una giornata di un poverissimo villaggio messicano, povertà allo stato massimo, semischiavitù di tutti, compresi i bambini, nelle piantagioni dei terratenientes e delle multinazionali.
un film che fa male, una giornata di ordinaria sfruttamento e sofferenza dei poveri del mondo.
le bambine e i bambini, nonostante tutto, provano a giocare e a ridere.
non guardate questo film, se non volete soffrire, ma bisogna farlo.
buona (messicana) visione - Ismaele
QUI
il film completo,
Silenziosa
considerazione sulla vita di bambini messicani che, come al solito, per i più
rimane nell'ombra, Los Herederos osserva con sguardo lucido
e contemplativo una giornata tipo di alcuni fanciulli, davvero giovani, e delle
loro faticosissime attività lavorative.
Le immagini passano delicate e poco invadenti, tanta è la cura del dettaglio, a
cercare le mani e i volti sporchi di fango, nella speranza di vedere apparire
un sorriso fugace. Ma non è così, è troppo difficile sorridere quando il sudore
ti cola dalla fronte, le mani si rovinano contro i legni secchi raccolti nella
foresta, le dita si tagliano e si scottano. È troppo difficile giocare e vivere
come bambini se il tuo destino è quello di potare i giunchi, raccogliere
pomodori, cetrioli e verdura di ogni sorta, frutto per frutto con le nude mani;
tessere e stendere i fili lunghi e vorticosi al telaio con la mamma, come le
nostre nonne facevano e quei bimbi fanno tuttora; impastare la terra e riempire
gli stampi per i mattoni, velocemente. Perché più chili raccogli e più mattoni
prepari, più la tua famiglia mangia.
Volti indagati da vicino, con l'obiettivo che sembra quasi una mosca che gli
ronza intorno, che spia indisturbata i particolari dei loro corpi e dei loro
abiti provati dall'assenza di giochi. Qualche frase, ogni tanto, disturba i
rumori ambientali; ma per il resto non hanno voce questi figli, che come tutte
le loro famiglie sono costretti a una vita di fatiche: le nonne e i loro occhi
raffreddati, deperite, invecchiate per gli stenti, ci confermano che questo
sarà il loro futuro. Traspare implacabile da Polgovsky la pesantezza ereditata
dalle generazioni precedenti, gli affanni dei ragazzini che si caricano pesi
che pure una adulto faticherebbe a portare.
Un documentario questo, discreto nei toni, e invadente nei messaggi. I
protagonisti si lasciano avvicinare e seguire, abituati alla presenza dei curiosi,
o forse troppo indaffarati per prestare attenzione agli stessi, lasciando così
che la semplice assenza di giochi sia una valida spiegazione narrativa per il
film intero.
Forse le immagini asettiche con cui il regista ha cercato di celebrare questi
piccoli lavoratori della fame, lo portano talvolta a non approfittare della
ricchezza che la camera digitale gli regalerebbe; stiamo così, silenziosi, a
guardare, senza la forza di disturbare i loro ritmi serrati, ma con una lista
infinita di domande in testa e un enorme senso di impotenza di fronte alla loro
realtà. Questi procedono, gesto dopo gesto meccanicamente e rapidamente, mentre
a casa li aspettano le madri delle loro madri, i corpi e l'animo rassegnati.
A un tratto, tuttavia, inaspettatamente, subentra la musica: introdotta dalla
bimba che cucina e che sta al telaio, come fosse un carillon circense. E da
qui, infine, la festa. Perché dopo una giornata di sforzi si ha ancora la forza
di ballare, si deve aver la forza di ballare per non soccombere a una routine
implacabile che non lascia vivere i freschi anni in santa pace. Rimaniamo col
sorriso dei tre ragazzi che si inseguono e per un attimo, si divertono, mentre
pascolano le capre: nobili animali che in questo racconto sono gli unici a
concedere un momento di libertà ai giovani, nel loro lento ruminare indeciso. E
ancora, la musica, che non finisce e sfuma, a ricordarci che nel domani qualcun
altro vivrà di nuovo le stesse ingiuste fatiche.
…Il giudizio viene
espresso in modo poco invasivo (volendo sibillino) attraverso l’emersione di
alcune immagini stridenti o sconvolgenti, su cui ci si dilunga per attirare
l’attenzione. Si tratta di particolari apparentemente insignificanti, come un
ragazzino con le scarpe totalmente sfondate o un altro che ferma le sue ferite
con il nastro adesivo, ma a ben guardare suppliscono alla mancanza della
narratività, fornendo i punti cardine per un discorso complessivo piuttosto
chiaro.
A suggerire il
senso finale di questa indagine cinematografica, in particolare, è il montaggio
alternato dei volti dei bambini al lavoro (magari un po’ imbronciati ma sempre
pieni di energia) e quelli delle anziane del villaggio: facce deformate dalla
consuetudine del tempo e svuotate da ogni anelito di vita, come se una spirale
infinita avvolgesse le alture abitate dalle popolazioni messicane più povere,
condannandole alla stasi e alla miseria perpetua. Un documentario, dunque, che
cerca di sferrare un pugno in una carezza, affidandosi al potere suggestivo dei
mezzi cinematografici per insinuare (a costo di una certa piattezza espositiva)
un senso intimo, piuttosto che pietistico, di urgenza e di preoccupazione per
ciò che succede ai margini dello sguardo distratto della civiltà.
Nessun commento:
Posta un commento