continua ricerca di un amore; ce lo conferma anche la scelta del regista di non mostrare la materialità del cambiamento, cosa che invece avrebbe potuto tranquillamente fare. Laurence diventa donna quasi per sbaglio potremmo dire e ce ne accorgiamo praticamente solo grazie ad alcuni riferimenti simbolici sapientemente inseriti nel divenire delle immagini…

 Dolan parece tener tanta confianza en su talento y estar ya tan familiarizado con este tipo de narrativa que rueda libre de ataduras, lo que se traduce en un estilo muy heterogéneo y en un metraje excesivo. Por un lado, su guion contiene diálogos sentidos y veraces, capturados bien con planos cortos y estáticos, bien con ágiles paneos en cámara al hombro, pero incluye asimismo momentos extravagantes y estilizados. Se suceden así largas escenas de conversación entre los dos personajes principales, o del protagonista con su comprensiva madre, con interludios más o menos frenéticos en cuanto a imagen y sonido. Dicho guion está además enmarcado por una ocasional voz en off que añade trascendencia a situaciones que no la necesitan, distrayéndonos de la progresión amorosa de la pareja aunque sirva también para añadir capas a la misma. Dicho de otra manera, la alteración de los tiempos dota a la película de profundidad y complejidad pero también pervierte la que se supone que es su esencia. Por otro lado, como Dolan es asimismo el encargado del montaje, su duración se acerca peligrosamente a las tres horas, para una historia que probablemente podría haber sido contada en media hora menos. Es evidente el cariño que siente el cineasta por su criatura, y por ello renuncia con frecuencia a cortes y elipsis que podrían haberla hecho adelgazar un poco. Sin embargo, estos defectos consiguen que la película tenga una personalidad auténtica, y nos revelan a un director que, de manera refrescante, no le tiene miedo a la imperfección…

Talentoso, pero de uso desmesurado e impaciente. Ganas de contar y de mostrarlo todo. Algo que, teniendo en cuenta la juventud del realizador, no deja de tener cierto encanto y puede despertar una benévola disculpa por parte del espectador, pero que en futuras (y esperadas) ocasiones deseamos que cambie, devolviéndonos al Dolan de sus dos primeros largometrajes. Tres horas de metraje han de servir para profundizar mucho más y no sólo para ilustrar y traducir en imágenes un puñado de ideas, excelentes e interesantísimas, eso sí…

…LAURENCE ANYWAYS est une fresque épique qui, sur une durée d’une dizaine d’années, questionne la différence et la quête de soi. En pointillés, le cinéaste envisage les relations familiales – avec une savoureuse Nathalie Baye dans le rôle de la mère de Laurence et une sarcastique Monia Chokri dans le rôle de la soeur de Fred – et le caractère normatif de notre société. Mais il peint aussi l’admirable portrait d’une femme, Fred, déchirée par l’amour qu’elle ressent et consumée par ses sentiments. Suzanne Clément est majestueuse : face à un Melvil Poupaud qui s’impose comme l’élément négatif du film – pour ne pas dire plombant – l’actrice québécoise est déchirante et transcende l’émotion.
Xavier Dolan construit un film hybride et délicat qui, à l’image de son principal protagoniste, est sans retenue, sensible et pluriel. En élaborant son récit de manière linéaire tout en explosant ponctuellement toute logique narrative, le réalisateur, qui multiplie les effets et se renouvelle sans cesse, tend à une surprenante cohérence esthétique où la musique revêt une importance capitale. Il signe un film singulier, étonnant et détonnant, sans doute excentrique, où l’émotion est centrale sans être gratuite. Dolan est un fin artificier : LAURENCE ANYWAYS est admirable.

