martedì 29 settembre 2020

Divines (Bâtarde) - Uda Benyamina

come in Bande de filles, protagoniste del film sono alcune ragazze delle banlieues.

Dounia (una straordinaria Oulaya Amamra) abbandona la scuola e,  come la sua amica del cuore Maimouna, amano i soldi, biglietto verso la felicità, i vestiti, il successo.

e inizia la crescita "professionale", come assistente e complice di Rebecca, la giovane e invidiata boss del quartiere.

e Dounia incontra anche l'amore, la bellezza, un'altra forma di libertà.

gran bel (terribile) film.

buona visione - Ismaele

 

 

 

…Si la réalisatrice signe un film éblouissant, elle le doit aussi à son trio de comédiennes: Jisca Kalvanda, incroyable dans le rôle de Rebecca mélange de furie et de duplicité, Deborah Lukumuena, tornade de bonheur, drôle et touchante jouant tout autant avec sa gestuelle qu’avec ses mots, tout bonnement étincelante de justesse et enfin Oulaya Amamra (la sœur de la réalisatrice), une bombe thermonucléaire jonglant avec une même facilité entre le rire et le drame, une boule d’énergie en fusion qui déploie déjà un tel naturel et un tel talent, qu’on a forcément l’impression de voir éclore une immense actrice. On pourrait chercher la petite bête, pinailler sur deux ou trois détails, tenter d’expliquer l’inexplicable à ceux que cela ne touchera pas, mais enflammons nous plutôt pour ce film enthousiasmant. On pourra coller toutes les étiquettes et tous les qualificatifs que l’on veut à Divines, il n’en reste pas moins un film vivant qui s’enflamme sous les doigts avant d’allumer nos cœurs d’une lumière salvatrice. Un film qui donne encore envie de croire au pouvoir du cinéma sur nos vies, qui, aussi difficiles qu’elles soient, ont eu besoin un jour de voir pousser ce cri sur l’écran noir de nos nuits blanches. Le mot est facile mais on ne peut plus vrai: Divines touche au divin.

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…la giovane regista franco-marocchina Houda Benyamina si lancia e ci lancia a 200 all’ora in un viaggio mozzafiato dal quale uscirete affannati come da una corsa a tutta velocità su una Ferrari immaginaria. Al volante di questo bolide, ostinatamente piazzata al posto di guida, troviamo una ragazza sfrontata di nome Dounia (incarnata con forza da Oulaya Amamra) il cui sguardo intelligente, tenero e spesso sorridente, dietro le lenti dei suoi Ray-Ban (sempre immaginari), indica senza equivoco che la sua impertinenza nasce dalla ribellione – alla vita nella bidonville alla quale si è rassegnata quell’irresponsabile di sua madre (il che è tutto dire), al futuro servile che le viene proposto, al soprannome "la bastarda" che le hanno sempre affibbiato…

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Divines finisce per diventare un meraviglioso chiaroscuro tra bellezza e dannazione: lo sguardo sensuale ma pulito del ballerino fa da contraltare a quello lurido del gangster, a cui Dounia si offre, ballando sul cubo, per loschi propositi; al rosso del rossetto che Dounia per la prima volta, furtivamente, prova al supermercato, nella scoperta del proprio fascino, si contrappone il rosso sangue dei pestaggi. Se ne potrebbero dire tante, ancora. Così anche nel montaggio sonoro: la potenza dei requiem, ma anche i bassi opprimenti dell’hip hop e – peggio – le sirene della polizia, o dei vigili del fuoco.

È un film sporco e sensuale, Divines, di angeli caduti o che cadranno; tra il baratro e l’ebbrezza; in cui errare è umano, anche quando – inconsapevolmente – si ha una bellezza divina. L’atmosfera spesso notturna confonde i vicoli oscuri degli spacciatori alla penombra dei riflettori spenti del teatro, se non ai fumi dei club dove il “money” si versa assieme allo champagne. Quanto è luminoso – e bello, e acerbo, come Oulaya Amamra – questo racconto di Houda Benyamina.

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Divines esprime un’urgenza espressiva debordante, ma il reticolato della drammaturgia e della scrittura filmica la imbrigliano, disegnando per le due protagoniste una strada senza uscita, in cui la lotta per la sopravvivenza si confonde ambiguamente con quella per la sopraffazione. Alla fine della partita ad uscire sconfitta è l’interrogazione materialistica del presente, davanti a uno spiritualismo in cui tutte le vacche sono nere e gli incendi, una volta accesi, fanno il loro lavoro.

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« Bâtarde » ! Tel est le surnom cruel et méprisant qui colle à la peau de Dounia. Fille d’une mère fragile collectionnant les hommes et les gueules de bois, la jeune fille tente de se construire un avenir loin du camp de roms où elle a grandi. À l’inverse, Maimouna sa meilleure amie est fille d’imam et connaît une éducation plutôt stricte mais équilibrée. Élèves en BEP pour devenir hôtesses d’accueil, les deux amies réfléchissent à une toute autre carrière. Admiratives de l’une des plus grandes dealeuse de Montreuil, elles vont tout faire pour trouver leur place au sein de cette « entreprise » lucrative, et ce, au risque de se brûler les ailes.

« Mes mains sont faites pour l’or », affirme fièrement Dounia ! Née dans la misère la plus totale, la jeune fille aspire plus que quiconque à s’élever dans l’échelle sociale. Avoir de l’argent ne fait qu’ouvrir des portes, la vraie richesse est ailleurs. Dans la Ferrari virtuelle où elle voyage la tête haute, la jeune fille rêve de reconnaissance loin des émeutes et d’un dieu qui tarde à veiller sur elle. Il suffira d’un peu de maquillage pour transformer la petite cendrillon des bidonvilles en déesse de la nuit. Mais son véritable prince charmant est ailleurs. Comme elle, Djigui veut oublier sa tenue de vigile pour danser avec les étoiles….

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…Sin dalle primissime battute, Divines fa tutto quello che può per infastidire lo spettatore: Dounia (Oulaya Amamra, unico elemento davvero convincente del film) e l’amica del cuore Maimouna vengono sballottate in salti di palo in frasca apparentemente infiniti fra le religioni differenti delle protagoniste, l’inefficacia della scuola, il night club dove la madre di Dounia è solita ubriacarsi ogni sera, il taccheggio al supermercato, la graticcia del teatro dal quale guardare, se necessario sputando, le prove dei ballerini fra cui l’aitante Djigui, fino alla decisione di diventare ricche lavorando per Rebecca, rispettata spacciatrice della zona. Fra panetti di hashish, sogni di una Ferrari, filmati con l’iPhone avuto in regalo da Rebecca, un paio di pestaggi subiti, auto bruciate, ritorni a casa trovando la madre a letto con il tirapiedi di Rebecca, usi criminosi del Requiem di Mozart su allenamenti al sacco e banconote baciate e vacui discorsi sulla necessità di avere ambizione e sapere osare per puntare in alto, oppure sul saper alternare pugni e carezze, il film di Houda Benyamina si trascina nei suoi raccordi di montaggio non funzionali, nella sua mescolanza insensata della danza come linguaggio del corpo e della seduzione come arma letale ma anche a doppio taglio, nei suoi personaggi tutti desiderosi di cambiare vita eppure nessuno, a parte proprio Djigui che otterrà la parte nel ballo e partirà in tournée, in grado di fare una sola scelta giusta. Ora fastidioso e ora patetico, ora poco credibile e ora retorico, passando per un tentativo di stupro e per un incendio invocato più volte nel corso del film, nell’esordio di Houda Benyamina non funziona praticamente nulla: tecnicamente risibile, concettualmente vuoto, umanamente preoccupante. Non resta che dimenticarlo in fretta, lavarne le scorie prima possibile, fingere che non sia mai esistito.

