giovedì 31 marzo 2022

Una storia d'amore e desiderio - Leyla Bouzid

un film d'amore nel quale i protagonisti sono una ragazza e un ragazzo che studiano alla Sorbona.

hanno radici fragili, Ahmed. francese di origine algerina, con un padre giornalista che è dovuto fuggire dal suo paese per non essere ammazzato, e vive nella depressione e nell'orgoglio, Farah arriva da Tunisi, e incrociano le loro strade alla facoltà di letteratura.

Ahmed è timido, e si vede, Farah non lo dimostra, ma anche lei lo è, si seguono, si inseguono, si cercano, si lasciano, si ritrovano, galeotta fu la poesia.

hanno quell'età nella quale tutto può essere, tutti sappiamo e lo abbiamo vissuto, vivono all'università, nelle cui vene scorre la cultura, l'amore, il futuro, noi facciamo il tifo per loro, ça va sans dire.

un gran bel film, Leyla Bouzid è davvero brava (qui la sua opera prima).

buona visione, cercatelo e godetene tutti - Ismaele

 

 

 

 

 

…Il film di Leyla Bouzid ha una struttura narrativa molto semplice che, però, spinge alla profondità del pensiero e della riflessione. Anche lo stile registico di Una storia d’amore e di desiderio mantiene quest’attitudine a farsi quasi da parte, diventando sguardo e spettatore di una crescita personale. In questo modo, dunque, a prendere notevolmente il sopravvento sono i due ragazzi che, insieme, creano una sorta di melodia prima dissonante e, poi, sempre più orchestrata. A prima vista, questa potrebbe sembrare una storia simile a molte altre, concentrata sul mondo giovanile e le loro difficoltà. In realtà, a rendere questa narrazione insolita ed interessante è il suo nuovo punto di osservazione.

Solitamente, infatti, siamo abituati a confrontarci con le problematiche legate all’intimità e al sesso da una prospettiva esclusivamente femminile. Questa volta, invece, tutto è rovesciato e il focus è indirizzato sul mondo maschile. In questa eterna dicotomia dei sessi, dunque, i ruoli sembrano essere completamente rovesciati. La sicurezza dei sentimenti e del corpo appartengono esclusivamente alla ragazza, mentre il mondo maschile si trova ad affrontare una serie di difficoltà nella gestione delle emozioni e della sessualità. Una prospettiva molto interessante, quella di Una storia d’amore e di desiderio che, giocando sullo scambio delle parti, per una volta mostra come, nel gioco dell’amore e del desiderio, spesso non esistono né vinti e né vincitori.

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…Da segnalare la bravura di Sami Outalbali (Sex Education 2) che riesce a regalarci un’ottima interpretazione, conferendo al suo personaggio quella freddezza e distacco utili a comprendere il suo mondo interiore. Non è un caso che Ahmed si ritrovi attorno a sé tutte figure femminili forti, oltre a Farah, la sua insegnante di letteratura comparata e sua madre, che si può definire colei che porta i soldi a casa, mentre suo padre non lavora. Ed è proprio attraverso la descrizione del mondo femminile che si muove tutta l’opera della Bouzid.

Una storia d’amore e di desiderio si rivela un’opera capace di descrivere con grande delicatezza la differenza tra culture, l’amore adolescenziale e la scoperta della sessualità, grazie ad una solida sceneggiatura e a un cast di attori tutti in parte, che ci permettono attraverso le loro eccellenti interpretazioni di cogliere ogni sottile sfumatura del racconto.

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Ahmed (Sami Outalbali) è uno studente di diciotto anni con la passione per le letterature comparate. Figlio di esuli algerini, il ragazzo impara presto a mantenersi in equilibrio fra la desolata Banlieue della sua infanzia e Parigi, sorta d’inafferrabile Eden in cui ogni giovane ambisce a perdersi. Il ragazzo conduce effettivamente due vite: la prima di esse si svolge all’interno del proprio feudo domestico, nell’accogliente seppur gelido nido incastonato fra i grattacieli della periferia. Tra le braccia di questa nicchia marginale, Ahmed si sente (suo malgrado) a casa. La quotidianità è fatta di lavoro manuale e piccoli gesti nei quali sonnecchia un mondo lontano – un mondo che emerge a tratti come da un abisso e in cui spiccano tanto la nervosa onniscienza materna quanto l’enigmatico silenzio paterno.

Dall’altro lato del mondo sorge la Capitale, l’Occidente, l’enorme e sinistro soggiorno dell’oscuro maniero chiamato Europa. Al centro del salotto tutto pietre e stradine, arroccata come un forte sul latifondo di un vecchio Signore, emerge anche l’Università per antonomasia, la Sorbone, con il suo variopinto popolo di futuri burocrati e filosofi da cafè. Ahmed vi si accosta pian piano, a passi felpati, spalancando gli occhi come un animale impaurito e al tempo stesso curioso. In un angolo, Farah (una bravissima Zbeida Belhajamor, qui al suo esordio sul grande schermo) pare condividere lo stesso destino: anche lei viene da una terra lontana chiamata Tunisi, anche lei nasconde il proprio smarrimento nei libri di scuola, anche lei è alla costante ricerca di un qualcosa che probabilmente giace ancora dall’altra parte del Mediterraneo. Come si dice in questi casi, les jeux sont faits: attraverso il loro incontro (tutt’altro che fortuito), i due fuggiaschi inizieranno a costruire un giardino segreto, un Paradiso terrestre fatto di poesia e di sogni coniugabili soltanto al condizionale…

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Through a simple and intelligent story, Leyla Bouzid succeeds in A Tale of Love and Desire to address all the complexity of the turbulences animating bodies and minds. A portrait of the hunger of youth that echoes with great resonance, as it mirrors the self-censored aspirations of people living in the margins, where the question of sexuality is also based on unspoken rules. Carried by a duo of actors who are very well cast because full of character, the film hides under its appearances as a classical coming-of-age story a great originality and several levels of social readings, at the intersection of instinct and reflection, repression and liberation. Because to the question of the poet, "Can pure love be consumed? Should it?", life naturally offers its own answers. 

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lunedì 28 marzo 2022

Spencer - Pablo Larraín

tre giorni nella vita di Diana Spencer, ostaggio della famiglia reale (che, come tutte le famiglie reali, speriamo che si estingua in fretta).

Diana è prigioniera di rituali, pranzi, appuntamenti, senza nessuna libertà.

