lunedì 29 aprile 2024

Confidenza – Daniele Luchetti

tratto dal romanzo di Domenico Starnone, il protagonista Pietro Vella (Elio Germano, eccezionalmente bravo) ha lo stesso cognome del prete de Il Consiglio d’Egitto, di Leonardo Sciascia (sarà un caso?).

il film segue la vita di Pietro Vella, professore, amante, padre, scrittore, amato dagli studenti e studentesse, e portatore di un segreto che non ci viene sussurrato.

il professore si innamora di una studentessa, Teresa, ed è una felice storia d'amore che col tempo evapora, ognuno va per la sua strada, ma saranno legati per sempre, per via del segreto.

poi sposerà una collega, avrà una figlia e, invecchiando, anche due nipotine.

il professor Vella è innamorato di se stesso, è insicuro, ansioso, ha bisogno di obbedienza e approvazione, è ambizioso, ama essere amato, è falsamente modesto, vuole avere tutto sotto controllo (in pratica una sintesi di cosa è un uomo?), credendo magari di essere  nobile e altruista.

a tratti il film diventa un film dell'orrore, quello quotidiano, senza bisogno di effetti speciali, complice una musica all'altezza (o alla profondità?) degli abissi dell'animo umano.

insomma, un film che non lascia indifferenti.

buona (complicata) visione - Ismaele




Pietro Vella, perciò, non può permettersi di essere se stesso. Non può permettersi di essere una persona semplicemente normale. Non può e, alla fine, neanche lo vuole. Mettersi a nudo, far cadere la maschera, far scivolare i vestiti dell’impeccabilità è oramai impossibile. Ne è succube. Eppure quel segreto confessato potrebbe fare proprio questo. Ecco dunque che il regista, come un Caronte mortale, traghetta lo spettatore nell’abisso che è l’animo umano, in questo caso quello del protagonista, mostrandogli tutte le sue sfaccettature, fatte di angoscia, tormento, cieca paura del giudizio, fino a lasciarlo sulla riva opposta con non pochi cupi pensieri. Luchetti, in questo, fa un lavoro visivamente esemplare: nel raccontare una realtà in fondo comune a molti, crea degli squarci immaginari nella narrazione del reale, quasi delle visioni di Pietro stesso, in cui emergono i suoi turbamenti più profondi e i desideri più peccaminosi. E in cui la sua vera condizione d’animo si palesa, irrompe fulminea e violenta, generando una tensione emotiva di grande impatto, soprattutto perché irrobustita e sottolineata dalle musiche e i brani di Thom Yorke, che ben si amalgamano al tono drammatico della scena.

È chiaro, dunque, che Confidenza sia un cinema di riflessione e strette allo stomaco. Un film che porta a chiedersi perché viviamo nelle aspettative altrui e sociali, ma anche in quelle che ci costruiamo da soli, condannandoci a una sorta di dannazione eterna. Ci lasciamo tutti, chi più e chi meno, paralizzare e intimorire dalla percezione che il prossimo ha di noi, che è sì mutevole e subordinata alle informazioni che riceve, ma non per questo determinante a tal punto da essere il nostro ago della bilancia nella vita. Eppure se ci nascondiamo dietro alla paura, se indossiamo sempre e solo la maschera della perfezione neutralizzando il resto, non possiamo definirci persone né reali né vere. Ma solo burattini condizionati e manovrati da una vita che non ci appartiene.

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È pieno di non detti, Confidenza. Di insinuazioni, bugie, di prime impressioni. E questo contribuisce attivamente alla costruzione di un’atmosfera angosciosa e angosciante. E la cosa incredibile è che per tutto il tempo, tutto, non abbiamo minimamente idea di che cosa abbia fatto di così terribile Pietro. La sceneggiatura di Luchetti e Francesco Piccolo si affida completamente alla partecipazione attiva dello spettatore, che in questo modo non si limita – diciamo così – a subire il racconto, ma lo rielabora continuamente, a seconda del suo punto di vista.

Ci sono delle sequenze in cui la faccia di Germano riempie lo schermo, e noi non vediamo altro che il terrore che gli attraversa gli occhi e il modo meccanico, legnoso quasi, in cui smascella e cerca di trovare una ragione per tutto quello che gli sta succedendo. Molto velocemente siamo portati ad abbandonare qualunque tipo di percezione di buono e cattivo. E speriamo che Pietro possa trovare sollievo nell’essere finalmente smascherato. Perché la sua non è vita: è una prigione. Fatta di menzogne, di piccole cose, di un’intimità trascinata e quasi ossessiva, prima con Teresa e infine con Nadia…

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Thom Yorke malinconicamente ci accompagna in questo cammino, tra paranoia, terrore, ingenuità apparente e suo modo amore, suggerendo ciascuno di questi stati emotivi attraverso una musicalità, che al pari della scrittura, raggiunge vette di panico, crollo e stabilità d’animo – tanto dello spettatore, quanto dei personaggi che il film racconta – difficilmente replicabili. Per questa ragione Confidenza è un film che necessita di essere visto, per questa ragione Confidenza è un film che non può che spaventarci.

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domenica 28 aprile 2024

Ultima cena - Tomás Gutiérrez Alea

a Cuba la schiavitù è la condizione della ricchezza degli spagnoli, e dei loro discendenti.

nel film c'è tutto quello che serve per capire come funzionava, bastone e carota, preghiere e frusta.

è poi c'è l'ultima cena, nella quale per una sera il padrone invita dodici schiavi a mangiare con lui.

fim immenso, peccato mortale non vederlo.

buona (ribelle) visione - Ismaele



 

QUI o QUI il film completo

 

Tomás Gutiérrez Alea filma un pasaje ficticio, que también pudo ser histórico, situado en la Cuba del Siglo XVIII. Un Conde (Nelson Villagra), dueño de una plantación de caña de azúcar, un Jueves Santo, asume el papel de Jesucristo, reúne a doce esclavos y los somete al acto del pediluvio.  

La extravagancia del conde tiene como motivo la justificación de la esclavitud, a través de parábolas bíblicas que va desgranando entre los siervos, a quienes trata de convencer de que el Cielo se gana estoicamente, pero sin filosofía, sometiéndose a una resignación dolorosa (literalmente), y soportando los modos estrictos del capataz. Los esclavos, cuya ignorancia e ingenuidad reflejan la de muchos santos históricos, oscilan entre el asombro y los deseos de entregarse a dos días de asueto: el Jueves y el Viernes Santos. Pero las cosas toman otro rumbo y todo se convierte en un baño de sangre, cumpliéndose con esto el remedo de otra Última Cena en la que el poder resulta beatificado y los débiles expulsados de un, siempre lejano, paraíso.

