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mercoledì 7 maggio 2025

Espion, lève-toi (Alzati spia) – Yves Boisset

gli inganni e i cambi di strategie dei governi e dei servizi segreti si  riflettono sulla vita delle spie, che cercano di sopravvivere ai cambiamenti.

come sempre Yves Boisset gira un film politico, che un gruppo di terroristi manipolati (cosa inverosimile?) e una donna ammazzata e trovata in una macchina (come Moro, ci ricordiamo?).

tutti bravi, ma Lino Ventura e Michel Piccoli straordinari.

musica di Ennio Morricone, perfetta per il film.

un film che non delude.

buona (sorprendente) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Lo ammetto ho un debole per il grande Lino Ventura.Pur con la presenza di Piccoli probabilmente questo thriller spionistico non l'avrei guardato perche'non sono molto appassionato di spy story o film che sfruttano il tema della guerra fredda.E invece avrei fatto male perche'questo film non è assolutamente male.Cita i temi classici delle spy stories ma ha un ambientazione inconsueta,Zurigo,di cui ne esce un ritratto a forti tinte,una specie di nido di vipere e covo di fermenti terroristici.Si parla di spie "risvegliate" e richiamate alle loro funzioni un po'come in Telefon di Siegel anche se la'era una cosa ipnotica non consapevole.C'è un gran confronto di stili di recitazione tra Piccoli e Ventura,il primo di un ambiguita'viscida sempre col sorriso sulle labbra,Ventura piu'pragmatico,concreto a fare sempre domande che purtroppo non avranna mai risposta.Lo stile imposto è quasi asettico con una rigida scansione temporale,ma quello che rende diverso questo film è proprio l'insieme delle locations della Mittleeuropa scelte,perche'per il resto si replica la trama di film spionistici con protagonisti agenti americani russi e inglesi anche se qui siamo lontanissimi dal glamour bondiano.Una nota sull'inquietante finale,amaro,senza risposte che rivela la presenza di oscuri poteri forti ,misteriosi ingranaggi che neanche un valido agente riesce a inceppare....

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Bien belle affiche pour cet Espion, lève-toi (1982) avec la présence aux commandes d’Yves Boisset, réalisateur qui a toujours su être efficace. Il est assisté ici de Michel Audiard aux dialogues, d’Ennio Morricone à la musique et d’un casting trois étoiles. D’ailleurs, l’origine du projet remonte à Michel Audiard, grand amateur de polars, qui a repéré le livre Espion lève-toi de George Markstein dans la fameuse collection Série noire. Inspiré d’une histoire vraie, le livre était selon Michel Audiard un véhicule parfait pour Lino Ventura.

Yves Boisset raconte ainsi dans son autobiographie La vie est un choix (Plon, 2017) :

Lorsqu’il [Audiard] m’a fait lire le sujet, l’idée m’est venue de confronter Lino, et son côté brut de fonderie, avec Michel Piccoli, dont l’ambiguïté et la perversité étaient aux antipodes. La perspective de ce duel entre les deux monstres sacrés emballa Audiard qui leur écrivit dans la subtilité et la mélancolie un de ses dialogues les plus brillants et les plus intelligents…

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Ex-agente segreto viene riagganciato dai superiori a causa del suo legame sentimentale con una professoressa universitaria di estrema sinistra. Negli anni del riflusso e della dottrina Mitterand esce questo insolito thriller spionistico che coniuga il pessimismo politico della New Hollywood (I tre giorni del Condor è il cugino più prossimo) con il nichilismo del polar (le didascalie che segnano date e orari come in Le samouraï). Ventura gran signore, Piccoli diabolico, Boisset dotato di un ritmo più spigliato della media dei colleghi.

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Spia francese "dormiente" che da anni vive a Zurigo sotto copertura deve ritornare in pista dopo l'uccisione di un collega da parte di un gruppo terroristico d'estrema sinistra probabilmente manovrato dai servizi di una potenza straniera... Come l'ottimo Ventura, anche lo spettatore fino all'ultimo non sa se sia più pericoloso l'ambiguo Piccoli oppure l'opaco Cremer: un'incertezza che accresce la tensione e con essa il fascino di questo film dalla messa in scena funzionale (regia sobria, ambientazione ben resa, valida ost di Morricone) da segnalare tra i più pessimistici del genere.

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Se Lino Ventura è diventato un gigante della cinematografia francese (e non solo), lo deve anche a film come questo. Il personaggio è tagliato con l’accetta. Agente segreto francese “dormiente” di stanza a Zurigo, Sébastien Grenier viene richiamato in servizio dopo l’assassinio di un suo collega e si ritrova subito in un mare di guai. La trama spionistica è delle più classiche, ci sono pochi e persino scontati colpi di scena ma, come gli è spesso accaduto, Lino Ventura imprime al suo ruolo una gravità, un’intensità recitativa, una dura naturalezza che caratterizzano il cavallo di razza che conosciamo, quello che rende appassionante una storia anche se confusa. Spesso, nei film di spionaggio, la sceneggiatura può lasciare a desiderare, dando nondimeno vita ad opere di innegabile valore. Modello del genere fu “Il falcone maltese” (1941) di John Huston. In questa sua prova, Yves Boisset, regista essenzialmente di media levatura ma tutt’altro che trascurabile, non assurge ad alcun vertice cinematografico, ma gode di una magnifica distribuzione (la parola “cast” non mi piace), di buone ambientazioni (neppure “locations” mi piace), nonché di un’adeguata e molto riconoscibile colonna sonora (un Ennio Moricone forse poco innovativo, ma deliziosamente incalzante). Gli attori comprimari sono le facce giuste per i rispettivi ruoli, da Michel Piccoli, intrigante agente francese forse al soldo del KGB, al volto scolpito di Bruno Cremer, che spunta dal nulla a tre quarti del film ed è l’unico ad uscire vivo dall’intricata vicenda. Nel ruolo della compagna di Sébastien Grenier, Krystyna Janda, elegantemente intellettuale, devota e travolta dagli eventi, se la cava egregiamente. L’immagine della sua salma rinvenuta nel bagaliaio posteriore di un’auto non può non rimandare all’istantanea sul cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa del 1978. A rendere ovviamente il tutto ancor più gradevole sono, immancabilmente, i succosi e mai banali dialoghi firmati dal Maestro Michel Audiard. Un vero piacere!

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sabato 3 maggio 2025

Joss il professionista - Georges Lautner

una bellissima colonna musicale, di un certo Ennio Morricone, accompagna tutta la storia.

Joss (Jean-Paul Belmondo) è un agente segreto con un compito importante, quello di ammazzare un capo di stato africano, assassinio per gli interessi della Francia.

lo scoprono e lo condannano ai lavori forzati, ma dopo due anni riesce a fuggire e torna in patria.