è un film dell'orrore, spesso e (mal)volentieri, ottimi Kristen Stewart, Timothy Spall, Maggie (Sally Hawkins) e i due bambini, William e Henry, solo loro, vogliono bene a Diana.

ottima sceneggiatura di Steven Knight e ottima regia di Pablo Larraín, uno dei più grandi registi del pianeta.

buona (non regale) visione - Ismaele


 

 

Larraín dunque non cerca l'horror della Famiglia Reale («Non sono cattivi», si dice), l'horror del contesto, dei quadri, della realtà. Sarebbe fin troppo facile. Cerca invece e trova il materiale per un horror che sia horror cinematografico. Un film non dell'orrore, quindi, ma un film che è horror. Perché è inquadrato come un horror, è musicato (dallo stile e dalle note di Jonny Greenwood) come un horror, ha le cadenze di un horror. L'idea allora di replicare, rifare, ripensare lo Shining kubrickiano, talvolta alla lettera come neanche lo Spielberg di Ready Player One, non è meno che geniale, in quanto Spencer sembra andare alla matrice dell'horror: una preda, una casa (maledetta), il passato che ritorna, la serenità sempre più distante e sempre più irraggiungibile, la pazzia che respira accanto, l'insopportabilità e la sconnessione.

E come in buona parte degli horror della storia del cinema, la protagonista di questo horror probabilmente non spaventoso ma senza dubbio inquieto finisce per salvarsi. Salva sé e salva noi, gli spettatori. Sapete perché? Semplice, perché evadendo dalla casa maledetta, dai suoi fantasmi e dalle sue ricorrenze, dove tutto è già previsto (come in un film horror, appunto), Lady D. riconduce il suo essere-cinema, essere-(un e in-un)film, nella vita di tutti i giorni, su una panchina vicino al Tamigi. È qui, nella banalità che è anche la nostra, che ciò che è cinema può rincontrare una sostanza, la verità. Spencer diventa così uno straordinario e vertiginoso film di cinema e sul cinema; un film che si fa genere (horror) e che crede in modo deciso che a guarirci, guarire noi e loro, i film, debba essere prima di ogni cosa un semplice gesto di fede personalistica. Via dalla pazza folla. La fede che il cinema (ossia la fantasia, la favola, l'immaginazione) possa avere la meglio.

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Kristen Stewart è protagonista assoluta ed espressiva di un ritratto che ha la misura di una collana di perle, le vesti di una principessa delle fiabe spogliata di libertà che le spettano, in un castello spettrale dove ogni colore acceso è un segnale di un decadimento psichico crescente. E’ la soundtrack a cura di Jonny Greenwood che parla per conto di Lady D, vuole incedere senza conoscere limiti in un crescendo di note furiose, che smontano una monarchia condotta da aguzzini e guardie giurate. I figli e la casa-rifugio di un passato roseo sono l’ancora di salvezza di una personalità diventata icona, ma resa un filo d’erba che tende spesso a spezzarsi; Kristen Stewart non si trattiene, non si sottrae alla cinepresa di Larraìn, e decide di occupare la scena con una compostezza e un controllo totale dello spazio che la circonda ammirabili.

E’ un ritratto di Lady D che assume valore nell’effetto che ha sullo spettatore, che non la vede più come un mito, ma come una donna che ha dovuto affrontare le sue paure più reali. Si elimina la necessità di essere all’altezza della sua importanza sociale e culturale, per entrare in un vortice emotivo e fragile di ciò che ha significato per questa donna confrontarsi con la stessa famiglia reale britannica. Per questo motivo, il peso drammatico del film è sostenuto quasi interamente da Stewart, che trionfa totalmente all’interno della cornice filmica ma, allo stesso tempo, il lavoro di Timothy Spall e Sally Hawkins, che bilanciano la squisita passione di Stewart con performance più razionali, è da lodare. Mentre Spall fa un lavoro impeccabile con la sua espressività, la Hawkins sfrutta al massimo tutta la naturalezza e la luminosità che contraddistingue il suo lavoro sullo schermo.

Il grande lavoro di artigianato dell’immagine, che ha caratterizzato le precedenti opere di Larraìn, fa splendere Spencer ancora di più: in questo caso, sfrutta le idiosincrasie legate alla regalità per mettere a punto una perfetta metafora della gabbia dorata. La fotografia non risparmia alcun dettaglio, con attenzione alla posizione, all’illuminazione e all’impatto che la figura di Diana ha sullo spettatore…

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Spencer diventa allora un dramma angosciante che sfiora a tratti il thriller psicologico, dove la grandiosa (c’era da stupirsi?) regia di Pablo Larraín costruisce sequenze asfissianti, inseguendo costantemente Diana in claustrofobici corridoi per poi soffermarsi spesso sul volto algido di un'anima che sta lentamente morendo; funzionale a tal proposito è la fotografia tutta giocata sui toni freddi.

Il viso, il fisico e l’immagine di Lady D. sono, all’interno del film, posti a un’attenzione mediatica senza pari - simbolico il non potersi cambiare con le tende aperte - da cui scaturisce la distruzione della sofferenza in ambito privato, deturpando anche di questo aspetto la madre di William e Henry.

Tutto ciò non sarebbe possibile ovviamente se come attrice protagonista ci fosse stata un'interprete senza la fisicità e la bravura adatta.

Per fortuna Kristen Stewart ci regala quella che è probabilmente la miglior prova della sua carriera.

Grazie a una presenza scenica strabordante e alla capacità di creare malinconia solo attraverso uno sguardo, l’interpretazione della Stewart - che lavora benissimo per sottrazione - si adatta perfettamente al racconto, in un ballo con la morte, sulle note della colonna sonora ammaliante di Jonny Greenwood, che può rivelarsi liberatorio o tombale a seconda di come si è vissuto Spencer.

A Larraín non è mai interessato creare un biopic, anche se la storia segue la realtà, quanto creare un’opera in grado di far vivere allo spettatore tutta l’angoscia di una vita sulla carta da favola, dove i pochi sprazzi di luce all’interno del film - vedasi quasi tutti i momenti con William e Henry - commuovono istantaneamente.

Forse perché sono perfetti nella loro normalità.

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Man mano che ci si addentra nella profonda intimità delle lacerazioni e dei rimossi dell’universo personale di Diana, tra ricordi infantili, sogni e desideri, Spencer diventa infatti un’allegorica fiaba nera su un corpo sacrificale vittima di un potere assoluto, misterico e insondabile. Che cerca di fuggire al di là del bosco nella notte, verso la casa d’infanzia come fonte di regressione salvifica, culla di una purezza dimenticata nel tempo, ma anche cripta foriera di ombre oscure. Un corpo rapito in un’inquietante ghost story di apparizioni fantasmatiche e venature horror in cui tutti parlano sussurrando a bassa voce, ammantando l’atmosfera di suggestioni oniriche. Dove il ritiro a Sandringham più che una riunione di famiglia si trasforma presto in una spiritica seduta di sonnambulismo, un consesso di spettri radunato all’ora di cena da servi sussiegosi (ancora Shining), e che nel silenzio più penetrante si concedono alla vista sotto i pastosi bagliori della luce delle candele: straordinario l’apporto della DOP Claire Mathon (Ritratto della giovane in fiamme), che con esasperanti grandangoli e un uso raffinato del 16 mm richiama il lavoro pittorico e plastico di Barry Lyndon (1975). In un ritratto avvolgente, al tempo stesso austero ed esangue, di un’umanità di manichini imbellettati sottratti allo scorrere del tempo, su cui si staglia la mobilità nervosa, disarmonica e non conforme di Diana. In un impianto scenico in cui dominano la distorsione percettiva e gli spiazzanti scarti dal reale, l’interpretazione di Kristen Stewart rifugge dal calco mimetico da museo delle cere, dalla perfetta replica somatica e fisiognomica di Diana (non è ciò che conta). Puntando a restituirne la fragile vulnerabilità e il coraggio ribelle con le espressioni tremolanti e stirate, le pose sghembe e scomposte di una figura minuta e reclinata (un certo modo di piegare la testa sul collo, un lieve incurvamento delle spalle), esposta alle intemperie umane e sociali della sua corte ostile. Lavorando soprattutto sui toni bassi della voce e sull’accento (più che mai indispensabile la visione in versione originale)…

