sabato 29 settembre 2018

TRENTASETTE FILM PER UNA CASA : un videosaggio - Arianna Lodeserto


Il filo rosso dell’emergenza abitativa ci ha permesso di scoprire l’intatta e folgorante poesia di quel “cinema minore” (eterogeneo e spesso sommerso negli archivi) che restituiva la controstoria dell’edilizia popolare romana e dei suoi paradossi. Girati muti, non finiti, brandelli di cinema spesso senza “autore”, liriche inchieste militanti e delizie sperimentali rimosse troppo in fretta dalla “storia del cinema italiano”, ma che hanno dedicato almeno uno sguardo all’altrui ricerca di una casa.
Quel cinema rapido e “fatto insieme”, gioioso e cospiratore, aveva provato a scuotere le forme cinematografiche, come pure a narrare altrimenti le perverse forme dell’umano abitare.
Trentasette film per una casa è un saggio visivo fatto di brandelli di pellicola e palazzoni in videotape, di mamme in lotta e palazzinari impuniti, di critica e d’azione.

venerdì 28 settembre 2018

BlacKkKlansman - Spike Lee

nel film non si fa fatica a vedere quanto sono deficienti quelli del KKK, forse questo è uno dei motivi per cui si nascondono.
Spike Lee racconta quanto sono razzisti i razzisti del suo paese,
un esempio per tutti gli altri.
protagonisti bravissimi, Adam Driver e John David Washington (figlio di Denzel), e bravi anche quelli del KKK, fanno i deficienti benissimo, e parlano come Trump (o Trump parla come loro?).
e come non ricordare il vecchio Harry Belafonte (che racconta una storia terribile e vera)?
gli anni '70 alla fine diventano questi anni, e non c'è niente da ridere.
non è il miglior film di Spike Lee, ma solo perché i migliori sono davvero grandissimi e inarrivabili.
e quindi buona visione, non vi deluderà - Ismaele 




i discorsi e la retorica dei confratelli dell’Organizzazione, come la definiscono dall’interno, sono spaventosamente attuali, si parla di restituire all’America la sua grandezza, e si declama spesso il celebre slogan “America first”.
In un qualsiasi altro contesto le candide dichiarazioni del Gran Maestro del Ku Klux Klan farebbero inorridire, ma se all’altro capo della cornetta c’è un poliziotto nero che si finge un bianco razzista, allora la risata scappa incontrollabile e l’abilità della regia sta proprio nel calibrare attentamente le tempistiche, dando allo spettatore un momento per ridere e uno per riflettere, per provare il suo stesso turbamento, la sua stessa rabbia, il suo stesso dolore.
Alla fine, l’amarezza, lo sconcerto prevalgono e rimangono, perché non c’è più niente da ridere, il male non viene sconfitto, il razzismo non è debellato e la sua minaccia incombe ancora sulla società odierna, in America come in qualunque altro posto del mondo.


Essendo un ottimo prodotto cinematografico, BlacKkKlansman può offrirsi anche solo come grande intrattenimento per la sala, dato il tono leggero, da commedia, come dicevamo, ma è chiaro che nasconde, neanche troppo velatamente, le intenzioni di un uomo contrariato da ciò che accade nel proprio Paese, adesso come negli anni Settanta.
Con un approccio lucido, innovativo per il suo solito stile, Spike Lee manifesta la sua rabbia verso una situazione sociopolitica rovinosa, quella della sua America. Ma non basta: il film, in chiusura, confermando il suo rivolgersi a tutto il mondo, e non solo alla comunità nera contro quella bianca, afferma con convinzione: “Power to all the people” (potere a tutte le persone). Un invito all’unione radicale, un appello a tutti gli uomini di ragione.

Quel che rende il film memorabile è un insieme di fattori, tra cui la geniale regia di Spike Lee, che ha collegato la storia alle vicende di razzismo attuali, confezionando quindi una pellicola politica e schierata ma allo stesso tempo dinamica e, sì, persino divertente.
L’impegno politico e sociale del regista non è una novità, e infatti in conferenza stampa non ha deluso le attese, criticando in modo colorito i leader mondiali, soprattutto il presidente americano Donald Trump – di cui non ha mai pronunciato il nome, sostituendolo con epiteti che non staremo qui a riportare.
A proposito del linguaggio, Lee ha precisato che voleva che l’odio fosse verbalizzato nel film, per questo ha scelto di far parlare i membri del KKK nel modo in cui parlano davvero, senza addolcire la pillola – ecco il motivo delle tante parolacce e insulti verso neri, ebrei e omosessuali.

L’idea del doppio, uno voce telefonica l’altro in azione, non sarebbe narrativamente male, se solo ci fosse una sceneggiatura in grado di sfruttarla adegutamente. Invece tutt’al più produce momenti farseschi non proprio finissimi, come il poliziotto black che fa battute infami sui neri per compiacere l’interlocutore klanico (risate in platea), o il black che istruisce il suo alter ego bianco su dizione e tono di voce da ghetto (altre risate). Ma la platea esplode in applausi tonanti quando i klanici infami, in una cerimonia di iniziazione più grottesca che spaventevole, urlano uno via l’altro ‘America first!’, e anche qui non c’è bisogno di spiegare il battimani. Non è che poi l’indagine porti a casa chissà quali risultati, anche perché quelli del KKK di Colorado Springs non sembrano proprio delle aquile in grado di organizzare chissà che. Ma vogliamo parlare dell’incredibile storia d’amore tra il poliziotto black fichissimo e la leader del Black Power della città?, storia che incredibilmente continua anche dopo che lui le ha confessato di essere un agente, e sono assurdità e incongruenze che in un film rispettabile non dovrebbero trovare posto. Il tono da commediaccia si alterna incongruamente a inserti di puro militantismo, che se non altro producono l’unico momento alto di tutto il film, con un meraviglioso Harry Belafonte, anni 91, a rievocare l’infame linciaggio di un nero. Ma è, letteralmente, un altro film che non si salda con il resto. E che fa rimpiangere che Spike Lee non sia dedicato a un progetto grande e credibile sul KKK. Adam Driver è l’alter ego bianco infitrato, e non lo si è mai visto tanto spaesato e perplesso.