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Divines è un film di corpi sciupati e corpi levigati, oblio e voglia di riscatto, urla disperate e risate incontrollate, chiome raccolte in assetto da battaglia e capelli sciolti al vento, fughe a perdifiato e preghiere alle stelle, inevitabili tragedie e seducenti ironie: un frullato di emozioni uguali e contrarie, scandite da una regia virtuosa (talvolta fin troppo) e da una colonna sonora che sa miscelare lirica, techno, hip hop e sonorità arabeggianti, trovando sempre la nota giusta al punto giusto. La regista in qualche occasione si lascia prendere la mano, ma non perde mai il controllo della storia, rigorosamente espressa (e girata) in ordine cronologico, così da condurci, senza sbalzi temporali, nel percorso di formazione di una bâtarde che scava nella paura per trovare la forza di provare a darsi un destino diverso, nonostante tutti i rischi che le sue azioni comportano.
Interpretata con stupefacente intensità e completezza dalla bravissima Oulaya Amamra, la Dounia di Divines è un personaggio che si imprime nell'anima e difficilmente ne esce. In lei si aprono i cieli bui di tutti coloro che navigano allo sbando, dimenticati dalle classi agiate, visti con sospetto o addirittura con disgusto. In lei, inoltre, si concretizzano i sogni di tante adolescenti che rifiutano le distorte imposizioni sociali e culturali; proprio come la Marieme di Bande de filles, decisa a non sottostare a un avvenire già scritto da trascorrere spenta, a casa, a badare unicamente alla prole…

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domenica 27 settembre 2020

Non odiare - Mauro Mancini

opera prima non facile, un film con attori molto bravi, sulla storia, i motivi dell'odio, il rimorso, i ricordi.

non si può vivere nell'odio e nel pregiudizio permanente, sembra dirci questa storia, bisogna fare un passo nel terreno del nemico e provare a smontare le radici dell'odio.

i tre protagonisti si incontrano, con difficoltà ciclopiche, e riescono a  parlarsi, pensando al futuro.

e i gatti e i cani hanno un ruolo importante nella storia.

un film non perfetto, certo, che merita comunque molto.

buona visione - Ismaele

 

 

 

Dunque, ritorniamo all’emblematico titolo, quasi un imperativo. Perché, se non estirpato, l’odio genera odio: una macchia nera inarrestabile dalle conseguenze distruttive. E, l’unico modo per sconfiggerlo – capisce Stefano –, è un estremo gesto d’amore, arma per annientare e zittire un pericolo, ancora, dilagante. Proprio per questo, Non odiare, dovrebbe essere una visione necessaria, costruita su misura per i suoi interpreti, amalgamata alla realtà dei fatti, coesa al senso di giustizia che troppo spesso (e troppo facilmente) oggi viene scambiato per buonismo, in un circolo di sproloqui indefiniti e indefinibili. Ed ecco che il Simone Segre di Gassmann fa da lezione: restare in silenzio, osservare e compiere la scelta giusta. Liberandosi dai demoni, che siano quelli della mente, o che siano quelli con svastica tatuata sul petto.

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…lo spunto più interessante del film riguarda gli attori, il loro modo di mettere in scena i personaggi e il modo in cui la scrittura tratta in maniera originale gli stessi, perché mai rinchiusi in uno stereotipo o nel già visto. Il ricco chirurgo ebreo è un single, non ha una famiglia, una casa molto grande e l’apparente desiderio di liberarsi da un’eredità paterna che sembra ingombrante. La giovane protagonista invece sceglie di sacrificarsi per il fratelli, abbandonato un’aspettativa di vita che le piaceva per provvedere a loro dopo la morte del padre filo fascista, eppure, nonostante sia chiaramente contraria all’approccio del padre alla vita e alla sua ideologia, ne parla sempre con tenerezza. Il fratello mezzano, che vuole a tutti i costi percorrere il sentiero paterno, invece, si rivela quello che è, un ragazzino con tante idee confuse nella testa, idee che non capisce davvero ma che segue ciecamente.

Per tutti e tre questi personaggi ci sono degli interpreti assolutamente superbi, con Gassmann e Serraiocco che consegnano due interpretazioni molto delicate e gentili e con il giovane Luka Zunic, vera e propria rivelazione del film. Il suo volto dai tratti angelici, gli occhi chiari e profondi, si scontrano con la rubidità che il suo personaggio ostenta e che, in fondo, non gli appartiene.

Fedele al titolo dell’opera, Non Odiare, Mancini mette in scena dei figli orfani che cercano la redenzione e l’affermazione da parte dei padri defunti. Occupano capi opposti di una linea retta, ma tutti gli eventi e i comportamenti che assumono nel corso della vicenda li portano ad avvicinarsi, a cercare gli uni negli altri, gli elementi di similitudine e non quelli di contrasto, allontanandosi così dall’odio.

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…allo spettatore attento non sfuggirà, nel corso della visione, la sottile metafora insita nella progressiva metamorfosi comportamentale dell’inquietante quadrupede quando questi, esattamente come i protagonisti bipedi, conosciuto a fondo quello che prima era considerato un minaccioso estraneo, inizia gradualmente un viraggio che lo condurrà verso un atteggiamento ben diverso da quello inizialmente ostentato. Atteggiamento che gli altri comprimari della metafora, in primis Simone e ancor più Marcello, non avrebbero mai ritenuto possibile si potesse realizzare.

Mancini dipinge una realtà a tinte fosche, plumbee e nebbiose, tendenti al grigio scurissimo e al nero nelle sue varie gradazioni. Ma il nero è anche il colore delle pompe funebri il cui patron, indirettamente e paradossalmente, innescherà la graduale evoluzione di Marcello, il quale si ritroverà suo malgrado ad interagire con uno dei suoi tanto odiati giudei. Ma proprio questi, Simone, coadiuvato da Marica - sorella di Marcello ma dotata di tutt'altro senno -  favorirà quasi inconsapevolmente il “viraggio” del fanatico “camerata” il quale, poco a poco e sempre più spontaneamente, avvertirà una tenue ma progressiva lucina essenziale per quella rilettura ideologica che gli consentirà comunque una soluzione, seppur non indolore, attraverso l’elaborazione di una colpa grave: l’omicidio del nazi bastardone senza scrupoli, quello che lui pensava essere uno stinco di santo ma che, con delusione, aveva a sue spese ben compreso trattarsi di un vile strozzino! Per di più uno strozzino affetto da quella meschina viltà che lui in primis, con tutti i compari, Marcello compreso, andava accusando essere prerogativa degli Ebrei…

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…I luoghi comuni sono tutti lì, in agguato, Mancini, anche autore della sceneggiatura con Davide Lisino, procede come fosse uno slalom cercando di saltare tutti i paletti disseminati lungo la vicenda che potrebbero farlo saltare. Per far questo si affida anche molto ai suoi interpreti. Alessandro Gassmann che si presta con generosità e talento a indossare i panni, anche scomodi, del medico. Sara Serraiocco che nasconde una grande forza dietro un’apparente fragilità e Luka Zunic che irrompe con la (in)giusta cattiveria violenta del naziskin. Temi forti quindi quelli che il film vuole andare a toccare: l’odio, la vendetta, il perdono, la memoria, il senso di colpa legati all’onda lunga e giustamente mai sopita della Shoah. Ma nonostante le intenzioni c’è qualcosa che lascia un retrogusto amaro. Non tutto scivola via come dovrebbe.