Joss vuole adempiere il suo incarico e fa i salti mortali per raggiungere i suoi scopi.

nei titoli di coda veniamo a sapere che Belmondo non ha controfigure, fa tutto lui!

un film da non perdere, per chi si vuol bene.

buona (sorprendente) visione - Ismaele

 


QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 


 

Questo film è un classico esempio di come in Francia riescano a sfornare prodotti di intrattenimento di elevata qualita'e di solido professionismo.Qui il personaggio di Joss sembra il fratello maggiore di Rambo in cui la citta'sostituisce la foresta ed è un veicolo perfetto per le innumerevoli qualita'dell'ancora atletico Belmondo nonostante sia nei dintorni delle 50 primavere.Qui è un agente segreto che deve compiere una missione impossibile lasciata'a meta' due anni prima.Se leviamo l'assunto che è veramente incredibile(come si fa da soli a uccidere un capo di Stato in Francia?)non possiamo che guardare con ammirazione le belle sequenze d'azione,le varie trovate registiche e i trucchi ingegnosi che Joss usa.C'è un rimescolamento dei ruoli in cui si parteggia per quello che dovrebbe essere il criminale mentre l'immagine data dei poliziotti è volutamente sgradevole(con un cattivissimo Robert Hossein fatto fuori in un duello stile western che ci potevano risparmiare).Il finale è un classico atto d'accusa degli affari sporchi nelle alte sfere.....

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Se si è disposti a sorvolare sulle ingenuità disseminate nella sceneggiatura (quasi obbligatorie, dato il genere) non si può non apprezzare questo thriller capace di coniugare il puro intrattenimento con una qualità decisamente elevata. Lautner e Belmondo non lo ricordano volentieri, eppure il primo dirige in modo impeccabile, il secondo è perfetto in un ruolo che sembra fatto apposta per lui. Aggiungiamo un buon cast di contorno e una notevole colonna sonora di Morricone e il quadro è completo. Finale inaspettatamente amaro, ma coerente.

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Qualcuno potrà dire: “puro intrattenimento”, certo, ma di altissima qualità. Grande successo di pubblico alla sua uscita in Francia, il film può vantare non pochi meriti. In primo luogo, una sceneggiatura senza tempi morti, che passa mirabilmente dal genere avventura, al thriller, al gangsters movie, alla commedia, alla denuncia politica e altro ancora. Jean-Paul Belmondo è aiutato da un ruolo scritto su misura per lui: sornione, simpatico, duro e tenero, coraggioso, atletico… Si tratta senza dubbio di uno dei suoi personaggi migliori in assoluto. Accanto a lui, non demeritano uno splendido Robert Hossein, nella parte del cinico commissario, Jean-Louis Richard, lo splendido Daxiat dell’”ultimo metro” di Truffaut, Jean Desailly, altro attore truffauttiano, nel ruolo del ministro vile e ambiguo. Il finale del film è triste, quasi commovente, anche in virtù di uno dei temi musicali più riusciti di Ennio Morricone.

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Senza voler pretendere da questo film ciò che non si propone, siamo in presenza di un piccolo capolavoro per niente datato, anzi! Molteplici temi sfiorati con garbo: l'ipocrisia dei politici, il tradimento degli amici, la genuinità di chi viene "scartato" dalla società bene, il sadismo di chi dovrebbe ripristinare l'ordine... E poi scenarsi diversissimi, dall'Africa a Parigi, dai salotti agli inseguimenti in auto, da cupe carceri a ville sfarzose: su tutto la sublime interpretazione di Belmondo, agente segreto disincantato ma non troppo. Colonna sonora impossibile da scordare!

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Film dal piglio grintoso raro, esso fu la terza collaborazione tra Georges Lautner, all'ora all'apice del successo registico  non  solo nel poliziesco e nel gangster ma anche nelle commedie, e il suo interprete iconico appunto Jean-Paul Belmondo, il quale aveva anch'egli raggiunto  il culmine della propria popolarità, raggiungendo il suo più vicino rivale, Alain Delon. Le precedenti collaborazioni di Belmondo con Lautner - “Poliziotto o canaglia”(Flic ou Voyou)(1978) e “Il Piccione di piazza san Marco” (Le Guignol) (1979) - erano stati polizieschi d'azione sì, ma con una più forte connotazione ironica, mentre “Le Professionnel” sarebbe stato qualcosa di completamente diverso, un pòlar thriller d'azione grintosissimo, con alcune scene di combattimento selvaggiamente realistiche, spettacolari. Inseguimenti automobilistici (cosa che era diventato di rigore nei film di Belmondo a partire dai primi anni '70, almeno dallo strepitoso “Gli Scassinatori”[Le Casse][1971] con Omar Sharif, sempre di Verneuil) e un finale così triste che difficilmente si sarebbe potuto legarlo a momenti leggeri, che ne fanno nel complesso  un film molto più nero e pessimista di quanto si tenderebbe ad associare sia con Lautner che con Belmondo.

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mercoledì 16 aprile 2025

L'attentato - Yves Boisset

il regista ricostruisce l'omicidio di Ben Barka, con un insieme di attori straordinari, tutti perfetti nel loro ruolo, merito di Yves Boisset, un grande, sottovalutato, regista.

tutti sono d'accordo per uccidere Ben Barka, servizi segreti, polizia, governi, giornalisti fanno parte di un complotto mortale.

la sceneggiatura non fa mai annoiare, si tratta di un film politico, senza sconti per nessuno, un thriller contro il tempo.

un film da non perdere, promesso.

buona (Ben Barka) visione - Ismaele


 

QUI il film completo, in francese


QUI e QUI la ricostruzione dell'omicidio di Ben Barka, anche il Mossad ha una parte importante.