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El paralelismo entre esta obra y Viridiana, de Luis Buñuel es un secreto a voces. Sin embargo, ninguna película es deudora de la otra pues ambas, a pesar de poseer el mismo tema, proponen enfoques culturales diferentes. Mientras la película de Buñuel resulta una lección de simbolismo sobre hasta qué punto puede destruir un sentimiento populista aplicado a personas poco conocidas, la cinta cubana resume la dialéctica del amo y el esclavo, sobre todo en el sentido en que Sigmund Freud entendió el mensaje hegeliano: no podemos esperar nada de la gracia de Dios ni de aquellos que ejercen el poder en nombre de Dios o de otros; la verdadera emancipación del hombre, ya sea física o espiritual, dependerá siempre de aquellos que han padecido y vencido cualquier forma de esclavitud…

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Es por ello que La última cena es una obra de imprescindible visionado para toda persona interesada en vislumbrar un film que fije su atención en la esclavitud española. Porque la cinta del maestro Tomás Gutiérrez Alea no solo es una de las más grandes películas de la historia del cine cubano (quizás la mejor), sino que igualmente retrata con un clarividente estilo metafórico, el hábitat existente en las explotaciones azucareras cubanas moradas por vividores y vagos nobles españoles carentes de responsabilidad ética y política, curas que trataban de convertir a la religión católica a los animistas negros africanos, mulatos que ejercían el poder del látigo como impíos capataces para servir a su amo (otra forma de esclavitud pagada con la gracia de poder maltratar a sus semejantes) y las cuadrillas de negros, fragmentadas en pequeños equipos laborales en función del tipo de trabajo asignado a los esclavos no asalariados, las cuales estaban constituidas por antiguos Reyes en sus países de origen cuya hidalguía había quedado demolida al simple obedecimiento de normas despiadadas que sangraban su piel y dignidad…

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sabato 27 aprile 2024

Dias de pesca – Carlos Sorin

Carlos Sorin è il regista di quel gioiellino che è Bombon el perro.

in Dias de pesca la storia patagonica è quella di buone persone, indifese, gentili, povere, che provano a vivere una vita degna, in un ambiente poco ospitale per chi vive laggiù.

Marco Tucci arriva da Buenos Aires per un vacanza con l'obiettivo di pescare qualche squalo, in realtà cerca anche (o sopratutto) Ana, la figlia che non vede da molti anni

film che emoziona, se uno ha un'anima.

buona (speciale) visione - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo, in spagnolo

 

 

…La semplicità e la linearità della direzione di Sorin rendono questo piccolo film un cult, concentrato meraviglioso e commovente di sensazioni e sentimenti, di nostalgie del passato mal sfruttato o proprio sprecato ad autodistruggersi e a compromettere esistenze innocenti e meritevoli di rispetto e dignità. La superba platealità del paesaggio di una Patagonia che irretisce con i suoi colori lividi e le sue immense sconfinate distese desolate, dove le distanze riescono ancora a dividere ed isolare, dove internet e la telefonia mobile non riescono tutt’ora ad imporre la loro irrinunciabilità, divengono un elemento importante che tuttavia non riesce a sopraffare una storia solo magari abbozzata, ma proprio per questo reale, potente, di grande impatto emotivo. Il protagonista Alejandro Awada è perfetto ed emozionante nel ruolo di un disarmato ed inerte peccatore pentiti in cerca, se non di redenzione, almeno di una tardiva ed anche solo distratta accettazione da parte di coloro che si rivelano solo ora e dunque troppo tardivamente, indispensabili per una sopravvivenza dignitosa e vicina alla serenità. 

Un altro gioiello recuperato nell'oceano vorticoso dei tesori cinematografici sepolti, grazie alla instancabile e generosa lungimiranza della prodigiosa Cinematheque de Nice.

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El espectador debe imaginarse absolutamente todo, el pasado alcohólico, las rupturas de relaciones familiares, el dolor, el desarraigo.

No fuerza el caer en mostrarlo todo, te gana con esa contención porque es la que sentimos todos, todos hemos tenido perdidas, hemos sentido el dolor, el no saber que decir, el cometer errores y eso te provoca el nudo en la garganta.

La historia es simple y sencilla, no da para mas, nos quedamos con ganas de saber que pasará, o el porque se ha llegado a esa situación, la soledad y el dolor, pero porque somos unos marujas de mucho cuidado, y nos mola el sálvame de luxe, más que a un tonto un lapiz…

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venerdì 26 aprile 2024

Crystal Fairy y el cactus mágico - Sebastian Silva

un film che non ti aspetti, quattro ragazzi (e una ragazza in più, la chiamano Crystal Fairy) stanno insieme per qualche giorno, cercano una droga e un posto per assumerla senza nessuno.

non ci sono adulti, un film di giovani, insicuri, un po' pazzi, e in fondo è un film sull'amicizia, il rispetto, la comprensione.

come in Magic magic protagonista è Michael Cera.

più bello di come uno s'immagina, promesso.

buona (sobria, ma non troppo) visione - Ismaele



Beffardo, ingenuo, comico ed emotivo come mai prima. Michelino è in perfetta simbiosi con Silva, tanto da realizzare contemporaneamente una doppietta in Cile, invadendo il Sundance Festival dell’anno in corso (l’altro titolo è Magic Magic [Link#1 – Link#2], che – non – era un thriller proprio come Crystal Fairy, – non – è un drug movie).

Crystal Fairy è un esempio che dovrebbero seguire tanti di voi, cari registi intellettualoidi.

Nato senza script, si sviluppa come una riuscitissima jam session improvvisata e sensuale, capace di trasmettere una palpabile e piacevolissima sensazione di LIBERTÀ. Un trucco c’è, però: tutto nasce da uno spunto essenziale, vale a dire la reale esperienza vissuta da Silva a caccia del San Pedro. Tra l’altro in compagnia di una reale Crystal Fairy che il buon Sebastian non ha mai più rintracciato.