Così Non odiare suona un po’ troppo come frase importante da usare come claim per una vicenda che comincia a sembrare lontana nei tempi e nei modi. Vero che ovunque assistiamo a rigurgiti antiebraici, a violenze razziste a ragionamenti e approcci che non avrebbero stonato tra i gerarchi del ventennio fascista e neppure tra gli artefici del nazismo, ma il filo nero che lega quella storia terrificante alla realtà contemporanea è più complesso, articolato e contraddittorio. Certo non è un film che deve mandare «messaggi» o compiere analisi minuziose di quel che succede oggi nel mondo, ma forse Non odiare rischia di semplificare tutto questo, al di là delle intenzioni. E questo non aiuta, pur rimanendo un esordio coraggioso e inconsueto che punta a un livello di racconto e di storia più alto di quel che di solito viene offerto al cinema.

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venerdì 25 settembre 2020

Hola, ¿estás sola? - Icíar Bollaín

opera prima di Icíar Bollaín, con una storia di viaggio e di scoperta, di sè e dell'amicizia.

bravissimi attrici e attori, con una sceneggiatura solidissima, che tiene il film sempre vivo.

a Trini e Niña non puoi non affezionarti, in questo piccolo grande film.

buona visione - Ismaele





 

Trini e Niña hanno tante cose in comune: la stessa età (20 anni), un passato segnato dalla scomparsa della madre, e una maniera di fare le cose in cui non c'è bisogno di fare grandi progetti. Non leggono giornali, non vedono la TV e possono vivere senza telefono. Insieme inizieranno un viaggio senza una meta precisa, nel quale arriveranno a incontrarsi con la madre della bambina. Condivideranno tutto, incluso Olaf, un russo che non sa parlare spagnolo. Lungo questo percorso scopriranno altre facce della vita che metteranno a dura prova la loro amicizia.

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La actriz Icíar Bollaín debutó en la dirección con esta película producida por Fernando Colomo, rodada con muy pocos medios, en súper-16 mm, y con actores poco conocidos (Silke debutaba con esta cinta y Candela Peña sólo había hecho hasta el momento pequeños papeles). La realizadora contó con la colaboración de Julio Medem para escribir el guión, cuyo tema central es la amistad, mostrada desde una óptica generacional muy clara, la de dos chicas veinteañeras, y con un suave tono de comedia. El proyecto se saldó con un rotundo éxito de crítica y público que disparó las carreras de todos los implicados en él.

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Both Candela Peña and Silke are fantastic as "Trini" and "La Niña", two girls who decide to run away together to get rich. Whilst they don't quite achieve their financial aim, they do discover a lot about themselves, deal with several personal issues weighing them down, and cement their friendship through learning to rely on each other. Silke is utterly believable as the girl who resents the fact that her mother abandoned her and her father as a child, and Candela Peña plays the role of an orphan who so desperately needs a mother she is willing to borrow Niña's. The two laugh, cry and make love to a Russian across the Spanish plain, and we are fortunate enough to become a part of their world for the film's duration. I thoroughly enjoyed it, a great debut effort by Icíar Bollain - ¡enhorabuena, guapa!

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mercoledì 23 settembre 2020

Dov'è la tua casa? (Hogar) - David Pastor, Àlex Pastor

brutti tempi, per i creativi della pubblicità.

in un film che, mutatis mutandis, ricorda un po' Mientras duermes, di Jaime Balagueró, si svolge un gioco al massacro.

Javier, che non riesce a mantenere la famiglia come prima, decide di prendere in affitto un appartamento più piccolo, con moglie e figlio, e un po' per caso, un po' per malvagità, decide di entrare nella vita del nuovo inquilino.

e riuscirà a sostituirsi a lui.

il come lo vedrete, in un film che non annoia un attimo.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

Ciertamente ‘Hogar’ suena y se parece en alguno de sus estadios a ‘Parásitos’. Soy de los que piensan que las coincidencias en el cine existen y las comparaciones hoy en día son inevitables siendo como es ‘Parásitos’ una ganadora del Oscar tan histórica y reciente. Pero hay que señalar que esta idea surgió hace tiempo, nosotros mismos anunciamos en nuestra web el inicio del rodaje de ‘Hogar’ en noviembre del 2018. A si es que sabiendo eso solo hay que coger las diferentes pautas de ‘Hogar’ y disfrutar pues es otro sutil «home invasion» donde un intruso se hace con la casa de otra persona perspicaz y paulatinamente, además sin hacer uso de la violencia física.

Los derroteros de ‘Hogar’ van por otro lado. Más allá de conformar una crítica social o el ascenso a un estrato mejor es una historia sobre la envidia, el orgullo (o la falta de él), la codicia y la venta de sueños. Es la caída de alguien que cada día se colaba en nuestras casas a través de la publicidad y que tras perder esa capacidad se introduce literalmente en casa de otros, buscando el ideal que ilustraba en sus reclamos publicitarios. Los hermanos Pastor nos recalcan que no existe la vida perfecta de los anuncios, siempre hay defectos o secretos que descubrir. Incluso vemos que también cuecen habas en las empresas que nos bombardean agresivamente con esas campañas. Esto también nos lleva a una crítica al trato que se les da a los profesionales entrados en años y en busca de trabajo. Lo cual me recuerda en cierto sentido a ‘La chispa de la vida’, la película de Álex de la Iglesia con José Mota…

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La historia nos lleva a un publicista, despedido de su trabajo, que no consigue encontrar quien le dé un nuevo empleo. Acuciado por las necesidades de la familia, de su mujer y de su hijo, se ve forzado a dejar su lujoso apartamento y mudarse a un modesto piso en las afueras. Pero es incapaz de dejar atrás el pasado. Atormentado por su situación, conservando una llave de su antiguo apartamento, pronto empezará a estudiar a sus nuevos inquilinos, envidiando la vida que él tuvo que dejar atrás y que ellos ahora poseen. Ahí es donde la trama comienza a dar un giro hacia un punto mucho más siniestro, del drama social al thriller de suspense cercano por ejemplo a Alguien me espía, de John Carpenter...

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…El film sabe crear el misterio sobre los motivos de un protagonista orientado por la desesperación y la ambición; maneja con acierto tramos de suspense; visualmente tiene mérito; no decae el ritmo…
Acumula apuntes sociales tratados de forma superficial (maltrato, acoso escolar, pederastia…), que sirven para compactar el plan maquiavélico con falsa identidad de un Javier Gutiérrez sobresaliente, lo mejor de la película.

Una lástima que todo su progreso de acción… mi problema era la apatía… se convierta en un artificio, demasiadas casualidades y acciones de encaje arbitrario.
Una historia entretenida pero de escasa verosimilitud.