 

Se la prima parte del film è tutta ben calibrata sul complotto che a poco a poco avvolge nelle sue spire il leader d’opposizione, esiliato a Ginevra, di un non meglio precisato paese arabo (un sempre ottimo Gian Maria Volonté), successivamente nella battaglia per la verità promossa dal personaggio di Darien L’attentato mostra le sue pagine migliori, nell’ordine di un’opprimente caccia all’uomo scandita su alcune splendide sequenze d’azione. Azione qui intesa nel suo senso più originariamente cinematografico: lontano dall’epoca dei dominanti effetti speciali, Boisset confeziona sequenze di puro inseguimento in cui l’unico strumento per mettersi in salvo è correre più veloce di chi insegue. Boisset mostra grande gusto nella scelta funzionale delle location, mentre sulla smorfia d’angoscia di Trintignant in mezzo alla strada risiede lo strumento di maggiore immedesimazione per chi vede, catapultato in un universo dove è impossibile trovare rifugio in nessuna istituzione, e in nessun luogo. Ovunque arriva un potere più forte e tentacolare, e qualsiasi figura, anche la più rassicurante, può tramutarsi in carnefice nel volgere di due inquadrature.
A differenza delle distorsioni petriane, Boisset ricorre alle sicurezze del cinema di genere, con sfruttamento fortemente espressivo dei luoghi reali di ripresa. Un appuntamento a due passi dall’Arco di Trionfo, un dialogo serrato in un’affollata metropolitana, una bidonville di periferia, una stazioncina ferroviaria: collocato nell’atmosfera di un realistico incubo diurno, L’attentato si pone a un crocevia espressivo tra polar francese e poliziesco all’italiana (eccellente e funzionale il commento musicale di Ennio Morricone), riletti alla luce del pieno e dichiarato impegno politico…

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La forza de "L'attentato" non sta nella trama tinta di intrigo geopolitico. Ma in quella solidità filmica tipica di un certo cinema anni settanta, data dal talento degli attori che si mettevano al servizio della storia e dal mestiere di un regista come Boisset che sapeva come non strafare. Ovvero, quel buon cinema medio che si sa fare sempre meno.

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Nel 1972 Gian Maria Volontè era all’apice della sua carriera. Le sue interpretazioni erano uno spettacolo dopo l’altro: tra il persuasivo Enrico Mattei de “Il caso Mattei” di Rosi, il redattore reazionario di “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio e il laconico “Lucky Luciano” ancora di Rosi, infilò il carismatico leader socialista di un ipotetico paese del Nord Africa, riconducibile al politico marocchino Mehdi Ben Barka, ucciso pochi anni prima a Parigi.

Il Sadiel di Volontè è un bel personaggio sobrio, rispetto alla media di sue interpretazioni dell’epoca, sofferente perché in esilio. Ricorda il Moro stritolato psicologicamente dalla prigionia e dagli eventi del film di Ferrara. In tre sequenze di dialogo/confronto esplica la sua personalità con tre personaggi opposti e differenti quali l’amico Darien di Trintignant, il nemico Kassar di Piccoli e l’ex allievo di Denis Manuel. Nel primo sentiamo le radici proletarie che contribuirono all’esigenza di riscatto e formazione dell’uomo politico pronto a tornare in patria per liberare il popolo; nella seconda il duro confronto con Kassar, al quale chiude ogni apertura con la forza degli ideali contrapposti alla violenza della proposta; nella terza avvertiamo il cuore e la nostalgia.

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Capolavoro del cinema francese di denuncia politica. Ispirato da un fatto realmente accaduto nel 1965 in Francia, è un film crudo violento e con un alto livello di tensione. Il protagonista magistralmente interpretato da Trintignant è uno scrittore fallito labile e debole pian piano viene incastrato in un gioco più grande di lui. Eccellente come sempre l'interpretazione di Volontè (ci sono inoltre delle attinenze con Il caso Mattei, che proprio lui interpretò). Cast straodinario con attori tutti di altissimo livello (in particolare Cremer, Bouquet e Perier).

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Sadiel sta per tornare in patria per far parte del nuovo governo. Il ministro militare Kassar vuole impedirlo, con l'aiuto della CIA e di personalità francesi legate ai servizi segreti. Si organizza segretamente un incontro tra i due con l'inconsapevole tramite di Darien, amico ricattabile di Sadiel. Bosset muove con sapienza i pezzi della sua scacchiera: tutti "Re". Il tormentato Darien (Trintignant), l'idealista Sadiel (Volonté), il sulfureo Kassar (Piccoli), i viscidi Garcin e Lempereur (Noiret e Bouquet). Film inevitabilmente politicizzato, ha ritmo serrato e ottima colonna sonora

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martedì 17 settembre 2024

Da uomo a uomo - Giulio Petroni

Bill è l'ultimo sopravissuto allo sterminio della sua famiglia e cresce pensando di vendicarsi. 

trova un alleato decisivo in Ryan, anche lui, dopo 15 anni di prigione, desideroso di vendicarsi.

un western come si deve (distrutto da Roger Ebert e amato da Quentin Tarantino, ognuno ha i suoi gusti).

buona (vendicativa) visione - Ismaele

 

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Bel western, giudicato da Tarantino come il film modello per i revenge movie all'italiana. L'opera si apre con un inizio dilatatissimo dalle scenografie horror (notte, pioggia e vento che ulula continuo), prosegue con una sequenza da poliziottesco in cui vediamo il protagonista esercitarsi con la pistola e rientra poi nei binari del western all'italiana alla Leone (da cui vengono ereditati anche gli attori feticcio Luigi Pistilli e Mario Brega). Molte le citazioni da "Per qualche dollaro in più" (parte finale in cui Van Cleef e un giovane Law che - anche se sbarbato - si atteggia alla Clint Eastwood collaborano tra loro in un villaggio fantasma dopo essersi boicottati a vicenda per tutto il resto del film, facendo fuori uno a uno tutta la banda contro cui si schierano) a "I giorni dell'ira" (Van Cleef che da lezioni al protagonista) e "Un dollaro bucato" (protagonista legato e costretto a restare al sole dopo avergli fatto ingerire una manata di sale), proseguendo per un finale in cui viene richiamato anche "Sette dollari sul rosso" (Van Cleef che rifiuta il duello con Law dandogli le spalle mentre l'altro lo invita a difendersi). Spassoso e tipicamente da b-movie lo spiazzo deserto dove compaiono teschi e volti mummificati che anticipano la tortura prediletta dai messicani del posto: sotterrare fino al collo le vittime e lasciarle cuocere dal sole…

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Una banda di fuorilegge assalta una fattoria, uccidendo e violentando gli abitanti della stessa. Si salva il piccolo Bill, passerà il resto della vita ad attendere la sua vendetta. Western spaghetti di discreta fattura, consigliato a chi ama il genere.

Spaghetti western condito con tutti gli ingredienti del caso, alcol, vendetta, machismo. L'attore protagonista è abbastanza scialbo e forza il suo personaggio, privo di un suo fascino naturale ma compensano i co-protagonisti ed il buon Lee Van Cleef. Discreta la sceneggiatura e non male anche la colonna sonora a firma di Morricone; nel complesso un prodotto apprezzabile.

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Alas, it generally takes two hours for these connections to be established. But in the meantime, sitting there in the dark, watching this bad Western on a Saturday afternoon, you get an autobiographical feedback. You reestablish contact with yourself at the age of 10, when you sat through dozens of exactly such bad Westerns (only not so violent, although they seemed violent enough). And contemplation of this sort, the mystics assure us, is necessary for psychic well-being.

