giovedì 10 agosto 2017

1981 - Indagine a New York (A most violent year) - J.C. Chandor

Abel Morales, un immigrato di Portorico, è riuscito a diventare un imprenditore, ma facendo il suo lavoro secondo le regole che le leggi impongono ha delle grandi difficoltà.
è il migliore nel suo campo, ma i concorrenti, che conosce bene, fanno di tutto per farlo cadere.
lui vuole giocare pulito fino all'ultimo, non sapremo se ci riuscirà.
ottima sceneggiatura, grandi interpreti, un gran bel film che non delude, anzi... - Ismaele





…Il nocciolo miracoloso dell’opera sarebbe questo, il dilemma tra fortuna e pervicacia, le conseguenze disastrose della sorte o del successo sull’animo umano. Non basta, il prodigio più grande è che il film non si ispira ma respira il cinema di quell’età di mezzo, c’è Friedkin, Cimino, De Palma, e poi Lumet, Mamet, Pollack, Jewison. Suoni, sonorità, sociologia, affreschi di interni, inseguimenti di macchine, corse a piedi verso il nulla, Brooklyn, la neve, l’immondizia, i mafiosi, le banche, i sindacati, i vestiti, i loft, la rabbia. Tutto, tutto, proprio tutto è dell’anno (non) di grazia 1981, pure la mancanza di pietà, da allora mai più pervenuta.
A 35 anni di distanza, A Most Violent Year è il viaggio definitivo al principio della notte, il ritorno a quel futuro senza distacco nè rimorsi né rimpianti, un buco nero che inghiotte, dissolvendola, la sterile nebulosa di questo eterno presente e riorigina dove i sogni di alcuni diventarono gli incubi di tutti. Sia lodato J.C. Chandor, sia lodato Oscar Isaac, sia lodata Jessica Chastain, sia lodato Elyes Gabel, sia lodato Alex Ebert.
Sia lodato il cinema.

Quella di Chandor è una New York viva, ma moribonda, preda di una decadenza morale a cui il suo protagonista cerca strenuamente di opporsi, ritrovandosi però costretto a scendere sempre più a patti con la realtà. Ne viene fuori un film strano, dal ritmo letargico ma bizzarramente ipnotico, una sorta di thriller placido che a tratti si risveglia con due o tre sequenze dalla potenza e dalla tensione fuori scala. E tutto ruota chiaramente attorno all'incredibile bravura di Oscar Isaac, che ancora una volta prende possesso di un film e lo domina dall'inizio alla fine, in ogni momento, in scene clou come quel fantastico monologo ai dipendenti ma anche in momenti più piccoli e apparentemente insignificanti. 1981: Indagine a New York è soprattutto suo, nonostante il resto del cast esprima comunque il magnetismo delle grandi occasioni, ed è anche e soprattutto per godersi un'altra notevole performance di uno fra i migliori attori sulla piazza che bisognerebbe gustarselo.

Ci sono alcune famose pagine in Pastorale Americana di Philip Roth, che ho sempre trovato formidabili a differenza di quasi tutti quelli con cui ne ho parlato (anche quelli che hanno amato quel romanzo), che le considerano invece la parte più insopportabile del libro. Mi riferisco a quando Roth si mette a spiegare il business dei guanti, come funziona la fabbrica dei guanti, come è fatto il prodotto, il disegno, le dita, i gusti dei consumatori – uomini e donne. Il lettore è costretto a calarsi in un groviglio di dettagli tecnici, tessili, industriali, economici – e restarci per un bel po’. Altri autori, forse, avrebbero mirato al nocciolo ideale della faccenda – gli affari, il commercio, l’ascesa di un imprenditore immigrato secondo il copione del Sogno Americano – senza perdersi nel nitty-gritty dei processi produttivi. Dopotutto, un’industria vale l’altra, no?, l’azienda dei Levov avrebbe potuto produrre anche bulloni industriali o costumi da bagno, e l’impronta morale del romanzo sarebbe rimasta la stessa.
C’è però una forza incredibile nelle storie che emergono dalle cose, piuttosto che venire imposte dall’alto dall’autore onnisciente. Il brulicare di dettagli tecnici può sembrare insignificante per chi vuole distillare un senso simbolico dai fatti; ma la realtà trabocca di minuzie e la cosa più difficile e potente del narrare è mostrare come da questi brandelli di vita emergano dei possibili (ambigui, tentativi, faticosi) disegni di senso.
C’è un tipo di narrazione densa ed elevata che abbraccia i fatti dall’alto per mostrare la portata delle idee che li vogliono spiegare. C’è invece quell’altro tipo di narrazione che nasce in basso tra le apparenti insignificanze della vita – i dettagli trascurabili e umili, irrilevanti per il disegno complessivo – per animare di vita vera e vibrante le storie che emergono nel complesso. Ci sono svariati modi in cui un autore può guardare ai dettagli – ma il modo in cui lo fa, quel movimento del racconto che piomba verso la concretezza singolare delle cose e si aggancia alla realtà e alla vita, è cruciale per il risultato alla fine ottenuto: se si tratta, cioè, di una parabola allegorica o di uno squarcio nella realtà delle cose…