mercoledì 26 settembre 2018

Nick Carter, quel pazzo detective americano (Adéla jeste nevecerela) - Oldrich Lipský

una storia slapstick ambientata a Praga.
la contessa Thin deve risolvere un mistero, e chi sceglie è Nick Carter, che farà coppia con il commissario Ledvina, che lo guiderà nelle birrerie di Praga.
è un film d'avventura, veloce, con improvvise accelerazioni, fino alla scoperta di Adele, una protagonista del film.
divertente quanto basta e anche di più.
da sottolineare l'intervento straordinario, come sempre.  di Jan Švankmajer.
buona visione - Ismaele




QUI il film completo, in spagnolo



Ajoutant à cela une réelle dimension fantastique (la plante maléfique, l’utilisation de machines excentriques rétro-futuristes), le cinéaste se rapproche à de nombreuses reprises des créations dingos de Terry Gilliam, à tel point qu’on est en droit de se demander si les deux artistes ne se sont pas fortement influencés. Dans tous les cas, ce divertissement foisonnant devrait ravir les cinéphiles nostalgiques de l’époque du muet, tout en séduisant un public contemporain aimant côtoyer des univers déglingués, finalement très proches - dans l’esprit - de la bande-dessinée. Signalons enfin l’excellente tenue de l’interprétation par des acteurs rompus à l’exercice et que le réalisateur retrouvera quelques années plus tard pour Le château des Carpathes, autre parodie-hommage, cette fois dédiée au cinéma gothique.

El disparatado desarrollo de esta gamberrada multirreferencial, más propio de una fantasía animada de Hannah Barbera que de una película, lleva a nuestro protagonista a enfrentarse contra un malvado de tebeo, a sobrevolar la noche de Praga cual héroe enmascarado o a perseguir un globo montado en una bici voladora, mientras sale ileso de todo tipo de peligros gracias a diferentes artefactos steampunks, entre los que destacan un gorrocóptero y un rifle solar. Dichos gadgets fueron diseñados por Jan Švankmajer, un peculiar artista checo aclamado por cineastas como Tim Burton o Terry Gilliam.
Aunque menos aparatosa en recursos narrativos que otras películas de Lipský, la cinta cuenta con algunos momentos brillantes, como el corto animado con el origen del villano, la acrobática persecución, un último tercio a lo Scooby Doo o el doble final feliz. Adela, la planta carnívora a la que se le abre el apetito escuchando a Mozart, le debe mucho a Audrey II, la golosa planta parlanchina de La pequeña tienda de los horrores (1960), el clásico de culto de Roger Corman. Es muy significativo que ambas producciones acabaran siendo adaptadas al teatro como comedia musical, la una en Praga y la otra en Broadway.
Como apunte final, señalar que pese a una puesta en escena algo rudimentaria, Oldrich Lipský logra una desmadrada parodia de las novelas de detectives sirviéndose del tono ingenuo y vivaz que caracteriza a la Nueva Ola Checoslovaca, movimiento que ya empezaba a agotar su fórmula a finales de los 70's.

Si las plantas lloraran
no urgirían ser regadas.
Aquí echan lagrimones
por un malo de cojones.
James Moriarty es personaje baladí
pues no porta bigote a lo Dalí.
El detective famoso
es flipado y vanidoso.
Es de Nick Carter el detective
la última aparición en el cine.
Aquí la pantera rosa
hurtaría cualquier cosa.
Hacen turismo de bares
para conocer las costumbres locales.
Entre el delirio y lo pulp
sale un producto muy cool.
La planta tiene saliva
y eso es algo que no se olvida.
Un montaje extraordinario
del que no se ve a diario.
Con interesantes animaciones
y una planta que come ratones.
Un producto checo
que te dejará seco.
Música al principio y música al final.
¿Se creerán que soy planta y no animal?

martedì 25 settembre 2018

Naufragio – Pedro Aguilera

Robinson non parla molto, è arrivato con qualche barcone, passa per l'esperienza dello sfruttamento nelle serre e poi in fabbrica.
ha la fortuna di trovare qualcuno che gli vuole bene, a suo modo.
ma sembra che lui abbia una missione, ogni tanto è affetto da attacchi di qualcosa che sembra epilessia.
alcune pietre sconosciute a noi gli indicano il cammino, interrogate danno delle risposte che non sappiamo.
Robinson arriva dall'Africa, è gentile e misterioso, ma inquietante, come tutto ciò che non si capisce.
un film che non si dimentica facilmente.
buona visione - Ismaele







Naufragio è un film scomodo, a malapena classificabile, la cui indefinibile cripticità si apre ad una varietà non numerabile di interpretazioni e approcci che in ultima analisi prima che comunicare con una sfera razionale si rifanno direttamente al rapporto tra immagine e percezione, tra immagine ed interiorità. che questo viaggio sia un viaggio nell’anima o dell’anima, un’allegoria demoniaca o una metafora messianica, poco importa. così come poco importa che robinson sia un clandestino, un demone, un semi-dio o un messia. quest’immagine non nasconde un segreto ben preciso, ci rende soltanto un mistero.

Naufragio, ad uno sguardo ulteriore, diviene inoltre metafora. Robinson viene “gettato” sulla Terra unicamente per percorrere quel “viaggio dell’eroe” di volgeriana memoria. Egli viene investito della funzione di protagonista, e gli viene conferito anche un antagonista con cui scontrarsi per “risolvere” l’intreccio. Ecco dunque che Naufragio diventa una metafora stessa, non tanto (o non solo) del cinema, quanto (anche) del “racconto”. Cosa che giustificherebbe, tra l’altro, l’atmosfera straniante che si respira lungo il corso del film.
La regia di Aguilera si è fatta più sottile e personale rispetto al precendente La influencia. La costruzione del tessuto visivo è attenta nel rispecchiare il mondo di Robinson: la visione è come filtrata da una soggettivizzazione dei quadri, che non mancano sovente di “vibrare” per restituire la tensione emotiva del protagonista stesso. Il sonoro, sempre in primo piano, amplifica questo cinema tutto sensoriale vicino a registi come Bruno Dumont e Carlos Reygadas. Due registi non casuali, ma importanti per comprendere – almeno in parte – la strada che Aguilera, con Naufragio, vuole percorrere. Due autori accomunati da un interesse per un cinema di sensazioni, finalizzato ad una sorta di trascendenza di tipo spirituale, sottolineata, spesso, dalle tematiche stesse affrontate dai film. Con Naufragio Aguilera anticipa, per così dire, il Dumont di Hors Satan costruendo un film che si poggia principalmente su di una figura messianica che è, a tutti gli effetti, “al di là del bene e del male”: un nuovo Zarathustra – come lo sarà Le Gars -, che attrae inspiegabilmente chi gli sta attorno.
A missione compiuta, Robinson scompare nell’oscurità. Torna ad essere un’ombra, seguendo un fuoco fatuo in fondo ad una caverna. Che sia anche questa una sottile metafora del mezzo cinematografico e del racconto? Che il nostro protagonista, una volta conclusa la storia, ritorni ad essere solo un fantasma, solo più una “possibilità” di una storia? Questo non lo sappiamo: possiamo solo immaginarlo.