La battuta più esilarante del film, che comunque – non – è una commedia, è ovviamente di Michelino: riferendosi a Crystal Fairy, la chiama Crystal Hairy (e bisogna vederla nuda per capire il perché), e la risata collettiva che si scatena immediatamente è di una genuinità tale da costituire la prova evidente dell’aria free-form che si respirava sul set…

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L’air de rien, Silva installe les bases de son discours qui, progressivement, finit par défier les attentes. Loin de se limiter à un message attendu et moralisateur sur l’acceptation de l’autre, il établit une dynamique bien sentie sur les capacités d’intériorisation et d’extériorisation de soi. C’est là qu’il surprend le plus. Son film aux allures de projet sans véritables intentions prend ainsi rétrospectivement sens dans son dernier tiers. Pour le spectateur le parcours n’est peut-être pas sans accrocs, mais il en vaut finalement la peine.

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mercoledì 24 aprile 2024

Blindspotting - Carlos López Estrada

gli ultimi tre giorni prima della libertà definitiva per Collin.

due amici da sempre passano insieme anche quei tre giorni, sempre sul filo del rasoio, lavorano per una ditta di traslochi e trasporti.

niente di straordinario, ma un film che si vede bene.

buona visione - Ismaele


 


il film, diretto dal music maker di origine messicana Carlos Lòpez Estrada, risulta valido e convincente più per le singole situazioni, che per il risultato complessivo, non in grado di rendere la pellicola certamente memorabile.

Nel contesto invero drammatico di una vera e propria lotta di quartiere, di rilievo, per intensità e cinvinzione, appare la prova dei due protagonisti, il nero Daveed Diggs, e il bianco Rafael Casal, a me sconosciuti sino ad oggi, ma in grado di conferire ai rispettivi personaggi uno spessore ed una drammaticità che si inseriscono con prepotenza tra gli elementi più incisivi della media, ma ambiziosa pellicola.

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…Avec intelligence et originalité, "Blindspotting" casse les codes pour porter au plus haut son message contestataire. Avec ce même saupoudrage d’humour et d’innovation visuelle que présentaient les premières œuvres de Spike Lee, le métrage à l’énergie communicative est une véritable claque, une chronique enragée et poétique sur les rapports de classe et conflits ethniques. Sous la forme d’une bromance délirante, où les digressions sont nombreuses, le réalisateur ne perd jamais le fil de son intrigue, jusqu’à une apothéose à l’image des précédentes séquences : intense et éloquente, incisive et saisissante. Avec sa mise en scène esthétique, son montage tendu et son rap protestataire, cette première réalisation frappe les cœurs et les esprits. Un immanquable !

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martedì 23 aprile 2024

Se il genocidio è un rumore di fondo - Naomi Klein

È una tradizione degli Oscar: un discorso politico squarcia il velo della mondanità e dell’autocelebrazione. Ne scaturiscono reazioni contrastanti. Alcuni lodano l’oratore, altri lo ritengono l’usurpatore egoista di una notte di celebrazioni. Poi tutti girano pagina. Eppure sospetto che l’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia di premiazione di Los Angeles, durerà molto più a lungo, e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni.

Glazer stava ritirando il premio per il miglior film internazionale per La zona d’interesse, ispirato alla storia di Rudolf Höss, il comandante del campo di concentramento di Auschwitz. Il film segue l’idilliaca vita domestica di Höss con la moglie e i figli, che si svolge in una residenza signorile con giardino adiacente al campo di concentramento. Glazer ha descritto i suoi personaggi non come mostri, ma come “orrori non-pensanti, borghesi, ambiziosi-arrivisti”, persone capaci di trasformare il male in rumore di fondo. Prima della cerimonia del 10 marzo, La zona d’interesse era già stato acclamato da molte star del mondo del cinema. Alfonso Cuarón, il regista premio Oscar per Roma, l’ha definito “probabilmente il film più importante di questo secolo”. Steven Spielberg l’ha descritto come “il miglior film sull’Olocausto che io abbia visto dopo il mio”, riferendosi a Schindler’s list, che sbancò agli Oscar trent’anni fa.

L’impatto delle parole del regista Jonathan Glazer, che il 10 marzo hanno fermato il tempo alla cerimonia degli Oscar, durerà molto a lungo e il loro significato sarà oggetto di analisi per anni

Ma mentre il trionfo di Schindler’s list rappresentò un momento di unità per la maggioranza della comunità ebraica, La zona d’interesse capita in un momento diverso. Oggi infuria il dibattito su come debbano essere ricordate le atrocità naziste: l’Olocausto dovrebbe essere considerato solo un dramma degli ebrei, o come qualcosa di più universale? Fu una lacerazione unica della storia europea, oppure un ritorno a casa dei genocidi coloniali, insieme alle logiche e alle teorie razziali che ne erano alla base? Quel “mai più” significa mai più per tutti o mai più per gli ebrei, una promessa che rende Israele intoccabile?

Questi conflitti sull’universalismo del trauma, sull’eccezionalismo e sulla comparazione sono al centro dell’accusa di genocidio mossa dal Sudafrica a Israele presso la Corte internazionale di giustizia, e stanno lacerando le comunità ebraiche in tutto il mondo. In un minuto Glazer ha coraggiosamente preso posizione su ciascuna di queste dispute. “Tutte le nostre scelte sono state fatte per riflettere e metterci di fronte al presente, non per dire ‘guardate cos’hanno fatto allora’, ma piuttosto ‘guardate cosa facciamo adesso’”, ha detto, sbarazzandosi dell’idea che paragonare gli orrori di oggi ai crimini nazisti significhi di per sé minimizzare, e non lasciando dubbi sul fatto che fosse sua intenzione tracciare una continuità tra il passato mostruoso e il nostro mostruoso presente. Ed è andato oltre: “Siamo qui in quanto uomini che rifiutano di lasciar manipolare le proprie identità ebraiche e l’Olocausto da un’occupazione che ha trascinato nel conflitto tante persone innocenti, sia le vittime del 7 ottobre in Israele sia quelle dell’attacco in corso a Gaza”. Per il regista Israele non può passarla liscia, e non è etico usare il trauma dell’Olocausto come giustificazione o copertura per le atrocità commesse oggi dallo stato israeliano.

Altri hanno sostenuto queste argomentazioni in passato, e in tanti hanno pagato a caro prezzo, soprattutto se palestinesi, arabi o musulmani. Glazer ha sganciato la sua bomba retorica protetto da un’armatura identitaria: si è presentato alla platea come un uomo ebreo bianco e di successo – con al suo fianco altri due uomini ebrei bianchi e di successo – che, insieme, avevano fatto un film sull’Olocausto. E questo privilegio non l’ha messo al riparo dall’ondata di calunnie che hanno travisato le sue parole affermando che stava ripudiando la sua identità ebraica, un’accusa che rafforza la tesi del regista.

