venerdì 19 aprile 2024

Los herederos - Eugenio Polgovsky

una giornata di un poverissimo villaggio messicano, povertà allo stato massimo, semischiavitù di tutti, compresi i bambini, nelle piantagioni dei terratenientes e delle multinazionali.

un film che fa male, una giornata di ordinaria sfruttamento e sofferenza dei poveri del mondo. 

le bambine e i bambini, nonostante tutto, provano a giocare e a ridere.

non guardate questo film, se non volete soffrire, ma bisogna farlo. 

buona (messicana) visione - Ismaele

 


QUI il film completo, non c'è bisogno dei sottotitoli.

 


Silenziosa considerazione sulla vita di bambini messicani che, come al solito, per i più rimane nell'ombra, Los Herederos osserva con sguardo lucido e contemplativo una giornata tipo di alcuni fanciulli, davvero giovani, e delle loro faticosissime attività lavorative.
Le immagini passano delicate e poco invadenti, tanta è la cura del dettaglio, a cercare le mani e i volti sporchi di fango, nella speranza di vedere apparire un sorriso fugace. Ma non è così, è troppo difficile sorridere quando il sudore ti cola dalla fronte, le mani si rovinano contro i legni secchi raccolti nella foresta, le dita si tagliano e si scottano. È troppo difficile giocare e vivere come bambini se il tuo destino è quello di potare i giunchi, raccogliere pomodori, cetrioli e verdura di ogni sorta, frutto per frutto con le nude mani; tessere e stendere i fili lunghi e vorticosi al telaio con la mamma, come le nostre nonne facevano e quei bimbi fanno tuttora; impastare la terra e riempire gli stampi per i mattoni, velocemente. Perché più chili raccogli e più mattoni prepari, più la tua famiglia mangia.
Volti indagati da vicino, con l'obiettivo che sembra quasi una mosca che gli ronza intorno, che spia indisturbata i particolari dei loro corpi e dei loro abiti provati dall'assenza di giochi. Qualche frase, ogni tanto, disturba i rumori ambientali; ma per il resto non hanno voce questi figli, che come tutte le loro famiglie sono costretti a una vita di fatiche: le nonne e i loro occhi raffreddati, deperite, invecchiate per gli stenti, ci confermano che questo sarà il loro futuro. Traspare implacabile da Polgovsky la pesantezza ereditata dalle generazioni precedenti, gli affanni dei ragazzini che si caricano pesi che pure una adulto faticherebbe a portare.
Un documentario questo, discreto nei toni, e invadente nei messaggi. I protagonisti si lasciano avvicinare e seguire, abituati alla presenza dei curiosi, o forse troppo indaffarati per prestare attenzione agli stessi, lasciando così che la semplice assenza di giochi sia una valida spiegazione narrativa per il film intero.
Forse le immagini asettiche con cui il regista ha cercato di celebrare questi piccoli lavoratori della fame, lo portano talvolta a non approfittare della ricchezza che la camera digitale gli regalerebbe; stiamo così, silenziosi, a guardare, senza la forza di disturbare i loro ritmi serrati, ma con una lista infinita di domande in testa e un enorme senso di impotenza di fronte alla loro realtà. Questi procedono, gesto dopo gesto meccanicamente e rapidamente, mentre a casa li aspettano le madri delle loro madri, i corpi e l'animo rassegnati.
A un tratto, tuttavia, inaspettatamente, subentra la musica: introdotta dalla bimba che cucina e che sta al telaio, come fosse un carillon circense. E da qui, infine, la festa. Perché dopo una giornata di sforzi si ha ancora la forza di ballare, si deve aver la forza di ballare per non soccombere a una routine implacabile che non lascia vivere i freschi anni in santa pace. Rimaniamo col sorriso dei tre ragazzi che si inseguono e per un attimo, si divertono, mentre pascolano le capre: nobili animali che in questo racconto sono gli unici a concedere un momento di libertà ai giovani, nel loro lento ruminare indeciso. E ancora, la musica, che non finisce e sfuma, a ricordarci che nel domani qualcun altro vivrà di nuovo le stesse ingiuste fatiche.

da qui

 

…Il giudizio viene espresso in modo poco invasivo (volendo sibillino) attraverso l’emersione di alcune immagini stridenti o sconvolgenti, su cui ci si dilunga per attirare l’attenzione. Si tratta di particolari apparentemente insignificanti, come un ragazzino con le scarpe totalmente sfondate o un altro che ferma le sue ferite con il nastro adesivo, ma a ben guardare suppliscono alla mancanza della narratività, fornendo i punti cardine per un discorso complessivo piuttosto chiaro.

A suggerire il senso finale di questa indagine cinematografica, in particolare, è il montaggio alternato dei volti dei bambini al lavoro (magari un po’ imbronciati ma sempre pieni di energia) e quelli delle anziane del villaggio: facce deformate dalla consuetudine del tempo e svuotate da ogni anelito di vita, come se una spirale infinita avvolgesse le alture abitate dalle popolazioni messicane più povere, condannandole alla stasi e alla miseria perpetua. Un documentario, dunque, che cerca di sferrare un pugno in una carezza, affidandosi al potere suggestivo dei mezzi cinematografici per insinuare (a costo di una certa piattezza espositiva) un senso intimo, piuttosto che pietistico, di urgenza e di preoccupazione per ciò che succede ai margini dello sguardo distratto della civiltà.

da qui

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