Hirokazu Koreeda continua a fare film con al centro la famiglia, o quello che sembra esserlo, e a volte anche meglio.
nella casa dei ladri tutto funziona, a suo modo, ciascuno riceve le attenzioni di cui ha bisogno.
grandi e bambini vivono insieme, fuori dalla legge, certo, ma felici, alla loro maniera.
quando vengono scoperti sorprende la superficialità e la freddezza della burocrazia, tutto il mondo è paese.
le cose durano poco, bisogna essere felici, per quel poco che può durare.
che cosa impossibile definire una famiglia, quella vecchia sembra morta, la nuova è in culla.
gran film, non perdetevelo - Ismaele
nella casa dei ladri tutto funziona, a suo modo, ciascuno riceve le attenzioni di cui ha bisogno.
grandi e bambini vivono insieme, fuori dalla legge, certo, ma felici, alla loro maniera.
quando vengono scoperti sorprende la superficialità e la freddezza della burocrazia, tutto il mondo è paese.
le cose durano poco, bisogna essere felici, per quel poco che può durare.
che cosa impossibile definire una famiglia, quella vecchia sembra morta, la nuova è in culla.
gran film, non perdetevelo - Ismaele
…Il titolo originale Manbiki
kazoku tradotto letteralmente significa famiglia di taccheggiatori. Un affare di famiglia è un film che
sussurra, è fatto di dettagli, attimi, sguardi e sorrisi. C’è un’amoralità di
fondo nel comportamento dei 4 adulti, ognuno di loro ha segreti. Di sicuro
insegnare a due bambini a rubare, negandogli la scuola “solo i bimbi che non
possono studiare a casa vanno a scuola”, scalza in secondo piano tutti gli
altri misfatti e occultamenti.
La nitida quanto disinvolta regia si prende tutto il tempo necessario per far riflettere sui rapporti sociali e di famiglia, dinamiche che, analizzate, divengono paradossali (Juri è sì salvata da una situazione di abusi famigliari e benché ora sia amata e felice, pur rubando, è comunque stata rapita!), sul profondo e straziante concetto di padre e di madre (se non partorisci non puoi essere madre?).
La nitida quanto disinvolta regia si prende tutto il tempo necessario per far riflettere sui rapporti sociali e di famiglia, dinamiche che, analizzate, divengono paradossali (Juri è sì salvata da una situazione di abusi famigliari e benché ora sia amata e felice, pur rubando, è comunque stata rapita!), sul profondo e straziante concetto di padre e di madre (se non partorisci non puoi essere madre?).
Ma Kore’eda critica anche la società
lavorativa giapponese; attraverso il lavoro di Nobuyo parla
dell’iniziativa della “condivisione”: fondamentalmente, ai lavoratori viene
chiesto di alternare turni di mezza giornata in modo che vengano pagati di meno. Il risultato è, secondo
le parole di Osamu, “tutti diventano un po ‘più poveri di giorno in
giorno”. Kore-eda ha dichiarato in un’intervista che l’ispirazione per
questo film giunge da notizie su come i famigliari imbrogliano, abusano e
talvolta addirittura si uccidono a vicenda, spingendolo a chiedersi se le
famiglie in Giappone (dove il ricorso al furto è raro e particolarmente
vergognoso) sono ora legati da crimini piuttosto che dall’amore.
