giovedì 31 agosto 2017

Der verdingbub (Vite rubate / The foster boy) - Markus Imboden

una pagina vergognosa del paese civile, ordinato ed ecologico, con gli orologi a cucù e il cioccolato (e la sterilizzazione delle donne jenisch (rom) e il rapimento dei loro bambini, per essere affidati, anche loro, a famiglie cattoliche),, quel paese è la Svizzera.
orfani e poveri venivano messi in istituti, per essere poi affidati, con l'aiuto dei parroci, presso famiglie che avevano bisogno di schiavi, nel secolo scorso.
una maestrina cerca di farsi sentire, ma invano.
Max e Berteli sognano di fuggire in Argentina, il resto lo vedrete voi.
gran bel film, per i miei gusti - Ismaele






Spesso i film svizzeri di successo non arrivano nelle sale  ticinesi. È perciò da salutare con soddisfazione l'uscita di Der Verdingbub (Vite rubate) del regista Markus Imboden. La pellicola, ha fatto la sua figura in marzo ai Quarzi (sei candidature e due premi: al giovane protagonista Max Hubacher e a Stefan Kurt come migliore non protagonista) e soprattutto porta alla luce con una fiction emozionale una pagina oscura e a lungo «insabbiata» della storia svizzera. Il tema tratta, in forma di dramma sociale, il destino di orfani o figli di genitori separati che venivano dati - dall'800 e fino alla metà del secolo scorso - a famiglie contadine affidatarie. In cambio di vitto e alloggio, a volte pessimi, venivano usati come manovalanza nelle campagne. Un vero sfruttamento in contesti famigliari a loro volta poveri economicamente e moralmente. Il tutto con il tacito consenso delle autorità locali. La cultura dell'epoca era spesso indifferente ai diritti dell'infanzia e questo in varie parti del mondo. Der Verdingbub, che nelle scene iniziali nel sottofinale mostra il passaggio di una piccola bara, racconta della fattoria dei Bösinger, gente che lavora duro e non ha tempo per i sentimenti. Lì arrivano l'adolescente Max (Max Hubacher) e la dodicenne Berteli, strappata alla madre divorziata. Dal servizio militare torna il figlio, che mette subito gli occhi su Berteli. E arriva in paese la nuova maestra, giovane e piena di buone intenzioni. Intanto, per Max e Berteli la vita è sempre più dura e a niente servono i tentativi della maestra di protestare con il sindaco e il pastore perché la loro situazione migliori. Una cappa di omertà, di perbenismo di facciata, di cattiva coscienza plana su tutto. Max, che suona benissimo la fisarmonica, e Berteli, sognano di fuggire in Argentina, terra promessa di vita migliore. Ma la situazione precipita. La maestra è licenziata e Berteli, incinta del figlio del padrone, muore di aborto. Soltanto Max riesce a fuggire e a realizzare il suo sogno. Molto coinvolgente, anche se la sceneggiatura non è  perfettamente controllata, il film mette in scena una società con atmosfere degne dei romanzi di Dickens.

Nicely photographed, “The Foster Boy” will make the Swiss movie industry proud. A family, living in a mountain farm, shelters kids from poor families in change of help and some monthly amount of money. The movie concentrates in very different types of abusing endured by these kids, who had lost everything in their lives. The exception is Max and his passion for playing accordion, which will give him strength to go on dreaming with a better life. This is the kind of movie that you can’t help being involved with and be indignant. Every single performance was crucial to attain a honorable result. Not to be missed.

mercoledì 30 agosto 2017

La resa dei conti (The Big Gundown) – Sergio Sollima

un film sul potere, i buoni e i cattivi, il denaro, la frontiera e tutto il resto.
tutto questo non in un noioso saggio, ma in una storia che si fa vedere e godere, attori bravissimi, nelle mani di un grande regista.
in quei tempi erano film normali, oggi mancano film così politici senza volerlo essere.
era l'aria dei tempi, adesso le arie sono diverse, purtroppo - Ismaele




Un western all'apparenza picaresco ma che mostra subito tutta la sua attualità politica. Un bounty killer è incaricato da latifondisti di cercare un peone messicano accusato di avere violentato una ragazza e di averla uccisa. La caccia e l'inseguimento sono spietati ma il cacciatore di taglie scopre che il messicano non è affatto colpevole,è solo un capro espiatorio per coprire le malefatte del figlio di chi lo ha assunto. Duello finale multiplo che è un esplicito omaggio(del resto come anche il resto del film) ai western firmati da Sergio Leone. Il quale dal canto suo ha messo più del cosiddetto zampino nel film. Si respira un aria contagiosamente anarchica e non è neanche tanto velata una critica spietata alla classe aristocratica mentitrice,sfruttatrice ed infingarda. Ed emerge la maschera di Milian che nella parte del ricercato messicano letteralmente ci sguazza,contrapposta all'eleganza senza tempo dei lineamenti di Lee Van Cleef. Forse nulla di originale,ma siamo agli albori dello spaghetti western già reso genere di riferimento dai film di Leone. Qui almeno ci si diverte e non è poco....

Due ottimi protagonisti in forma, ma è la regia che non incanta fino alla seconda parte, dove entra in gioco anche Morricone. Qui il film diventa degno di Leone, anzi, lo supera con la lunga sequenza del fuggitivo braccato fra i canneti e i canyons, meravigliosamente accompagnata dalla musica del Maestro. Per me il miglior pezzo di cinema western mai visto.
Belli e originali i duelli, semplicemente memorabile la battuta finale.

Eccellente western che riprende un fatto avvenuto in Sardegna in quel periodo. Nascita del peone Cuchillo, simbolo del 68 italiano (Lombardo Radice scrisse unas ceneggiatura per un film mai realizzato). Il grande mestiere di Sollima ha una maturità talvolta superiore anche a quella di Leone; l'impianto della storia è solido e i caratteri, pur ipertrofici come si conviene ad uno spag, sono credibili e affascinanti. Milian conoscerà con questo film l'inizio di una stagione d'oro nel cinema di genere. Grandissima musica di Morricone.