Después de un debut tan duro como "La influencia", Pedro Aguilera regresaba al largometraje tres años después con "Naufragio", que no le andaba a la zaga. Interpreto esta segunda obra, y no soy el único, como una suerte de revisión de la historia de "Robinson Crusoe", de Daniel Defoe, en clave inversa: ahora tenemos a un inmigrante africano llamado precisamente Robinson que llega a Europa y que emprende aquí su aventura en busca de una vida mejor como un paria total. En concreto, llega a España, y en concreto, valga la redundancia, a Almería, al sur del país, a un pueblo deprimido donde sí que hay cierto trabajo en la agricultura para los inmigrantes como el protagonista, que hacen la labor que los nativos no quieren hacer. Pedro Aguilera insiste en el cine social más crudo retratando las consecuencias una vez más de la pobreza, pero ahora centrándose en la búsqueda del "Sueño Europeo", que resulta ser una pesadilla. En un estilo pausado, minimalista, a veces extrañamente alucinógeo y con ciertas metáforas, el director nos introduce en un ambiente hostil y deprimente poblado por unos personajes despreciables y directamente feístas donde, sin embargo, queda algún resquicio para la esperanza y para la dignidad de las buenas personas. "Naufragio" es muy dura, pero no es tan desesperanzada como "La influencia", y tiene algunas escenas verdaderamente hermosas y algunos personajes que consiguen conmover entre tanta inhumanidad de la peor calaña. El filme, además, habla de homofobia, de machismo, de escasas miras vitales, de un enfrentamiento generacional terrible y de una vida rural embrutecida alejada de toda idealización. "Naufragio" es horror cotidiano, frustración, apatía, miseria y negrura en unos espacios opresivos y atascados en lo rancio hasta sus últimas consecuencias. Y, sin embargo, es también belleza y lucha por un futuro mejor. Creo que es una película española poco conocida e imprescindible. Hay que reivindicarla.

lunedì 24 settembre 2018

Il maestro di violino - Sérgio Machado

dopo tre anni dall'uscita del film solo ora Il maestro di violino appare in sala.
la storia è già vista, quello di un insegnante di fronte e degli adolescenti che non si fidano, in una favela, a San Paolo, in Brasile.
Laerte è il maestro di violino, e i rapporti con i ragazzi non sono semplici, solo alla fine sarà riconosciuto come il loro maestro.
qui non ci sono ragazzini e ragazzine che hanno bisticciato col fidanzatino, il problema è spesso quello che suonare è un lusso, per le famiglie dei ragazzi,  e poi anche quello della sopravvivenza, e qualcuno resta, sulla strada, ucciso dalla polizia.
chi sostiene la scuola e paga lo stipendio di Laerte è una ong, questa è una novità, lo Stato non interviene, non vuole o non può, i servizi sociali non ce la fanno, intervengono le ong, brutto segno per un paese.
il film merita, Laerte e i giovani sono convincenti, a tratti sembra un documentario.
buona visione - Ismaele






Le atmosfere, le situazioni, gli ammiccamenti che pure qui non vengono a mancare, ricordano, oltre che per la tematica, il caso di Whiplash, ed il film molto probabilmente sarà destinato a dividere in due il pubblico, tra cinefili ed amanti delle belle storie, e melomani o tecnici del settore che troveranno certamente circostanze e situazioni a loro giudizio improbabili se non assurde. Ben venga la discussione: che si parli pure di film dignitosi e sensibili come questo, in grado di suscitare un confronto e ravvivare emozioni, alimentando lo scambio di punti di vista.

Il film di Machado percorre i classici stilemi delle pellicole cinematografiche di questo tipo: un uomo di grande talento, dopo aver fallito, insegna a dei giovani, il più delle volte provenienti da realtà disagiate e pericolose, tutto ciò che sa e allora c’è la rinascita per lui e per i suoi allievi.
Il punto di forza di un film come questo è sicuramente l’emozione – aumentata dal fatto che i giovani non sono sempre attori professionisti ma spesso sono presi dalle comunità -, lo spettatore si può immedesimare in Laerte; in un modo o nell’altro chi guarda ha o ha avuto una passione per cui vuole o avrebbe voluto vivere. Ci si può riconoscere nella sua paura di cadere, infatti Il maestro di violino è la storia di un musicista che si è preparato per tanti anni ma nel momento dell'”incontro” fallisce, non regge la tensione. Ci si può rivedere anche nello spaesamento di quei ragazzi, da sempre cittadini “di serie B”, quasi per una legge naturale costretti a delinquere, che devono imparare un linguaggio nuovo, un codice a loro estraneo e cambiare totalmente la loro vita. Si soffre quando il male ingloba anche chi non se lo merita, quando le lacrime rigano i volti di chi non dovrebbe piangere, e poi ci si commuove nel vedere che la musica diventa elemento di catarsi e di coesione utile a sopravvivere e ad arrivare dove non si credeva possibile.
Il maestro di violino è un’opera che, se fa il suo lavoro dal punto di vista emotivo, mostra più di qualche fragilità nella struttura: da una parte il già visto (la musica come unica possibilità, il maestro come guru e come salvatore), dall’altra qualche scelta narrativa che fa affondare la pellicola in un dramma talvolta eccessivo.

