mercoledì 28 febbraio 2018

La violenza: quinto potere - Florestano Vancini

tratto da un'opera di Giuseppe Fava, il film è ambientato in un'aula di tribunale, dove il dibattito processuale è vivissimo, sia per la materia che per i bravissimi attori.
Enrico Maria Salerno, Ciccio Ingrassia, Gastone Moschin, Riccardo Cucciolla, Mario Adorf e Mariangela Melato (unica donna del film) interpretano un film che non ti dimentichi.
musica di Ennio Morricone.
un piccolo capolavoro da non perdere - Ismaele



QUI il film completo


Florestano Vancini è stato un buon artigiano della macchina da presa ed ha spesso saputo darci opere in equilibrio tra la denuncia sociale e la spettacolarità cinematografica. Secondo alcuni in questo film ha prevalso il secondo aspetto, ma, a parer mio, siamo nell'ambito di un discreto prodotto d'impegno, realizzato grazie all'apporto di validissimi professionisti. Forse è vero che il copione prevede, più che veri personaggi, semplici funzioni narrative, affidate ad interpreti di valore affinché le riempissero di contenuti "umani" ed è pur vero che la procedura penale italiana (soprattutto prima della riforma entrata in vigore nel 1989) non si presta alla spettacolarizzazione come quella americana, ma la messinscena è più che decorosa, la narrazione serrata, gli assolo intonati e i fatti raccontati, purtroppo, sono piuttosto credibili. Gli interpreti ci aggiungono del loro, dal pubblico ministero appassionato di Enrico Maria Salerno all'istrionico avvocato difensore Gastone Moschin, dal boss sbruffone Mario Adorf a quello gelido di Georges Wilson. Ma tra gli attori si segnalano due comprimari della vicenda, cioè un Ciccio Ingrassia per la prima volta e più che credibilmente in un ruolo drammatico e Guido Leontini, uno che di questo genere cinematografico è stato un piccolo pilastro e che forse avrebbe meritato più spazio: qui, in ogni caso è bravissimo a tratteggiare il personaggio di una delle tante vittime/carnefici di cui è costellata la storia infame della mafia.

Florestano Vancini, regista recentemente scomparso, ha sempre dato una particolare attenzione all'impegno sociale. I suoi migliori risultati li ha ottenuti nel genere storico: pensiamo a "La lunga notte del 43", "Bronte" e "Il delitto Matteotti". Qui siamo di fronte alla descrizione di un processo contro uomini accusati di connivenza con il mondo mafiosi e che resteranno impuniti grazie alla protezione loro offerta da alcuni "amici" importanti. L'unico privo di protezione (peraltro poco sano di mente) sconterà le colpe degli altri. Un altro poi verrà spinto al suicidio per evitare ritorsioni contro la sua famiglia. Un film un po' plateale, reso agiografico grazie alla performance di attori famosi o comunque molto conosciuti (Salerno, Moschin, Adorf e addirittura un Ciccio Ingrassia in versione drammatica) ma che resterà facilmente impresso nella mente dello spettatore.

All'interno dell'onorevole e suggestivo filone del cinema 'civile', a fianco di nomi di registi e di titoli sicuramente più blasonati o memorabili (il Cittadino sopra ogni sospetto di Petri o Le mani sulla città di Rosi, per dire due dei lavori più rappresentativi), anche Vancini ha un suo posto. E questo La violenza: quinto potere, tratto da un'opera teatrale di Giuseppe Fava, è una delle pellicole che in definitiva lancia il poliziesco - che poi degenererà in poliziottesco, assumendo in sè la componente comica - nel cinema italiano degli anni '70. La struttura della narrazione è molto semplice, ma tenuta insieme efficacemente dal regista ferrarese; si tratta soltanto di un processo per mafia, raccontato attraverso le deposizioni di tutti gli imputati. Per ciascuno di essi partono i debiti flashback, che aiutano anche la visione allo spettatore, evitando di rinchiudere il racconto nel claustrofobico ed immobile ambiente del salone del tribunale. Di questo lavoro colpiscono essenzialmente due fattori: il primo è formale, ovverosia la scelta di mostrare una giustizia gambizzata, annichilita, sovrastata dal potere occulto della mafia (più volte accostata alla politica); l'emblema sostanziale di tale caratteristica è tutto nell'intervento della vedova (la Melato) di un uomo ucciso e fatto scomparire dalla mafia perchè testimone di un altro omicidio: mentre lei urla la verità, nota a tutti i presenti ('non ho nemmeno un cadavere su cui piangere', additando l'imputato che si professa chiaramente innocente), le guardie sono costrette a portarla fuori dall'aula. Sempre in linea con tale impostazione troviamo l'assassinio finale del giudice, affiancato dalla nascita di un nuovo 'picciotto' che perpetuerà il cancro della mafia nel tessuto politico, istituzionale, economico, sociale. Secondo fattore, ma questa volta tecnico, di tutto risalto è il cast: è soltanto da pazzi, lasciarsi sfuggire un film in cui gli avvocati sono Enrico Maria Salerno (mostruoso) e Gastone Moschin, l'imputato principale è Mario Adorf, il giudice è Turi Ferro e fra i testimoni sfilano Mariangela Melato (che, per questioni di accento, è però la meno credibile della combriccola) e Ciccio Ingrassia, qui chiamato - altro enorme merito di Vancini - per la prima volta ad un ruolo drammatico (complice uno degli estemporanei litigi con il partner artistico Franco). Un film importante. 7,5/10.
da qui