You can also reflect upon the fates of Lee Van Cleef and John Phillip Law. It is one thing to hurtle into stardom as a result of spaghetti Westerns, as Clint Eastwood did. But it is another thing to remain stuck in them. Van Cleef’s face, in closeup, has the lean, hardened, embittered expression of a man who has either (a) been pursuing his lonely vengeance across the plains of the West for 30 years, or (b) realizes he will be making spaghetti Westerns the rest of his life. These two feelings are nearly indiscernible.

But Law still retains a certain innocence. His eyes are blue, his face unlined, his cheekbones the sort we expect on a young and stubborn hero. He usually wears suspenders in these movies (just as Eastwood smokes cigars and Van Cleef a pipe), and they give him a naive earnestness. We feel that he will doggedly obtain revenge, wipe out the bad guys and return to Hollywood some day. We are on his side. No wonder. He needs us.

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lunedì 31 gennaio 2022

Ennio - Giuseppe Tornatore

il 17 febbraio Ennio sarà al cinema, però c'è stata la proiezione nei cinema sabato e domenica di fine gennaio, per vedere l'effetto che fa.

gli incassi del fine settimana sono stati buoni, e meritati.

probabilmente è il film della stagione, Tornatore è stato bravissimo e tutti possono conoscere Ennio Morricone di persona, e non solo le sue musiche.

si dirà che solo dopo che uno muore ci si accorge della sua grandezza, meglio tardi che mai.

le sue musiche da film sono quelle che tutti riconosciamo, e hanno accompagnato le nostre vite, e lo faranno ancora, finché le centinaia di film (528, certifica Imdb) dei quali ha creato la colonna sonora saranno visti e rivisti.

per quasi tutti ci sarebbero volute diverse vite per fare quello che Ennio ha fatto in una vita sole, come se fosse la cosa più normale del mondo.

è un film che racconta una storia, anzi molte, fa pensare, fa sorridere, fa commuovere, fa venire la pelle d'oca, fa scorrere qualche lacrima, è un film che fa bene al cinema e a chi lo guarda.

e quindi non perdetevelo, quando riapparirà nei cinema - Ismaele

 

 

 

…Ennio si apre con un'alternanza brillante di opposti movimenti di direzione d'orchestra e stretching domestico, dando l'attacco a un'immersione competente e appassionata nella carriera di un compositore dall'opera incalcolabile, che ha spaziato in ambiti molto diversi. Erroneamente identificato in tutto il mondo per lo più per le invenzioni strumentali e rumoristiche dei western di Sergio Leone e accompagnato per tutta la vita dal dispiacere per un pregiudizio accademico nei suoi confronti.
Il pregio di Ennio, non solo dentro il genere documentario, risiede nella sua semplicità e chiarezza così difficili da raggiungere, ma ancor prima nel fatto che Tornatore abbia concepito la propria linea narrativa come una partitura musicale. Il montaggio aggraziato e puntuale di Massimo Quaglia e Annalisa Squillaci rende questa cavalcata di oltre due ore e mezzo tra film e pentagrammi uno svelamento seducente anche per non addetti ai lavori, che non si vorrebbe finisse mai, perché, tra aneddotica e archivio cinematografico, la musica e le sue leggi restano a fuoco.

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la forza del documentario sta tutta nell’intimità del racconto in prima persona, nella commozione che fluisce dal ricordo, con una naturalezza spiazzante, nella memoria di ferro delle divagazioni musicali. Per Morricone comporre musica voleva dire difendersi dalla solitudine, affidando agli strumenti le proprie passioni interiori. Ecco allora che si chiarificano le ombre, che emergono i non detti: la delusione per quegli Oscar non vinti, non futili simboli di un successo mai rincorso, quanto una legittimazione all’esistenza di un uomo che ha consegnato se stesso ad ogni nota scritta. Per due ore e mezza i capolavori di Morricone risuonano senza tregua ed è chiaro il tentativo di costruire il documentario sul modello di un grande concerto polifonico, riuscendo comunque a mantenere una chiarezza espressiva che la massiccia quantità di materiale, tra archivio, aneddoti e curiosità, avrebbe potuto facilmente annebbiare.

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Se piace il genere, lo si amerà. Se non piace il genere, si sappia che gli italiani ormai sono maestri dei docufilm. E se tutto ciò non dovesse convincere, andatelo ad ascoltare. Proprio così: chiudete gli occhi e usate le orecchie, questo film già così vi regalerà emozioni. Certe canzoni del passato vi faranno ricordare istanti passati; certe melodie vi riporteranno alle relative scene di film. Fra i cantautori con cui Morricone lavorò: Gianni Morandi, Mina, Gino Paoli, Luigi Tenco, Rita Pavone, Edoardo Vianello e molti altri. Negli anni 60, Morricone collaborò con la casa discografia RCA. Arrangiava canzonette. Il pop italiano visse un momento d’oro. Ennio Morricone cercava sempre “di arricchire una canzone, sia che fosse bella o sia che fosse modesta […]”; cercava di non rifugiarsi “in un lavoro passivo”.

Per Con le pinne fucile ed occhiali di Edoardo Vianello Morricone volle ricreare lo splash di cui alla canzone e ci riuscì. In Sapore di sale aggiunse un paio di suoni in più che ben si distinguono e ne fecero un grandissimo successo. E ci furono Se telefonando (Mina), Abbronzatissima (Vianello), Il mondo (Jimmy Fontana), C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones (Morandi) e così via, tutti trasformati pezzi indimenticabili. Avviandoci verso la conclusione della nostra recensione di Ennio, aggiungiamo che i film che raccontano le vite dei grandi innovatori di arte e storia o scienza e cultura, e così via, valgono la pena di essere visti sempre. E se il personaggio è Ennio Morricone, forse, ancora di più.