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…E c’è la musica, tanta musica. Larraín non sbaglia un colpo e, dopo aver chiamato Mica Levi per Jackie, stavolta si è affidato a Jonny Greenwood (Radiohead), che lo ha ripagato della fiducia firmando probabilmente la sua miglior colonna sonora a oggi. Le partiture di Greenwood – eseguite dalla London Contemporary Orchestra, da un quartetto d’archi e da una band alla quale contribuiscono Byron Wallen alla tromba, Alexander Hawkins ai tasti e Tom Skinner dei Sons Of Kemet alla batteria – coadiuvano orchestrazioni classiche e free jazz prossimo all’improvvisazione, aderendo come un guanto al setting quando maestoso quando terrorizzante nonché agli sbalzi di mood di Diana. Inoltre, è la musica ad accompagnare idealmente Diana nei flash di danza che ne sprigionano l’essenza. Diana si eleva, trascende, corre altrove, torna a casa e torna a sperare.

Tutti abbiamo bisogno di un miracolo, per collegarsi alla conclusiva, spiazzante All I Need Is a Miracle dei Mike + The Mechanics. Qui il miracolo è sia la bellezza straordinaria del film, sia la via d’uscita che Diana si meritava e che ora le viene finalmente concessa.

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domenica 27 marzo 2022

Ober - Alex van Warmerdam

 secondo me il film sarebbe piaciuto a Pirandello.

gli attori recitano le parti e le avventure che lo scrittore decide per loro, ma, sorpresa, i personaggi posso andare, e ci vanno, dallo scrittore con le loro richieste.

il loro creatore è superficiale, banale, sadico, scontato, e giustamente i personaggi creati da lui, i prodotti del deus ex machina, vorrebbero vivere meglio, avere una parte migliore, un po' di felicità.

purtroppo vivono solo lo spazio di due ore.

il cameriere protagonista è interpretato, benissimo, dallo stesso regista.

un piccolo gran film da non perdere.

buona visione - Ismaele


 


 

 

 

Edgar, da sempre cameriere di un decadente ristorante, è infelice. I suoi giorni si avvicendano sempre uguali tra sofferenze e umiliazioni: sua moglie è malata e lo tradisce con il dottore, i clienti lo insultano e malmenano, la sua amante possessiva lo perseguita. Decide dunque di bussare alla porta dello “sceneggiatore”, colui che sta (ri)scrivendo la storia della sua vita.

Fondamentale in un autore come Van Warmerdam è il suo background teatrale, la sua concezione scenica della vita. Edgar (lo stesso Van Warmerdam che del film è realmente regista, sceneggiatore e protagonista) è un personaggio triste, una maschera angosciata e stanca della vita; un uomo di mezz'età che ha smarrito (o che non ha mai trovato) la sua ragione di esistere aspettando il suo Godot. Nulla nella sua vita va come deve andare, ma soprattutto nulla va come lui vuole: la sua assurda condizione è quella della marionetta; costretto al sorriso e allo scorrere del tempo senza controllo su di esso. E dunque chiede gli sia concessa un po' di felicità, un amore, un fugace attimo di luce nella tristezza monocromatica della sua esistenza…

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Like a puppet master with a twisted sense of humor, Dutch writer-helmer-actor Alex van Warmerdam has gleefully dished out suffering to hapless characters in films like “The Northerners” and “Grimm.” He puts the cruelty of the creative process itself in the spotlight with the nested narratives of “Waiter,” wherein a schnitzel-slinger (played by van Warmerdam himself) takes periodic timeouts from his unhappy life to ask for a break from the writer penning his life. This sophisticated black comedy could serve up small B.O. portions for niche distribs, especially if marketed to auds who like cerebral Charlie Kaufman-style metafiction.

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venerdì 25 marzo 2022

Corro da te - Riccardo Milani

un film Favinocentrico, lui è l'anima del film, è uno dei mostri degli anni '60, ancora non era nato, nel film ha meno di 50 anni, è un trombeur de femmes, non fa che scommettere, e raccontare le sue avventure di una notte e via, un dongiovanni che non si arrende mai, che fa la collezione dei sui successi .

quando Favino è in scena il film fa ridere molto, quando manca il film un po' arranca.

comunque si ride, anche se il tutto poteva essere ancora più graffiante, ma ci si accontenta.

bravissime Vanessa Scalera e Piera degli Esposti, poche battute, ma perfette.

Miriam Leone, pur simpatica e brava, dei quattro è quella che è solo sufficiente, abbastanza prevedibile rispetto agli altri.

il film comunque merita, niente di memorabile, ma non dispiace di sicuro.

buona visione - Ismaele

 

 

 

Dietro la riuscita di una storia fortemente improbabile c'era la vis comica e la reputazione trasgressiva del regista-sceneggiatore-interprete Franck Dubosc, che tenevano in piedi (perdonate il gioco di parole) il film e riuscivano a camminare sul filo teso di una comicità lievemente surreale e basata sul desiderio di trattare argomenti delicati come la disabilità senza moralismi e falsi pudori.
La versione italiana ha invece un problema di tono, perché alterna bruscamente le vicende e le caratterizzazioni dei personaggi - in particolare Gianni, che passa rapidamente dall'essere un cinico sguaiato alla Vittorio Gassman ad un tenero romantico - senza la necessaria gradualità e senza quella capacità tutta francese di rompere le righe mantenendo saldo lo schieramento. Un problema di tono rifratto in tante piccole disattenzioni che minano ulteriormente la credibilità dell'insieme, già messa fortemente in dubbio dalla premessa narrativa.
È chiaro che in una commedia la sospensione dell'incredulità è un requisito richiesto al pubblico, ma all'interno di questa sospensione bisogna potersi ancorare alla verità emotiva della storia, e in questo Corro da te è altalenante, benché i due attori protagonisti, Pierfrancesco Favino e Miriam Leone, facciano del loro meglio per dare credibilità ai loro personaggi.