La resa dei conti è un perfetto e avvincente western, dove tutto funziona con la precisione di un meccanismo ad orologeria. A cominciare, abbiamo visto, dalla colonna sonora, il cui splendido tema portante (quello cantato nei titoli di testa) ritorna più volte, arrangiato in modo diverso a seconda delle situazioni, nel corso del film. Per proseguire con la caratterizzazione dei personaggi, ciascuno fisicamente e psicologicamente credibile e perfetto nel proprio ruolo, da quelli principali a quelli secondari. Lee Van Cleef, pistolero implacabile e glaciale per eccellenza, assume qui una connotazione psicologica più complessa e differente: è un elegante cacciatore di taglie che lavora più per senso di giustizia che per soldi (caso quasi unico nel western italiano), e che inizia a nutrire dei dubbi sulla reale colpevolezza di Cuchillo, con il quale si instaura gradualmente un complesso rapporto di rivalità e stima nello stesso tempo. Tomas Milian è pienamente a suo agio nei panni del peone messicano perseguitato: avventuriero sempre in fuga e spesso nei guai suo malgrado, è costretto a vincere la povertà con i mezzi che ha a disposizione, ma è a suo modo onesto e non è quel delinquente che tutti vogliono far sembrare. Tutto l’opposto di Brokston, interpretato da Walter Barnes, un attore molto noto all’epoca: losco affarista, simbolo del cinismo capitalista, non esita a perseguitare l’innocente Cuchillo pur di salvaguardare il prestigio della famiglia in vista dei suoi affari, messi a repentaglio dal vero colpevole; si tratta del viscido genero Miller (interpretato da Angel Del Pozo), il quale, sotto le apparenze di uomo raffinato e rispettabile, nasconde una personalità crudele e perversa che lo spinge a violentare e uccidere una ragazzina. Assolutamente originale è poi il personaggio interpretato da Gerard Herter, anch’egli perfetto nel proprio ruolo: si tratta del Barone Von Schulemberg, un ufficiale asburgico al servizio di Brokston, che porta un monocolo, indossa abiti principeschi ed è un cultore delle armi e della musica classica. Anche nell’introduzione di un personaggio di questo tipo si vede la grandezza di questo film: un colpo di genio, all’interno di un panorama già molto variegato, che spiazza lo spettatore inserendo un elemento di novità nel genere western…

The Big Gundown, album-tributo del 1986, è un disco che, a più di vent'anni dalla sua uscita per l'etichetta Nonesuch, è ancora fresco e rivoluzionario.
E' il primo lavoro di John Zorn, compositore, sassofonista e multi-strumentista newyorkese, pubblicato da una major. Questo CD riprende nove motivi di uno tra i più grandi compositori di colonne sonore, Ennio Morricone.
La tracklist, varia ed eterogenea, si apre con il brano "The Big Gundown", dalla OST di "La resa dei conti", uno spaghetti western del 1967 diretto da Sergio Sollima con Lee Van Cleef e Tomás Milian.
Seguono altri pezzi molto belli come "Peur Sur La Ville", "Poverty", "Milano Odea", "Erotico", "Metamorfosi" e alcuni temi principali delle colonne sonore più note di Morricone come la "Battaglia d'Algeri", "Giù La Testa", e una struggente "C'era Una Volta Nel West" con cui Zorn chiude questo magnifico tributo.
Trova spazio in questo disco anche una composizione originale del sassofonista newyorkese che amplifica la carica sperimentale espressa nei brani del maestro romano.
Tutta la crema dell'avanguardia dell'epoca poi, sfila nelle formazioni che si alternano nei singoli brani, da Bobby Previte a Cyro Baptista, da Bill Frisell a Arto Lindsay e Tim Berne, assicurando all'opera una molteplicità di timbri e colori.
Zorn, in questo frangente alle prese con delle composizioni non sue, distrugge e ricostruisce i brani scelti, spaziando tra diversi stili.
Musica sperimentale, classica, bebop, folk giapponese, rock, country e jazz si incontrano e si fondono in questo album, creando un suono che ha la propria forza nella massima libertà d'espressione, priva d'ogni limite ed etichetta.
La struttura originaria dei pezzi non viene alterata ma piuttosto rafforzata.
Ogni tema è restituito fedelmente e al contempo, completamente stravolto, ma sempre con maniacale attenzione filologica: ad esempio nel brano che dà titolo all'album, dopo sei minuti, si ascolta un breve accenno a "Per Elisa" che nel film scandisce la fasi finali di un duello.
Impossibile poi non apprezzare la japan version di "Giù la testa", il soul-jazz di "Erotico" con John Patton all'organo Hammond e la posseduta vocalità di Diamanda Galás in "La classe operaia va in paradiso".
Senza dubbio, si può affermare che The Big Gundown è un disco bello, la cui forza sta nella varietà degli stili e dei suoni anche se ostico per l'ascoltatore poco abituato a causa di certe "gratuità rumoriste" proprie della poetica sonora dell'autore.
Elio Marracci

This perhaps isn't the best known spaghetti western but I have to say that it's absolutely one of the better and more enjoyable ones that I have ever seen! 

Like basically all genre examples, it has a pretty simple and straightforward main story in it but it however are all of the little details and nuances in it that help to make this movie an effective one. And even while the main story itself is pretty simple it still manages to find a pretty original approach to things, which also indeed lets this movie work out as a pretty original one within its genre. 

It's basically one long chase movie, involving a cat and mouse game between an unofficial lawman played by Lee Van Cleef and a Mexican peasant played by Tomas Milian, who is accused of raping and killing a 12-year-old girl. Of course nothing really ever goes as planned and also not everything is what it seems, which means that the story has some interesting changes in it at times and a good chemistry and relationship between its two different main characters…

lunedì 28 agosto 2017

Sixteen Candles - Un compleanno da ricordare - John Hughes

prove tecniche per il capolavoro dell'anno dopo, Breakfast club.
sembra che in pochi giorni John Hughes abbia scritto la sceneggiatura di Sixteen Candles, per una storia in equilibrio fra le risate, i pensieri, le preoccupazioni di adolescenti quasi adulti in un mondo difficile.
sembra un filmetto, fino a che non lo guardi.
dategli un'occasione, non ve ne pentirete - Ismaele




un buon Film, che cominciava a far vedere Hughes bravo a scrivere e dirigere Commedie e nonostante un soggetto,facilmente banale, riuscendo a non cadere a questa, e neanche sul mieloso riuscendo a essere equilibrato,con un buon senso del ritmo e a tratti delirante, per una miscela che funziona e che coglie bene le atmosfere e i sentimenti adolescenziali dell'epoca.