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Ma quale Morricone viene fuori da Ennio? L'uomo innanzitutto: un essere attento, taciturno, intelligente, modesto, enigmatico, abitudinario. Molti già lo conoscevano per queste caratteristiche, ma laddove il film di Giuseppe Tornatore diventa qualcosa di nuovo e appassionante è nella messa in risalto della pura genialità di Ennio Morricone, che scriveva note anche sulle tovaglie di carta dei ristoranti, che creava melodie nella sua testa, che traeva spunto dal verso di un animale o dal rumore di un barattolo o di ferraglia. Forse non importa sapere che Stanley Kubrick ha chiamato Ennio per Arancia Meccanica e che è stato il Maestro ad arrangiare "Se telefonando" e "Abbronzatissima", quando lavorava per la RCA, ma è bellissimo e commovente scoprire il dramma che il figlio di un suonatore di tromba costretto a frequentare il conservatorio ha vissuto per quasi tutta la vita a causa dell'atteggiamento di rifiuto del suo maestro Goffredo Petrassi, che riteneva la composizione per il cinema uno svilimento della musica stessa. Proprio questo snobismo da parte dell'accademia ha portato Morricone a vivere la sua vita artistica come una rivalsa, come un antidoto alla paura di aver tradito i padri. La sua rivincita l'ha avuta Ennio, e parlandone in vecchiaia si commuove spesso, e noi con lui. Del resto, a inizio film, l’artista viene immortalato mentre fa la sua ginnastica mattutina, prima di entrare in uno studio dove il caos è ordine e meraviglia. Questa intimità non può non avvicinare lo spettatore…

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mercoledì 1 settembre 2021

Revolver - Sergio Sollima

sembra un medio film poliziottesco, ma dopo un po' prende il volo, e diventa anche un film politico.

dietro tutta la storia, si capisce pian piano, c'è un complotto politico, senza pietà per le piccole rotelle fuori posto.

ottimi gli attori, Oliver Reed e Fabio Testi sopra tutti, in una lotta  fra loro prima e poi contro il Potere, fino a quando si può.

musica di Ennio Morricone.

un piccolo gioiellino da non perdere, per i miei gusti.

buona visione - Ismaele



 

 

 

…E' comunque ancora l'epoca dell'alba del poliziottesco mentre per certi versi soprattutto nella parte finale prettamente politica ci si avvicina a certe opere di Damiani. Comunque alto artigianato cinematografico capace di conferire dignità a un genere catalogato sempre come serie B. Alcuni personaggi non sono messi a fuoco(come il personaggio caricaturale della rockstar figlia del suo tempo, gli anni 70 più liberi e sfrenati),anche il discorso politico alla fine sfiora il didascalismo(del resto il discorso politico per Sollima era di primaria importanza, basti pensare ai suoi western sessantottini).Resta però la sensazione di un film non banale e con una scena finale che svicola decisamente dai luoghi comuni dell'happy end. Una delle scene migliori del film.

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Un poliziesco all'italiana che s'apre come uno spaghetti-western, e che si porta avanti e si conclude come un noir disperato. Bravo come al solito, Sollima riesce a dare ritmo ad una struttura narrativa già buona in sè, ma che in altre mani sarebbe solo diventata un'agonia narrativa. Fabio Testi nel ruolo del criminale che alcuni politici vogliono uccidere è molto credibile, e porta sul proprio corpo i tratti del "maledetto": affascinante e dalla vita incerta. Ma il vero punto di forza, oltre a Sollima stesso, è Oliver Reed. Duro, scontroso e irrimediabile. Il finale è accecante, sia per noi spettatori che il protagonista, il vice direttore del carcere Vito Cipriani.
Il gioco mai logoro della coppia di amici-nemici, trova in "Revolver" una sfumatura disperata che gli da quella bellezza estetica e quella forza narrativa capaci di salvare un film. In questo caso la pellicola non corre rischi di naufragio tra una scena e l'altra, ma di certo la "coppia" e il modulo on the road, sono colonne solide per un bel film solido.

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…Vito y Milo, tan hostiles el uno hacia el otro desde el principio, son compañeros de aventuras a su pesar. No tienen más remedio que forjar una alianza. Vito ansía rescatar a su mujer al precio que sea, y Milo sólo quiere sobrevivir (y de ser posible, en libertad). Juntos tratarán de desbaratar una enrevesada trama criminal en la que también parece estar envuelta la industria discográfica. El personaje de “Al Niko” representa a esos efímeros famosetes y cantantes de moda que aparecen de la noche a la mañana ensalzados por los medios para aborregar a las masas y que una vez han dejado de ser útiles desaparecen igual de rápidamente (y a veces en trágicas circunstancias)…

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Largement inspiré par l’assassinat de Mattéi (homme d’affaire italien dont l’accident d’avion survenu en 1962 a été causé par une bombe parce que celui-ci dérangeait les autorités en place), le scénario commence tout d’abord comme une simple petite affaire entre truands et représentants de l’ordre. Pourtant, plusieurs séquences restent longtemps inexpliquées, mettant peu à peu le spectateur sur la voie d’un complot à plus grande échelle. Alors que les personnages principaux se débattent pour s’en sortir, ils comprennent progressivement qu’ils ne sont que de vulgaires pions dans un système qui les dépasse et les broie.

Toutefois, si la dénonciation des complots d’Etat est un classique du cinéma européen et américain de cette époque, La poursuite implacable se dote d’une subtilité supplémentaire. Effectivement, les deux individus pris dans l’étau représentent les deux faces d’une même société. L’un est un petit truand que l’on pourrait qualifier d’anarchiste (Fabio Testi en mode décontracté, mais finalement inoffensif), tandis que l’autre est un représentant de l’ordre, ancien flic et directeur d’une prison (excellent Oliver Reed). Alors qu’ils n’ont rien pour se rapprocher, les deux hommes vont peu à peu se lier d’amitié, ceci jusqu’à une séquence finale poignante et terriblement pessimiste…

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l’épiphanie libertaire de Cipriani et de Ruiz sera trop tardive pour leur permettre de mettre en échec le complot au cœur de La Poursuite implacable. Achevant ainsi de s’inscrire dans le registre de la tragédie conspiratrice façon Trois jours du Condor, le film se clôt par la destruction physique de Ruiz et psychique de Cipriani, en une scène de mise à mort du voyou par le flic non pas jouissive - comme elle l’est habituellement dans le poliziottesco (3) - mais profondément désespérée. Un renversement ultime des codes qui fait de cette Poursuite implacable, sous ses allures initiales de pur film de genre, un passionnant anti-poliziottesco...