Più riusciti i "caratteri" minori, come la segretaria Luciana (Vanessa Scalera) e l'amico Dario (Pietro Sermonti). Un passo sopra gli altri Piera Degli Esposti, alla sua ultima interpretazione, che in poche battute riesce a toccare la corda giusta, ovvero quella che avrebbe dovuto sottendere tutto il percorso funambolico del film: cinica ma di cuore, realista ma capace di riconoscere al volo il potere salvifico dell'amore…

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Corro da te è un film inscindibile dal suo stesso protagonista, che media efficacemente con la fonte, rilegge con personalità alcuni dei suoi momenti chiave, ma soprattutto si appropria con convinzione del cinismo del suo personaggio, esplorandone le implicazioni a contatto con il contesto italiano.

Il risultato è un film che, nei suoi momenti migliori, continua e approfondisce la ricerca che Milani sta conducendo, almeno da un paio di film, sull’immaginario della ‘commedia all’italiana e che qui lo porta ad attualizzarne alcuni elementi centrali, dal cinismo all’arrivismo, passando, ovviamente, per il sessismo, a tal punto che il Gianni di Favino non sfigurerebbe in una qualche galleria di “Mostri” alla Dino Risi.

Alla lunga il controllo di Favino sul film è pressoché totale. Non soltanto regola da solo i rapporti tra i personaggi (che sembrano agire solo in funzione sua) ma a tratti controlla anche il passo del film, come dimostra il ritmatissimo prologo, che attraverso il solo uso del montaggio, presenta in poche pennellate il protagonista.

È inevitabile, tuttavia, raggiungere un punto di non ritorno. Corro da te è talmente inscritto nel suo attore protagonista che questi ne esclude quasi ogni possibilità di sviluppo al di fuori del suo raggio d’azione. A farne le spese sono in parte i comprimari, incapaci di imporsi sulla scena se non come emanazioni della “coscienza” di Gianni, ma soprattutto la co-protagonista Miriam Leone, che spesso tiene a fatica lo stesso passo di Favino.

E così il film si sfalda, diventa un racconto a due velocità, ironico, felicemente straniante quando il focus è tutto sul protagonista, sempre più didascalico e irrigidito man mano che si lascia spazio al personaggio di Chiara e all’edificante storia d’amore...

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Pur permanendo gli atavici limiti della commedia contemporanea italiana, almeno quella pensata a uso e consumo della “massa” (l’uso della colonna sonora appare abbastanza scriteriato, ad esempio, così come un’immagine fin troppo laccata, perfetta, così rilucente da apparire artefatta, e priva di profondità), Corro da te riesce a risultare credibile, e a evitare le cadute di stile in direzione del pietismo. Va detto che alcune delle soluzioni narrative più interessanti, come la sequenza che vede Gianni a Lourdes redarguito in modo morale da un frate interpretato da Andrea Pennacchi, sono prese di sana pianta dal film di Dubosc, ma riescono in ogni caso a mantenere una loro potenza. Dispiace semmai che Milani e il suo team di sceneggiatori (Furio Andreotti e Giulia Calenda) non abbiano avuto il coraggio di calcare la mano distaccandosi dall’originale e spargendo su questa storia di prese in giro e redenzioni un po’ di sana cattiveria, che pure qua e là sembra emergere. Perché non tratteggiare in modo più severo Gianni, mostrandone in modo aperto le miserie umane? Il personaggio ne avrebbe guadagnato, e la commedia avrebbe fatto un balzo in avanti. Sarebbe stato opportuno, con ogni probabilità, rimanere in linea con la perfidia di Piera Degli Esposti, qui all’ultima apparizione prima della morte, impegnata nel ruolo della nonna di Chiara (il personaggio di Miriam Leone) che sibillina saluta così Gianni, catapultato in casa per essere presentato proprio alla giovane: “T’hanno incastrato, eh! Avevi puntato la ragazzina e invece ti tocca la paralitica”. Questa vena caustica avrebbe corroborato l’intero film, che resta invece una rom-com graziosa, senza dubbio in grado di appassionare il pubblico medio, che uscirà soddisfatto dalla sala e dopo due settimane l’avrà dimenticata.

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Accanto ai protagonisti un cast eccellente in cui spicca la bravissima Vanessa Scalera. Inoltre, grande sorpresa e commozione vedere ancora una volta la grande Piera Degli Esposti scomparsa il 14 agosto scorso, nella sua ultima interpretazione. Vengono in mente le sue parole: “Io penso che l’attore abbia un compito nella vita, arduo ma splendido: quello di consolare. Consolarci dei nostri lutti, degli abbandoni, delle malattie, della vecchiaia e della morte” così simili a quelle di Marlon Brando: “Molte volte mi sono sentito disperato ma guardando un film mi sono rasserenato, allora ho capito che gli attori danno un grande contributo alla società”. Per questo ogni volta che vediamo o rivediamo un film, ogni volta che un film ci fa sognare, porre domande o scoprire mondi a noi sconosciuti, dovremmo ringraziare gli attori che lo hanno interpretato, i registi, gli sceneggiatori e tutti coloro che l’hanno realizzato, fino ad ogni singolo ingranaggio della produzione, fino ai runner che portano i caffè alla troupe…

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giovedì 24 marzo 2022

ricordo di William Hurt

 

Confidenze a uno sconosciuto – Ilaria Feole

Come accade che, a volte, ci pare di conoscere di persona gli attori sullo schermo? Cosa c’era in William Hurt che ne ha fatto, per generazioni di spettatori, una specie di lontano parente o amico di famiglia? Questa è la sensazione diffusa a seguito della sua scomparsa precoce, il 13 marzo 2022, pochi giorni prima di compiere i 72 anni, dopo una lotta col cancro alla prostata. Non succede con tutti, e non ha a che fare col talento, che pure in Hurt era cristallino, oltre che cesellato dalla preparazione alla prestigiosa Julliard e da anni di lavoro sul palcoscenico, dove aveva recitato tutto il recitabile, da Shakespeare a Čechov all’Hurlyburly diretto da Mike Nichols che nel 1985 gli valse un Tony. Con quegli studi e quella gavetta poteva fare letteralmente di tutto, perciò è ancor più significativo che al cinema abbia esordito, trentenne, nel segno della sfida con un film come Stati di allucinazione di Ken Russell, e con un ruolo magneticamente ostico, affascinante e repulsivo, di scienziato prometeico. Un personaggio che ci attrae tenendoci costantemente a distanza, con il carisma di chi non si lascerà mai comprendere fino in fondo, ma non smetterà di invitarci a tentare: questa era la danza fra il pubblico e il corpo attoriale di Hurt, una tensione inesausta che ha raggiunto l’apice coi suoi memorabili ruoli degli anni 80. Una forza attrattiva che scaturiva dalla sua paradossale immobilità, costringendo comprimari e spettatori ad andare verso di lui: il veterano ferito di Il grande freddo; lo scrittore di guide di Turista per caso e quello di romanzi di Smoke; lo psicoanalista “in incognito” di Un divano a New York e l’insegnante di Figli di un dio minore; sono tutti personaggi che ardono di un’intensità statica e frustrante, una sensualità cerebrale (perfino le sue scene erotiche di Brivido caldo sono “ferme”) che trasmetteva contemporaneamente arroganza e vulnerabilità (per Joshua Rothkopf è stato il volto «glaciale dell’insoddisfazione yuppie»: in questo senso, davvero, l’icona di un decennio). E che non chiedeva di essere risolta, come un enigma, ma di essere accolta così com’era, nelle sottigliezze di una recitazione fatta molto spesso di microespressioni, di tutte le angolazioni esistenti di un sorriso triste, raffinata perfino quando andava sopra le righe (come con il Luis Molina di Il bacio della donna ragno, non a caso l’unica prova premiata con l’Oscar). Non era il tipo di attore che sembrasse “uno di noi”: bello di una bellezza squisitamente cinematografica, atletico e biondo, proveniente dall’alta borghesia statunitense, aveva una compostezza nobile e spesso algida, una voce profonda e avvolgente, quasi mai messe al servizio di villain (tra le eccezioni: i suoi nove minuti in A History of Violence), ma piuttosto declinate in ruoli che facevano resistenza alla tradizionale classificazione tra “amabile” e “sgradevole” (Dentro la notizia, Un medico, un uomo e, apoteosi, il Rochester di Jane Eyre), e che forse proprio per questo davano la sensazione di poter vedere la persona dietro il personaggio. Come se l’avessimo conosciuto, e seguito fino alla fine del mondo.