Vabbè dai....io l'ho trovato un film fantastico, non mi ha fatto morire dalle risate però mi ha tenuto di buon umore per tutta la durata; pensare poi che non ero certo a cosa andassi incontro visto che su questo film sapevo poco nulla e credevo che John Hughes (regista e sceneggiatore) calcasse la mano sullo sdolcinato, invece riesce a tenere in lodevole equilibrio la commedia giovanile con la favola adolescenziale con un più di un tocco di demenzialità. I vari soggetti sono simpatici, alcune battute e gag sono divertenti e si snocciolano anche perle di saggezza: "ecco perchè le chiamano cotte, quando il cuore fa male vuol dire che brucia". Altri motivi dell' encomiabile esito della fatica di Hughes è il fatto di non concentrare tutta la storia solo sulla protagonista ma di lasciare spazio anche agli altri personaggi, tant'è vero che Samantha (Ringwald) nella parte centrale del film si vede poco non soffermandosi, giustamente, al compleanno scordato della protagonista; a proposito del personaggio primario Molly Ringwald è veramente incantevole, perfetta per il ruolo. La colonna sonora svaria da Frank Sinatra a Billy Idol, dagli Spandau Ballet a Patti Smith solo per citarne qualcuno, ma non prende mai il sopravvento come succedeva spesso nei film di quegli anni, d' altronde stiamo parlando della metà degli anni '80 quando i videoclip incominciavano a prendere sempre più piede, ma non essendo questo un film musicale è giusto che rimanga come accompagnamento e basta. Negli USA incassò 23,7 milioni $ a fronte di un budget di 6,500,000 milioni $.

…Dopo qualche sceneggiatura per il cinema, Hughes chiede al suo agente di cercare attrici adolescenti: tra queste c'è Molly Ringwald, ragazza che diventerà la musa di Hughes e protagonista di diversi suoi film. Appena vede Molly Ringwald lo scrittore ne rimane folgorato e nel giro di un solo week-end scrive "Un compleanno da ricordare", la sua prima pellicola da regista. Il film deve buona parte della sua riuscita proprio alla scelta di Molly Ringwald, lontana da tutti gli stereotipi utilizzate fino a quel momento al cinema: la sua capigliatura rossa la fa uscire dal dualismo bionda/mora, socialmente non rientra nè tra le reginette di bellezza nè tra le bruttine stagionate, la sua Sam è un personaggio credibile nella quale potevano -veramente- riconoscersi le adolescenti dell'epoca. E anche di oggi, più di quanto possano riconoscersi in buona parte dei personaggi odierni.
Segue questo modello anche tutto il resto del cast: Hughes ha raccontato di aver dovuto dribblare centinaia di ragazzi che si sono presentati al provino per interpretare il geek Ted con la classica interpretazione/stereotipo da occhiali scuri, calzino bianco e biro che escono dal calzino, rimanendo impressionato da Anthony Micheal Hall proprio perchè si comportava come un ragazzo normale, non accettato dalle masse ma normale. Non a caso proprio la Ringwald e Hall saranno "le due muse" di Hughes, che utilizzerà ciascuno di loro in tre dei suoi film….

Sixteen Candles is a sweet and funny movie about two of the worst things that can happen to a girl on her sixteenth birthday: (1) Her grandparents shrieking "Look! She's finally got her boobies!" and (2) her entire family completely and totally forgetting that it's even her birthday. The day goes downhill from there, because of (3) her sister's wedding to a stupid lunkhead, (4) her crush on the best-looking guy in the senior class, and (5) the long, involved story about how a freshman boy named the Geek managed to get possession of a pair of her panties and sell looks at them for a dollar each to all the guys in the locker room.
If "Sixteen Candles" begins to sound a little like an adolescent raunch movie, maybe it's because I haven't suggested the style in which it's acted and directed. This is a fresh and cheerful movie with a goofy sense of humor and a good ear for how teenagers talk. It doesn't hate its characters or condescend to them, the way a lot of teenage movies do; instead, it goes for human comedy and finds it in the everyday lives of the kids in its story…

domenica 27 agosto 2017

Shell - Scott Graham

in un posto abbandonato da dio e dal mondo vivono Shell e Pete, padre e figlia, in una casetta con la pompa di benzina.
le Highlands scozzesi non sono così accoglienti, freddo e solitudine la fanno da padroni.
meno male che Shell e Pete si sostengono a vicenda, ma fino a quando?
film davvero bello, dove gli sguardi valgono più delle parole.
anche la fotografia è notevole.
non succede niente e succede tutto.
non perdetevelo - Ismaele




La bellezza è negli occhi di guarda e ce n'è tanta davvero nello sguardo di questo regista sui suoi soggetti. Immersi in un silenzio per una volta giustificato appieno dal contesto narrativo, Shell e Pete vivono un legame di sangue e di carne che si fa presto sinonimo di morte e di passione, di reciproca prigionia, fino al cannibalismo metaforico. 
Ad aprire per la protagonista gli squarci fondamentali sulla propria esistenza sono i pochi incontri con gli altri: una bambina che illumina il passaggio generazionale, una donna che lascia un libro di Carson McCullers, "Il cuore è un cacciatore solitario": un altro grande debutto che ha dato voce ai dimenticati e a chi vive ai margini. 
Il film, che sviluppa e approfondisce il cortometraggio omonimo del 2008, ha il sapore di un viaggio per la sopravvivenza psichica anziché fisica, un viaggio on the road, anche se da quella casa -sulla strada, appunto- Shell non si è mai allontanata più di qualche decina di metri. Come nel romanzo americano citato, sono gli incontri che fanno il film, le tracce che lasciano più o meno consapevolmente sul personaggio splendidamente vissuto da Chloe Pirrie. La sua è una storia di liberazione dal vuoto e un'esistenza avventurosa e infiammabile, prima ancora che cominci. Ugualmente, Shell contiene una promessa indelebile, per il futuro del suo autore.

…Using a minimalist concept, Graham knew how to cook thoroughly this story, increasing my curiosity about what the characters feel and think. The grave silences and revelatory looks speak for themselves, and the film runs patiently towards its freeing ending. Penetrating and uncomfortable, “Shell” is an outstanding film that shall not be ignored.