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Hogar es una historia bien organizada que explora hasta qué punto una mente siniestra está dispuesta a llegar para salirse con la suya. No renueva el gastado género de los acosadores y mentirosos, pero tiene un par de situaciones efectivas para engancharte durante su hora y cuarenta de duración.

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Hogar comienza como un thriller prometedor que acaba perdiéndose en un plan de ejecución que no termina por encontrar su fin. El guion presenta diversas flaquezas que pasan factura en la manera que se expone y en el desarrollo de la historia. Por lo tanto, se puede ver una intencionalidad que cumple con el suspense, pero no con una construcción significativa y con matices.

A nivel interpretativo, hay que destacar el papel de Javier Gutiérrez, que eleva el film y suple algunas faltas en la concepción de su personaje. Por otro lado, Bruna Cusí y Ruth Díaz son pura naturalidad. Mientras que a nivel técnico ofrece una visión cuidada y muy atractiva, no aprovecha ni arriesga en el sentido artístico. Una bienvenida a una casa con un ambiente enturbiado que entretiene, pero no convence.

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todo cambia desde el momento en que este perdedor de manual se ve obligado a mudarse a una casa mucho más humilde y su esposa también tiene que contribuir a la frágil economía familiar dedicándose a limpiar. Del interior de Javier emerge un ser mezquino y manipulador, capaz de todo por recuperar su antigua posición social acomodada, tomando como víctimas a la familia que se ha instalado en la vivienda que ha abandonado. Como un verdadero parásito, se va inmiscuyendo en la vida de Tomás, el joven y aparentemente triunfador nuevo inquilino. Javier envidia la imagen que este proyecta al exterior, con su guapa esposa, abogada, y una preciosa hija campeona de gimnasia rítmica…

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martedì 22 settembre 2020

La chispa de la vida - Alex de la Iglesia

a un pubblicitario senza lavoro capita (per caso) l'affare più ricco della sua vita, però bisogna fare in fretta.

Roberto vuole vendere la sua storia al miglior offerente, ma bisogna fare in fretta.

coinvolge la moglie e i figli in questa storia, ma all'inizio non sembrano d'accordo.

è una corsa contro il tempo, quasi tutto il film è concentrato nelle poche ore in cui succede tutto, the show must go on, e bisogna battere finché il ferro è caldo, lo spettacolo paga bene, costi quel che costi.

un film in cui c'è poco da ridere, è il nostro mondo, purtroppo.

buona visione - Ismaele


 

 

 

La chispa de la vida è un film che racconta di una condizione limite, uno stato esistenziale di immobilità forzata fra la vita e la morte, una pellicola che narra quel che siamo diventati, in quest’epoca di crisi, di fronte al denaro: individui senza futuro, che anelano unicamente ad una qualche forma di solidità economica da raggiungere anche a discapito della propria dignità. In vari momenti il regista sembra suggerirci una lettura cristologica della situazione, Roberto pare come crocifisso nella sua posizione impossibile, ed attorno a lui troviamo la pietà mariana della moglie e dei figli, ma soprattutto il cinismo di tutto il resto, flagellatori romani a cospetto del corpo del Signore, compiaciuti d’osservare una sofferenza lontana da sé, barbaramente pronti a fare a pezzi la bellezza dell’anfiteatro pur di farsi spazio per ottenere un’immagine esclusiva del supplizio in diretta.

Il film non funziona in tutta la sua durata, se nella prima parte tutto scivola ottimamente, nella seconda soprattutto la sceneggiatura segna il passo, avvitandosi su sé stessa incapace di trovate soluzioni particolarmente originali e giungendo ad un finale insolitamente modesto, visti i precedenti del regista spagnolo. Ma forse non ha molto senso dare conto di un film del genere in questi termini, perché pare evidente che de la Iglesia abbia voluto questa volta raccontarci un’operetta morale, tenuemente macabra pur se spesso comica, sull’essenza della dignità in quest’epoca buia per il nostro continente.

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Prendete L’asso nella manica, capolavoro di crudeltà e pessimismo diretto da Billy Wilder nel 1951 e annoverabile tra i film più strettamente politici del regista austriaco trapiantato a Hollywood. Aggiungetevi Quinto potere, lucido attacco ai mass media con il quale nel 1976 Sidney Lumet conquistò il mondo e lo sfortunato Peter Finch un meritatissimo Oscar postumo come miglior interpretazione maschile. Mescolate bene, sminuzzando nell’insieme frammenti del grottesco tipico del cinema spagnolo dal periodo della transizione a oggi, e otterrete La chispa de la vida (o, per dirla con il titolo internazionale, As Luck Would Have It), nuova regia del vulcanico Álex de la Iglesia presentata come evento speciale alla sessantaduesima edizione della Berlinale.

Già a partire dalla sinossi si potrà intuire come La chispa de la vida non faccia proprio nulla per nascondere eventuali riallacci critici alle opere sopra citate. Anche la regia, da questo punto di vista, si muove in direzione di un recupero di pratiche cinematografiche altre a quelle finora abitate dal regista spagnolo: se il suo cinema è stato sempre l’avanguardia di un progetto di messa in scena teso all’accumulo di materiali, quasi un’operazione di sedimentazione dell’immaginario su visionarietà preesistenti, in questo ultimo parto creativo Álex de la Iglesia utilizza la macchina da presa in maniera sorprendentemente nuova – per i suoi standard, ça va sans dire…

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Gran parte del merito della riuscita dell’ottimo La chispa de la vida è, infatti, in mano agli attori, comprimari compresi, ma su tutti il duo José Mota e la Hayek, entrambi due nuovi volti nella filmografia di De la Iglesia, intensi fino ai limiti dell’’umana sopportazione, abbagliati dalla sofferente luce del direttore della fotografia di Kiko de la Rica.

Un’avventura per nulla statica dalla durata di una notte intera, tensione assicurata per lo spettatore strangolato da risate e lacrime allo stesso tempo. L’assurdità della situazione, per quanto molto di quel che accada è forse più reale della realtà stessa, è frutto sia dello sceneggiatore Randy Fedelman che del genio di de la Iglesia

De la Iglesia è il maestro incontrastato della black comedy il cui potere registico non è affatto da sottovalutare. Ora non resta che aspettare, non troppo si spera, che il film Las brujas de Zugarramurdi esca quanto prima, magari anche in Italia, non sarebbe male, perché di Álex de la Iglesia c’è bisogno, tanto bisogno nella nostra società.

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“Ci vuole dignità” gli dice. “Ma quale dignità – fa lui – oggi son ostato umiliato più che in tutta la mia vita”..

L’intervista si farà, ma con una giornalista che, d’accordo con Luisa, le consegna subito la cassetta perché no sia mai distribuita. Resterà alla famiglia, estremo ricordo di un amato padre e marito. Poco dopo, infatti, morirà.
Il film è una commedia amara e ironica, iperbolica e realistica, interpretata con grande bravura.
“In questo mondo dove tutti credono di essere liberi, senza però esserlo davvero, esiste una possibilità di sopravvivenza, che si chiama dignità” dice il quarantaseienne basco De la Iglesia. Un assunto importante, trattato con profondità ma anche con una ben dosata ironia.