https://filmtv.press/

mercoledì 23 marzo 2022

Jancio Wodnik (Johnnie Waterman) - Jan Jakub Kolski

mentre lo guardavo ascoltavo la musica del film.

la storia è quella di un vecchietto, sposato con una ragazza molto più giovane di lui, che scopre di avere dei poteri curativi utilizzando l'acqua.

e così lascia la moglie e va per il mondo (solo la sua provincia, in realtà) a curare la gente; inconntra un socio che si interessa di incassare gli onorari dell'arte curativa.

la musica, dicevo.

è di Zygmunt Konieczny e scopro che il compositore delle musiche della grandissima Ewa Demarczyk (qui alcune bellissime canzoni).

buona (miracolosa) visione - Ismaele

 


QUI il film completo sottotitolato in inglese

lunedì 21 marzo 2022

Licorice pizza – Paul Thomas Anderson

Credo che Paul Thomas Anderson sia un po’ come Wes Anderson, mutatis mutandis, fanno film che nessun altro può fare come loro, hanno occhi e mani che solo loro posseggono, impossibile riprodurlo, se non in peggio.

E secondo me gli attori fanno la fila per recitare in un loro film, lo farebbero anche gratis. Credo.

E Sean Penn e Tom Waits fanno la loro bella figura, è un po’ che non li vedevamo.

Licorice pizza ci mostra un momento storico, un ‘atmosfera e un luogo dove tutto poteva essere possibile

E che bella la storia di Alana e Gary (e quando poi scopri che il babbo di Gary, il giovane Cooper Hoffman, è Philip Seymuor Hoffman, si assomigliano molto, un po’ ti commuovi,).

Alana e Gary si rincorrono tutto il tempo, e aspettavamo quell’abbraccio, finalmente.

E però nel sole dell’avvenire sono nascosti delle minacce. Vi ricordate di Harvey Milk (interpretato da Sean Penn), candidato consigliere comunale? Joel Wachs (interpretato da Benny Safdie) è un candidato consigliere comunale, come Milk, e come Milk ha un ufficio elettorale, come Milk è gay, quel ragazzo con la maglietta col numero 12 chi è? Non sappiamo che cosa succederà a Joel Wachs.

Licorice pizza è un film a cui non si può non volere bene.

Buona visione - Ismaele

 



 

Licorice Pizza è un film degli anni Settanta, tutt’altro che posticcio, che rifiuta sia lo scoramento esistenziale, sia il rimpianto nostalgico, perché è stato girato cinquant’anni dopo nella cosciente elaborazione di un tempo ormai trascorso e irrecuperabile, con due protagonisti imperfetti anche come antieroi ma che sprizzano vitalità, gioia nell’affacciarsi alla vita anche negli inevitabili imprevisti (e nel film ce ne sono tanti), incapaci di amarsi davvero per goffaggine, paura e inesperienza ma irresistibili nella loro ricerca di uno sviluppo appagante rispetto alla loro quotidianità…

Se si gratta sotto la superficie, Licorice Pizza è sì un film d’amore, ma d’amore verso il cinema. Non c’è una sola sequenza che non rimandi a qualcos’altro, come se PTA, oltre a riferirsi ai luoghi in cui è cresciuto, avesse messo in scena la sua personale enciclopedia d’amante del cinema con cui si è formato. Sì sì, il solito cazzo di postmoderno, ovvio. Certo, anche il gusto della citazione, tutto vero e tutto come sempre, almeno dagli anni Settanta (di nuovo, madonnasanta), cioè da quando i registi mostrarono di essersi finalmente accorti dell’esistenza di un cinema prima della loro venuta, come invece non avevano fatto i loro più anziani colleghi della Hollywood dei tempi d’oro, che ben difficilmente si preoccupavano di cosa succedesse al di fuori delle mura degli Studios. Quindi niente di nuovo. Bene, però qua si tratta di una storia d’amore adolescenziale che ne nasconde, in filigrana, un’altra molto più intensa e destinata a caratterizzare un’intera carriera. Per non tediarvi con le inquadrature e le scelte di regia che riflettono l’evidente volontà di metaforizzare l’atto stesso del fare-cinema (che i più avveduti, altrove, non certo qua, chiamano marche d’enunciazione ― ma non ditelo in giro, ché se no vi prendono per il culo), provate un attimo a individuare tutte le derivazioni che si riflettono in ogni singolo episodio. Io ve ne dico solo alcune, voi completate il resto, perché il bello è anche questo, misurare il proprio amore per il cinema, e se il verbo misurare vi fa venire in mente quando saggiavate i vostri progressi di crescita con gli amici sulle panchine dei giardinetti, non vi preoccupate, perché alla fine chi ama il cinema è un adolescente mai veramente cresciuto. Come non pensare, infatti, a Breezy di Clint Eastwood quando Alana ha un abbozzo di liaison con uno Sean Penn che nel film di nome fa Jack Holden ed è tutto agghindato come il vecchio divo William? Come non notare, subito dopo, l’evidenza della goffa impresa motoristica dello stesso Sean Penn, i cui echi conducono direttamente alla mitologia di scene come Gioventù bruciata e alla sua elaborazione nostalgica in American Graffiti? E poi, ancora, l’ufficio elettorale come in Taxi Driver e il matto che ci gira intorno che fa un po’ Travis Bickle e un po’ Nashville, senza contare che ogni volta che Gary e Alana corrono, e corrono per tutto il film, giusto per prendere la vita in pieno volto carichi di un ottimismo ingenuo e folle, ricordano la stessa poesia podistica dei personaggi della Nouvelle vague, pensate solo a Jules e Jim e al record del giro lanciato di tutto il Louvre in Bande à part (fissato in 9 minuti e 43 secondi, come tutti sanno).