giovedì 20 settembre 2018

Thelma – Joachim Trier

Thelma lascia la famiglia e va all'università, con tutti i rischi per una ragazzina che è sempre stata nel paese, e come tutta la famiglia molto religiosa.
ma quella famiglia e Thelma hanno dei segreti tragici.
Thelma ricomincia ad avere strane crisi epilettiche, proprio nei momenti in cui l'emozione è ai massimi livelli.
poi torna al paese, per rilassarsi, dopo tutte le tensioni e le emozioni della capitale.
è l'occasione di fare dei conti, di iniziare a diventare libera, finalmente.
la fotografia è bellissima, un valore aggiunto per un film che vale molto.
peccato se ve lo perdete, è passato in qualche sala, per poco tempo, si può sempre recuperare, se non c'è il dvd.
Joachim Trier vi lascerà anche questa volta a bocca aperta, non privatevene - Ismaele




Si leen un par de veces más el resumen, ‘Thelma’ podría parecer una película barata de terror, pero estos elementos solo funcionan bien en un escenario que Joachim Trier (‘Oslo, 31 August’‘Louder Than Bombs’) sabe manejar de forma magistral: el drama como género soberbio en el que se puede despertar cualquier cosa. ‘Thelma’ es una hermosa película, visualmente asombrosa, pero nunca deslumbra para conquistarnos en un plano visual. No ensombrece la triste historia de una chica que no sabe cómo dominar lo que tiene por dentro. Afortunadamente, no es una película de horror sobre una chica con poderes;‘Thelma’ es una alegoría excepcional sobre la madurez y los monstruos que solo podemos conocer cuando nos encontramos con lo adverso. Esto no quiere decir que sea una película ligera: ‘Thelma’ es aterradora, pero el miedo proviene de otro lado mucho más orientado a la resolución de su personaje. No se trata de sustos, se trata de la verdad siniestra que se plantea.
Eilie Harboe (‘The Wave’) interpreta a Thelma de manera extraordinaria. Es difícil encontrar a una actriz joven que sea tan convincente a la hora de retratar personajes tan expresivos como Thelma. Llegamos a conocer su terror, sus miedos y su incesante búsqueda por la verdad. Es un planteamiento tan completo que nunca la condenamos por sus actos. De hecho, hasta apoyamos la causa terrible que la joven propone en un acto final desmesurado pero totalmente justo. Este aplauso final nos ubica en un contexto inexplicable, y del cual tampoco necesitamos conocer toda la verdad. Cuando Thelma triunfa, no lo entendemos todo: ella decide vivir así y exactamente de esa manera la debemos aceptar.

Nel prologo la vediamo bambinella, sui 6 anni, andare a caccia col padre.
Boschi innevati, ghiaccio e un cerbiatto a cui sparare (solo negli ultimi 4,5 anni ricordo almeno quattro film con prologhi o scene madri riguardanti la caccia in boschi innevati).
Il padre dice alla figlia di star zitta, poi prende la mira per sparare.
Mentre la bambina è assorta il padre sposta la canna verso di lei.
Grande prologo, uno di quelli che oltre ad esser benissimo girati ci offrono già, in pochi secondi, degli input al cervello.
Perché voleva uccidere la propria figlia?
Bene, da quel momento il cervello non smetterà più di elaborare, per tutta la durata del film.
Seconda sequenza è una strepitosa god view che parte dal cielo e arriva, pianissimo, fino ad una ragazza che sta camminando in quell'immensa piazza.
O.k Joachim, due sequenze e sono già tuo.
In realtà, poi, Thelma sarà tutto tranne che un mero esercizio di stile.
Anzi, credo che sia così alta la profondità di scrittura che alla fine della regia te ne dimentichi pure, o così è successo a me…

…Su tutto, c’è un sentore da film educativo, da film sulla liberazione sessuale rispetto al confronto meccanico con l’ossessivo cristianesimo dei severi genitori; un sentore che pesa e che tarpa le ali, in particolare per via di certi grossolani simbolismi – il serpente a rappresentare, ovviamente, il sesso; l’uccellino a simboleggiare, naturalmente, la precarietà della vita e la sua voglia di continuare a volare. I maestri che Trier omaggia, Argento e De Palma in particolare, non si ponevano – e non si pongono – certi problemi, non hanno l’intento di insegnare qualcosa alle nuove generazioni, ma pensano piuttosto – esclusivamente – ad atterrire il pubblico e a sconvolgerlo con le loro riflessioni sullo sguardo che sono – caratteristicamente e caratterialmente – conformi a un’idea di cinema-cinema. Al contrario, Trier dà più volte l’impressione di non credere all’autosufficienza discorsiva della macchina cinematografica – e, in fin dei conti, come dargli torto di questi tempi? – finendo così per annacquare in parte la forza di un racconto sorretto comunque da una regia eccellente e, a tratti, visionaria.
Il nuovo lavoro di Trier finisce così per apparire come un film di grande – e spesso riuscita – ambizione e dalle preziose tendenze manieristiche, ma in cui forse si sarebbe dovuto osare ancora di più.

Nel bene e nel male, Thelma non spinge mai completamente sull’acceleratore – anche se ci sono due scene mozzafiato, che coinvolgono una finestra rotta e una combustione spontanea, che rispettivamente, ti danno un assaggio di quale versione sconvolgente di questo potboiler psicologico potrebbe essere se solo si togliesse il coperchio. Invece Trier fa sobbollire tutto, con il gesto occasionale e grandioso circondato da lunghe distese di surrealismo frizzante e strizzate d’occhio ad altri cineasti. (Guardando quella scena tremante e tremolante dell’auditorium quando Anja suscita il desiderio di Thelma, puoi dire che il regista norvegese ha studiato Hitchcock – o almeno ha studiato De Palma studiando Hitchcock).
Questo è un horror servito a temperature gelide, il tipo che usa la gratificazione ritardata e il terrore esistenziale per continuare a chiedersi quando succederà invece di che cosa accadrà. È anche uno stile che – senza uno scopo preciso – oltre a essere superficialmente spettrale, provoca un senso di frustrazione. C’è una differenza tra un thriller che brucia lentamente e uno che è solo lento; c’è una differenza tra ambiguità e non avere una risposta, punto. Puoi quasi percepire il regista che capovolge le idee passate: l’emancipazione femminile, quella religiosa, la manifestazione di rabbia o di desideri libidinosi come soprannaturali, traumi che sbloccano i “doni” genetici dell’Homo superior – prima di scartarli o lasciarli andare a morire. Persino la sua eroina, interpretata da Harboe con la confusione e la disperazione negli occhi da cerbiatta, inizia a somigliare più a uno schizzo di personaggio che a una giovane donna intrappolata in un tornado emotivo…

Stilizzato e non certo facile, si avvale di un misto di fantasy e fantascienza per le sue allegorie. A spianare la strada al regista ci pensa il direttore della fotografia, Jakob Ihre, che sfrutta al meglio il bianco accecante della neve e i colori cupi o neutri degli interni.
Il risveglio di questa giovane donna dal suo passato e la scoperta delle sue pulsioni sessuali sono un battito d’ali di farfalla che scatena un terremoto emotivo in tutti quelli che la circondano. Lei compresa.
Thelma è un thriller psicologico complesso, non perfetto, perché nel finale alcuni passaggi non sono sviluppati, a differenza del complesso del film, ma merita la visione.