Altrettanto significativo è quello che è successo dopo il suo intervento. Appena Glazer ha finito il discorso – dedicando il premio ad Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk, una donna polacca che di nascosto portava da mangiare ai prigionieri di Auschwitz e che combatté i nazisti tra le file dell’esercito polacco – sul palco sono saliti gli attori Ryan Gosling ed Emily Blunt. Senza neppure una pausa pubblicitaria, siamo stati catapultati in una gag sul fenomeno “Barbenheimer”, con Gosling che dice a Blunt che Oppenheimer, il film sull’invenzione di un’arma di distruzione di massa in cui lei ha recitato, avrebbe sfruttato il successo di Barbie al botteghino, e Blunt che accusa Gosling di essersi dipinto degli addominali finti. All’inizio ho temuto che questo improbabile accostamento avrebbe indebolito l’intervento di Glazer: come potevano coesistere le strazianti realtà appena invocate con questa energia da ballo del liceo californiano?

Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio

Poi ho capito: l’artificio scintillante che ha incorniciato quel discorso aiutava in realtà a ribadire il concetto. “Il genocidio diventa il sottofondo della loro vita”: Glazer ha descritto così l’atmosfera del suo film, dove i personaggi badano ai loro problemi quotidiani – figli insonni, una madre incontentabile, l’infedeltà – all’ombra delle ciminiere che sbuffano resti umani. Queste persone non ignorano che al di là del loro giardino stia operando una macchina di morte su scala industriale. Semplicemente hanno imparato a vivere delle vite appaganti sullo sfondo di un genocidio. È questo l’aspetto del film di Glazer che appare più contemporaneo. Dopo più di cinque mesi di massacri quotidiani a Gaza, con Israele che ignora gli ordini della Corte internazionale di giustizia e i governi occidentali che lo rimproverano bonariamente continuando a inviargli armi, il genocidio sta diventando ancora una volta un rumore di fondo. Glazer ha sottolineato che il soggetto del suo film non è l’Olocausto, ma qualcosa di più duraturo e pervasivo: la capacità umana di convivere con le atrocità, di farci pace, di trarne un beneficio.

All’anteprima di maggio, prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e prima dell’aggressione di Israele a Gaza, si poteva considerare il film come un’opera intellettuale da contemplare con distacco. Le persone che dalla platea del festival di Cannes hanno accolto La zona d’interesse con un applauso di sei minuti probabilmente si sentivano al sicuro ad accarezzare la sfida di Glazer. Forse alcuni avranno riflettuto su quanto ci siamo assuefatti alle nuove imbarcazioni cariche di persone lasciate annegare nel Mediterraneo. O forse avranno pensato ai jet privati che li avevano portati in Francia e a come le loro emissioni sono legate alla scomparsa delle fonti di sostentamento per le persone povere in luoghi lontani.

Glazer voleva che il suo film provocasse questo genere di pensieri scomodi. Però, da quando è arrivato nei cinema a dicembre, la sfida con cui il regista invitava gli spettatori a contemplare l’Höss che è dentro di noi ci ha toccato molto di più. La maggior parte degli artisti tenta d’intercettare lo spirito dei tempi, ma La zona d’interesse potrebbe aver risentito di qualcosa di raro: un eccesso di rilevanza e di attualità.

In una delle scene più memorabili del film un pacco di vestiti e biancheria femminile rubati agli internati del campo arriva in casa Höss. La moglie del comandante, Hedwig (interpretata da Sandra Hüller), stabilisce che tutte, comprese le domestiche, possono scegliere un capo. Lei tiene per sé una pelliccia, e prova perfino il rossetto che trova in una tasca. È questa intimità con i morti a essere agghiacciante. E non ho idea di come qualcuno possa guardare questa scena e non pensare ai soldati israeliani che si sono filmati mentre frugavano nella biancheria delle palestinesi a Gaza o mentre si vantavano di rubare scarpe e gioielli per le loro fidanzate o mentre si facevano selfie di gruppo con le macerie di Gaza sullo sfondo. Sono tanti questi echi che il capolavoro di Glazer sembra un documentario. È come se, girando La zona d’interesse con lo stile di un reality show, con telecamere nascoste nella casa e nel giardino (il regista ha parlato di “Grande fratello nella casa nazista”), il film avesse anticipato il primo genocidio in diretta streaming.

Tutti quelli che conosco che hanno guardato il film non sono riusciti a pensare ad altro che a Gaza. Questo non vuol dire stabilire un paragone con ­Auschwitz. Non esistono due genocidi identici. Ma il motivo stesso per cui è stato costruito l’edificio del diritto internazionale umanitario era proprio darci gli strumenti per riconoscere alcuni elementi distintivi. E alcuni di essi – il muro, il ghetto, le uccisioni di massa, l’intento di sterminio più volte dichiarato, la riduzione alla fame, il saccheggio, la disumanizzazione, e l’umiliazione – si stanno ripetendo. E allo stesso modo è così che il genocidio diventa un sottofondo, è così che quelli di noi un po’ più lontani da quei muri possono bloccare le immagini, spegnere le grida e semplicemente andare avanti. Ed ecco perché l’Academy ha rafforzato il messaggio di Glazer con quel brusco passaggio a “Barbenheimer”. L’atrocità sta di nuovo diventando un sottofondo.

Cosa possiamo fare per interrompere la normalizzazione? In tanti stanno offrendo le loro risposte con proteste, con la disobbedienza civile, inviando convogli di aiuti a Gaza o raccogliendo fondi. Ma non basta.

Guardando gli Oscar, dove Glazer è stato l’unico nella passerella di ricchi a parlare di Gaza, mi è tornato in mente che erano passate due settimane da quando Aaron Bushnell, un soldato di 25 anni dell’aviazione statunitense, si è dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington.

Non voglio che nessun altro metta in atto quella spaventosa forma di protesta. Ma dovremmo meditare sulla dichiarazione che Bushnell ha lasciato, parole che considero un finale contemporaneo del film di Glazer: “Molti di noi si chiedono: ‘Cosa farei se vivessi durante la schiavitù? O durante l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’. La risposta è: lo stai facendo. Proprio in questo istante”.  fdl

Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 43.