Shell è insieme un film d'amore e una profonda riflessione sul divenire adulti, sul sacrificio e sul destino, e il cinema di Scott Graham è un cinema asciutto, fatto di sottrazioni e che vive di silenzi, di sguardi, di parole non dette e di segreti inconfessabili, un cinema attaccato ai volti e ai gesti di due straordinari protagonisti, Chloe Pirrie Joseph Mawle, per i quali non si può far a meno di parteggiare. Un'opera dolente che scuote nel profondo e che il regista (anche sceneggiatore del film) costruisce in maniera accattivante usando gli stessi meccanismi del thriller per tenere lo spettatore in tensione fino all'ultima inquadratura, avvolto nell'incertezza su quel che accadrà. Poi la scena finale, liberatoria e catartica, di quelle che alleggeriscono il respiro e restano dentro a lungo.


venerdì 25 agosto 2017

Aferim! - Radu Jude

nel 18° secolo, in Romania, in un profondo medioevo, con la schiavitù e i padroni di corpi e anime che hanno diritto di vita e di morte, oltre che di tortura, naturalmente, ci sono due male in arnese, un padre vecchio, e un figlio un po' tonto, sono, come in un western che si rispetti, cacciatori di taglie, si ride, si va al bordello, di corre, di fanno incontri, insomma, tutto come il faut.
poi riescono nel loro scopo e riportano il fuggitivo, il servo schiavo rom, guarda caso, al padrone.
vi basti questo, alla fine il cacciatore di taglie dice al figlio che...
ma dovete vedere il film, sarà una bellissima sorpresa - Ismaele




la concepción circular de Aferim! alcanza a todos sus niveles de lectura. Las andanzas de Costadin e Ionita empiezan y acaban en el mismo lugar, con una pequeña y muy relevante elipsis (el escenario del hogar) en el trazo del círculo de la trama. Y más allá de lo diegético, la transmisión generacional de valores repetidos se adivina (Ionita mediante) completada sin conflicto, así como el mantenimiento del orden social. Este aspecto resulta interesante si tenemos en cuenta que la cinta está inscrita en la cinematografía de un país que, si por algo se ha caracterizado en los últimos años, es por su fuerte carácter de crítica social contemporánea (que ha laureado a autores como Cristian Mungiu, Cain Peter Netzer o Cristi Puiu). En cierto modo, Jude realiza una exploración en los orígenes de esas tensiones de clase rumanas. Con lo que su Valaquia amplifica sus ecos como yermo ya no paisajístico, sino cultural y humanitario. En el que una vida de vagabundeo encuentra sus mayores recompensas en una hoguera al raso con la que calentarse, una cena con la que llenarse el estómago y una vulva con la que aliviar las tensiones del camino. Si bien, sobre todo, Aferim se contempla como un soplo de aire fresco frente al semblante serio de la crítica social contemporánea: no olvidemos que la picaresca, pese al miserabilismo en el que se inscribe, es un género capaz de crear una irresistible atracción hacia su mezcla pintoresca de folclore y humor. Y la película de Jude se deja permear por esta deliciosa socarronería que emerge de entre la negrura.

Nell'esplosione della nouvelle vague di film provenienti dalla Romania mancava l'affresco in costume come Aferim, che ci porta nella prima metà del XIX secolo nella Valacchia che solo qualche decennio dopo si sarebbe unificata dando vita allo stato nazionale rumeno. Il protagonista è quello che potremmo definire una via di mezzo fra un poliziotto dell'epoca e un cacciatore di taglie che viaggia per il paese insieme al figlio alla ricerca di uno schiavo fuggitivo di etnia rom.
Se la dittatura comunista di Ceausescu è stata protagonista del cinema rumeno degli ultimi tempi che si è fatto apprezzare nei festival più importanti del mondo, è sul suo passato meno recente che il regista Radu Jude crede valga la pena porre l'attenzione. Un tentativo, il suo, di iniziare un processo consapevole di (psic)analisi per guarire la società rumena di oggi scoprendo da dove viene e di conseguenza capire come calibrare la direzione in cui andare.
Nel farlo Jude ha effettuato delle approfondite ricerche trovando alcuni casi reali che lo hanno ispirato per realizzare Aferim , un film dall'andamento a dorso di cavallo, qualche volta di mulo, spesso al trotto, ma ogni tanto con accelerate al galoppo. Picaresco e truce, ironico e spietato è il ritratto di un paese rurale, povero, in cui la schiavitù è ancora presente nella quotidianità, con una nobiltà in grado di disporre della sorte dei suoi sudditi in maniera quasi feudale…

…Los textos han sido extraídos de cartas y archivos históricos verdaderos. El resultado es como una de cazarrecompensas de Tarantino pero más real.
Cruel, pero con un humor negro, sórdido y ácido (Imperdible la escena previa a la sentencia del Sultán Constandin sin Georgeu) único.
Durante todo el viaje Aferim alecciona a Ionita en cuestiones importantes de la vida: "Lo que tu mano encuentre para hacer hazlo según tus fuerzas porque en el sepulcro donde vas no hay obra ni industria, ni ciencia ni sabiduría."…

Wittily co-written and passionately directed by Radu Jude, “Aferim!”, is an extremely entertaining historical adventure, set in Eastern Europe in 1835, that gallops at an effortless pace and carries death, sickness, greediness, and punishment in considerable amounts to grab your senses in several ways.
The filming locations are superb, providing the perfect background for the incredible black-and-white canvases created under the supervision of the competent director of photography, Marius Panduru. This prophetic manhunt, occurring in the idyllic surroundings of Romania’s Wallachia, is simultaneously eventful, chatty, outlandish, and grotesque in its very own way. Its characters are wonderfully sarcastic, moving in idiotic, toadying, and peremptory manners that can be considered equally stupid and funny…

With his feeling for movement in space and between people Jude achieves something magnificent because, as with masters like Hou Hsiao-Hsien, the action is just a part of a bigger social and historical context. Moreover, we are allowed to watch relations in single shots that are full of respect for reality. When the father played by a great Teodor Corban climbs on his horse, he will need some time, and when they go or ride from one place to the next, we feel the absurd complexities of life. 
The powerful rhythm of the film, with all the noise, mud and catchy music, creates a fascinating disdain that never feels cold. It is almost unbelievable how a country like Romania is able to have such an amazing production outcome in terms of quality. Aferim! is another must-see film and it certainly would deserve an award.