martedì 27 febbraio 2018

I cannibali – Liliana Cavani

Antigone nel 1969, a Milano.
tempi tragici, con i morti che insanguinavano le strade, nel film le autorità non permettono la rimozione dei morti, devono servire da monito per tutti.
qualcuno si ribella alla non umanità del potere, storia antica, e sempre attuale, i giovani sopratutto sono i più disponibili a rischiare, hanno meno paura, meno da perdere.
ed è straordinaria l'attualità dell'Antigone di Sofocle, questa volta in un futuro che è oggi, un futuro possibile, dietro l'angolo.
bravissimi gli attori, tra gli altri Pierre Clémenti, Britt Ekland e Tomas Milian. 
in certi momenti sembra di stare in un film di Elio Petri.
buona visione, non ve ne pentirete - Ismaele




QUI il film completo


Il tocco provocatorio di Liliana Cavani racconta "L'Antigone" attraverso la macchina da presa. In pieno clima di contestazione la tragedia di Sofocle prende vita nelle strade di Milano del 1969. La regista riscopre l'antica Grecia e la capacità dei suoi autori di raccontare storie universali e attuali. 
Il film inizia con una sequenza tanto agghiacciante quanto violenta: quattro bambini vengono fucilati senza alcun motivo davanti allo sguardo impressionato di Tiresia. Il giovane straniero si avvia verso le strade della città osservando i corpi privi di vita di ragazze e ragazzi, repressi durante le sommosse e lasciati marcire per terra, per ordine dello Stato. "Morte a chi seppellisce i corpi dei ribelli", si legge ad ogni angolo. Tiresia è affranto. In un bar incontra Antigone, ragazza dell'alta borghesia, pronta ad infrangere la legge pur di seppellire il corpo del fratello. Perfino la famiglia è contraria alla sua idea. Ma Tiresia è pronto ad aiutarla. Emone, fidanzato di Antigone e figlio del primo Ministro non è d'accordo con la decisione della ragazza. Poi, anche lui si converte alla causa, e accusa per primo il padre, tanto attaccato alle "sue" leggi da non rischiare di sovvertire l'ordine prestabilito. Milian, interprete di Emone, è perfetto nella parte di colui che, ormai conscio dell'empietà del governo, vuole regredire allo stato di animale…

I Cannibali è un film di Liliana Cavani del 1970 che racconta di una vicenda ambientata in un imprecisato futuro.
Come molti film e romanzi ambientati nel futuro, anche questo film si riferisce a un futuro distopico, in cui solitamente lo stato prende il potere ma la sua dittatura dilagante sfocia in episodi di violenza e repressione mentale.
I romanzi che trattano di distopia esistono fin dalla fine dell’Ottocento, con I cinquecento milioni della Bégum di Jules Verne per esempio, ma si sviluppano in modo dilagante a partire dagli anni ’30 con Aldous Huxley con il suo Brave new world e raggiungono l’apice con George Orwell e Ray Bradbury (il famoso Fahrenheit 451), non a caso nel Primo Dopoguerra e durante la Seconda guerra mondiale.
Uno fra tutti, George Orwell sviluppa la tematica della distopia nel romanzo 1984, in cui la volontà da parte del governo di tenere sotto controllo il popolo sfugge di mano e diventa una repressione culturale e fisica del vivere dell’individuo. Questo concetto si collega anche ad un altro suo romanzo, Animal Factory, in cui Orwell sviluppa la condizione in chiave politica, mostrando attraverso una metafora gli effetti distruttivi di una dittatura.
Nello stesso film della Cavani si può trovare un riferimento libero ad Animal Factory: gli animali affissano al muro delle regole e delle frasi a cui tutto il “popolo” della fattoria deve sottostare, e allo stesso modo in una scena del film vediamo le scritte “Ribelli=Spazzatura” e “I ribelli fanno vomitare” su una parete della città…

Rilettura avanguardista dell' 'Antigone', è un'operetta fantapolitica dalla straordinaria potenza iconografica, ma penalizzata da un certo didascalismo programmatico di fondo, e da una struttura narrativa a tratti inesistente, a tratti addirittura tipografica per quanto ripetitiva.
I neanche troppo velati richiami ad una sorta di 'cristologia laica' rischiano di stonare rispetto al complessivo afflato 'militante' ed orwelliano dell'opera, ma certo le strade (ballardiane, verrebbe da dire) disseminate di cadaveri 'intoccabili' e senza volto nè nome, nel centro d'una Milano-Nowhere apocalittica e tragicamente 'quotidiana', sono difficili da dimenticare.
Come nel miglior Petri l'ottusa autoreferenzialità - cannibalica, appunto - d'una casta dominante totalitaria e 'rispettabile', è resa attraverso il registro, sferzante, del grottesco. E i goffi sforzi 'esegetico-pedagogici' che l'inteligentia di Regime compie per tentare di comprendere le idealità dei 'ribelli', appaiono icona tragicomica dell'incomunicabilità tra Classi, allora e sempre.
Una simile, derisoria, ferocia si vedrà, di lì a poco, in capi d'opera della fantapolitica 'proletaria' come il 'Fantozzi' di Salce e 'Todo Modo' di Petri.
Un archetipo imperfetto ma necessario.