Sto esagerando? Per niente. Se ancora non mi credete e vi siete rifiutati di trovare tutte le altre citazioni che non vi ho detto, fate attenzione al luogo in cui i due ragazzi si abbracciano nel finale e poi ditemi se non ho ragione. Ma non che voglia averla per forza, perché si dà ai fessi, solo che è così, c’è poco da fare. Intanto guardatelo, perché sarà una delle visioni più piacevoli dell’anno. Di ogni anno, almeno dagli anni Settanta.

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PTA scarabocchia tre parole sulla carta, boy meets girl, e un film emerge, un'idea si trasforma in movimento, un amore vive negli smarrimenti, un universo è ancorato e incarnato. L'autore sa come incendiare il suo racconto, come renderlo vivo con lo sguardo, la musica e il gioco virtuoso di cambio e freno. Informato dal lirismo della sua prima ballata, Licorice Pizza procede alla sua velocità di crociera, a volte languida, a volte impetuosa, una narrazione in modalità flipper tra materassi ad acqua e campagne elettorali, tra crisi energetiche e nevrosi disinvolte.

Mettendo in scena un'epoca che ha conosciuto con gli occhi dell'infanzia, l'autore punta sovente sull'aneddoto, l'epica ridicola degli adulti (il salto in moto di Penn soppiantato dallo sguardo inquieto di Hoffman), per ricentrarsi meglio sul suo proposito: un'erranza frammentata, un tutto e un niente allo stesso tempo, un vizio di forma infantile. Di fatto Pynchon non è mai troppo lontano da una storia che suona "Let me roll it". E Licorice Pizza non smette di 'girare', di finire e di ricominciare, scandito da tiremmolla e slittamenti, incroci e deviazioni, epifanie e sottrazioni, ellissi e linee spezzate. Un valzer narrativo che evolve i sentimenti di due 'debuttanti' alla ricerca di guai su una playlist radiosa (Doors, McCartney, Bowie, Sonny & Cher...).

Lui ha solo quindici anni ma il senso degli affari e l'audacia di uscire dai ranghi (letteralmente), lei ne ha venticinque e l'aria di chi non aspetta più grandi cose ma accetta imperturbabile di imbarcarsi in qualsiasi avventura. Fonte di fascinazione costante, la circolazione del loro sentimento è la sola cosa che conta. La corsa è il motivo del film. C'è qualcosa di orecchiabile in questa esaltazione permanente in cui il movimento dell'uno verso l'altra diventa semplicemente un modo di vivere, un procedere dinamico e random.

La narrazione in Licorice Pizza è evasiva, libera da ogni convenzione, da ogni forma di sottomissione. La più insolita e inattesa delle commedie romantiche si costruisce attraverso l'inaspettato, le relazioni, gli incontri, come la vita, non tutto avviene in modo logico. L'entusiasmo della giovinezza flirta con una forma di surrealismo, rimanda la fine del mondo e scarta l'impasse che incalza un Paese ancora spensierato ma a corto di benzina. In panne da qualche parte tra sogno americano e guerra in Vietnam. Ma Gary e Alana vincono l'inerzia e la differenza di età, che finiamo per dimenticare, scendendo per la china della 'collina'. Per loro PTA ricostruisce un mood, l'aria di un tempo che permetteva tutto a chi osava…

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…Ciò che realmente coinvolge in "Licorice Pizza", fin dal primo minuto, sono i due straordinari protagonisti di questa pellicola a metà tra teen drama, racconto di formazione, storia d'amore e dramedy. Magistralmente interpretati da due esordienti, Cooper Hoffman e Alana Haim, in scena insieme, sembrano letteralmente impegnati in una sfida di recitazione ad altissimi livelli. Entrambi rendono il film un avvicendarsi e intrecciarsi di puro cinema. "Licorice Pizza" è la potenza delle scene, la delicatezza della fotografia, la sicurezza nella regia e la tensione che anticipa il colpo di scena. Essendo la pellicola un film di personaggi sui personaggi, anche i colpi di scena sono spesso interiori, latenti, ma fondamentali.

Con alcuni spunti divertenti, al film di Paul Thomas Anderson non manca nulla e nella sua moltitudine di temi, primo fra tutti c'è sicuramente quello più universale sul trovare il proprio posto nel mondo. Una ricerca di sé lontano da quei cliché, stereotipi e luoghi comuni che per anni condizionano la vita delle persone e che, tra personalità e crescita, bisogna imparare a lasciar andare. "Licorice Pizza" è un film autentico, genuino, spontaneo e vero, è un film con due protagonisti che si impara ad amare fin da subito e a comprendere davvero scena dopo scena…

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Paul Thomas Anderson in Licorice Pizza costruisce un nuovo microcosmo passionale, più tipico e calato nel reale (interessante, a tal proposito, la scelta del titolo del film, il quale si riferisce a una catena di negozi di musica losangelini degli anni ’70), ma non per questo meno singolare o unico. Licorice Pizza, come da manuale se guardiamo alle tipicità della poetica visiva di Paul Thomas Anderson, prende le mosse da un mood preciso – i 70s californiani, in questo caso – e lo concretizza in un immaginario costituito da personalità peculiari, estremamente tratteggiate e verosimili, personaggi che diventano sempre più reali dinanzi allo sguardo spettatoriale mano a mano che le loro individualità emergono a dovere…

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sabato 19 marzo 2022

Shorta - Frederik Louis Hviid, Anders Ølholm

una grande opera prima, su un tema di grande attualità.

una rivolta in un quartiere di immigrati dopo l'omicidio di un immigrato da parte della polizia intrappola due poliziotti in un isolato, è una lotta contro il tempo, per salvarsi, senza aiuti esterni.

e le cose diventano sempre più complicate, un ragazzo viene preso prigioniero dai due, quasi ostaggio, ma le cose, per fortuna, non sono predeterminate, gli umani riescono a sorprendere, ogni tanto.

gran ritmo, tensione e partecipazione che non cala mai.

buona (imperdibile) visione - Ismaele

 

 

 

 

Shorta, un titolo in arabo per un film danese. È la scelta peculiare dei due registi Frederik Louis Hviid Anders Ølholm, una dichiarazione d’intenti acuta che vuole proiettare lo spettatore in un preciso orizzonte narrativo. Si parla di polizia (shorta, appunto) e di segregazione razziale in Danimarca, a partire da quei luoghi periferici che lo stesso governo danese etichetta come ghetti. Svalegården, l’immaginario quartiere di Copenhagen abitato in maggioranza da immigrati non occidentali, si propone come il teatro ideale per ospitare la rivoluzione “dal basso” che esplode nel corso del film.