 Aferim! possiede una lunga serie di eccellenti motivi che giustifica il consenso unanime di critica che ha ricevuto, anche perché è proprio nella regia che la pellicola mostra forse l’aspetto più nitidamente valido: la scelta di un bianco e nero autentico, da Anni '40-'50, evoca atmosfere perfette per una storia che guarda ai canoni western in maniera smaccata; i dialoghi divertenti, ricchi di facezie e di funambolismi dialettici; i registri narrativi multipli sui quali il racconto si appoggia, tra western-road movie-commedia spesso ridanciana e dramma finale, ben si fondono a creare una storia semplice, ironica, cattiva e drammatica al tempo stesso, in cui l’aspetto pedagogico non assume mai contorni fastidiosi né scolastici; infine, ma non certo aspetto secondario, Radu Jude è capace di lasciare una pregevole impronta stilistica, grazie alla particolare e originale forma narrativa con cui decide di narrare una storia di sopraffazioni e di triste accettazione della realtà.

Le film apparaît donc comme une flèche sans retour, où la seule vérité est celle de l’esclavagisme et du racisme, qui affecte tout, surtout le profond des âmes. De ce point de vue, _Aferim!_ nous apprend la tragédie des âmes conscientes de leur mal, contraintes à l’alternative entre révolte violente et humiliation face à l’impossibilité d’un compromis non révolutionnaire. Cette tragédie plonge amèrement dans le sarcasme qui, avec un bon “bravo !” – “aferim !” – conforte et motive la voix (humaniste ?) de Constantin, un homme qui se retrouve finalement en échec.
_Aferim!_ n’est pas un film historique, mais clairement universel, et sinistrement contemporain, car la tragédie qu’il raconte touche tous ceux qui, malgré leurs bonnes intentions, se font complices de la barbarie de l’esclavage. Et qui, dans notre société néocolonialiste, peut vraiment se dire étranger à cette barbarie ?

mercoledì 23 agosto 2017

Ascension - Karim Hussain

Dio è morto, e chi rimane non sta tanto bene.
tre donne sono in viaggio per risolvere il problema, se mai ci riusciranno, saliranno una scala, trovando dei morti, e parlandosi spesso una contro l'altra, ma l'ascensione tocca a loro.
non sanno cosa troveranno, se arriveranno vive, hanno una missione, per conto di loro stesse, forse.
film coinvolgente o del tutto folle, a me è piaciuto molto.
provateci, non fidatevi di quello che si dice in giro - Ismaele




…Siamo in un futuro imprecisato. Il Creatore (Dio) è morto, ucciso da un’entità sconosciuta che col suo atto ha reso l’umanità intera immortale e dotata di poteri sovrannaturali: in seguito a ciò il mondo si è lentamente distrutto, andando completamente in rovina. Tre donne iniziano la scalata verso quest’entità rea in un palazzo altissimo dove regnano la morte, la pestilenza e strani fenomeni paranormali, decise a mettere fine una volta per tutte ad un mondo in disfatta, colpevole di non aver saputo gestire tanto potere. Dopo svariato tempo una delle tre riesce ad arrivare in cima alla costruzione, scoprendo l’identità del famigerato essere e…
Una dimostrazione davvero potente quella del talentuoso autore in questione. Un dramma che va oltre la semplice prova di forza visiva o filosofica, proiettando un’immagine di umanità davvero imbarazzante. Hussain qui trova il coraggio di guardarsi allo specchio per derivarne tutti i caratteri umani necessari, comprendendo non solo la necessità di una pellicola che davvero mostri il volto masochista dell’uomo, ma anche la natura di fatto stolta e pessimistica che viene rivelata dallo stesso vivente e che codifica l’esistenza stessa. Il mondo che viene mostrato è appositamente ridotto al nulla totale, gli unici esterni mostrati riprendono le primissime vicinanze del palazzo, ovvero strade deserte, con rovine dappertutto, e l’interno dell’edificio non è diverso. Le tre donne sono diversissime tra loro e le loro storie, le loro convinzioni personali saranno il pretesto per mettere a fuoco la vera essenza dell’uomo, che riesce ad autodistruggersi pur partendo da basi perfettamente stimabili. Il viaggio che loro compiono è difficile, con l’avanzare e l’avvicinarsi della cima aumenteranno i dolori e le sofferenze. La strada è disseminata di morti con gli occhi cavati per la paura di scoprire cosa li attende in cima, metafora dell’ottusa paura dell’essere di fronte alla morte. Il palazzo, nonostante da fuori appaia modestamente alto, all'interno sembra non finire mai, le rampe sono immense, e la loro infinitesimalità permette di focalizzarsi meglio sul senso intrinseco alla storia. Un film quindi ricco di richiami allegorici e filosofici, un’opera che punta molto su ciò che si cela dietro alle apparenze, e che costringe chi osserva a farsi una propria opinione, ad addentrarsi più profondamente nella lettura di ciò che contempla, perchè in definitiva di contemplazione si parla qui…
… Un film enorme, una vera e propria lezione di cinema per come dovrebbe essere. Un grandissimo, massimizzante quadro umano che denuncia, riflette, condanna e infine distrugge ogni possibile arbitrarietà, delineando una visione d’insieme realisticamente pessimistica e conscia dell’ineluttabilità di un mondo dove il libero arbitrio e la potenza portano alla morte.