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lunedì 22 aprile 2024

El páramo - Jaime Osorio Marquez

un avamposto di montagna non dà notizie e un gruppo di soldati viene mandato a capire cosa è successo.

una morte dopo l'altra, una tensione che non cala, la paura dei terroristi, ma la morte già li accompagna.

nessuno si fida di nessuno, film oscuro e notturno, una donna che non parla (una strega, una terrorista, chissà) è il detonatore della violenza.

non sarà un capolavoro, ma è un film che sorprende.

buona (claustrofobica) visione - Ismaele


 

 

La gran virtud de esta película es que en ningún momento la tensión que crea sobre el público desaparece. Primero, con su bien elaborado engaño para hacer creer que se trata de un cuento de horror, y luego, con la descarnada forma en que va transformando a sus personajes y se va deshaciendo de ellos uno a uno, algunos de forma angustiante y otros de manera cruel, incluso truculenta.

De manera que esta cinta cumple a cabalidad su cometido, que no es otro que producir en el espectador emociones fuertes por medio de los recursos del horror y el thriller. Y esto lo hace gracias a un guión simple pero bien elaborado, a unos actores de gran fuerza y contundencia en la encarnación de esos duros personajes y a la hábil construcción de un espacio dotado de un ambiente lleno de tensión y de zozobra, como la película misma.

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The similarities of this story with the Serbian “The Enemy”, reviewed five days ago in this blog, are too much evident. The screenwriters from both movies were not the same and the movies are from the same year. I just wanted to share this curious fact. Anyway, the Colombian “The squad” was much more efficient and scary than its twin Serbian competitor. Maintaining a certain ambiguity and the tension levels at top from start to end, it also revealed to have a great direction and musical score behind the story. Aberrant and creepy!

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Lo más interesante de El páramo reside en su registro general y en la apropiación estética de la locación elegida. La niebla que a menudo tiñe el paisaje acentúa la abstracción del horror buscado, cuya naturaleza nunca se devela del todo. He aquí el principal acierto del film, que al mantener la indeterminación sobre qué es exactamente lo que aterroriza a los soldados puede obtener algunos efectos deseados del género de terror. El páramo parece una película de guerra, pero su filiación remite a aquel género.

La omnipresente banda de sonido como guía e intrusión permanente con fines didácticos para significar unívocamente lo que la lógica visual expone con ostensible evidencia, más algunas licencias narrativas que subrayan los horrores de la guerra, no están a la altura de varias decisiones formales de encuadre y del esfuerzo por mantener la indeterminación del origen del horror principal con el que trabaja la película. Aciertos indiscutibles son la forma con la que Márquez destaca las distintas procedencias sociales de la tropa y aquellos pasajes que comunican con un gesto la vulnerabilidad de los hombres uniformados en el campo de batalla.

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Lo que encuentran los personajes en el páramo traslada la película a otros parajes y el fantástico no tarda en aparecer. La renovación genérica pasa así por una idea y no por la puesta en escena, lejos de lo que llevó a los grandes maestros a consagrarse y consagrar cada uno de los géneros. 'El páramo' tiene más fuerza por su trabajo plástico que por sus piruetas narrativas.

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Brillante película que es una interesante mezcla entre el género bélico y el género de terror que nos pone al límite de la tensión casi en toda su duración, nos hace viajar dentro del miedo, nos sitúa en medio del horror y nos deja allí, indefensos, sin nada agradable al que asirnos. Su visionado puede ser un poco difícil, no por estar mal realizada, al contrario, si no por esa falta de ayuda para su digestión. Todo en ella, sin ser perfecto en su totalidad, consigue dejarnos anonadados y cuando finaliza, se nos queda el cuerpo peor que al bajar de una montaña rusa. El guión es magnífico, la fotografía excelente, las interpretaciones perfectas, aunque los diálogos son rudos y casi incomprensibles, supongo que los soldados de un ejército hablan así, pero esta cinta está hecha sin concesiones y esto puede ser uno de sus puntos débiles.

Film un poco denostado por los espectadores pero que esconde, a mi entender, una espesa trama de relaciones interpersonales. No la recomiendo a personas sensibles ni a espectadores de películas clásicas de terror. Es muy original y para verla hay que abrir la mente y aceptar que el horror tiene muchos matices.

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domenica 21 aprile 2024

Civil War - Alex Garland

la guerra civile di Alex Garland non è la guerra di un paese lontano, diverso, è la guerra di casa, nostra, occidentale, riconoscibile.

i protagonisti del film non combattono, con la macchina fotografica osservano, mostrano, si buttano nella mischia, a rischio della vita, per uno scatto epico che li farà diventare immortali.

il mondo è diventato senza speranza, alcuni combattono contro altri, qualcuno sa perché, o forse non lo sa nessuno più, la guerra è igiene del mondo, poi, forse, si ricomincerà.

i fotografi documentano con le immagini, che non sono la verità, solo un istante in una storia lunga, col prima e il dopo, che molti non vedranno.

guardando il film non si capisce che guerra è, perché si fa, il film non è un documentario, l'obiettivo non è quello di spiegare, ma come i fotografi, quello di mostrare.

l'obiettivo è quello di inquietare lo spettatore, nessuno in sala può sentirsi tranquillo, tutto è riconoscibile, ma non interpretabile, non c'è una spiegazione logica, il presidente crepa come un Ceausescu, o Saddam, o Gheddafi qualsiasi.

non ci sono brutti, sporchi e cattivi, quelli brutti, sporchi e cattivi sono come noi, siamo noi, siamo in quel negozio, come quella ragazza, apparentemente indifferenti, con i cecchini sui tetti.

il caos, l'insicurezza, il disordine regnano sovrani, iniziare una guerra è molto più facile che finirla.

alla fine resta qualche immagine, niente più.

se pensi che questo sia il migliore dei mondi possibili, lascia perdere Civil War.

buona (disperata) visione - Ismaele


ps: scrive Medvedev:

...non posso sinceramente non augurare agli Stati Uniti di precipitare il più rapidamente possibile in una nuova guerra civile. Che, spero, sarà radicalmente diversa dalla guerra tra Nord e Sud del 19° secolo e sarà condotta utilizzando aerei, carri armati, artiglieria, MLRS, tutti i tipi di missili e altre armi. E che alla fine porterà al crollo inglorioso del vile e malvagio impero del 21° secolo: gli Stati Uniti d’America.

Chissà se ha visto il film di Alex Garland...