Thelma tiene un gran impacto sobre el espectador porque le permite establecer una rápida identificación.Todos hemos vivido el momento de salir del nido de nuestro padres, de afrontar el mundo por nosotros mismos, de alejarnos de nuestra zona de confort y enfrentarnos a la realidad por primera vez. Es en el momento de la adaptación a la vida universitaria, de las relaciones con sus amigos, del desafío a las normas de sus padres y del descubrirse a uno mismo cuando la película funciona de maravilla. Sin embargo pierde fuerza en el momento en que Thelma regresa con sus padres, para enfrentarse a su pasado y a sus poderes. En este tramo lo fantástico sí nubla y traiciona el tono realista del film. Pero la película consigue tener cohesión ya que su protagonista, interpretada magníficamente por Ellie Harboe, consigue transmitir magnetismo y misterio en todo momento. Del mismo modo que lo hace el tono elegante y la propuesta formal con la que Joachim Trier ha vuelto a dejar claro que es uno de los directores nórdicos con mejor carrera prometedora del momento.

martedì 18 settembre 2018

El traje – Alberto Rodriguez

primo film da solo di Alberto Rodriguez.
una piccola storia di inganni, un vestito e tante belle scene.
raccontato come farebbe un bravo critico sembrerebbe un film come tanti.
in realtà è un film che riesce a emozionare, a incuriosire chi lo guarda, a non far restare indifferenti.
il regista è uno bravo, e si vede.
buona visione, non ve ne pentirete - Ismaele



Manteniéndose en los márgenes de la comedia, aunque partiendo de una propuesta de clara denuncia social, Alberto Rodríguez presenta la historia del africano Patricio (Eugenio José Roca), alguien convencido de su honestidad que trabaja como “chico para todo” en una ciudad hostil a la inmigración y las diferencias: “Un negro es una cosa extraña en Sevilla -afirma Rodríguez-, y como planteamiento me sedujo la idea de presentar a un africano bien vestido buscándose la vida en las calles de la ciudad. De este modo, más que una denuncia al racismo, la película es una denuncia al clasismo”.

Ataviado con un magnífico traje y una corbata elegante, el trato que recibe el inmigrante en los comercios pasa del recelo a la exquisitez, aunque todo cambia cuando conoce al timador Pan con Queso (Manuel Morón), quien le roba todo su dinero en un albergue. A partir de entonces, lo que era una película de raigambre social, deriva en una historia sobre el poder de la amistad. “La idea era unir a dos personas sin remite, que no figuran legalmente en ninguna parte, sin derechos, y que sobreviven pícaramente en una ciudad que les es totalmente ajena”. Determinados a aprovechar el poder de las apariencias, Patricio y Pan con Queso hacen uso de la nueva imagen del inmigrante (quien no cuelga el traje en todo la película, porque además no tiene otra cosa que ponerse) para aplicar el timo de los billetes falsos.

Contraste de culturas
“A pesar de las dificultades que atraviesan los personajes para ganarse el pan, dramatizar los hechos hubiera sido imposible, porque tendría que haberle dado a la historia un tono costumbrista. Con el poder de la comedia, me puedo permitir muchos más lujos a la hora de poner el dedo en la llaga”, sostiene el realizador. El joven director añade que con El traje ha querido mostrar el contraste de culturas, el abismo que separa a un personaje de otro y que, sin embargo, sólo la amistad son capaces de eliminar: “Lo primero que distingue a un africano de un europeo es su visión de la vida, es diez veces más fresca, está preparada para todo. La cultura envejecida de Europa, que hace que nuestros pensamientos pesen como losas, aún no posee esa cualidad. Y no hablo de ignorancia, sino de filosofía de vida”.
 

Dirigida solo por uno, pero escrita por los dos cineastas que realizaron El factor Pilgrim, "El traje" está protagonizada por un inmigrante que se busca la vida y todo eso, pero nada tiene que ver con las películas sociales sobre la inmigración. O lo tiene que ver todo, según se mire. Con un relato hecho de pequeños detalles, diálogos chispeantes y un gusto por las paradojas de la vida, Rodríguez sigue a un africano en Sevilla, cuya vida cambia al recibir como regalo un traje por haber ayudado a un conductor a cambiar una rueda. Siguiendo al protagonista de un albergue a un palacio en ruinas, de una amistad imposible a un amor improbable, construye una historia llena de frescura, diálogos chispeantes y divertidas situaciones cotidianas al borde del absurdo que van dejando pequeñas pistas, siempre desde un punto de vista esquinado, nada dogmático, sobre las apariencias sociales, la mentira, la falsa solidaridad y el engaño pero dejando siempre un hueco para la amistad o el cariño soterrado.>>Para quienes quieran otra lectura de la inmigración. Lo mejor: el feeling entre Eugenio José Roca y M. Morón. Lo peor: algunos tiempos muertos.