''Ascension'' è un film profondamente conturbante. Un' opera inclassificabile, unica.
Un lento ed estenuante cammino ascensionale. Un Tarkovskij orrorifico.
''Ascension'' è pura anarchia spirituale, mero nichilismo trascendentale. Dio è morto. 
Il lavoro del canadese Karim Hussain è un atipico horror filosofico. 'Ascension' è una terrificante benedizione per il Cinema. Una visione assolutamente straniante. 
Capolavoro

…gli omaggi a Stalker di Tarkovskij sono tanti e balzano subito all’occhio, dalla scelta del numero delle protagoniste, passando per gli innumerevoli dialoghi, fino al finale.Ambientato interamente in un edificio (che le tre donne dovranno scalare in tutta la sua lunghezza, poiché all’ultimo piano si trova l’entità da uccidere, in una semplice ma riuscita metafora del percorso difficile e irto di difficoltà che è l’auto-miglioramento e la scoperta di sé), la pellicola di Hussain si snoda attraverso le asfissianti inquadrature metalliche di macchinari giganteschi, scale arrugginite, serpentine infinite di tubi. L’opprimente sensazione di chiuso e di distacco del nostro mondo moderno, si percepisce in ogni singola inquadratura (molto bella la sequenza dove la macchina da presa si deve divincolare in un groviglio senza fine di travi, per arrivare ad inquadrare le protagoniste).Gli uomini hanno avuto il potere, quel potere che sembravano bramare più di ogni altra cosa e al quale aspiravano da sempre e, ora che l’hanno ottenuto, ora che sono padroni assoluti di se stessi, ora che hanno nelle loro mani le redini delle proprio vite, insomma ora che sono Dio, il mondo è diventato un inferno senza scampo. Nella sua sete mai sopita di auto-disfacimento, l’uomo ha portato morte e distruzione in ogni luogo.In un mondo siffatto, l’unica speranza sembra essere la fine, il nulla. L’oblio perpetuo. Ma, fondamentalmente, la pellicola di Hussain non è così pessimistica e nel bel finale ci propone una via alternativa…

…Le réalisateur canadien exploite ici au maximum l'architecture particulièrement intéressante d'une usine désaffectée pour créer un univers post-apocalyptique avec finalement peu de moyens, aidé en cela par une photographie très froide, utilisant le plus souvent une colorimétrie tendant vers les gris et les bleus. Le film est une interminable ascension d'un bâtiment pour trois femmes à la recherche de l'assassin de Dieu. Cette montée ne se fera pas sans difficulté, entre fatigue et vieillissement des protagonistes. L'histoire tourne essentiellement autour de ces trois femmes, interprétées par Marie-Josée Croze ("Ne le dis à personne", "Je l'aimais", "Un balcon sur la mer"), Ilona Elkin ("End of the Line", "Confessions d'un homme dangereux") et Barbara Ulrich ("Danny in the Sky"), qui au cours de leur ascension discuteront sur divers sujets existentiels (genre : As-tu déjà eu un orgasme?)…

A l'instar de ses précédents travaux, ce «Ascension » ferait passer Tarkovki pour un actioner. Il faut dire qu'avec son néant à la « Stalker » (1979), ce lieu désertique n'a rien de bien vivifiant. Cette absence de mouvements risque à elle seule de faire fuir celui qui ne savait pas où il mettait les pieds.
La première variation d'Hussain est le rôle du langage. Amoureux des performances techniques, il va pendant les 2/3 du métrage modifier son approche du langage verbal. Alors qu'il était habituellement un argument venant soutenir l'image et le son, il vient ici supplanter l'apparence. A ce petit jeu la qualité s'en ressent. Si les discussions philosophiques lapidaires étaient une marque de fabrique, leur utilisation répétée, toujours selon une articulation monotone, fonctionne assez mal quand il s'agit de long-cours. L'écriture se fait par instant brouillonne et on sent les creux des échanges. 
Une forme d’ambiguïté vient heureusement semer le doute dans le petit groupe. Des secrets gardés et des pointes d'humour noir – discrètes – détendent un peu le nerf de son approche métaphysique.
On se rapprochera petit à petit des explorations plus graphiques du cinéaste au fur et à mesure de l'ascension, se rapprochant de la rencontre avec cette entité. 
Le propos, comme il a été dit, est un peu pataud mais il n'en demeure pas moins intéressant. On retrouve l'obsession de l'humain et de ses écueils, sa distanciation avec Dieu, la composante viscérale supplantant notre magnifique logique jusqu'à épuisement de l'homo sapiens sapiens. 
Une fois n'est pas coutume on a l'impression d'inégalité qui prédomine surtout que le cadre ne bouge guère donnant encore plus de poids aux dialogues…


domenica 20 agosto 2017

Palabras – Corso Salani

un piccolo film ambientato nel Cile delle terre e delle acque rubata per costruire dighe.
una ragazza spagnola di un fondazione contro la costruzione delle dighe incontra e si scontra con un ingegnere italiano che prepara il cantiere per la costruzione della diga.
e poi da cosa nasce cosa.
succedono poche cose, Adela (ma anche Alberto) è bravissima, non si risparmia e di sicuro soffrirà di più, questo è il mondo.
a me è piaciuto molto, senza troppe complicazioni, e sincero.
peccato che Corso Salani non c'è più.
buona visione - Ismaele






In Palabras, sullo sfondo di una moderna Santiago del Cile, è la giovane Adela a raccontare alle amiche la relazione avuta con Alberto un anno prima: un sentimento sofferto, un amore improvvisamente svanito. Lei era sulle Ande assieme ad altri amici ambientalisti per contestare la costruzione di una diga; lui, uno schivo ingegnere italiano, è lì a rappresentare la ditta che quel progetto lo vuole attuare. Sulle tristi melodie di un ballo non consumato, Adela e Alberto si diranno addio. Soggettista, sceneggiatore, regista e attore, Salani (che davanti la macchina da presa così profondo e intenso forse non è) scompone progressivamente la relazione fra i due innamorati, si addentra pian piano nell’insofferenza di Adela, fino a mostrare senza vergogna il patimento di chi ancora può piangere sinceramente per amore. Bravissima e bellissima Paloma Calle quasi sempre in scena.

dettagli su cui si costruisce un film che sa essere lieve e denso allo stesso tempo, aperto e libero eppure avvolto dolcemente su alcune scene, quelle in cui emerge la forza dello sguardo/cinema di Salani, attimi che concentrano una ricerca progressiva e sempre rivoluzionaria, capace di chiudersi attorno ad una scena di ballo, ad uno sguardo dove non servono più parole per dire.