 

 

 

 

Il film di Garland non è un film di guerra. Lo è solo nella misura in cui offre un contesto drammatico per allestire la vicenda. Perché non spiega niente, con buona pace della critica americana timorosa di farsi illustrare la propria politica da un inglese: cita le due fazioni in lotta (il Western Front contro le forze governative), non fornisce le ideologie a confronto se non qualche sporadico commento sul fascismo del Presidente (ma negli atteggiamenti ferini anche la parte avversa non è da meno), non dà conto delle origini del conflitto, al di là di qualche riferimento al secessionismo del Fronte occidentale. Non lo spiega perché fondamentalmente non gliene frega niente delle ragioni di nessuno. Il problema non è lì. Il problema riguarda soltanto chi documenta lo stato di guerra. La deontologia dei fotoreporter a caccia del conflitto come se fosse una dose di eccitanti per tenersi costantemente su. E la loro eventuale sensibilità. Mettendoli al seguito dei commando e al centro delle battaglie cruente, difesi solo da una giacca d’emergenza, un giubbotto antiproiettile, un caschetto e una dose di buona sorte, Garland li fa diventare un altro battaglione, meno violento ma talvolta altrettanto spietato, fondando la metonimia sulla sovrapposizione semantica della parola «shot»: sparo, sì, ma anche foto, istantanea…

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L'assenza di spiegazioni impedisce del resto di disinnescare questo incubo con la logica e anche quel poco che ci viene detto basta del resto a scombinare i nostri preconcetti. La California liberal e il Texas conservatore sono qui alleati, contro un Presidente "fascista" che ha mantenuto il potere per un terzo mandato, ha sciolto l'FBI e ha approvato bombardamenti con droni sul suolo americano. L'odio verso di lui unisce così Stati anche tradizionalmente avversi, in un caotico precipitare degli eventi che evita di essere una banale e strumentalizzabile rappresentazione delle divisioni dell'America oggi.

Spesso è persino impossibile dire chi stia da una parte e chi dall'altra e i protagonisti del resto non lo chiedono quasi mai e quando lo fanno non ricevono risposte, oppure vengono coperte dalla musica, come quando Joel chiacchiera e ride con i sopravvissuti a una sparatoria, mentre Jessie fotografa un'esecuzione. Il loro obiettivo è fare l'ultimo scoop o lo scatto definitivo, quello che rimarrà nella memoria collettiva, il loro operare è un misto di necessario cinismo e folle coraggio, di cui Garland non nasconde i paradossi.

Anzi gli inserti fotografici sono la principale marca stilistica del film, dove il flusso frenetico dell'azione è spesso spezzato da immagini statiche, a volte in bianco e nero, di uno o due secondi di durata e senza audio che non sia il suono di uno scatto di macchina fotografica. I suoi giornalisti, con la loro facciata di neutralità - che si infrange però a volte in grida mute e disperate - sono l'unica risposta possibile alla fine della democrazia, sono i testimoni che ci ammoniscono riguardo il baratro a cui ci avviciniamo. È attraverso di loro che Garland firma un'opera dal taglio documentaristico, specchio di un mondo distorto ma in cui è fin troppo facile riconoscere il presente.

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Kirsten Dunst è serafica, controllata. Parla poco, piuttosto pensa e agisce (scatta), non si lascia sopraffare dalle emozioni perché crede sia l’unico modo sensato di gestire la realtà. Cailee Spaeny fa tutto il contrario. Questo all’inizio del film, poi le cose cambiano e le attitudini progressivamente convergono, per ribaltarsi del tutto. Tornando, a ruoli invertiti, al punto di partenza. Non è una resa alla vita, l’incapacità di Civil War e di Alex Garland di domandare senza rispondere. È la forza di questo straordinario e solo apparentemente divisivo film, esplorare i dilemmi etici e morali (la tensione civile e la spettacolarizzazione del dolore) collegati alla ricerca e la testimonianza della verità. La giusta distanza, dilemma etico e necessità artistica, condiziona ad ogni livello la natura ibrida di un film che è insieme fantasia, denuncia, allegoria, documento e spettacolo. Tutto insieme, problematicamente. Cinema per adulti.

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Garland en pantalla vuelve a apelar a los diálogos sinceros, el humor negro, los personajes mundanos y su laconismo visual/ expresivo marca registrada para construir una contienda pesadillesca y genocida que por un lado invita al debate, de hecho jugando con el exploitation de alarma social porque le exhibe sin filtro alguno al público los posibles resultados truculentos a mediano plazo de sus “batallas culturales” más necias o pueriles, y por el otro lado funciona como una antiépica hollywoodense idiota y maniquea, señalando la insensibilidad popular, tanto escarnio rutinizado, la sandez de las fuerzas armadas y desde ya la antinomia entre periodismo de la verdad y medios masivos audiovisuales de la mentira, amén de homologar a los corresponsales de guerra al miedo, el suicidio, la adrenalina e incluso la irresponsabilidad ética flagrante para con sus prójimos…

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sabato 20 aprile 2024

Chile 1976 – Manuela Martelli

in Cile, sotto il regime fascista di Pinochet, la Resistenza è quasi impossibile e gli oppositori sono eroici, sanno che rischiano la vita ogni momento.

Carmen è la protagonista, una nonna cattolica, che ancora rischia, piena di paura e però coraggiosa, controllata e minacciata dalla polizia del regime.

una storia che non lascia tranquilli, nessuno si senta al sicuro.

buona (rischiosa) visione - Ismaele

 

 

 

Pure esordiente, Manuela Martelli si dimostra in grado di confezionare un’ interessante pellicola. Partendo da un noto e drammatico contesto storico e politico, il film riesce a virare al thriller più incalzante senza forzare la mano su fatti e personaggi che rimangono assolutamente compatibili e credibili con il contesto storico tormentato e complesso sullo sfondo.

La Martelli elabora la vicenda con felice approccio narrativo, incastrando ogni pezzo al punto giusto: la denuncia politica, la memoria storica, la corretta suspense e un’ adeguata contestualizzazione ( dai risvolti intimi a quelli psicologici) della protagonista, ottimamente interpretata dalla brava e credibile Aline Kuppenheim.

La brava attrice risulta capace di rendersi credibile nel passaggio da ricca donna dedita alla ristrutturazione della casa di vacanza, come passatempo per non annoiarsi, a parte integrante ed attiva di una resistenza alla dittatura. Divisa e schierata in una dimensione ufficialmente privilegiata ed elitaria, ma coinvolta a difendere la causa delle vittime oppresse e fatte sparire.

Il film si pregia di una fotografia accurata in cui prevalgono i colori caldi e una ricostruzione d’ambiente meticolosa che non diventa tuttavia un fine, bensì un mezzo per contestualizzare una vicenda curata, sin nei minimi dettagli, sia tecnicamente, sia nella costruzione narrativa.

1976 resta un esordio notevole di un’autrice da tenere d’occhio.