Jimmy Roca da vida de forma excelente al protagonista de "El traje" y Manuel Morón hace lo propio interpretando a su compañero de fatigas. Hay una muy buena química entre ambos, que recorren una Sevilla en la que grandes y lujosos edificios se encaran con solares y casas ruinosas donde viven desamparados totales. Alberto Rodríguez olvida el collage de influencias de "El Factor Pilgrim" y se centra en narrar una historia cien por cien realista, desgarradora, triste, de sueños rotos y de denuncia de un mundo desarrollado que se presenta como la tierra de las oportunidades para muchos inmigrantes y que no es más que una farsa donde reinan el clasismo, la hipocresía y la desigualdad (entre autóctonos, entre autóctonos e inmigrantes y entre los propios inmigrantes). Excelente película es "El traje", la puerta de futuras maravillas del cine social patrio que este director crearía en el futuro como "Siete vírgenes" o las geniales "Grupo 7" y "La isla mínima".

lunedì 17 settembre 2018

Messia selvaggio - Ken Russell

la storia di un'amicizia/amore fra un giovane artista, Henry, e Sophia, meno giovane scrittrice.
fra gli interpreti appare anche Lindsay Kemp.
potrebbe sembrare un film come tanti, solo che alla regia c'è Ken Russell, e questo fa la differenza.
buona visione - Ismaele



L’interpretazione di Scott Antony è strepitosa perché riesce ad esprimere con fisicità e tempismo perfetto il genio incontenibile del suo personaggio ma anche la profonda sensibilità e la rabbia che un’artista di questa caratura probabilmente aveva, dico probabilmente perché nelle tante biografie realizzate da Ken Russell c’è sempre la sensazione che il regista abbia fatto sua la vita di un artista creando un film che ha la dimensione di una sua invenzione, del suo modo di vedere le cose, bravissima anche Dorothy Tutin nel ruolo di Sophie evidentemente tormentata da questo amore inusuale, indefinibile, soffocato dall’esuberanza artistica di Henri che sa di non poter corrispondere a livello fisico, l’alchimia fra i due attori tiene tutto il film a livelli di interesse altissimo ma anche il cast di contorno è eccellente impreziosito dalla presenza sensuale di una giovane Helen Mirren in uno dei suoi primi ruoli…e che ruolo!
Fa la parte della ricca figlia di un ufficiale dell’esercito che si presta a fare da modella al messia selvaggio posando nuda in tutte le sue rotonde e morbide forme passeggiando disinvolta davanti alla telecamera.
Il resto lo fa il grande Ken Russell con il suo talento impagabile, un film del genere fatto da chiunque altro non mi avrebbe interessato per niente, ma con la sua messa in scena preziosissima e il ritmo incalzante del montaggio la storia di Henri Gaudier mi ha coinvolto profondamente: c’è tutta la stima per i maestri del cinema nella rappresentazione della grotta laboratorio di Henri con le sbarre d’acciaio sotto la stazione che ricorda tantissimo un set di “Metropolis” di Fritz Lang, la scommessa con il mercante d’arte snob per il quale Henri scolpisce in una notte un busto di donna per dimostrare le sue capacità è l’emblema della fatica e l'ossessione per l’arte, la frase conclusiva della vita di Henri direttamente dal fronte “Sono riuscito a far arrabbiare anche il nemico” prima della sequenza finale con le sculture di Gaudier che lo hanno incoronato profeta del vorticismo rappresentano senza fronzoli e ghirigori l’omaggio diretto a questo indimenticabile artista strappato al mondo nel fiore della sua creatività dall’assurdità della guerra.

The movie is based more or less on fact. Gaudier lived in the Bohemian Paris of 1910-15, and he knew Ezra Pound and Wyndham Lewis and produced a large body of work in a short time. He was killed in World War I at the age of 23. Before that, however, he met an extraordinary and eccentric Polish woman, some 20 years his senior, and lived with her for five tempestuous years. "Savage Messiah" is the story of their relationship.
The woman was Sophia Brezeska (he later tacked her name onto his own). She was brilliant, unconventional, possessed of a fierce temper, and determined to become a great writer. She never did, but she became a great character, and that is not so easy, either.
Sophie was not an enthusiast of sex, and the couple lived together in a state of chastity occasionally interrupted by Henri's venturing out into the night for companionship, paid or otherwise. They gloried in the intrigues of the Paris artists-and-writers colony, which at that time contained the creators of most that would be original in the art of the first half of the century. They were not quite first-raters themselves, but they didn't know that; anybody could be an eccentric genius in those days, and all you had to do was anoint yourself.
Russell's movie is a little silly about the actual business of sculpture. There is a scene, for example, where Henri steals a tombstone and hews a statue from it overnight. He flies into a frenzy with his chisel and mallet, and we are left with the thought that if sculpturing went that fast more people would probably take it up.
What's good about the movie is Russell's handling of the relationship between Henri and Sophia (played with fiery disagreements and quiet affections by Scott Antony and Dorothy Tutin). It was an unusual relationship, but a real one, and it held together with a kind of desperate resilience that Russell is able to make funny and sad. You get to like Henri and Sophia, maybe more than they like themselves.
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Un affare di famiglia - Hirokazu Koreeda

Hirokazu Koreeda continua a fare film con al centro la famiglia, o quello che sembra esserlo, e a volte anche meglio.
nella casa dei ladri tutto funziona, a suo modo, ciascuno riceve le attenzioni di cui ha bisogno.
grandi e bambini vivono insieme, fuori dalla legge, certo, ma felici, alla loro maniera.
quando vengono scoperti sorprende la superficialità e la freddezza della burocrazia, tutto il mondo è paese.
le cose durano poco, bisogna essere felici, per quel poco che può durare.
che cosa impossibile definire una famiglia, quella vecchia sembra morta, la nuova è in culla.
gran film, non perdetevelo - Ismaele