Salani squaderna il peggio del cinema italiano: immagini spudoratamente soleggiate (passato) e sporche di melanconia (presente), una love story melò tra due nemici “ambientali”, la trovata rivoluzionaria della narrazione in flashback, tristezza di maniera e tanto altro. Paloma Calle è un’attrice fin troppo teatrale, platealmente a disagio con la telecamera piantata sul volto (e allora sgrana gli occhioni); il regista stesso, portatore sano di deteriore morettismo, fa innamorare la protagonista di lui (alla Pieraccioni? Andiamoci piano con gli insulti); le due amiche della protagonista sono anitre pettegole, la coppia triestina non dà segni di vita. Fastidiosi indugi registici sulla handycam del cinema “povero” (di mezzi come di idee), una sceneggiatura estratta da un temino di quarta elementare: verso la metà della pellicola Adela attacca con io e lui ci capivamo senza parlare e prosegue per uno snervante quarto d’ora. Apprezzabile solo il bilinguismo italiano-spagnolo, su un roccioso sfondo andino da cartolina. Gli snodi filmici riusciti si contano sulle dita di un moncherino: in uno di questi il silenzio ottenebra un ballo della protagonista, sfortunatamente per pochi secondi. Poi quelli là sullo schermo ricominciano a sbrodolare parole (dallo spagnolo palabras), affondando il coltello sullo spettatore: in confronto lo psicologismo di Ozpetek è cinema epico e la ruffianeria di Muccino appare quasi digeribile (ho esagerato).

giovedì 10 agosto 2017

1981 - Indagine a New York (A most violent year) - J.C. Chandor

Abel Morales, un immigrato di Portorico, è riuscito a diventare un imprenditore, ma facendo il suo lavoro secondo le regole che le leggi impongono ha delle grandi difficoltà.
è il migliore nel suo campo, ma i concorrenti, che conosce bene, fanno di tutto per farlo cadere.
lui vuole giocare pulito fino all'ultimo, non sapremo se ci riuscirà.
ottima sceneggiatura, grandi interpreti, un gran bel film che non delude, anzi... - Ismaele





…Il nocciolo miracoloso dell’opera sarebbe questo, il dilemma tra fortuna e pervicacia, le conseguenze disastrose della sorte o del successo sull’animo umano. Non basta, il prodigio più grande è che il film non si ispira ma respira il cinema di quell’età di mezzo, c’è Friedkin, Cimino, De Palma, e poi Lumet, Mamet, Pollack, Jewison. Suoni, sonorità, sociologia, affreschi di interni, inseguimenti di macchine, corse a piedi verso il nulla, Brooklyn, la neve, l’immondizia, i mafiosi, le banche, i sindacati, i vestiti, i loft, la rabbia. Tutto, tutto, proprio tutto è dell’anno (non) di grazia 1981, pure la mancanza di pietà, da allora mai più pervenuta.
A 35 anni di distanza, A Most Violent Year è il viaggio definitivo al principio della notte, il ritorno a quel futuro senza distacco nè rimorsi né rimpianti, un buco nero che inghiotte, dissolvendola, la sterile nebulosa di questo eterno presente e riorigina dove i sogni di alcuni diventarono gli incubi di tutti. Sia lodato J.C. Chandor, sia lodato Oscar Isaac, sia lodata Jessica Chastain, sia lodato Elyes Gabel, sia lodato Alex Ebert.
Sia lodato il cinema.

Quella di Chandor è una New York viva, ma moribonda, preda di una decadenza morale a cui il suo protagonista cerca strenuamente di opporsi, ritrovandosi però costretto a scendere sempre più a patti con la realtà. Ne viene fuori un film strano, dal ritmo letargico ma bizzarramente ipnotico, una sorta di thriller placido che a tratti si risveglia con due o tre sequenze dalla potenza e dalla tensione fuori scala. E tutto ruota chiaramente attorno all'incredibile bravura di Oscar Isaac, che ancora una volta prende possesso di un film e lo domina dall'inizio alla fine, in ogni momento, in scene clou come quel fantastico monologo ai dipendenti ma anche in momenti più piccoli e apparentemente insignificanti. 1981: Indagine a New York è soprattutto suo, nonostante il resto del cast esprima comunque il magnetismo delle grandi occasioni, ed è anche e soprattutto per godersi un'altra notevole performance di uno fra i migliori attori sulla piazza che bisognerebbe gustarselo.

Ci sono alcune famose pagine in Pastorale Americana di Philip Roth, che ho sempre trovato formidabili a differenza di quasi tutti quelli con cui ne ho parlato (anche quelli che hanno amato quel romanzo), che le considerano invece la parte più insopportabile del libro. Mi riferisco a quando Roth si mette a spiegare il business dei guanti, come funziona la fabbrica dei guanti, come è fatto il prodotto, il disegno, le dita, i gusti dei consumatori – uomini e donne. Il lettore è costretto a calarsi in un groviglio di dettagli tecnici, tessili, industriali, economici – e restarci per un bel po’. Altri autori, forse, avrebbero mirato al nocciolo ideale della faccenda – gli affari, il commercio, l’ascesa di un imprenditore immigrato secondo il copione del Sogno Americano – senza perdersi nel nitty-gritty dei processi produttivi. Dopotutto, un’industria vale l’altra, no?, l’azienda dei Levov avrebbe potuto produrre anche bulloni industriali o costumi da bagno, e l’impronta morale del romanzo sarebbe rimasta la stessa.
C’è però una forza incredibile nelle storie che emergono dalle cose, piuttosto che venire imposte dall’alto dall’autore onnisciente. Il brulicare di dettagli tecnici può sembrare insignificante per chi vuole distillare un senso simbolico dai fatti; ma la realtà trabocca di minuzie e la cosa più difficile e potente del narrare è mostrare come da questi brandelli di vita emergano dei possibili (ambigui, tentativi, faticosi) disegni di senso.
C’è un tipo di narrazione densa ed elevata che abbraccia i fatti dall’alto per mostrare la portata delle idee che li vogliono spiegare. C’è invece quell’altro tipo di narrazione che nasce in basso tra le apparenti insignificanze della vita – i dettagli trascurabili e umili, irrilevanti per il disegno complessivo – per animare di vita vera e vibrante le storie che emergono nel complesso. Ci sono svariati modi in cui un autore può guardare ai dettagli – ma il modo in cui lo fa, quel movimento del racconto che piomba verso la concretezza singolare delle cose e si aggancia alla realtà e alla vita, è cruciale per il risultato alla fine ottenuto: se si tratta, cioè, di una parabola allegorica o di uno squarcio nella realtà delle cose…

la pacata compostezza dei gesti, a partire da quelli di un controllatissimo Oscar Isaac (l'attore più interessante della sua generazione, che qui - avendo palesemente per modello le prove più moderate di Al Pacino da giovane - regala probabilmente la sua miglior interpretazione grazie alla bravura di Chandor nel dirigere gli attori). E poi, la studiata pacatezza dei movimenti di macchina. La mdp - più spesso ferma che in movimento (ancora più che in Margin Call, dove tracciava spesso carrellate fra le geometrie degli ambienti) - scruta in realtà sovente la scena con dei leggerissimi, quasi impercettibili movimenti in avanti o indietro, che oltre a procurare una sensazione di intrappolamento, aumentano nello spettatore un'ansia sottile. Il ritmo è senz'altro lento, potremmo dire un "adagio": ma è una lentezza che vibra come una corda che pare immobile e che invece è tesa allo spasimo…