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Stupisce la bravura della Martelli nel costituire la sua opera prima incastrando ogni pezzo al punto giusto: denuncia politica, memoria, suspense, approfondimento psicologico della protagonista, ottimamente interpretata da Aline Kuppenheim. All'inizio del film la vediamo impegnata a scegliere i colori per la ristrutturazione della sua casa, i rumori di scontri che provengono dalla strada sembrano qualcosa di completamente estraneo alla sua esistenza. Ma una macchia di vernice che le cade sulle scarpe è il primo segno che non si può evitare di sporcarsi in una realtà orrenda come quella che stava vivendo il Cile. Sono particolari come questi a far capire che il film ha una marcia in più. La cura nella fotografia e nella scelta delle location di paesaggi costieri, le musiche assolutamente appropriate, l’attenzione ai colori e ai dettagli, i punti di vista e le posizioni della macchina da presa, gli zoom messi al punto giusto senza stafare sono induce di un talento che andrà senza dubbio tenuto d'occhio.

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Los cambios emocionales de la protagonista, de una u otra forma —en la crítica social de Moffat y de Martelli—, expresarían una suerte de denuncia al vacío y a la superficialidad en los cuales se encontraba Carmen, previo a poner en peligro su tranquilidad y la de su acomodada familia; para luego zambullirse sin mayores requiebros personales, en la aventura de posibilitar y de ayudar al escape de un «extremista» de izquierda, desde su refugio en la parroquia playera y costera, con el propósito de que este pueda continuar su lucha armada y política en contra del régimen, en una empresa que es ya una opción de vida, y que abarca la totalidad de una existencia.

Carmen evoluciona en profundidades desconocidas para ella, y tanto el rostro de Aline Küppenheim como la música incidental compuesta por María Portugal, atestiguan ese viaje hacia la obscuridad o el final de una noche, política, moral, y en última instancia cívica.

En efecto, la intimidad social y cultural de ese Chile en su mayoría cómplice y simpatizante frente a las cuestionables acciones de la Junta Militar de Gobierno en materia de seguridad interior, se consiguen de una manera bastante realista y al modo de una recreación de historicidad privada, insisto que suficientemente lograda y satisfactoria (salvo la aparición de las antenas «neoliberales», por supuesto), acerca de un país y de una sociedad, en suma, que confinaba a la proscripción y al ocultamiento, a sus ciudadanos disidentes.

Ahí, en esas minucias dramáticas y escénicas, sin duda, se rastrean el trabajo en la elaboración y en la redacción del guion, y de la dirección de actores propiciada por Manuela Martelli…

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La primera película de Manuela Martelli es una obra misteriosa cargada de detalles y belleza. Con ritmo lento, nos introduce poco a poco en la vida de Carmen, una mujer tan preocupada por el color de las paredes de su salón, como por el bienestar de un joven rebelde. Tan preocupada por la tarta de cumpleaños de uno de sus nietos, como por la posibilidad de un cambio político en su país.

En 1976 Martelli es crítica con su país y con sus ciudadanos. Desde la boca de sus personajes escuchamos que definen a Chile como un país triste y a los chilenos como una sociedad débil y perezosa. Pero Carmen no es así, es precisamente todo lo contrario.

Carmen es color, fuerza y valentía. Pero en el Chile de 1976, esos atributos viven sometidos de una forma brutal. Su valentía se sostiene gracias a su extrema curiosidad y la protección de su fe cristiana. Es una valentía culpable. Carmen es una mujer excepcional, inteligente e interesante. Pero vive como florero de un médico que es incapaz de mirar más lejos de la punta de su nariz.

Ella tiene profundos deseos, con otros hombres, profesionales y de vida. Pero la religión, una sociedad profundamente machista y patriarcal y vivir bajo el yugo de un criminal como Augusto Pinochet, ponen freno a todos sus impulsos…

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…Durante toda su vida, Carmen ha aceptado el papel que la sociedad patriarcal le ha impuesto y se ha desempeñado como una mujer pasiva. Pero, gracias a un evento fortuito, tiene la oportunidad de descubrir su verdadero yo y decidir quién quiere ser en la vida. Sin embargo, lograr esto no será fácil, ya que tendrá que enfrentarse no solo a la nueva clase política, sino también a su propia familia, la cual está conectada con la dictadura. Aunque esta búsqueda implica riesgos, Carmen experimenta una transformación personal profunda que justifica todos los peligros que debe afrontar.

Escrita por Martelli y Alejandra Moffat, y fotografiada con maestría por Yarará Rodríguez, la película captura con sutileza el clima político y social de la época, combinando elementos dramáticos, emocionales y de tensión en una narrativa psicológica plagada de simbolismos (como zapatos, ventanas y pinturas que dicen mucho más de lo que representan a priori) y haciendo uso del fuera de campo, para ofrecer una nueva perspectiva que rompe con los estereotipos del género cinematográfico político.

1976 es un retrato humano, histórico y social que sitúa a la actriz convertida en cineasta como una de las debutantes más prometedoras y comprometidas del último año.

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venerdì 19 aprile 2024

Los herederos - Eugenio Polgovsky

una giornata di un poverissimo villaggio messicano, povertà allo stato massimo, semischiavitù di tutti, compresi i bambini, nelle piantagioni dei terratenientes e delle multinazionali.

un film che fa male, una giornata di ordinaria sfruttamento e sofferenza dei poveri del mondo. 

le bambine e i bambini, nonostante tutto, provano a giocare e a ridere.

non guardate questo film, se non volete soffrire, ma bisogna farlo. 

buona (messicana) visione - Ismaele

 


QUI il film completo, non c'è bisogno dei sottotitoli.