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lunedì 21 settembre 2020

L'affaire Maurizius - Julien Duvivier

una storia di giustizia sbagliata, un condannato passa tanti anni in galera, innocente.

non si è mai difeso, per questo è andato in prigione.

solo a partire dalla testardaggine del padre, attraverso un ragazzino, figlio della pubblica accusa al processo, si riesce a scoprire la verità.

e l'amore ha un ruolo importante in questa storia, bisogna arrivare alla fine, amarissima, per capire tutto.

un film francese vecchio stile, buona visione - Ismaele


 

 

Etzel Andergast, figlio del Procuratore Generale Andergast, apprende che, molti anni prima, suo padre ha fatto condannare all'ergastolo Otto Leonardo Maurizius, accusato d'uxoricidio. Il racconto che della vicenda gli fa il padre del condannato convince Etzel che Otto Leonardo è innocente. Egli si mette alla ricerca di Varemme, che con la sua testimonianza ha provocato la condanna di Maurizius, e riesce a farsi una idea degli avvenimenti che hanno preceduto il processo…

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Tratto da un romanzo discreto, un film che sembra venire da lontano! Nel senso sembra un film muto doppiato, con espressioni esageratamente marcate, e andando verso il finale, diventa quasi comico. Peccato, perché il regista è bravo, la riduzione dal romanzo è sua, l'ambientazione è buona e la fotografia eccezionale, ma questa pecca finisce per influire negativamente sulla qualità generale del film.

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Studente liceale teme che il padre procuratore anni prima abbia fatto condannare per uxoricidio un innocente. Decorosa trasposizione dell'omonimo romanzo di Jakob Wassermann, che non era soltanto un giallo giudiziario, ma anche una riflessione sulla fallacia della giustizia, sui conflitti generazionali e sull'amore che complica tutto. Un film corale e ambizioso, che colpisce soprattutto per lo spessore dei personaggi. Gélin a tratti sembra fuori posto, ma il resto del cast (seconde linee comprese) offre prove impeccabili. Finale agrodolce.

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domenica 20 settembre 2020

Sapphire – Basil Dearden

nella swinging Inghilterra, con un impero coloniale enorme, erano gli inglesi ad andare nelle colonie, aiutati dalle armi (ça va sans dire).

quando quei colonizzati andavano in Inghilterra allora nascevano i problemi.

il film racconta di un omicidio, una storia che sembrava d'amore, fino a che lei sembrava bianca, poi d'odio, quando si scopre che lei è una ragazza con antenati non giusti.

l'ispettore e i suoi collaboratori, con gravi difficoltà, arrivano alla terribile verità, e, come in Victim, le cose sono, drammaticamente, sempre peggio di come appaiono.

film che scavano nei pregiudizi della società inglese.

un film imperdibile, provare per credere - Ismaele

 

qui il film completo con sottotitoli in inglese

 

 

 

Un an après les émeutes raciales de Notting Hill, Basil Dearden essaie d’aborder le sujet épineux de l’intégration en incorporant les problèmes d’un Londres en pleine évolution sociale à une enquête criminelle. On découvre une belle jeune femme (Yvonne Buckingham dans le rôle éponyme du film) assassinée à Hampstead Heath : l’autopsie révèle qu’elle a subi d’autres outrages - elle est enceinte. Lorsque son frère qui est docteur (Earl Cameron) vient identifier le corps, les inspecteurs Hazard (Nigel Patrick) et Learoyd (Michael Craig) sont surpris de la noirceur de sa peau - il leur avait semblé que Sapphire avait la peau blanche. Les illusions se brisent l’une après l’autre lors de l’enquête qui mène un Learoyd manifestement sectaire et un Hazard plus circonspect dans des boîtes de nuit et maisons des jeunes fréquentées par Sapphire. Ils recueillent ainsi des témoignages d’intolérance et d’ignorance venant de tous bords au fil de leurs investigations. Véritable révélateur des valeurs dominantes de l’époque, le film continue aujourd’hui encore à mettre le spectateur mal à l’aise tout en le poussant à réfléchir.

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In Sapphire, two detectives investigate the murder of a college student who was of mixed race but was “passing” for white. The manhunt takes them on a tour of the city’s black communities, seldom shown cinematically before, and reveals the shocking intolerance of many in the white middle class. With its frank exposure of postcolonial ethnic tensions, Sapphire was one of the most remarkable social-problem films produced in Britain after the war. And it made waves, eliciting as many angry notices as positive ones, though it was well regarded enough to garner best British film honors at the 1959 British Academy of Film and Television Awards. If the film seems less than radical now, it’s worth noting that British cinema reverted to being exclusively white for some time afterward. Dearden had taken viewers places many had never been.

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sabato 19 settembre 2020

Notturno - Gianfranco Rosi

qualche anno dopo Fuocoammare Gianfranco Rosi gira un nuovo documentario, in zone di guerra, Siria, Kurdistan, Iraq, qualcuno aggiunge il Libano, ma non ho visto immagini, forse c'erano, ma nel montaggio devono essere sparite (se non ho dormito un po').

non ci sono molte parole, quasi solo in manicomio, il posto più sicuro di quelli visti nel film.

la fotografia è di serie A.

le immagini parlano da sole, alcuni segmenti più riusciti di altri, l'occhio del regista fa la sua parte, e come sempre succede ci si chiede se la presenza della telecamera rende le persone (nel documentario) come sono, o le cose cambiano? l'osservatore cambia l'osservato? eterna domanda.

certo che viene in mente un'altra domanda? chiunque di noi lì, uno come loro, resterebbe sempre lì o cercherebbe a tutti i costi di arrivare in Europa (che nei confini di quelle nazioni disegnati con il righello ha un bel po' di colpa)?

film che merita, un po' sotto Fuocoammare, secondo me, ma merita.

buona visione - Ismaele


 

 

 

 

Quello di Rosi è un cinema ormai globalmente riconoscibile, e sempre diviso nell'anima: da una parte improvvisazione e adattamento a ciò che la realtà gli comanda, dall'altra un controllo formale e cromatico che a volte sembra voler far prevalere l'estetica sull'etica. Notturno, è ancora una volta tutto questo, un film pensato per aver luogo solo di notte che poi, negli anni e nel girato, si è aperto anche al giorno. Un'opera che affianca momenti di intimismo extra-ordinario (la litania di una donna in visita alla prigione dove il figlio è stato torturato e ucciso) a quello quotidiano (un salotto che ogni notte viene preparato per accogliere il riposo di una famiglia intera), e che ha un'innegabile capacità di rendere iconico l'icastico.
La sequenza ambientata nel cortile di una prigione in cui, come sangue da una ferita, si riversano le uniformi rosse dei prigionieri è sullo stesso livello delle memorabili scene che tracciavano contorni di persone attraverso il luccichio delle coperte termiche in Fuocoammare. Ancora una volta alla regia, montaggio e suono di Rosi si affianca il contributo di una star della fotografia come 
Luca Bigazzi alla correzione colore, sempre a livelli eccelsi.

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Notturno rappresenta lo sguardo oltre il conflitto di guerra, é un film sulle persone dilaniate dal dolore ma che, non possono arrendersi alla sofferenza, e vivono la propria quotidianità convivendo con esso. Ci sono attori che rielaborano la guerra e la storia di quelle Terre colpite attraverso pièce in cui ognuno di loro si fa carico di un racconto che, inevitabilmente ha lasciato segni visibili (e non) su ognuno.