Forte di una fotografia meravigliosa che riesce a rendere grandiose le immagini pertinentemente vintage di una Grande Mela difficilmente resa così splendida e nostalgica prima, A most violent year si fa forte di una tensione di natura più psicologica che fisica, in grado di devastare interiormente la tenacia e la scaltrezza imprenditoriale di un uomo che lotta in modo impari contro una casta che cerca tendenziosamente e con l'inganno più subdolo di metterlo a tacere per sempre. Nel gran cast di nomi già citati, un Albert Brooks, trasformista, un pò laido un pò amicone, e perennemente con le mani nel sacco, completa un terzetto d'eccellenza che avrebbe meritato almeno la menzione all'Oscar.

una idea que funciona a la perfección: un hombre huyendo de una espiral de violencia, que sin darse cuenta le atrapa. Imagen que podemos capturar en una escena en la que Abel dice algo así como que pasó toda su vida evitando ser un gánster. Casi claudicando. Y el destino parece depararle otra cosa. Toda una declaración de intenciones. Afirmación que además supone un posicionamiento ideológico, pues se aleja de ese cine que enaltecía y todavía glorifica a la mafia, dotándola de un hálito glamuroso; a la altura de las propias estrellas de Hollywood. El personaje de Oscar Isaac, siguiendo con los antagonismos, podría ser el adverso del interpretado por Ray Liotta en Goodfellas(1990). Además reniega de la corrupción y del crimen como quien se repite una mentira una y otra vez para auto convencerse. Un mantra de fe. Se ratifica constantemente: impidiendo que su flota de camiones lleve armas, enfrentándose a su esposa que le reta por no saber proteger a los suyos, intentando demostrarle al fiscal que juega limpio. Pero en el fondo sabe que tendrá que sucumbir. Marcando sobre el tapete una última reflexión, esa que pone al éxito en el sistema capitalista en estrecha relación con la capacidad que uno tenga para infligir las normas. El precio moral de tener el skyline de Nueva York a tus pies.

mercoledì 9 agosto 2017

Il diavolo nel cervello - Sergio Sollima

peccato che Tino Buazzelli sia apparso così poco nei film italiani, qui è davvero bravo.
la sceneggiatura, oltre che di Sollima, è di Suso Cecchi D'Amico ed è davvero densa di colpi di scena, in un film che non si può rinchiudere in un genere (e meno male).
qualsiasi riassunto toglierebbe la sorpresa, guardate il film, è tempo ben speso, e poi ci risentiamo - Ismaele


QUI il film completo





Intrigante giallo psicologico che sfrutta al meglio una sceneggiatura molto ben scritta in cui i flashback non sono stati inseriti per ambizioni virtuosistiche da parte di Sollima ma sono funzionali allo sviluppo dell'intreccio giallo e la definizione del carattere dei personaggi che come ci vuole indicare la mano protesa nella locandina sono sei figure che girano intorno a degli interrogativi o per meglio dire sono loro stessi degli interrogativi…

Ottimo giallo. Ben scritta la sceneggiatura ricca di colpi di scena. Ottima la Sandrelli al tempo stesso bambina e donna sensuale (il suo nudo integrale), straordinaria la Presle suocera, monoespressione Dullea (ma ben doppiato) e "Nero Wolfe" Buazzelli insolito ma ottimo psicologo-detective; c'è pure la De Santis cameriera. La strana coppia detective piace, il finale ricco di tensione viene ben costruito a partire dalla scoperta dell'omicida. Un bel film, diverso dagli altri gialli dell'epoca.

…In this same way, Devil in the Brain deals with rationalization and denial. Sandra, in her infantilized state, denies anything is wrong, that she has any family aside from her mother, and that everything is just hunky dory. The Contessa denies that this situation is something she can’t handle. Further, she denies to herself that the killer could have been anyone other than little Ricky. She rationalizes that sending Ricky away is a great solution to this problem, as was covering up not one but two murders. Oscar (Keir Dullea) plays the old friend who returns from Venezuela to find the unrequited love of his life a devastated mess and his best friend dead. He rationalizes that developing a romantic relationship with Sandra at this moment in time is okay, because this is his big opportunity to start over with her (some would call this manipulation, but there you have it).
He also denies every explanation that his friend Dr. Emilio Buontempi (Tino Buazzelli) gives for what’s actually going on. This is despite the fact that Oscar called Emilio specifically to help him figure everything out. Oscar doesn’t actually want the truth. He wants this fantasy that he can control, even though, as he eventually finds out (and characters in situations like this always find out), the truth is something which can’t be contained. Emilio and Ricky are the only two characters in the film who are actively interested in the truth (of course, the film, as with all gialli, plays it a bit fast and loose with actual psychological theories), who don’t wear blinders like the others, although the two are also opposites in that Emilio is vocal about it and Ricky keeps it all locked up inside himself…
Sollima didn’t direct very many films. His career is split fairly evenly between theatrical and televised fare. Devil in the Brain is not what anyone would consider a technically outstanding movie, but it is solid in its craftsmanship. Where the film stands out is in its story, not its style. It’s difficult to even consider it a giallo, because it doesn’t wallow in the genre’s typical stocks in trade. There is no black-gloved killer careening through the cast of characters (in fact, there are only two murders in the film, only one of which the audience gets to see, and it isn’t gratuitously violent or stabby). There is no real sleaze to speak of. What nudity there is doesn’t feel immoderate. Instead, this is a well-written, well-thought-out story about repression and obsession and the consequences of both. It’s a film about characters and the self-destructive desires they have to cling to in order to give their lives meaning. Because without these things, ultimately, they have nothing (or, at least, they believe they have nothing).