…la apuesta de Xavier Dolan es tan sincera y apasionada que los 168 minutos de duración de “Laurence Anyways” y los momentos en que su narración deja de ser tan inspirada, no pueden contrarrestar la potencia que desprende la historia de amor entre sus dos protagonistas; tiene la actitud, el carisma y el alma que necesita una película para llegar al espectador. “Laurence Anyways”  satisfará a todo tipo de públicos porque lanza su mensaje desde la normalidad; incluso invitará a replanteamientos de diversa índole. ¿Será capaz de convertir en tolerantes a los que rechazan el cambio de sexo en cualquier circunstancia? No lo creo, pero desde luego que invitará a la reflexión a aquellos que tengan la mente abierta.

ci si stupisce della compiuta padronanza della macchina filmica da parte di un autore ventireenne, che è uno di quei sempre più rari registi che vogliono il controllo assoluto sulla propria opera non solo a un livello autoriale ma anche eminentemente pratico: scrive, dirige, monta, sceglie i costumi e le musiche. La sceneggiatura è un fiume in piena, i personaggi e le situazioni presentati nel corso della narrazione rimangono credibili nonostante Dolan abbia un debole per le scene madri e per un'enfasi stilistica debitrice a Wong Kar-wai, che regala guizzi surreali con fulminanti metafore annesse e veri e propri videoclip. Lo studio cromatico costituito da una sinergia tra costumi, scenografie e la fotografia iper-satura di Yves Bélange potenzia ogni immagine, veicolando un poliedrico gusto per la messa in scena che si mostra sempre cangiante. I peccati di Dolan sono, pertanto, tutti di generosità verso un personaggio in cui crede e il cui ritratto a tutto tondo è il manifesto di uno degli autori più giovani e sorprendenti degli ultimi anni…

Le personnage de Laurence, interprété par le courageux Melvil Poupaud, est tiraillé entre son besoin d’affirmer son identité sexuelle et enfin s’accepter, et le regard des autres, à commencer par sa petite amie, pour qui il est tout. Se cherchant dans son quotidien à travers ses vêtements et ses attitudes, il va tâtonner, sollicitant la patience de sa compagne, qui passera par toutes les phases du deuil de leur amour perdu : incompréhension, dégoût, acceptation et tolérance. Ce qui est d’ailleurs le plus beau dans le film est l’amour inconditionnel que Fred, magistralement interprétée par Suzanne Clément, porte à Laurence.
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sabato 20 dicembre 2014

Brick and Mirror - Ebrahim Golestan

inizia come un noir anni ’60, un taxi percorre le strade della città di notte, con le luci delle insegne pubblicitarie che lampeggiano, e la radio che racconta qualche storia.
ma non è New York o Parigi, è Teheran nel 1965.
il film racconta una piccola storia, di un tassista, un’amante e una bambina abbandonata.
ricorda il neorealismo, per tutto il film, ma un neorealismo più nero di quello italiano, senza spazio per la commedia.
e con il passare dei minuti il film ti conquista e non ti molla più.
appare anche Forugh Farrokhzad, (la passeggera del taxi), per sapere qualcosa di lei guarda qui.
non perdetevi questo piccolo capolavoro (qui il film completo, con sottotitoli in inglese) - Ismaele




Brick and Mirror is a masterpiece, perfectly focused in its withering portrayal of hypocritical intellectuals preaching altruism. 
Its tragic narrative, taking place over 24 hours and moving from a rapid first half to a slow second, shows us a Teheran radically different from anything we've seen in the second Iranian New Wave -- especially in an early nightclub scene featuring a woman dancing onstage, at least one gay audience member, and a lot of bohemian atmosphere.
What's deceptive about the film is that it combines a neorealistic look (in black and white and 'Scope) with visual and dramatic modes that suggest expressionism and metaphysics. 
Peripheral characters periodically take over the story, and some of their monologues suggest Dostoyevsky in recounting the world's misery. (The title derives from a somewhat cryptic line by the 13th-century Persian poet Sa'adi that says what the old can see in a mud brick, youth can see in a mirror.)
The film opens at night with a cabdriver named Hashemi (Zackaria Hashemi) listening to a man on the radio read a story set in a nocturnal forest. (The voice is 
Golestan, recognizable from his prosaic portion of the narration in The House Is Black.) 
Hashemi picks up a woman (
Forugh Farrokhzad, seen only obliquely in a cameo) who directs him to a dirt road on a hillside. After dropping her off, he discovers she's left a baby girl in the backseat. 
Clutching the baby, he runs after the woman and suddenly finds himself at the head of a steep stairway descending into darkness. Three rapid jump cuts moving down the steps and away from him emphasize his paralysis and isolation. 
He eventually winds up at a huge construction site, no less theatrically lit, speaking to a homeless woman in a scene that in its ambience briefly recalls
Orson Welles's The Trial