In Notturno parlano le immagini, gli sguardi delle persone, il “silenzio” della colonna musicale costringe lo spettatore a non distrarsi da quello che sta guardando. La storia é tutta lì, e non ha bisogno di accessori.

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…Ciò che colpisce in maniera positiva del documentario “Notturno” è la bellissima fotografia. Si tratta di immagini spettacolari, di giochi di ombre, di colori spesso caldi, di luci al tramonto e all’alba. Il notturno è evidenziato da una precisa esaltazione del buio che fagocita la luce, spesso flebile, spesso disturbata dagli spari delle mitragliatrici nella notte.

Corrono e marciano i soldati sin dall’inizio e si ritrovano in molte scene. Il regista ci avverte solo, con un primo cartello scritto e silenzioso che siamo in medi oriente, ma non viene mai precisato il paese, la città, di quale confine o popolo viene riprodotto.

Rosi lascia parlare le immagini, non si interessa di dare delle coordinate spazio temporali precise proprio perchè la situazione, in quelle zone, è sempre molto dinamica, fluida, cangiante oltre a una condizione di base, quella umana che dovrebbe prevalere al di là dei confini.

“Notturno” si discosta dal documentario puro, tutte le scene sono progettate e montate con un preciso motivo ma non costituiscono mai un racconto unico. Non esiste una voce fuori campo, non esiste nessun personaggio che spiega il suo punto di vista tantomeno quello del regista…

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…Pero también atrapa imágenes bellas, evocadoras y sugerentes. Imágenes nocturnas iluminadas por el fuego de los pozos de petróleo ardiendo, una carretera convertida en auténtica cascada de agua o los distintos intentos de cruzar un río tras el destrozo del puente que permitían vadearlo. Imágenes de gran fuerza visual por lo estético y por su capacidad de evocación. Lástima que su camino para conseguir la atención del espectador se incline demasiado hacia la búsqueda impúdica de la emoción por cualquier medio.

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Se da una parte è difficile non provare empatia per le situazioni sempre più estreme che Rosi cattura, dall’altra sorge un dilemma prettamente morale: fino a che punto può spingersi il cinema nella rappresentazione del reale, senza risultare artefatto e per certi versi disumano? Il reale pianto di una madre che accarezza il muro usato per la tortura del figlio può essere usato come strumento narrativo e retorico? In cosa differisce Notturno da quella rappresentazione teatrale mostrata allo spettatore, in cui i pazienti di un ospedale psichiatrico provano e costruiscono a tavolino la loro opera?

La risposta a queste domande sta nella personale interpretazione dell’etica e del mezzo cinematografico. Dal canto suo Rosi, in quella che ormai possiamo definire la sua cifra stilistica e artistica, si limita a interrogare il nostro sguardo, a pungolare le nostre più intime convinzioni e, in ultima analisi, a documentare la storia mentre la stessa storia scorre, senza alcun compromesso che non sia la ricerca della bellezza e dell’emozione.

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Notturno non mostra la guerra in modo diretto, ma prova ad esplorare i dintorni di essa. Soprattutto quando, dalla voce dei bambini, si ascoltano ricordi agghiaccianti delle torture a cui hanno assistito o che hanno subito in prima persona con l’arrivo dell’ISIS. Teste mozzate, impiccagioni, pugni, calci, e varie pratiche insensate e folli che ormai sono marchiate a fuoco nelle loro piccole menti anche se il personale scolastico prova ad aiutarli a dimenticare o perlomeno a comprendere quella brutalità, anche se è impossibile persino per gli adulti.

Distese di acqua avvolte dai toni caldi del tramonto, campi immensi e isolati, si alterano ad ambienti vuoti in cui i personaggi si muovono timidi. Notturno è sicuramente un documentario interessante per il suo valore artistico e culturale, ma non coinvolge per la mancanza di una storia da raccontare. Sembra più di essere di fronte a un’opera d’arte da ammirare e contemplare, ma non a un documentario con un’anima da esplorare e vivere.

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giovedì 17 settembre 2020

Anna - Pierre Koralnik

film "solo" per la tv, il primo a colori, pare, è la rappresentazione della swinging (o douce) Parigi di quegli anni.

Anna Karina è bravissima, Serge Gainsbourg, anche attore, compone musiche davvero belle, Jean-Claude Brialy è perfetto nel ruolo di chi si innamora di un'immagine, e solo di quella, purtroppo.

film che merita, promesso - Ismaele

 

 

While it flirts occasionally with Godard territory, this musical comedy is more of a tribute to British pop culture. Beyond Gainsbourg's discordant but fine score, it is primarily an affair of cinematic attractions drawn from some stunning Willy Kurant cinematography (thankfully, not the fish-eyed effects, but those in the city with the two leads shot against colorful posters) and from a divinely girly Anna Karina.

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Brialy, as the fashion advertising executive (or something) who falls in love with the photograph of a girl that he finds in his company’s dark room (note the Funny Face reference), doesn’t so much play a character as enact a sequence of poses of lovesickness, as if he were doing a theatrical performance of the fragments that make up Roland Barthes’ A Lover’s Discourse. Karina, as the girl in the photograph who Brialy never recognizes as the same person because whenever he sees her she’s wearing a rather adorable pair of glasses, is also not really required to ‘act’ in any terribly dynamic way, but it’s to her credit that she manages not only to convey grace and loveliness, but to be genuinely convincing as a lonely, hopeful but often disappointed young woman, as her character is for the first part of the film. Gainsbourg of course has enough charm, wit and ‘screen presence,’ as they say, to steal the whole movie away from its two main stars, which is perhaps why he’s sensible enough to only show up for a couple of scenes. The musical sequences are brilliant not so much for their choreography as for their editing, which dispenses with continuity not for the sake of a Godardian ‘up yours’ to Hollywood, but because there’s just way too much fun stuff going on to bother with the conventions…

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French, energetic, colorful, bonkers musical that could only have come from the 60s, with an eclectic pop soundtrack by Serge Gainsbourg that is somehow both obnoxious and lyrically playful. The story is simple: A photographer catches a face on one of his photographs while in a train station, falls for the mysterious woman and starts a desperate search to find this girl of his dreams even though she is right under his nose. This is really just an excuse for one quirky French pop song and performance after another. Interspersed between the songs are some delirious, acid-induced 'dance' performances often involving spastic unhinged performances in the street by people wearing painfully colorful and bonkers costumes made of plastic. The opening is particularly surreal. Also features Marianne Faithfull and Anna Karina.

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Des fois il y a des films comme celui ci, on se lance dedans sans trop savoir a quoi s'attendre et puis on découvre un film a deux doigts d’être une vraie merveille, rempli d'émotions et de sentiments .
Ce téléfilm avait tout pour sortir sur grand écran, et ceci est deja un gros handicap pour qu'il puisse continuer d'exister de nos jours .
Mais il a aussi vieillit aussi bien au niveau des images que du son .
Enfin bon c'est le genre de film qui est tombé dans le l'oubli du cinéma Français et c'est bien dommage !...

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ANNA est de ces films qui nous rappellent l'importance du scénario (et oui), de sa capacité à occuper pleinement un film, et surtout de la réalisation, de "pourquoi on montre une chose comme on la montre, et pourquoi pas autrement".