da
qui
…tutto ciò che il mondo lì fuori condensa come esperienza contingente diventa elaborazione sentimentale all’interno di quello spazio. E la vita scorre. Sino a quando Osamu trova per caso la piccola Yuri, una bambina fuggita dai violenti genitori e rannicchiata in un angolo di strada: il gruppo la accoglie, la cura, la coccola, diventando in pochi giorni una nuova sorellina. Insomma: un po’ per caso, un po’ per scelta, queste persone segnate da un doloroso passato si sono riconosciute assegnandosi dei ruoli e dei compiti al di là di ogni regola civile e di ogni convenzione sociale…
…E' una famiglia di "taccheggiatori": così va
tradotto il titolo internazionale "Shoplifters", che espunge l'altro
termine presente nel titolo giapponese, il quale per esteso dovrebbe suonare
"famiglia di taccheggiatori" (edulcorato nel titolo scelto dai
distributori italiani). Sono, in effetti, dei ladri. Vivono di espedienti, ai
margini o fuori dalla legalità. Dei fuorilegge, dunque. Non solo per il modo in
cui si procurano il cibo (a proposito: si mangia spesso e di gusto). Anche dal
punto di vista sociale, questa "famiglia" si colloca in condizioni di
consapevole clandestinità rispetto al consesso civile. Così come il regista
indica chiaramente i limiti morali del microcosmo che descrive (a più riprese
ad esempio pone l'accento sull'equivocità di educare dei bambini al furto), non
disdegna neppure tocchi di ironia, nel tratteggiare gli stessi limiti morali:
come quando si sofferma sul disappunto della "nonna" che, contati dei
soldi che le son stati elargiti, manifesta disappunto trattandosi di una cifra
per lei troppo bassa…
…“I figli devono crescere con le mamme” asserisce
l’assistente sociale che sta interrogando Hatsue, fermata per sequestro di minore
e forse anche per omicidio – la nonna-che-nonna-non-è è stata sepolta in
giardino nel tentativo disperato di mantenere il segreto e non far trapelare la
verità. La donna risponde, con un triste sarcasmo “È proprio quello che
vogliono credere le mamme”. Qui, come nel paradosso di aver tolto una bambina a
due genitori amorosi solo perché finti per
restituirla ai legittimi padre e madre che la picchiano e la snobbano, risiede
il vero centro del discorso di Kore-eda, e l’acme tragico di un film che
racconta una società impossibile da redimere, e incapace di scorgere l’umano al
di là del legale. Esistono affetti che maturano al di là di ogni
ragionevolezza, o senso, ma il consesso civile non lo
tollererà mai. Forse mai, neanche nello sguardo tutto infantile – e costretto
alla distruzione – del miracoloso Nobody Knows, Kore-eda si era
dimostrato così disperato, tragico, privo di qualsivoglia speranza. Una
tragedia che è, per quel che riguarda l’interpretazione del concetto di
famiglia, parte integrante dell’intera storia del Giappone, e non è un caso che
il pin del bancomat della nonnina sia 1192, in riferimento all’anno in cui
Minamoto no Yorimoto ricevette il titolo di shōgun e fondò il primo bakufu. Se
c’è felicità è solo nell’instabilità effimera, come i fuochi d’artificio che
illuminano una notte su Tokyo, dalle parti del fiume Sumida. Per il resto si
può tornare alla vita di tutti i giorni, ma non si avrà il coraggio di salutare
come ‘papà’ colui che si ritiene l’unico e vero padre. Oppure ci si fermerà con lo sguardo nel vuoto,
come la piccola Rin abbandonata di nuovo a se stessa, agognando forse di essere
salvata un’altra volta. Sognando di avere di nuovo una famiglia.
…chi siamo noi per giudicare? Per
giudicare, intendo, una famiglia che cresce sì come ladri i suoi virgulti però
garantendo loro una protezione dagli orrori del mondo là fuori? Si resta
avvinti a questo mirabile racconto che, con precisione geometrica e massima
sobrietà e pulizia di stile, pone l’eterna ma sempre cruciale questione: chi
sono i veri genitori? E quanto contano i legami di sangue? Quanto si può
eluderli? Kore-eda aveva già affrontato la questione in Like Father, Like Son lanciato
qualche anno fa sempre a Cannes, ricevendo anche un premio dalla giuria
presieduta da Steven Spielberg: neonati scambiati nella culla e allevati nelle
famiglie sbagliate. Ma davvero sbagliate? Come allora, anche adesso il regista
non offre risposte, pone solo domande. E le ultime scene, così pudicamente
strazianti e nipponicamente misurate, non fanno che porci altre domande e altre
ancora. Un film semplice e terso, che è puro Kore-eda e ne conferma la statura
di maestro. Sacrosanta Palma d’oro.
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