Brick and Mirror is unlike anything I have seen from Iran, for it is my introduction to Iranian cinema before the revolution. With the world's eyes keenly focused on Iran, – politically or otherwise – there prevails a risk of drawing a monolithic portrait of the country. Watching Brick and Mirror, one can see how starkly different the two ages are and how drastic a cultural shift its citizens were subject to after 1979. Golestan's film, more or less, also testifies the strong relation between France and Iran that prevailed during the Shah's regime. He, evidently and interestingly, draws inspiration from both Godard and Bresson, apart from incorporating tenets from other famous schools of film-making. With complete control over every aspect of the film (writing, directing, editing and producing it by himself), Golestan churns out a film that is clearly Iranian in content, yet could pass of as one of the French New Wave movies.
Almost the whole film, both formally and script-wise, never conforms to the popular law of cause and effect. Golestan refuses to explain everything and seems to want us to not understand the city, much like Hashemi himself. Who is that crazy female at the hell-hole that Hashemi meets earlier? No answer. What is the guy, whom one might have called a charlatan earlier in the film, doing on the national channel talking about the ethics of living? No answer. Could that female, whom Hashemi sees the second night be the same lady who left the baby in his car the previous day? May be. But surely, all these aren't merely confusing or distancing devices. Each of these scenes reveals something about the city and the era, in one way or the other. Each of them has indirectly managed to document history – cultural and cinematic. Consequently, now more than ever, it feels that these seemingly stray events are the very elements that can help us perceive better a country that has been unjustly homogenized using, what Brick and Mirror shows us, a faux identity.

mercoledì 17 dicembre 2014

Neve - Stefano Incerti

Stefano Incerti ha fatto alcuni film belli, piccoli film, ma belli, di quelli che poi ti ricordi con affetto.
"Neve" è un film strano, non tutto viene detto, tocca a te entrare dentro il film piano piano, è un thriller poco urlato e poco violento, e però alla fine capisci bene che i due protagonisti non sono come vorrebbero essere, e che il loro incontro li cambia entrambi.
poi non sai se l'incontro è casuale e se tutto è eterodiretto (e anche come fa a sparire una ferita grandissima il giorno dopo, forse una brutta distrazione della sceneggiatura o del montaggio).
la neve abruzzese è la stessa de "Il grande silenzio" di Corbucci, tutto copre e tutto vuole nascondere.
questa settimana era "addirittura" in 19 sale in tutta Italia, non sarà facile trovarlo, ma si vede bene, provateci, si vale il prezzo del biglietto, fosse anche soltanto per i bravissimi protagonisti - Ismaele




da un'intervista a Stefano Incerti:

...Neve è un film realizzato in condizioni difficili...
Sì perché dopo Gorbaciof, da cui erano già passati quasi tre anni, avevo voglia di tornare a girare subito e con Formisano abbiamo deciso di far partire immediatamente le riprese, senza aspettare risposte sui finanziamenti pubblici. Nonostante avessimo chiesto una cifra piccola, poi, siamo stati i primi esclusi nella graduatoria stilata dalla Commissione del Ministero, mentre abbiamo avuto un contributo europeo dal programma Media. E mi chiedo come mai la commissione che decide queste cose non sia composta da registi o sceneggiatori, ma piuttosto da oscuri funzionari. 