Si tratta di una rabbia sociale irrazionale e violenta, a lungo repressa, che irrompe definitivamente quando il giovane di origine araba Talib Ben Hassi perde la vita, probabilmente a causa di un’aggressione subìta da parte delle forze dell’ordine. Ce lo suggerisce la sequenza con cui si apre il film, un incipit folgorante che non può che riportare alla mente l’assassinio di George Floyd, avvenuto lo scorso anno negli Stati Uniti. Shorta, in realtà, prende ispirazione dal caso molto simile di Benjamin Christian Schou, un altro arresto violento avvenuto nel 1992 in Danimarca, ma è comunque un’opera che respira profondamente di attualità…

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La sceneggiatura – opera degli stessi registi – scommette insomma sul successo sicuro, operando però un interessante gioco di ribaltamento di caratteri e situazioni che coinvolge i due personaggi nel corso di un lungometraggio narrato in tempo pressoché reale. Una lunghissima notte che vedrà emergere i loro lati nascosti, ribadendo ancora una volta l’inoppugnabile verità secondo la quale le apparenze possono sempre trarre in inganno.
Qualche piccola scivolata in una facile retorica moralista nell’epilogo non inficia più di tanto i meriti di un’opera che ha il pregio di condurre lo spettatore a vivere quasi in soggettiva un inferno di proiettili, esplosioni ed incendi in pratica senza fine. Riuscendo a tenere alla giusta distanza, proprio grazie alla costante ricerca di una totale aderenza al reale, i nefasti pericoli del film troppo somigliante ad un videogame di seconda mano.
Al tirar delle somme Shorta è dunque un film da riscoprire a tutti gli effetti, approfittando della buonissima – dal punto di vista della qualità tecnica – edizione home video partorita dalla Blue Swan Entertainment, distribuzione ormai chiaramente specializzata nel recupero di opere passate sin troppo sotto silenzio nel panorama cinematografico italico. Un’occasione, quella di visionare l’inedito Shorta, da cogliere quindi al volo.

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…Con Shorta, lo spettatore entra nel ghetto come se stesse entrando in un tunnel senza possibile via d’uscita, buio e pieno di insidie e, come Jens e Mike si sente intrappolato e cerca una possibile modo per salvarsi, la sua opinione cambia quando si trova faccia a faccia con quella realtà che ha sempre combattuto, avverte di non essere più inattaccabile. Ognuno ha il suo punto di vista, costruito da un pregiudizio sociale, e pian piano ogni vecchia certezza viene a mancare e si inizia a conoscere e a comprendere meglio le ragioni dell’altro.

Shorta – in Arabico “polizia” – é una storia cruda e densa, quasi senza scrupoli e a tratti brutale. Pietre e bottiglie volano in aria, le sparatorie e i combattimenti corpo a corpo sono l’unica forma di comunicazione e di azione possibile tra due forze opposte. Ciò non esclude, come nei noir polizieschi americani – da cui prende indiscutibilmente ispirazione -la presenza di brave persone dove “non batte il sole”, e risulteranno la salvezza che Mike mai si sarebbe aspettato di trovare. A fine visione del film, si ha la consapevolezza che le certezze iniziali stiano man mano svanendo e che per tutta l’azione ci si è aggrappati ad una convinzione mantenendo una linea di pensiero fissa, ma era solo un’ulteriore forma di autoprotezione che verrà meno.

In sostanza Shorta è un film adrenalinico che nulla a che invidiare alle produzioni oltreoceano, la tensione viene inquadrata da scontri duri e in campo potenziati da una colonna sonora punteggiante.

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in questa atmosfera così tetra e apparentemente priva di speranza, si intravedono anche i germogli di una possibile evoluzione. Non attraverso il progresso e la sensibilizzazione (purtroppo), né tantomeno nel dibattito culturale, ma attraverso un percorso molto più primordiale, cioè la condivisione di piccoli dettagli o di esperienze drammatiche. La spinta emotiva per comprendere il prossimo arriva così da una comune passione per lo sport, da una fotografia in una cameretta o addirittura dalla comprensione di cosa si prova a essere braccati da un nemico senza nome, alimentato da un odio cieco e insopprimibile. Una provocazione intellettuale e politica, che ha però anche il proprio rovescio della medaglia, dal momento che una situazione estrema può anche tirare fuori il lato più animalesco di noi stessi, facendoci perdere in pochi istanti l’equilibrio che credevamo di avere raggiunto…

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Shorta. El peso de la ley es una película danesa de acción trepidante que combina a la perfección el drama social y los conflictos raciales con escenas cargadas de adrenalina. Hviid y Ølholm dirigen una historia que parece trotar a caballo entre Training Day y El Odio, con personajes más complejos de lo que acostumbra el género y con actuaciones de gran nivel. 

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mercoledì 16 marzo 2022

Triplo gioco - Neil Jordan

un bel film, un Nick Nolte eccezionale, gli altri attori solo molto bravi, una sceneggiatura a orologeria, un ladro gentiluomo, una fotografia solare, poliziotti e ladri simpatici allo stesso modo, da vedere, direi proprio che non ci si annoia.

le opere minori di Neil Jordan sono sempre di livello medio-alto - Ismaele



…E’ un ruggito di estetica contemporanea l’ultima opera di Neil Jordan. Essenziale ma non superficiale, glamour ma mai modaiolo, confezionato con stile ma non leccato, Triplo Gioco rende giustizia e onore al suo autore. Giustizia per il finalmente risollevato interesse nei confronti di un cineasta anomalo, abile nel traslocare da un genere all’altro ma non altrettanto nell’assicurare sempre esiti importanti (come quelli raggiunti negli ultimi anni per The Butcher Boy e Fine di una Storia), e onore per il coraggio e la valenza dei risultati con cui il regista irlandese si è presentato di fronte al remake di Bob le Flambeur (1955) di Melville. Spostato il centro d’interesse da Deauville alla Costa Azzurra, Jordan si occupa personalmente della sceneggiatura - eccezionale nella resa totale degli elementi base del genere e nel compendio delle dinamiche narrative tipiche (si veda la dissertazione sul ruolo poliziotto/ladro di Bob in macchina con l’amico Roger), risintonizzando e aggiornando gli ambienti e le tematiche dell’originale melvilliano alla contemporaneità di un hard-boiled positivo, forse più vicino alla prima maniera di Mona Lisa (1986) che alle ultime produzioni, splendidamente sostenuto dalla messa in scena e dal cast…