 


Silenziosa considerazione sulla vita di bambini messicani che, come al solito, per i più rimane nell'ombra, Los Herederos osserva con sguardo lucido e contemplativo una giornata tipo di alcuni fanciulli, davvero giovani, e delle loro faticosissime attività lavorative.
Le immagini passano delicate e poco invadenti, tanta è la cura del dettaglio, a cercare le mani e i volti sporchi di fango, nella speranza di vedere apparire un sorriso fugace. Ma non è così, è troppo difficile sorridere quando il sudore ti cola dalla fronte, le mani si rovinano contro i legni secchi raccolti nella foresta, le dita si tagliano e si scottano. È troppo difficile giocare e vivere come bambini se il tuo destino è quello di potare i giunchi, raccogliere pomodori, cetrioli e verdura di ogni sorta, frutto per frutto con le nude mani; tessere e stendere i fili lunghi e vorticosi al telaio con la mamma, come le nostre nonne facevano e quei bimbi fanno tuttora; impastare la terra e riempire gli stampi per i mattoni, velocemente. Perché più chili raccogli e più mattoni prepari, più la tua famiglia mangia.
Volti indagati da vicino, con l'obiettivo che sembra quasi una mosca che gli ronza intorno, che spia indisturbata i particolari dei loro corpi e dei loro abiti provati dall'assenza di giochi. Qualche frase, ogni tanto, disturba i rumori ambientali; ma per il resto non hanno voce questi figli, che come tutte le loro famiglie sono costretti a una vita di fatiche: le nonne e i loro occhi raffreddati, deperite, invecchiate per gli stenti, ci confermano che questo sarà il loro futuro. Traspare implacabile da Polgovsky la pesantezza ereditata dalle generazioni precedenti, gli affanni dei ragazzini che si caricano pesi che pure una adulto faticherebbe a portare.
Un documentario questo, discreto nei toni, e invadente nei messaggi. I protagonisti si lasciano avvicinare e seguire, abituati alla presenza dei curiosi, o forse troppo indaffarati per prestare attenzione agli stessi, lasciando così che la semplice assenza di giochi sia una valida spiegazione narrativa per il film intero.
Forse le immagini asettiche con cui il regista ha cercato di celebrare questi piccoli lavoratori della fame, lo portano talvolta a non approfittare della ricchezza che la camera digitale gli regalerebbe; stiamo così, silenziosi, a guardare, senza la forza di disturbare i loro ritmi serrati, ma con una lista infinita di domande in testa e un enorme senso di impotenza di fronte alla loro realtà. Questi procedono, gesto dopo gesto meccanicamente e rapidamente, mentre a casa li aspettano le madri delle loro madri, i corpi e l'animo rassegnati.
A un tratto, tuttavia, inaspettatamente, subentra la musica: introdotta dalla bimba che cucina e che sta al telaio, come fosse un carillon circense. E da qui, infine, la festa. Perché dopo una giornata di sforzi si ha ancora la forza di ballare, si deve aver la forza di ballare per non soccombere a una routine implacabile che non lascia vivere i freschi anni in santa pace. Rimaniamo col sorriso dei tre ragazzi che si inseguono e per un attimo, si divertono, mentre pascolano le capre: nobili animali che in questo racconto sono gli unici a concedere un momento di libertà ai giovani, nel loro lento ruminare indeciso. E ancora, la musica, che non finisce e sfuma, a ricordarci che nel domani qualcun altro vivrà di nuovo le stesse ingiuste fatiche.

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…Il giudizio viene espresso in modo poco invasivo (volendo sibillino) attraverso l’emersione di alcune immagini stridenti o sconvolgenti, su cui ci si dilunga per attirare l’attenzione. Si tratta di particolari apparentemente insignificanti, come un ragazzino con le scarpe totalmente sfondate o un altro che ferma le sue ferite con il nastro adesivo, ma a ben guardare suppliscono alla mancanza della narratività, fornendo i punti cardine per un discorso complessivo piuttosto chiaro.

A suggerire il senso finale di questa indagine cinematografica, in particolare, è il montaggio alternato dei volti dei bambini al lavoro (magari un po’ imbronciati ma sempre pieni di energia) e quelli delle anziane del villaggio: facce deformate dalla consuetudine del tempo e svuotate da ogni anelito di vita, come se una spirale infinita avvolgesse le alture abitate dalle popolazioni messicane più povere, condannandole alla stasi e alla miseria perpetua. Un documentario, dunque, che cerca di sferrare un pugno in una carezza, affidandosi al potere suggestivo dei mezzi cinematografici per insinuare (a costo di una certa piattezza espositiva) un senso intimo, piuttosto che pietistico, di urgenza e di preoccupazione per ciò che succede ai margini dello sguardo distratto della civiltà.

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giovedì 18 aprile 2024

Los Delincuentes - Rodrigo Moreno

un film di tre ore, che sembra lento, ma tutto il tempo è necessario per lo sviluppo dei sentieri che si biforcano e poi si incrociano.

i cinque protagonisti si chiamano Morán, Norma, Román, Morna, Ramón, le loro vite (e non solo i loro nomi) si intrecciano in maniera casuale ma davvero sorprendente.

quello che sembra un film su un colpo in banca è in realtà un film sull'evasione da un lavoro e da una vita troppo noiose, che annichiliscono ogni speranza di un futuro possibile.

un film da non perdere, se appare in una sala cinematografica.

buona (imperdibile) visione - Ismaele

 

 

 

 

La storia è quella di un bancario che un giorno decide di rubare denaro alla banca, molti soldi, in modo che sia conveniente farsi qualche anno di galera, tre e mezzo con la buona condotta, e poi sparire con il malloppo che frutterebbe esattamente gli stipendi ancora da percepire fino alla pensione. L’obiettivo non è diventare ricco, ma non dover più lavorare. Morán, questo il suo nome, coinvolge per necessità Román suo collega. Ma poi entrano in scena Norma e Morna, due sorelle che stanno girando un film con Ramón. Tra flash back e racconto del presente il film mostra tutte le sue potenzialità narrative per un finale inatteso e illuminante.

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è tutta questione di narratologia. Non cerebrale, ma gioiosa, borgesiana, con nomi che sono tutti anagrammi, flashback che diventano “altre versioni della realtà”, rilievi bressoniani che scherzano su loro stessi, lasciando il bottino (l'argent) in mezzo a una collina intoccato, come se nel finale di Greed di von Stroheim McTeague non rimanesse solo e immobilizzato nel deserto col suo tesoro, ma si dimenticasse il perché l’ha preso in precedenza, e ci trottasse attorno col suo cavallo.

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Los Delincuentes es un film que retrata en forma paródica el dilema de la clase media actual, atrapada en un trabajo sin posibilidades reales de ascenso ni mejora salarial, aún menos de un progreso en su situación social, sumida en una rutina agobiante o en la depresión, siempre atrapada en esa trampa individualista que ve la vida en el campo como una utopía distante, que apasiona y aterroriza por igual y que en este caso lleva al protagonista a cometer un crimen absurdo para romper con este círculo vicioso de explotación y humillación. Rodrigo Moreno logra un trabajo tan caótico como bien resuelto, construido a partir de recursos diversos, como flashbacks, pantalla partida y capítulos varios, para reflexionar sobre el esquizofrénico trabajador actual, que realiza su labor a desgano, sueña delirios adolescentes, es incapaz de asumir su adultez y vive la vida como un zombie impasible.

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