Commençons par les bons points, qui j'espère vous donneront la curiosité d'aller regarder ANNA : film à voir d'abord pour sa photographie : dirigée par Willy Kurant (Godard, Varda, Kubrick, Gainsbourg …), on ressent un réel soin apporté à la composition des plans, aux cadrages, on perçoit nettement une esthétique, un parti pris dans l'image du film, qui sublime les acteurs principaux, Anna Karina et Jean-Claude Brialy et les rues de Paris, décor traité un peu comme un personnage, c'est en tout cas ce que j'ai ressenti : le cadreur nous fait ressentir son expérience de cinéma d'actualité, les travellings dans la capitale font penser à du documentaire, chose étonnante pour une comédie musicale.

Seconde raison de voir Anna, et plutôt de l'écouter : la bande-originale. Composée par Serge Gainsbourg, qui donne également la réplique à Serge (Brialy) dans le film, elle est particulièrement réussie, et je conseille vraiment l'écoute de la dernière version CD, remasterisée, qui permet de profiter des musiques entières, parfois tronquées dans le "final cut".

Dernière raison de regarder ANNA, les acteurs, qui sont vraiment intéressants, et apportent au film une plus-value : Karina, dont l'espièglerie est un parfait contrepoint aux monologues introspectifs, Brialy dans son rôle d'homme presque fou, perdu dans un amour illusoire, désabusé, traité comme un enfant par ses tantes "étranges". Ils arrivent à nous faire oublier le côté assez kitch du film, qui en même temps fait le charme d'ANNA, il faut l'avouer. Un couple que l'on retrouve quelques années plus tôt dans "Une femme est une femme" de Jean-Luc Godard (1961) : un musical plus réussi car plus audacieux ... Godard arrive à nous faire vivre une intrigue à la fois absurde et révélatrice des comportements humains, comme des marivaudages (même si la musique de Legrand n'est pas l'axe de film, contrairement à celle de Gainsbourg, c'est peut être le défaut qu'on peut lui trouver). Enfin, ce couple marche très bien à l'écran, et c'était une bonne idée de les choisir ! Ajoutez à cela qu'Anna Karina était une proche de Gainsbourg, ce qui explique la réussite de la B.O., et on avait un film réussi, sur le papier ...

La grande faiblesse d'ANNA, c'est son scénario et sa réalisation : un postulat de départ intéressant, un homme tombe amoureux d'un visage féminin sur une photographie, et s'évertue à retrouver la fameuse femme, par tous les moyens possibles, sans se rendre compte qu'elle est sous ses yeux. L'idée me séduit, seulement elle n'est pas suffisamment développée, mise en scène : je n'ai pas perçu de véritable audace, rien ne m'a fait dire "Wow, c'est osé" : un musical qui se réclame pop, acidulé, mais avec une réalisation ultra classique : ça fonctionne pour certaines séquences ("Boomerang" et Brialy dans la rue), mais le reste du temps, on s'ennuie. Le vrai problème étant que l'intrigue tourne en rond assez rapidement, et aurait pu être plus riche, plus étonnante : on ne fait finalement que suivre les déambulations urbaines et dépressives de Serge, et les pensées pessimistes mais teintées d'innocence d'Anna, avec deux trois passages plus nerveux, "psyché" ... Il ne faut pas oublier qu'ANNA est un musical produit avec un budget dérisoire, ce qui explique peut-être la "sobriété" de la réalisation ... Mais quand même, c'est dommage d'avoir un si bon matériel de départ, et de ne rien transcender : heuresement, le casting est là, et la musique aussi.

En conclusion, je conseille ANNA pour l'image, hyper réussie, la musique, hyper réussie -normal, Gainsbourg- et les acteurs, justes dans leur interprétation, et j'espère voir un jour une belle version remasterisée, image et son, pour mieux profiter du film ! (Peut-être est-ce un voeu pieux, mais j'ai envie d'y croire quand même !)

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mercoledì 16 settembre 2020

Elisa y Marcela - Isabel Coixet

una storia di un secolo fa, quando esisteva un unico tipo di coppia, meno che mai di due donne.

film un po' a tesi, quasi un documentario,per certi tratti, quindi.

la battuta più bella del film e di quel funzionario portoghese che fa fuggire le donne, per fare un dispetto agli ingombranti vicini spagnoli.

film più stroncato che esaltato, con tutte le cautele del caso meglio vederlo, poi ognuno decide il proprio giudizio - Ismaele


 

 

 

è fin da subito evidente che il legittimo intento politico del film - sottolineato dal cartello finale - è anche il più grande limite di questo melodramma sentimentale in cui, per quasi due ore, non c'è traccia di un solo contrasto "interno" che turbi la relazione fra le protagoniste.
Un melodramma senza melodramma, insomma: l'amore tra Elisa e Marcela ci viene raccontato da Coixet senza alcuna sfumatura, solido, persistente, potenzialmente eterno. Un sentimento che non viene mai messo in crisi, né tantomeno discusso, nonostante le difficoltà crescenti cui le donne - omosessuali nella Spagna cattolica dei primi del Novecento - devono far fronte.

L'arco della storia d'amore fra Elisa e Marcela, più che un arco, è una linea retta che procede noiosamente all'infinito: innamorate da subito, fuggite rapidamente al controllo della famiglia (Marcela) e della scuola (Elisa), le due convivono, si sposano, si travestono, e nemmeno il carcere riesce a mettere pur debolmente in crisi il loro legame. Un idillio del cuore ma anche dei corpi, consumato nelle scene più efficaci del film: quelle in cui l'energia sessuale delle giovani esplode in amplessi giocosi e creativi, tra un accenno al bondage e animali usati in modo improprio, con l'occhio della regista spudoratamente vicino al centro del piacere.
Svincolate dall'obiettivo militante e dall'aderenza storica, le scene di sesso in Elisa y Marcela sono la parte più viva e autentica di un film il cui motore narrativo è uno stanco "uno contro tutti", al servizio di una tesi manichea in cui il mondo rurale spagnolo - incapace di accettare quella relazione "altra" - è il polo negativo.
Un mondo raccontato, anche in questo caso, con l'approssimazione di una fiaba per bambini: il taglialegna violento, la contadina impicciona, i popolani che assediano la casa delle amanti con pietre e forconi (sic). Muovendosi sopra le righe di una storia vera, già di per sé straordinaria, Coixet eccede in tutto: si lascia travolgere dal contenuto ed esagera nella forma, sciogliendo la raffinatezza del bianco e nero in un pasticcio di dissolvenze, trovate e affettati cliché visivi.