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mercoledì 18 agosto 2021

L'umanoide - Aldo Lado

un film un po' pazzo, secondo i canoni della fantascienza, ma Aldo Lado non è un regista di fantascienza.

si corre a 100 all'ora poi ci si ferma, si riparte, si rallenta, fino all'ultima sparatoria galattica, senza prigionieri.

dipende da cosa uno si aspetta, una coerenza, un'americanata, chissà, ma un paio d'ore di divertimento non mancheranno, o ignoto spettatore che se ne frega del fantascientificamente corretto.

per alcuni più ispirato a Bud Spencer che a Lucas, ci sono i buoni e i cattivi, le cose misteriose, l'avventura, che sono le cose importanti in un film così, a me è piaciuto abbastanza.

buona (non fantascientificamente corretta) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo

 

 

Se il film ha un senso, quel senso è Richard Kiel, astronauta buono con cane robot appresso alla R2-D2, trasformato in un umanoide da una bomba atomica (idea balzana, ma funzionale alla storia), che sbaraglia tutti quelli che lo contrastano con la stessa facilità del suo Squalo, ma anche dell'Hulk dei fumetti Marvel che il gigante non poté interpretare nella serie tv americana di quei tempi, perché scartato in favore di Lou Ferrigno. Il suo umanoide poteva essere la quinta essenza della forza e della paura, la storia stessa, scritta da Enzo G. Castellari, che qui fa anche l'aiuto regista a Lado, poteva risutare inquietante e dark, invece si è preferito trasformare il Golob di Kiel in una copia dei tanti giganti buoni alla Bud Spencer dallo sganassone facile, anche se Golob ammazza senza tante riseve i suoi avversari. Le musiche elettroniche sono di un Ennio Morricone che cita l'Inno alla Gioia di Beethoven, peccato che la pellicola perda il confronto con un altro scult di fantascienza dell'epoca, sempre ispirato a "GUERRE STELLARI", ovvero "SCONTRI STELLARI OLTRE LA TERZA DIMENSIONE", di Luigi Cozzi.

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Beh....impossibile non dare la sufficienza a questo mediocrissimo ma simpaticissimo clone di Guerre Stellari. Quando lo vidi all'epoca mi piacque addirittura ma in quel periodo i ragazzini avevano ancora negli occhi le spade laser e tutto quello che poteva anche solo lontanamente sembrare attinente al mondo di George Lucas, faceva brillare gli occhi.

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Questo film è praticamente un inno all'arte di arrangiarsi tipicamente italica. A grandi linee possiamo considerarlo un clone che ricicla atmosfere care alla fantascienza di Lucas and company con personaggi ispirati chiaramente alla saga di Guerre Stellari. Così abbiamo una sorta di Darth Vader(il costume è identico),una serie di guerrieri di bianco corazzati, il buono aiutato da un ragazzo che usa la filosofia tibetana per risolvere le questioni(e anche due energumeni che compaiono, il ragazzino si chiama Tom Tom),un gigante buono(una specie di Chewbecca ma indistruttibile) e tante altre cosette tra cui un interminabile battaglia finale in cui i nostri pochi eroi svicolano tra un raggio laser e l'altro non vendendo mai colpiti dalla masnada di cattivoni. Gli effetti speciali pur ingegnosi sono assai rustici se confrontati al contraltare americano. A me sinceramente a vedere questo film mi veniva da sorridere perchè è talmente ingenuo che non poteva avere ambizioni di nessun tipo. Un film che fa della sua naivete il suo punto di forza…

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Fantascienza di puro intrattenimento sulla scia di Guerre stellari anche se nella prima parte, almeno a livello scenografico, si avverte l’influsso della tetralogia margheritiana. Semplice e ingenuotto nella trama, si apprezza per la suggestiva artigianalità degli effetti visivi – lontana anni luce dal frastornante digitale odierno – e per il buon cast internazionale, tra cui figurano due bondiani: il gigantesco umanoide Kiel e la Bach, contessa Bathory dello spazio. Di Rassimov, con look da samurai siderale, compaiono solo le gelide pupille.

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Interessante metàfora fantascientifica che assembla - a volte in maniera apparentemente confusa - elementi appartenenti a svariati generi: dalla versione "futuristica" della sanguinaria contessa Erzsébet Báthory (la graziosa Barbara Bach, nei panni della perfida Lady Agatha), a quella ipertecnologica dell'androide imbattibile, sorta di proto-Terminator ante litteram. A Lado non interessa realizzare una spartana versione low budget di Guerre Stellari e punta, invece, sulle buone interpretazioni (ad esempio Richard Kiel, già apparso in alcuni film di James Bond) e su validi dialoghi. Incompreso.

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Mettiamo però una cosa in chiaro. Non vogliamo sparare sulla Croce Rossa, non vogliamo far intendere che il film è da buttare nel cesso perché scopiazzava il film di Lucas senza troppi complimenti (vedi anche i laser delle armi, i robot domestici amici fedeli dell'uomo). Al contrario questo è il suo primo punto a favore perché il coraggio di un azzardo simile va premiato per principio. L'umanoide poi prova a metterci del suo, si ispira ai personaggi e alle atmosfere di Guerre Stellari per tentare di allontanarsene in qualche modo, insomma non è un suo film fotocopia. È ben girato da Lado (coadiuvato da Enzo G. Castellari nella seconda unità), e poi ci sono gli effetti di makeup di Giannetto De Rossi, la supervisione agli effetti speciali di Antonio Margheriti, le musiche di Ennio Morricone, la fotografia di Silvano Ippoliti (ha lavorato con StenoLucio FulciLuigi MagniTinto Brass, Sergio e Bruno CorbucciEnzo BarboniPasquale Festa Campanile), le scenografie di Enzo Bulgarelli e Giacomo Calò Carducci. Con dei nomi simili si può pretendere di più ma far uscire un brutto film era veramente impossibile.

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martedì 15 giugno 2021

Prima della rivoluzione - Bernardo Bertolucci

film fresco, ingenuo, sincero, urgente, necessario, impegnato, dentro i tempi e prima dei tempi che stanno per arrivare, con attori giovani e bravi, film non pacificato, ribelle, inquieto, critico e autocritico, girato da un giovane regista che diventerà un maestro.

mondi in crisi, mondi morenti, mondi che verranno, l'amore che nasce, che nutre, che fa soffrire, l'amicizia, gli ideali, le ideologie, la libertà, la liberazione dalla famiglia, dal passato, e il rassegnato ritorno a casa, troverete tutto.

non perdetevelo, recuperatelo, compratelo, scaricatelo, non privatevi di questo piccolo giovane capolavoro - Ismaele 

 

 

“Il fiume, no! Il fiume, basta! Bisogna dimenticarselo, il fiume… Ci dicono di salutarlo, ci ordinano di salutarlo!… Verranno qui con delle macchine, verranno qui con le loro draghe. Ci saranno degli uomini diversi e il rumore dei motori… Chi ci penserà a tirarli su perché non gelino, i pioppi? Non resterà più niente. Non ci sarà più l’estate, non ci sarà più l’inverno… Anche per te è finita. Fatti da parte! Tirati indietro! Affondala, quella tua barca! Eh sì, parlo anche per te! Non pescheremo più il luccio insieme. E neanche le carpe, pescheremo. E le anatre non passeranno, non ritorneranno più dentro il mirino del mio fucile. E basta, le folaghe… Basta, il volo delle oche selvatiche… Amici miei, vedete? Qui finisce la vita e comincia la sopravvivenza. Perciò addio, Stagno Lombardo, ciao. Ciao, fucile. Ciao, fiume. E ciao, Puck.”