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…Nessuna conciliazione, nessuna pacca sulla spalla, solo una fiducia preziosa nei desideri dell’uomo, anche attraverso il sangue, alla faccia di legalità, morale, pessimismo, tragicità e quant’altro. Non è poco, oggigiorno. Quei rapidi e bellissimi “freeze frame” su volti e corpi, o che a volte interrompono un gesto sul nascere, stanno lì apposta a dirci che non c’è tempo pen pendere tempo, e che La vita va troppo in fretta per occuparsi anche della monte. Con collaboratori prestigiosi (magnifica la fotografia iperrealista di Chris Menges, grande la musica di Elliot Goldenthal), un centro focale, Nick NoIte, da urlo, e facce da incorniciare, Jordan trasforma la malinconia, il disincanto e il senso di sconfitta di Melville in piacere nel ritrovare il riscatto. Vivendo.
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Molto liberamente ispirato a "Bob le flambeur" film di Jean-Pierre Melville del 1956, il nuovo lavoro di Neil Jordan è veramente sorprendente.
All'inizio sembra una tragedia, con un giocatore eroinomane che sembra non abbia alcuna via d'uscita, e invece piano piano il film prende la forma quasi di commedia rivelandoci le due facce di Bob Montagnet (interpretato da uno strepitoso Nick Nolte)…
…Certo il film vuole essere anche un omaggio a tutto quel filone giallo-rosa di cui anche in Italia eravamo maestri, ma anche senza nessun riferimento il film ha una valenza che è solo sua. E se proprio Neil Jordan ha preso un pò dal cinema precedente ha fatto esattamente come Picasso, che, lo dice Bob Montagnet, è il più grande ladro che sia mai vissuto (glielo ha confessato Pablo stesso!).
Tutto ciò che Bob vive, dal brutto al bello, sembra assumere una forma d'arte, ed è per questo che forse la fortuna, che sembra venire e andare, è invece sempre lì che guarda, proprio come succedeva con gli eroi dell'epica antica.
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martedì 15 marzo 2022

Il male non esiste - Mohammad Rasoulof

è il sesto film di Mohammad Rasoulof che vedo, e ogni volta è un film indimenticabile.

il governo iraniano non è fatto di cinefili, si sa, e cercano di non fare uscire i film, né in sala, né dall’Iran, e cercano di non far uscire i registi dalle loro case o dalle galere.

che governi di merda, in Iran, scusate, ho scritto governi.

il film racconta, per usare un’espressione che qui calza a pennello, della banalità del male, su come la pena di morte sia accettata, da molti, troppi,  nel paese, lo dice la legge (di merda, scusate, ho scritto legge).

ci sono quattro storie, due hanno un legame, lo ricorda Bella ciao, cantata da Milva, canzone delle mondine, canzone di lotta e libertà (quindi non quelle merdose versioni da discoteca, scusate, ho scritto discoteca)

ogni episodio è sconvolgente e magnifico.

uno dei più bei film dell’anno, addirittura in una ventina di sale, ma tanto sapete come fare, se non vi portano i film al cinema.

buona (viva e partecipata) visione - Ismaele

 

 

 

 

le quattro vicende che mette in scena in capitoli separati, aventi un loro titolo specifico, affrontano tutte il tema seppur da prospettive diverse e con grande efficacia narrativa. Rasoulof dice che un giorno ha visto casualmente in strada uno dei suoi persecutori del passato e si è messo a seguirlo con l'intenzione di affrontarlo verbalmente in modo molto duro. Ma, prima di farlo, si è accorto dai comportamenti dell'uomo che non era un mostro ma che lo Stato repressivo lo aveva indirizzato in modo tale che il suo lavoro ne garantisse la continuità illiberale.

I dilemmi morali che attraversano (o non attraversano) i personaggi sono universali e sanno parlare al cuore e alla mente di chi ha voglia di interrogarsi sul diritto (o meno) di sopprimere vite umane in base alle direttive di uno Stato che fa della repressione della libertà di pensiero di uomini e donne il proprio vessillo…

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Il male non esiste può essere considerato un dramma etico, uno sguardo a una realtà in cui la connivenza è ugualmente deprecabile. Pur comprendendo alcune scelte, Rasoulof non riesce ad assolvere alcuni suoi personaggi, non può mitigare il suo giudizio. Forse in alcuni momenti il suo film appare programmatico, ma la forza della messa in scena, la qualità della scrittura e l’importanza del messaggio riescono a toccare le corde giuste e a suscitare in chi guarda profonda commozione e un’inevitabile sensazione di impotenza e rabbia controllata. Non mancano momenti di lirismo, di (apparentemente) involontaria esaltazione di una natura selvaggia ma accogliente (più degli uomini), di rappresentazione della banalità del male. Quello del regista iraniano è un racconto che destabilizza, che mette in dubbio le certezze, che porta più volte a chiedersi “che cosa avrei fatto”.

Un film di grande respiro civile che spalanca una finestra su un mondo che conosciamo solo da lontano e che ci arriva in tutte le sue contraddizioni. Per capire e per continuare a interrogarci sulla natura dell’essere umano, incapace di reprimere il suo lato oscuro.

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…Non è un thriller, eppure sortisce lo stesso effetto dei film ad alta tensione, perché la calma implacabile, a combustione lenta, del racconto ha un ritmo avvincente capace di far perno sulle riflessioni, domande personali, dello spettatore che si chiede inevitabilmente “cosa farei al suo posto?”

Due ore e mezza sono tante, ma indispensabili. La posta in gioco emotiva è altissima. È un film che va visto, consigliato, mostrato agli studenti a partire dal liceo.

“Un film insieme poetico e devastante che pone ognuno di noi di fronte alla responsabilità delle proprie scelte” sono le parole di Jeremy Irons – Presidente di Giuria Berlinale 70che ha premiato Il Male non Esiste…

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… C’è tanta delicatezza nel modo di raccontare scelto da Mohammad Rasoulof. Le musiche di Amir Molookpuor sono incantevoli e suggestive. Ricordano vagamente le sinfonie di Ennio Morricone nei film di Tornatore o di Sergio Leone, struggenti e orecchiabili allo stesso tempo, ma soprattutto perfettamente allineate all’intensità emotiva di ogni scena.

Il regista de Il male non esiste lavora tantissimo con le emozioni. I dialoghi sono semplici e sinceri, come anche le scene di vita rappresentate. La finzione è impercettibile: il lavoro svolto con la costruzione del mondo finzionale è così precisa che non si riesce a cogliere, se non nella bellezza delle immagini. Gli scenari mostrati sono variegati, ma tutti ci dicono qualcosa dell’Iran: ne vediamo le città caotiche, i carceri, l’entroterra rigoglioso ed edenico e le colline più aride.

Alcune inquadrature sono di una potenza espressiva rara: il montaggio parallelo è denso di significati simbolici, necessari per dare il senso di una storia che si affida molto poco ai dialoghi. In sostanza, Mohammad Rasoulof, da abile regista, si affida alle immagini e alle emozioni per raccontare qualcosa di estremamente sentito per lui e per il suo paese. Inutile dire che il risultato è eccezionale…

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Sono vicende dure, di resistenza quelle di Il male non esiste, dove gli epiloghi possono essere misteriosi, liberatori, devastanti e aperti. Ogni incontro ha un effetto. In alcuni casi c’è un sospetto di prevedibilità: la reazione di Bahram dopo che vede la foto dell’uomo di cui si sta per celebrare il funerale; l’espressione di Bahram mentre sta aspettando la nipote all’aeroporto. In realtà invece le storie sono lineari, limpide e potenti. Di ognuna colpisce il modo con cui Rasoulof le affronta e come lascia emergere i conflitti interiori. Dopo una continua sensazione di soffocamento, nel finale Il male non esiste respira. In quel campo lungo da lontano alla Kiarostami c’è forse una speranza, un segno che il cinema di Rasoulof potrebbe ripartire.

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