Il titolo originale Manbiki kazoku tradotto letteralmente significa famiglia di taccheggiatori. Un affare di famiglia è un film che sussurra, è fatto di dettagli, attimi, sguardi e sorrisi. C’è un’amoralità di fondo nel comportamento dei 4 adulti, ognuno di loro ha segreti. Di sicuro insegnare a due bambini a rubare, negandogli la scuola “solo i bimbi che non possono studiare a casa vanno a scuola”, scalza in secondo piano tutti gli altri misfatti e occultamenti.
La nitida quanto disinvolta regia si prende tutto il tempo necessario per far riflettere sui rapporti sociali e di famiglia, dinamiche che, analizzate, divengono paradossali (Juri è sì salvata da una situazione di abusi famigliari e benché ora sia amata e felice, pur rubando, è comunque stata rapita!), sul profondo e straziante concetto di padre e di madre (se non partorisci non puoi essere madre?).
Ma Kore’eda critica anche la società lavorativa giapponese; attraverso il lavoro di Nobuyo parla dell’iniziativa della “condivisione”: fondamentalmente, ai lavoratori viene chiesto di alternare turni di mezza giornata in modo che vengano pagati di meno. Il risultato è, secondo le parole di Osamu, “tutti diventano un po ‘più poveri di giorno in giorno”. Kore-eda ha dichiarato in un’intervista che l’ispirazione per questo film giunge da notizie su come i famigliari imbrogliano, abusano e talvolta addirittura si uccidono a vicenda, spingendolo a chiedersi se le famiglie in Giappone (dove il ricorso al furto è raro e particolarmente vergognoso) sono ora legati da crimini piuttosto che dall’amore.
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tutto ciò che il mondo lì fuori condensa come esperienza contingente diventa elaborazione sentimentale all’interno di quello spazio. E la vita scorre. Sino a quando Osamu trova per caso la piccola Yuri, una bambina fuggita dai violenti genitori e rannicchiata in un angolo di strada: il gruppo la accoglie, la cura, la coccola, diventando in pochi giorni una nuova sorellina. Insomma: un po’ per caso, un po’ per scelta, queste persone segnate da un doloroso passato si sono riconosciute assegnandosi dei ruoli e dei compiti al di là di ogni regola civile e di ogni convenzione sociale…

E' una famiglia di "taccheggiatori": così va tradotto il titolo internazionale "Shoplifters", che espunge l'altro termine presente nel titolo giapponese, il quale per esteso dovrebbe suonare "famiglia di taccheggiatori" (edulcorato nel titolo scelto dai distributori italiani). Sono, in effetti, dei ladri. Vivono di espedienti, ai margini o fuori dalla legalità. Dei fuorilegge, dunque. Non solo per il modo in cui si procurano il cibo (a proposito: si mangia spesso e di gusto). Anche dal punto di vista sociale, questa "famiglia" si colloca in condizioni di consapevole clandestinità rispetto al consesso civile. Così come il regista indica chiaramente i limiti morali del microcosmo che descrive (a più riprese ad esempio pone l'accento sull'equivocità di educare dei bambini al furto), non disdegna neppure tocchi di ironia, nel tratteggiare gli stessi limiti morali: come quando si sofferma sul disappunto della "nonna" che, contati dei soldi che le son stati elargiti, manifesta disappunto trattandosi di una cifra per lei troppo bassa…

“I figli devono crescere con le mamme” asserisce l’assistente sociale che sta interrogando Hatsue, fermata per sequestro di minore e forse anche per omicidio – la nonna-che-nonna-non-è è stata sepolta in giardino nel tentativo disperato di mantenere il segreto e non far trapelare la verità. La donna risponde, con un triste sarcasmo “È proprio quello che vogliono credere le mamme”. Qui, come nel paradosso di aver tolto una bambina a due genitori amorosi solo perché finti per restituirla ai legittimi padre e madre che la picchiano e la snobbano, risiede il vero centro del discorso di Kore-eda, e l’acme tragico di un film che racconta una società impossibile da redimere, e incapace di scorgere l’umano al di là del legale. Esistono affetti che maturano al di là di ogni ragionevolezza, o senso, ma il consesso civile non lo tollererà mai. Forse mai, neanche nello sguardo tutto infantile – e costretto alla distruzione – del miracoloso Nobody Knows, Kore-eda si era dimostrato così disperato, tragico, privo di qualsivoglia speranza. Una tragedia che è, per quel che riguarda l’interpretazione del concetto di famiglia, parte integrante dell’intera storia del Giappone, e non è un caso che il pin del bancomat della nonnina sia 1192, in riferimento all’anno in cui Minamoto no Yorimoto ricevette il titolo di shōgun e fondò il primo bakufu. Se c’è felicità è solo nell’instabilità effimera, come i fuochi d’artificio che illuminano una notte su Tokyo, dalle parti del fiume Sumida. Per il resto si può tornare alla vita di tutti i giorni, ma non si avrà il coraggio di salutare come ‘papà’ colui che si ritiene l’unico e vero padre. Oppure ci si fermerà con lo sguardo nel vuoto, come la piccola Rin abbandonata di nuovo a se stessa, agognando forse di essere salvata un’altra volta. Sognando di avere di nuovo una famiglia.

chi siamo noi per giudicare? Per giudicare, intendo, una famiglia che cresce sì come ladri i suoi virgulti però garantendo loro una protezione dagli orrori del mondo là fuori? Si resta avvinti a questo mirabile racconto che, con precisione geometrica e massima sobrietà e pulizia di stile, pone l’eterna ma sempre cruciale questione: chi sono i veri genitori? E quanto contano i legami di sangue? Quanto si può eluderli? Kore-eda aveva già affrontato la questione in Like Father, Like Son lanciato qualche anno fa sempre a Cannes, ricevendo anche un premio dalla giuria presieduta da Steven Spielberg: neonati scambiati nella culla e allevati nelle famiglie sbagliate. Ma davvero sbagliate? Come allora, anche adesso il regista non offre risposte, pone solo domande. E le ultime scene, così pudicamente strazianti e nipponicamente misurate, non fanno che porci altre domande e altre ancora. Un film semplice e terso, che è puro Kore-eda e ne conferma la statura di maestro. Sacrosanta Palma d’oro.

domenica 16 settembre 2018

Sulla mia pelle - Alessio Cremonini

Alessandro Borghi è Stefano Cucchi, 
il film segue Stefano, per paura o per orgoglio non dice quello che è successo.
in una settimana lo lasciano morire, sembra che nessuno capisca quello che sta succedendo.
come alla scuola Diaz e a Bolzaneto, ma non solo, fra i tutori dell'ordine, fra chi deve proteggere tutti,  ci sono assassini, sadici, e delinquenti violenti oltre ogni dire.
Alessandro Borghi si spegne come una candela, nell'indifferenza di tutti, non è un film urlato, anzi, spesso è solo sussurrato, le immagini parlano da sole. 
il film non è perfetto, ma è necessario.
nonostante Netflix, buona visione al cinema - Ismaele



ps: nel 2015 Costanza Quatriglio gira un film (che si può vedere QUIsull'omicidio di Francesco Mastrogiovanni (qui e qui, per chi non si ricorda), che viene lasciato morire, come Stefano Cucchi.