Nasce da un soggetto originale, qual è stato lo spunto? 
La sera prima di iniziare a scrivere questo film avevo visto C'era una volta in Anatolia e, senza apparenti connessioni con quella storia, mi è venuta in mente la vicenda di due solitudini che si incrociano in un panorama innevato, due persone che scoprono se stesse cercando altro, o scappando da qualcosa. Poi ho coinvolto lo sceneggiatore Patrick Fogli, che ha lavorato sulle tinte del noir... 

da qui


Caratteristica sorprendente del film è la quasi totale assenza di violenza (perlomeno fisica) e sparatorie, come usanza del genere. A dominare sono il silenzio, le parole taciute e le espressioni facciali: non ci sono assassini, solo persone disperate. Quello di Incerti è stato un azzardo, il rischio di creare un thriller spento era grande; eppure, grazie anche all’aiuto di due attori come Roberto De Francesco e Esther Elisha, la pellicola non annoia, e anche se l’unica pistola sulla scena rimane inutilizzata e viene tolta di mezzo dopo pochi minuti, le emozioni rimangono forti, anche a causa di tutto ciò che c’è di “non detto”. Seguendo questo filone, anche la fine è taciuta, interrotta, sospesa, lasciata all’immaginario del pubblico e agli occhi dei protagonisti.


…è un mistery che vive più di atmosfera che di azione, un'atmosfera lunare cui contribuiscono in modo imprescindibile i due attori principali: Esther Elisha, bresciana del Benin, assai efficace nel ruolo della bellezza ambigua che alterna tenerezza e avidità, e Roberto De Francesco, memorabile nei panni di un uomo apparentemente qualunque che fa di tutto per rimanere invisibile. La performance di De Francesco non ha nulla da invidiare a quella, altrettanto centrale e indispensabile, di Eddie Marsan in Still Life, e il viso cereo contorto in una smorfia di dolore del suo Donato, a contrasto con quello scuro e vitale di Esther-Norah, resta nella memoria ben oltre la fine di una storia incentrata sull'insondabilità dell'essere umano e l'imprevedibilità del destino.

Quello di Incerti è lavoro interessante, che punta all’essenziale, quale che sia il motivo. Un film sulla solitudine e sul suo contrario, che non sempre è la compagnia. Da assaporare con calma, così come il suo tenore impone, caratteristica che in qualche misura lo limita ma che in fondo è anche il suo maggior pregio nella misura in cui è la via preferenziale per entrare nelle sue corde.

…Stefano Incerti - a distanza di quattro anni dal suo ultimo lavoro "Gorbaciof" - racconta un'altra storia liminare e minimale, un piccolo noir che gioca sui contrasti tra gli interni claustrofobici - le auto, le stanze di albergo, i negozi - e il paesaggio, un vero e proprio genius loci, che dà la cifra stilistica e la struttura spaziale ed emotiva dell'opera.
Questo viene riaffermato dal regista nella messa in quadro con l'utilizzo costante di primi piani e di riprese strette, quando siamo negli interni, oppure di campi lunghi quando si tratta di riprendere le montagne innevate o le strade dei paesi sia di giorno che di notte.
Del resto "Neve" è un film che parla di morte fisica e morale, che colpisce non solo i due protagonisti, ma è all'interno stesso della messa in scena, dove la neve dona un senso tombale ai luoghi (e la cocaina è altra neve che porta dolore e morte). In modo esplicito, questo sentimento di morte viene rafforzato, nella parte finale del film, dalla sequenza notturna all'interno del cimitero -  che opera come sineddoche del tema trattato -  suggestiva e risolutoria per la vicenda di Donato e Norah…