 

 

…Prima della rivoluzione prende il suo titolo da una frase del politico francese Talleyrand (1754-1838), posta ironicamente in epigrafe al film: «Chi non ha vissuto negli anni prima della Rivoluzione non può capire cosa sia la dolcezza del vivere». Il protagonista infatti si dibatte in una crisi, esistenziale più che politica, per cui la vita facile che conduce gli sembra un peso insostenibile, o comunque qualcosa che si paga a caro prezzo, col sacrificio della parte migliore di sé. Sembra sia soprattutto il clima culturale del tempo a far indicare al regista col nome di “rivoluzione” quello che è soprattutto una scelta, un cambiamento di vita atteso, inseguito ma mai raggiunto perché mai perseguito con autentica convinzione. In questo rifiuto della “dolcezza del vivere”, il film si pone anche come l’anti-Dolce vita, film di poco precedente (1960). Se Fellini, sempre al di qua della morale, ha una inesauribile disponibilità a farsi trascinare dal flusso vitale, in cui alla fine tutto sembra riconciliarsi spontaneamente in un attimo magico, Bertolucci manca completamente dell’atavica arte italiana di adagiarsi nel compromesso, sentendo delle contraddizioni tutto il dramma e la responsabilità morale, il che basta forse a spiegare perché anche la sua stessa città sembri averlo dimenticato e lì non vi sia oggi nulla che parli di un uomo, in un certo senso, così poco italiano…

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Prima della rivoluzione è soprattutto un film sul tempo, quello immutabile di Fabrizio e la sua condizione di borghese “costretto a vivere sempre prima della rivoluzione” antitesi di quello del resto del mondo pronto alle trasformazioni. Fabrizio vorrebbe crescere insieme ai suoi coetanei, ma è consapevole che sarà difficile per lui fare quel salto verso il cambiamento, incarnato dalla storia con l’infelice zia Gina, che a sua volta è già consapevole di aver perso tempo e che non vuole amare Fabrizio per non condannarlo ad un futuro che sa di passato. Un racconto drammatico che ricorda i sentimenti che escono anche dal quasi contemporaneo I basilischi della Wertmuller dove l’immutabilità del tempo è ancora più marcata e i suoi protagonisti sono ancora più impotenti verso di essa. Assistere rassegnati al cambiamento, ma sentirsi sempre pronti a scappare e a vivere la rivoluzione, come ancora oggi ci insegna Bertolucci dalla sua “sedia elettrica”. Prima della rivoluzione rappresenta un esempio di quel cinema giovane che nei primi anni ’60 anticipò in qualche modo le tematiche del ’68 insieme a I pugni in tasca di Bellocchio, un tempo passato ma ancora attuale.

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Faccia pulita, vestito intonso, corporatura longilinea, figlio di borghesi, corteggiatore del marxismo e della grande ideologia socialista. Ma non si corteggia solo con le parole. Fabrizio si sposta con goffaggine verso gli estremi, ma rimane bloccato nel mezzo di un epoca, nel mezzo delle scelte politiche, nel mezzo di una vita sentimentale. Nel mezzo di un’epoca perché guarda alla Resistenza partigiana e ne assapora la grandezza ed attende l’immancabile rigurgito rivoluzionario di un secolo provando a teorizzarlo. Nel mezzo delle scelte politiche perché pur vaneggiando di lotte di classe, riorganizzazioni della società, redistribuzione delle ricchezza, rimane comunque radicato nel suo mondo liberale che sa come gestire le risorse e soprattutto, come utilizzare a proprio favore i cambiamenti repentini di una società. Nel mezzo di una vita sentimentale perché assapora un frutto proibito, consumando velocemente una storia con la zia Gina – una milanese con qualche problema psicologico – ma poi ritorna nel suo recinto per sposare la ragazza perbene.

Il coraggio stilistico e quello di un regista-pugile che non si sottrae alla lotta con i dubbi, si affievolisce nella figura di Fabrizio che non sceglie, ma accetta la corsa di quel fiume che divide a metà la sua Parma. La poesia di scontra con una fotografia senza orpelli, le teorizzazioni esistenziali con una tecnica di montaggio che dimostra una grande linearità e chiarezza narrativa. Per dirla con le parole dello stesso Bertolucci nella rivista “Cineforum” n°73 del 1968, “(…) non occorre organizzare nulla perché, a partire dal momento in cui si monta un piano dopo l’altro, ecco che si incontrano delle metafore.”.

Il film  potrebbe apparire un esercizio intellettualistico di un regista che ha sempre avuto una sedia comoda da cui guardare il mondo. Ma forse, uscendo dall’innegabile coinvolgimento dello stesso Bertolucci, che non ci permette di leggere l’opera senza visualizzarlo, sono affascinata da chi riesce ad assumere una pericolosa posizione obliqua rispetto a tempi e consuetudini. Nel film c’è una scena in cui Agostino, l’amico suicida di Fabrizio, mente libera e tormentata, su una bicicletta non pedala in modo lineare, ma abbozza delle acrobazie e dei moti insoliti delle ruote. I film come Prima della Rivoluzione I Pugni In Tasca di Bellocchio (uscito un anno dopo), sono come quella bicicletta che prova a darsi altre traiettorie. Hanno la capacità di mettere in discussione il presente, di collezionare all’istante antipatie e sguardi biechi, di essere dirompenti.

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venerdì 4 giugno 2021

E per tetto un cielo di stelle - Giulio Petroni

un film divertente con una coppia, Giuliano Gemma e Mario Adorf che anticipa di poco Bud Spencer e Terence Hill. 

la musica, sarà un caso, è di Ennio Morricone e ci sta benissimo.

la storia è quella di due estranei, poi nemici e che infine diventeranno amici per la pelle.

merita, e fa piacere ridere in alcune scene - Ismaele

 

 

 

 

Western all'italiana che gioca principalmente la carta della comicità, affidandosi ad una coppia brillante e simpatica, formata dallo scaltro Gemma e dall'ingenuo Adorf. Di tanto in tanto si assiste a qualche momento di dramma e violenza, con pestaggi e sparatorie cruente, dove spiccano i volti "cattivi" di Rick Boyd e di Anthony Dawson. Puro intrattenimento senza particolari emozioni di sorta, ma con il merito di aver preparato il terreno ai futuri western comici con il duo Bud Spencer e Terence Hill.