E tra i molti carnefici di questa orribile storia italiana uno è sicuro oltre ogni ragionevole dubbio: la burocrazia. Ottusa, feroce, letteralistica, disumana. Burocrazia che impedisce ai familiari di vedere Stefano già quasi agonizzante: i genitori apprenderanno della sua morte solo quando si sentiranno chiedere da un carabiniere l’autorizzazione per l’autopsia. In questo dramma della disumanità, ma più ancora dell’indifferenza e del cinismo, sono stati molti i responsabili, non solo i picchiatori. Il film non è così piattamente veterotelevisivo come qualcuno tra i corridoi e le scale dl festival di Venezia, dov’è stato presentato a Orizzonti, l’ha subito bollato. Alessio Cremonini getta sulla tristissima storia uno sguardo che prima che denunciante è di partecipazione e dolore, e privo di ogni voyeurismo e sospetto di sensazionalismo. Imprimendo al racconto un andamento meditativo, perfino solenne, che fa tornare alla mente il Pasolini di Accattone e ancora di più di Mamma Roma (soprattutto il finale). Ed è il secondo film romano che nel giro di pochi mesi mi fa ricordare quel Pasolini, l’altro era La terra dell’abbastanza dei gemelli D’Innocenzo. Come in La terra dell’abbastanza anche qui c’è come padre disorientato e travolto dagli eventi un misurato e dolente Max Tortora. Jasmine Trinca è la sorella, colei che dopo la morte di Stefano solleverà il caso e lo imporrà all’attenzione dei media. E c’è Alessandro Borghi, impressionante per mimetismo, non tanto e non solo per l’aderenza fisica, ma per come replica il malessere del suo personaggio di tagliato fuori, e ormai morto tra i vivi, con la voce, la postura, il linguaggio del corpo. Un corpo da martire da pittura seicentesca.

Impossibilitato a incontrare i suoi genitori o anche solo a parlare con l’avvocato, Stefano d’altronde trova conforto solo in brevi dialoghi con altri detenuti, comunicando magari anche da una cella all’altra. Ed è a loro che confessa la verità sul pestaggio, è solo con loro che trova un terreno di condivisione e di empatia. E ciò connota ulteriormente Sulla mia pelle come un film umanista, molto riuscito quando si concentra proprio sul dolore di Cucchi, un po’ meno in alcune sequenze in cui mostra i genitori e la sorella, dove la regia appare un po’ troppo scolastica. Ben più espressive sono invece quelle inquadrature che mostrano Cucchi a letto, come dei quadri di morte e disperazione che possono lontanamente ricordare una rappresentazione cristologica tra Pasolini e il Mantegna. E Alessandro Borghi nel ruolo del protagonista si dona totalmente…

…Un film del genere, oggi, non sarebbe stato possibile senza che ci fosse stata prima la cruda e furiosa violenza mostrata in Diaz di Daniele Vicari, come forse sarebbe stato più difficile avere casi come quello di Stefano Cucchi se non ci fossero stati prima i massacri della scuola Diaz e di Bolzaneto, e l’impunità che ne è seguita. Dove la legge e la giustizia non sembrano riuscire a dare una risposta, il cinema ha ancora il coraggio e il dovere di intervenire, per mostrare ciò che vorrebbe essere tenuto nascosto. Se quello di Vicari era quasi un horror, quello di Cremonini è un dramma oscuro e silenzioso, senza grandi pianti o urla, che si consuma in disparte.
Anzi, se c’è una parola d’ordine in Sulla mia pelle, questa è “disinteresse”. Il disinteresse di praticamente tutti i personaggi che Stefano Cucchi incontra nella sua Passione e che sembrano ignorare i segni sul suo volto, o almeno non concepire chi possa averglieli fatti. Dal carabiniere che lo vede tumefatto, capisce, ma preferire stare zitto, ai poliziotti della Penitenziaria, interessati solo a che non passi per colpa loro. Dai medici, che preferiscono lasciar perdere invece di capire la situazione, al giudice, che lo condanna senza nemmeno guardarlo in faccia. Dall’avvocato d’ufficio, che gli sta faccia a faccia senza nemmeno accorgersi degli ematomi, fino al carabiniere che ne notifica la morte alla madre e subito dopo le chiede la firma sui documenti dell’autopsia. Tutti mossi da un unico pensiero: non è un mio problema. Un mondo completamente disumanizzato, stretto nella morsa di una malsana burocrazia – la stessa che impedisce ai genitori di Stefano di andarlo a trovare in carcere – in cui un ingranaggio si è stortato, e una persona a caso ci è rimasta schiacciata dentro.

…Cremonini non fa di Stefano un santo, tantomeno un martire ma, con lucidità e senso della misura, percorre le tappe del suo tormento che, giorno dopo giorno, lacera la pelle di un corpo già fragile e provato. Non vi è, né vi può essere, alcuna lettura “cristologica” in questa tribolazione (alla domanda “Sei credente?”, Stefano risponde con un amaro “So’ sperante”) andata ben oltre il “semplice” fatto di cronaca (anche se, disgraziatamente, non l’unico) per diventare lo scellerato esempio di quelle spaventose crepe che si aprono su un apparato di giustizia che dovrebbe garantire, ad ogni soggetto che le si affida, la tutela scevra dal pregiudizio ma anche quella pietas, non nel senso religioso del termine, intesa come espressione etica dei doveri che gli uomini hanno verso gli uomini.
Se, a causa della condotta di alcuni, si commette l’errore di generalizzare colpevolizzando un’intera categoria è altrettanto dannoso non accorgersi del modo in cui certi individui disonorano la divisa che indossano commettendo azioni che, in rapporto ad essa, hanno lo sfrontato ardire di legittimare. Per questo Sulla mia pelle non giudica, né condanna ma racconta, alla luce plumbea dello svolgimento dei fatti, il decesso in carcere numero 148 dell’anno 2009, una cifra impressionante (che solo due mesi dopo salirà a 176) tanto quanto il “trattamento” al quale Cucchi è stato sottoposto.
Un film duro ma necessario in cui la disperazione è un grido sordo, senza catarsi, né poesia. E le parole non bastano o, forse, non ci sono perché, come scriveva Seneca, “il grande dolore è muto”.