…una struttura narrativa criptica e confusionaria, che semina frequenti quanto gratuiti e contraddittori indizi, che se da un lato vorrebbero approfondire lo struggimento emotivo e i dubbi dei personaggi, dall’altro minano la credibilità dell’intero racconto puntando l’ipotetica risoluzione della vicenda in direzioni diametralmente opposte. Il finale inspiegabilmente (troppo) aperto lascia l’insoddisfacente sensazione della presa in giro, o quanto meno della mancanza di coraggio nell’effettuare una scelta che sia definitiva.
Neve racconta una bella storia che avrebbe meritato una narrazione migliore. Una buona regia e delle convincenti prove attoriali non bastano a innalzarlo oltre una risicatissima sufficienza. Quando le luci si riaccendono rimane impresso soprattutto ciò che fa da contorno. Una patina, appunto, di candidi, immacolati, placidi fiocchi di neve.
da qui

sabato 13 dicembre 2014

Storie pazzesche (Relatos Salvajes) - Damián Szifron

figlio dei film a episodi italiani anni '70, con esseri umani cinici sporchi e cattivi, aggiornato in salsa argentina.
film di vendette e ribellioni, che parte benissimo, l'ultimo episodio, il più lungo, è quello condanna il film a essere un semplice bel film, il regista è bravo, ha mestiere, e però è un po' troppo autocompiaciuto.
i primi tre episodi  sono per me i più riusciti e da soli valgono il prezzo del biglietto, sono anche i più cinici e cattivi, fino alle estreme conseguenze, non male anche gli episodi centrali, la delusione è per me l'ultimo episodio, sembra un film troppo corto, o un cortometraggio troppo lungo, e convenzionale, con colpi di scena troppo telefonati o troppo folli, chissà.
il film è candidato dall'Argentina all'Oscar 2015 per il miglior film straniero. - Ismaele






En cierto sentido, se trata de una película de autoayuda: como el masivo género literario, ofrece al ‘receptor’ aquello que este quiere ver y oír, soluciones obvias. La sinceridad del director cuando declara que concibió el film con el espectador siempre en la cabeza se hace evidente en el planteo de cada situación, en cada diálogo que confirma la realidad —identificación asentida del público— y, al mismo tiempo, introduce el descargo que pretende desnudar lo que ya ha sido dejado en evidencia —la maldad, el peligro constante que representa el Otro, en la pareja, en la calle, en la política de Estado; el espectador vitorea, cuchichea, aplaude, suspira—, justificando, en el proceso, la reacción vengativa. Kafka decía que, ante todo, escribía para él. Es la sinceridad primordial del autor, que involucra la asunción pública de su vulnerabilidad como ser mortal. ¿Será posible concebir una gran obra artística pensando en el espectador potencial, deseado? ¿O sólo será posible, mediante tal procedimiento, llegar a una gran obra de mercadotecnia, de publicidad/propaganda?...

Un film-teorema, in cui i singoli episodi, da quelli iniziali più brevi e con la struttura veloce dello sketch-barzelletta (come succedeva pure nel capolavoro I mostri) a quelli più complessi e stratificati, fungono da dimostrazione. Film per niente anarchico come la sua violenza e carica distruttiva lascerebbe intendere, ma costruito con un visione ingegneristica, ed è questa sua struttura assai chiusa il suo vero e unico limite. Perché, per il resto, le storie sono benissimo scritte e molto, molto divertenti, la regia ha una sua autonomia, non è solo pedissequa illustrazione del racconto, ma si incarica di creare visioni, immagini, incubi che potenzino la già forte carica del testo e della drammaturgia. Con pure un uso elegante della macchina da presa attraverso carrellate assai autoriali…

En los últimos años no habíamos sido testigos de una comedia tan ácida y contundente, que en palabras de su creador fuese capaz de retratar «la difusa frontera que separa a la civilización de la barbarie, del vértigo de perder los estribos y del innegable placer de perder el control». Aplaudida en Cannes y laureada con los Premios del Público en Donosti y Sarajevo, este largometraje ha ostentado también los méritos de convertirse en la película de habla hispana más taquillera de la historia argentina y de ser elegida para representar al país latinoamericano en los Óscar como Mejor Película de Habla No Inglesa. Definitivamente, esta obra puede convertirse en un pecado liberador para todas aquellas personas normales que también hemos querido tirar a un memo por un barranco, incendiar la estructura burocrática o hacer que un amante odioso se atiborre a cristales. Relatos salvajes es el mejor título que esta media docena de genialidades podía haber tenido. Difícil olvidar una antología tan inteligente, cáustica y deliberadamente oscura. 