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Ogni cosa in questo film vuole ricordarci che la nostra società, dopo un secolo, non è cambiata. La gente deve fingere di essere altro da ciò che è per essere accettata. La sovrapposizione di piani è sottile, quasi velata, fino alla denuncia finale. Non tutto il film vuole essere emblema di una filosofia, o racconto della discriminazione del diverso. L’opera descrive una storia d’amore, in modo molto rispettoso. Chiunque sia consapevole che questa tematica possa toccare delle corde che urtino la propria sensibilità, fuori da ogni giudizio morale, sappia che la visione non è obbligatoria…

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anche se Elisa y Marcela è dello stesso impasto di troppi prodotti Netflix, il film della Coitex non è esente da altri problemi. Ci troviamo davanti a scelte che risultano effettivamente incomprensibili, come virare alcune immagini verso uno scadente effetto pellicola per poi tornare un secondo dopo alla grana del digitale. Ma la vera questione è un’altra. Per parafrasare Greta Fernández (Marcela nel film) “Grazie a Netflix la storia  delle due donne potrà essere conosciuta da tutti.”  Ma è davvero importante solo  il fatto che sia conosciuta da tutti? Non conta anche come attraverso il cinema questa storia viene mostrata? Il problema centrale di questo racconto di lotta è che non avvertiamo, neanche per un secondo, l’ardore della lotta. Non ci dimeniamo scomodi di fronte all’ingiustizia; nelle immagini della Coixet manca la stupidità dell’ oppressione e lo spirito battagliero di una donna che nel 1901, decide di vestirsi da uomo per sposare la sua amata. Non ci bastano dati didattici e sconvolgenti esibiti a chiusura del film, prima dei titoli di coda. Elisa y Marcela ci sembra comunque solo una storia qualunque.

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In troppi paesi, ci avverte il cartello finale, il matrimonio fra persone dello stesso sesso è illegale e l'omosessualità è punita con la pena di morte: può essere nobile l’intento di Coixet di raccontare la storia vera di Elisa, che sotto mentite spoglie maschili sposò l’amata Marcela nel 1901, ma ignobile è la messa in scena. Il film originale Netflix si rivela una fiera del cattivo gusto, con inaccettabili vezzi stilistici che fanno il verso al muto (dissolvenze a iride, effetto “sgranato” che va e viene arbitrariamente), leziose nature morte in un bianco e nero che pare la parodia di Roma e scene di sesso patinatissime ma per nulla erotiche, con un immaginario che sta tra Dolce & Gabbana e 50 sfumature di grigio (guest star un incolpevole polipo). Il vero scult del festival, rende un pessimo servizio alla giusta causa di cui si fa portavoce.

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Una storia questa di Elisa e Marcela che ci ricorda il potere dimenticato del desiderio. Desiderare è il primo atto di amore, è la prima consumazione del piacere che però possiamo ripetere nella nostra testa all’infinito. Dal punto estremo del desiderio Marcela, la più giovane, si getta senza sapere esattamente perché, segue il flusso, apre le braccia credendole ali. Il desiderio è una sorta di terreno sicuro, un giardino incantato ma recintato. Possiamo far entrare chi amiamo e dettare noi le regole, nel desiderio siamo noi i signori del castello, noi gli stessi carcerati. Il desiderio però può anche consumare fino a sfinirci, può esaurire il resto, il terreno oltre il perimetro può seccarsi. Ma Elisa e Marcela si gettano insieme, le ali prendono fuoco, almeno lo fanno insieme. Tentano un atto di volontà, ci riescono.

Votare la vita all’amore – a un amore considerato malato e mostruoso all’epoca, e siamo solo cento anni fa – è un atto di desiderio che si spinge fino alla volontà, porta quindi il sacrificio. Se volete ricordarvi cosa significhi tentare un amore completo allora guardate questo film, non c’è volontà senza prima desiderio, non c’è passione senza amore. Tutto è incastrato nella stessa forma, tutto richiede un estremo dolore. Elisa e Marcela ci ricordano che non si può volere tutto di un amore se non si è pronti a togliersi tutto, a spogliarsi persino della libertà. La loro storia ci insegna che amare significa espropriarsi della propria identità se c’è un bene da difendere, da preservare. Essere agnelli e carnefici, stare sull’altare del sacrificio, non sapere fino all’ultimo chi sarà dalla parte del coltello, chi del collo offerto…

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La química que surge entre las dos mujeres queda opacada por diálogos chatos con poca inspiración, sin detenerse en hitos de la historia de amor que hubiese valido la pena destacar. La velocidad con la que surge el romance es completamente inverosímil, quedando como el inicio de una película soft porn, en la que van directo a los actos carnales. Pese al ritmo, la narrativa es tediosa, sobre todo en la segunda mitad de la película.

La intención parece buena, pero en la realidad se vuelve demasiado simple. Pretende ser una reivindicación a la elección libre del amor entre esas 2 mujeres y, con tanto material de la historia real, podría haber sido una película más profunda y apasionada. Pasa muy superficialmente por temas como la intimidad de las chicas o la incomprensión de la sociedad.

A pesar de ser tan superficial, teniendo un mensaje tan fuerte para trasmitir, se agradecen siempre películas como ésta que defienden los derechos y libertades de las minorías.

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La directora lleva demostrando ya hace un tiempo, sobre todo en "La librería" y en "Elisa y Marcela" que defiende con uñas y dientes a sus actores y les da todo el protagonismo que se merecen, tanto Natalia de Molina como Greta Fernández forman un vinculo muy especial, la química que se forma entre ellas es espectacular y que decir del grupo de actores secundarios que arropan a la pareja protagonista.
La cinta esta dirigida con una exquisita delicadeza y con un blanco y negro que te envuelve, te atrapa y ta hace participe de toda la historia. La puesta en escena y la fotografía también son estupendas . Pero sobre todo es una película reivindicativa y que transmite el mensaje de que cada persona es libre de enamorarse de quien le de la gana.

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El contexto en el que se cuenta esta historia es lo que peor cuidado está de toda la película. Estamos en Galicia, en 1901 y poco escuchamos el acento gallego. Pero no solo eso, sino que ellas tampoco disimulan demasiado. Me ha parecido que Coixet ha tratado el tema de manera demasiado actual, sí que hay dos escenas en las que se puede ver como son marginadas o incluso atacadas, pero aun así no las veo preocupadas de ser vistas, no me ha parecido nada real para la época en la que andaban. Si que se nos muestran las consecuencias finales, pero sinceramente tardan en llegar.

Visualmente es donde más gana la cinta, la fotografía es de marco y Jennifer Cox merece un gran reconocimiento por ella. Creo que hay pocas imágenes de la película que no sean bellas, aunque como he mencionado antes, muchos planos no dicen demasiado.

Poco más que deciros, recomendaros buscar información acerca de estas dos mujeres y empaparos con sus vidas. Merece la pena.

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…A ben guardare, la ragazza travestita da ragazzo non è assolutamente credibile, e non avrebbe certo ingannato nessuno, mentre invece è verosimile la vera Elisa, come si evince dalla foto d’epoca. Giocare un film sull’ambiguità e la finzione sessuale, sul modello di Boys Don’t Cry, sulla donna che si finge uomo e sulla suspense della sua possibile scoperta, richiede una assoluta verosimiglianza, cosa molto difficile da raggiungere. E infine una contraddizione di fondo. Fare di questa storia una storia esemplare per le conquiste dei diritti civili LGTB ha poco senso. La storia certo è straordinaria e andava raccontata. Ma non di ribellione si è trattato, semmai di una simulazione truffaldina per poter vivere felici assecondando, non contestando, l’opprimente morale bigotta cattolica. Né il film cerca di spiegare un’altra domanda irrisolta: perché scegliere la rischiosa strada del matrimonio simulando un sesso diverso e non ripiegare su altre forme di convivenza magari con altre simulazioni? Più che un pamphlet per i matrimoni tra persone dello stesso sesso, Elisa y Marcela è un esercizio di stile dell’ego cinematografico della regista.

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