la pacata compostezza dei gesti, a partire da quelli di un controllatissimo Oscar Isaac (l'attore più interessante della sua generazione, che qui - avendo palesemente per modello le prove più moderate di Al Pacino da giovane - regala probabilmente la sua miglior interpretazione grazie alla bravura di Chandor nel dirigere gli attori). E poi, la studiata pacatezza dei movimenti di macchina. La mdp - più spesso ferma che in movimento (ancora più che in Margin Call, dove tracciava spesso carrellate fra le geometrie degli ambienti) - scruta in realtà sovente la scena con dei leggerissimi, quasi impercettibili movimenti in avanti o indietro, che oltre a procurare una sensazione di intrappolamento, aumentano nello spettatore un'ansia sottile. Il ritmo è senz'altro lento, potremmo dire un "adagio": ma è una lentezza che vibra come una corda che pare immobile e che invece è tesa allo spasimo…

Forte di una fotografia meravigliosa che riesce a rendere grandiose le immagini pertinentemente vintage di una Grande Mela difficilmente resa così splendida e nostalgica prima, A most violent year si fa forte di una tensione di natura più psicologica che fisica, in grado di devastare interiormente la tenacia e la scaltrezza imprenditoriale di un uomo che lotta in modo impari contro una casta che cerca tendenziosamente e con l'inganno più subdolo di metterlo a tacere per sempre. Nel gran cast di nomi già citati, un Albert Brooks, trasformista, un pò laido un pò amicone, e perennemente con le mani nel sacco, completa un terzetto d'eccellenza che avrebbe meritato almeno la menzione all'Oscar.

una idea que funciona a la perfección: un hombre huyendo de una espiral de violencia, que sin darse cuenta le atrapa. Imagen que podemos capturar en una escena en la que Abel dice algo así como que pasó toda su vida evitando ser un gánster. Casi claudicando. Y el destino parece depararle otra cosa. Toda una declaración de intenciones. Afirmación que además supone un posicionamiento ideológico, pues se aleja de ese cine que enaltecía y todavía glorifica a la mafia, dotándola de un hálito glamuroso; a la altura de las propias estrellas de Hollywood. El personaje de Oscar Isaac, siguiendo con los antagonismos, podría ser el adverso del interpretado por Ray Liotta en Goodfellas(1990). Además reniega de la corrupción y del crimen como quien se repite una mentira una y otra vez para auto convencerse. Un mantra de fe. Se ratifica constantemente: impidiendo que su flota de camiones lleve armas, enfrentándose a su esposa que le reta por no saber proteger a los suyos, intentando demostrarle al fiscal que juega limpio. Pero en el fondo sabe que tendrá que sucumbir. Marcando sobre el tapete una última reflexión, esa que pone al éxito en el sistema capitalista en estrecha relación con la capacidad que uno tenga para infligir las normas. El precio moral de tener el skyline de Nueva York a tus pies.

2 commenti:

  1. Visivamente affascinante ma poco coinvolgente o appassionante, certamente però è un film che merita di essere visto ;)

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  2. vero, resta un film un po' freddo, con i freni tirati, un giorno J.C. Chandor ci darà un capolavoro...

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