La struttura del film prevede una durata via via sempre più estesa, e questo - ahinoi - significa che la sequenza che lo chiude - davvero malamente -, è anche la più lunga. Una festa di matrimonio viene rovinata dalla scoperta del tradimento dello sposo, e la consorte si rivale in vari modi, anche applicando la legge del taglione. Se qui il soggetto sconta un evidente deficit di intelligenza, l'autore non ha neanche il coraggio di condurre la propria presunta cattiveria alle estreme conseguenze, e ci appiccica un improbabile lieto fine…

Pessimismo cosmico dal sorriso spianato, l’ironia lancinante, lo humour nero come l’inchiostro di una sentenza a vita, eppure, non tutto torna: nonostante il fil rouge tematico, questi episodi stanno insieme con lo sputo, quello corrosivo di Szifron, si fanno penetrare dalla noia, perché l’unione non fa la forza: il collage vale meno di qualche sua tessera, se non di tutte (la più debole è quella con Darin).
da qui

venerdì 12 dicembre 2014

Paura dei comunisti al cinema

(molto più facile trovare film sullo schiavismo che sulla lotta di classe)

Dopo la seconda guerra mondiale, per una ventina d’anni, negli Usa la paura del comunismo trovò un rimedio nel maccartismo, che creò delle liste di artisti che erano sospettati di essere comunisti, o anche solo di non combatterlo, avevano atteggiamenti amichevoli, dicevano gli inquisitori.
Fu una caccia alle streghe e vennero create liste di proscrizione, blacklist le chiamavano, l’accusa era spesso di essere comunisti o simpatizzanti. La prima” lista nera“ fu stilata nel 1947.

…al termine delle udienze dieci fra i ‘testimoni non amichevoli’, rei di non avere collaborato con l’HUAC e di non averne riconosciuto l’autorità, vennero condannati per oltraggio alla Corte a un periodo di reclusione da un minimo di sei mesi a un massimo di un anno: si trattava dei registi Herbert Biberman ed Edward Dmytryk, degli sceneggiatori Alvah Bessie, Lester Cole, Ring Lardner Jr, John Howard Lawson, Albert Maltz, Samuel Ornitz, Dalton Trumbo e del produttore Adrian Scott, famosi all’epoca come ‘i dieci di Hollywood’, per la cui liberazione si mobilitarono personalità del mondo intero…

Tra i nominati nelle liste c’era Charlie Chaplin (tra l’altro in “Tempi moderni” si sventolava la bandiera rossa) e Herbert Biberman, che nel 1954 girò un film intitolato “Salt of the Earth” (malamente tradotto in italiano come “Sfida a Silver City”), che fu anche l’unico a essere blacklisted, praticamente negli anni ’50 non fu possibile vederlo negli Usa, apparve in un cinema nel 1965.
Pare che la genesi del film stia nel fatto che tutti quelli che ci lavorarono erano nelle liste nere, non potevano lavorare negli Usa, e allora si dissero: visto che ci accusano di essere comunisti facciamo un film pro-comunista.
Fino al 1979 fu l’unico film Usa che poteva essere proiettato nella Cina comunista.

QUI il film completo, in inglese.

Come accade nella vita alcuni confessarono (per esempio Edward Dmytryk ed Elia Kazan) incolpando altri, l’uomo è debole, molto spesso.
Qui si possono leggere i nomi di che stava nelle liste.