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Tenero film con un Gemma simpatico furbacchione e Adorf (sempre notevole attore) ingenuo e tenero sfigato. Il fatto è che questa storia un po' esile viene diretta dall'eccellente mano di Petroni; nei suoi western, ambienti, costumi e caratteri vanno ben oltre la caratterizzazione stantia degli spaghetti dozzinali. Il gusto per i paesaggi, l'idea di essere davvero nel West; pochi registi italiani hanno avuto questa capacità. E grazie a ciò a questo film si perdonano molte cose. Belle musiche di Morricone.

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Divertente western di Petroni che si caratterizza per un buon ritmo, scandito da continui colpi di scena. Pensato essenzialmente come una  commedia, lascia comunque molto spazio ai topoi del genere, inclusi momenti "action" di pregevole fattura, soprattutto nella seconda parte. La strana coppia Gemma-Adorf, due attori di talento, funziona alla grande mentre i personaggi di contorno sono appena abbozzati. Poco incisiva la sceneggiatura, discreta la confezione con una intelligente ost di Morricone. Con una cura maggiore sarebbe stato un gioiellino del genere. Merita una visione.

MEMORABILE: Le disavventure amorose di Gemma; La donna-sirena; La tagliola.

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mercoledì 16 dicembre 2020

Maddalena – Jerzy Kawalerowicz

un film che non ti aspetti, Maddalena (Lisa Gastoni) lascia morire il marito dopo un incidente (pochi direbbero che ha fatto male), ha una serie di amici che è meglio perderli che trovarli, si trova a cercare un rapporto impossibile con un prete, a cui lei non interessa.

ci sono stati grandi problemi di produzione, con il regista estromesso dai produttori, il film fu poi montato da Franco Arcalli, già collaboratore di Giulio Questi, Bernardo Bertolucci e Liliana Cavani, fra gli altri.

Lisa Gastoni è la bravissima protagonista assoluta, preda di un'ossessione, alla fine si capirà tutto.

gran strano film, merita sicuramente la visione, merito di Lisa Gastoni ed Ennio Morricone - Ismaele


QUI la prima parte del film, in italiano, i primi minuti sono straordinari


 

 

 

Uno di quei film che ci raccontano come possa essere matto e imprevedibile il cinema. Che ci fa un regista come Jerzy Kawalerowicz, il gran polacco che negli anni Sessanta aveva realizzato nel paese suo almeno tre film da storia del cinema (Il treno della notte, il clamoroso succès de scandale Madre Giovanna degli AngeliIl faraone), in Italia, a Cinecittà, nell’anno 1971? Convinto chissà come e da chissà chi a girare un film di impegno-con-eros, dove il sesso come esigono i tempi si fa distruttore dell’ipocrisia borghese e veicolo di liberazione dionisiaca, il rispettato Kawalerowicz ci mette la faccia e la sua credibilità in questo strano progetto dal fin troppo programantico titolo che ha al suo centro la signora del peccato borghese al cinema di allora, ovvero Lisa Gastoni (in my opinion una delle più belle del nostro cinema di sempre). Che è una moglie che, per noia, per voglia di quella cosa che si chiamava trasgressione, per voluttà si innamora di un pretino e vuole a ogni costo averci un storia ad alto tasso di carnalità. Sarà melodramma disgraziato, accesissimo e ovviamente distruttivo. Il film, sulla carta assai nelle corde di Kawalerowicz, si arena però in una lavorazione complicata, con i produttori a estromettere di fatto il regista per le solite divergenze e l’editor Kim Arcalli a cercare di salvare con il suo genio la situazione. Ne esce un film sghembo, disastroso al box office, maltrattato dai sopracciò della critica, ma dotato di una sua torva visionarietà, di una indubbia sincerità nel mettere in scena la perdizione ineluttabile di due anime. Un film autenticamente maledetto, da rivedere e rivalutare. Per Kawalerowicz. Per Lisa Gastoni.

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La bellezza del film è sopratutto nella sua semplicità e nella sua capacità di immortalare momenti di vera poesia con pochissimi mezzi, rifiutando qualsiasi forma di spettacolarizzazione. La scena in cui Maddalena è al mare, cammina sul bagnasciuga e si rotola sulla spiaggia sotto le nostalgiche musiche di Ennio Morricone, è esemplare in tal proposito. Maddalena rifiuta la sua vita borghese, si svuota di tutto per seguire il suo amore e in quella spiaggia è come se vedesse il mondo per la prima volta: dal mare estrae una rete e dalla sabbia dei grossi rami secchi per costruire la base di una casa, dopo prende anche due sassi in mano e li sfrega, richiamando l'atto primitivo in cui l'uomo scoprì il fuoco. Queste visioni arcaiche invadono la pellicola con una semplicità disarmante, mai banale…

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Si salva solo la gigantesca prova d’attrice della Gastoni, amplificata dai primi piani di Gabor Pogany che ne svelano la grande generosità e l’audacia anche fisica, ben oltre le aspettative. Il problema, semmai, è nel protagonista maschile Eric Woolfe, legnoso e inespressivo oltre il dovuto. Come prete che tenta di resistere alle tentazioni della carne è piuttosto ridicolo, e non stupisce che questa sia l’unica esperienza cinematografica della sua carriera. Per di più lo script non lo aiuta, e a un certo punto lo troviamo persino trasferito dalla sua parrocchia cittadina in una nuova chiesa ipermoderna ed elettronicamente automatizzata costruita sull’autostrada, di fronte a un autogrill della Pavesi (un’assurdità!), il tutto per sfuggire alle insidie di Maddalena, che ormai è diventata ossessiva oltre ogni limite… Per fortuna c’è Kim Arcalli al montaggio, che aiuta il film sfornando un incipit molto promettente, con la Gastoni che balla sensualissima e procace, su titoli di testa, accompagnata dalle ovvie note morriconiane (organo da chiesa e percussioni tribali), dietro controluci di chiaro sapore psichedelico che giocano a nascondere le scollature del suo vestitino. Come d’abitudine, Arcalli manomette anche la linearità della azioni, montando due volte, verso l’inizio e quasi alla fine, la sequenza dell’incidente in macchina con Ivo Garrani che resta ferito e la Gastoni, sua moglie, che lo lascia morire senza chiamare aiuto. E sempre Arcalli ricostruisce interamene la sequenza finale, la più bella del film, l’unica che resta davvero impressa allo spettatore (ma che forse arriva troppo tardi), con Maddalena che si concede alle onde del mare, nudissima, dopo aver convinto il prete a seguirla. Ma mentre lei si abbandona voluttuosa nell’acqua, convinta d’aver finalmente ottenuto quanto desiderava, lui non smette di nuotare sempre più a largo, senza mai voltarsi…

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