Grazie a te! - Jacopo Cullin

lunedì 26 febbraio 2018

Cinquant’anni di morti viventi. Con Romero il ’68 divenne horror – Steve Della Casa


Nel febbraio 1968 un giovane regista di «shorts» pubblicitari riunisce gli amici in un bar di Pittsburgh, in Pennsylvania. La richiesta è molto semplice: «Ho bisogno di 100 mila dollari, se riesco a mettere insieme quella cifra possiamo fare un film e guadagnarci anche qualcosa. Bastano 10 mila dollari a testa, oltre all’impegno di coinvolgere i vostri parenti e amici come comparse». Gli amici vorrebbero avere qualche informazione in più, ma il giovane regista non si sbottona: «Sarà un horror, uno di quei film che si possono vendere ai drive in e che piacciono tanto alle coppiette che li frequentano per starsene rinchiusi nelle loro macchine un po’ guardando il film e un po’ baciandosi».  

Detto fatto: i soldi vengono raccolti, la lavorazione inizia subito. Si girerà solo nei fine settimana: in quei giorni, infatti, le comparse non devono lavorare e possono stare sul set quanto è necessario per le riprese. Il copione intero non lo vede nessuno: il regista consegna ogni mattina le pagine con le battute e le scene che saranno realizzate in quel giorno. Niente di più. 

Figlio di immigrati  
Nasce così uno dei più clamorosi successi della storia del cinema. Il regista si chiama George Romero, figlio di immigrati (il padre è cubano, la madre lituana). Il film si intitola La notte dei morti viventi. Costato poco più di 100 mila dollari, incassa 15 milioni di dollari solo in America ed è venduto in tutto il mondo. Ispirerà seguiti (molti dei quali diretti dallo stesso Romero), remake ufficiali e clandestini, fumetti, serie televisive. Soprattutto, diventerà un film simbolo di quegli anni.  

Ad accorgersene per prima fu Pauline Kael, la critica del New Yorker famosa per i giudizi taglienti (due anni prima aveva ribattezzato «Tutti insieme piagnucolosamente» il musical per famiglie Tutti insieme appassionatamente). Secondo Kael, nel film convergevano Martin Luther King, Sigmund Freud e la guerra in Vietnam. E questo perché il protagonista era nero (e sarà ucciso per sbaglio dai «soccorritori»); una bambina diventata morto vivente uccide i genitori e li divora in un vero e proprio pasto totemico; i metodi che l’esercito usa per debellare gli zombie sono rastrellamenti coadiuvati da elicotteri, proprio come avveniva in Indocina e con risultati ugualmente fallimentari. Romero si divertì molto per quella lettura politica: «Io volevo fare un film che incassasse, ma non potevo nascondere a me stesso e agli altri che quelle bare che ogni settimana tornavano dal Vietnam avevano profondamente segnato me e i miei coetanei. C’era una guerra che nessuno capiva, e tanta gente moriva. Non si poteva fare a meno di raccontare quello stato d’animo, qualunque storia si volesse raccontare. Anche Bonnie and Clyde era Vietnam, anche Il laureato, anche Easy Rider. Non si poteva svicolare». 

Inchiodati alle poltrone  
Il film non spiega perché i morti riprendano a vivere e per quale motivo si accaniscano contro i vivi. Ma per novanta minuti si rimane inchiodati alle poltrone ancora oggi. Tutto è malsano, tutto va oltre i limiti che fino a quel momento il cinema si era dato. Nella scena iniziale un ragazzo al cimitero scherza con una ragazza, terrorizzandola. Sembrano proprio una coppia di fidanzati, ma in realtà sono fratello e sorella. Poco dopo il fratello, ucciso dai morti, cercherà di uccidere proprio la sorella. E in quella stessa casa che sembra il fortino assediato di qualche western trova rifugio anche la tipica famigliola americana con padre, madre e figlia. Peccato che la figlia sia stata contaminata, le sue prime vittime saranno proprio i genitori. I vivi perdono la testa, si ammazzano tra loro, dimenticano la solidarietà. Solo Ben, il nero, sa comportarsi come gli eroi del West: ma, come si è detto, questo non gli salverà la vita.  


Dario Argento vide il film, si entusiasmò, volle produrre il seguito che sarà girato dieci anni dopo con il titolo Zombi. Romero ne fu lusingato: «Dario aveva capito il valore politico del film, la sua natura sessantottina. Volle che il nuovo assalto dei morti viventi avvenisse in un centro commerciale. Il tempio del consumismo, violato da chi non può pagare, da chi non fa aumentare il Pil». Ovvero: il ’68 che sconfina anche nel cinema horror. 

Figlia mia - Laura Bispuri

unico film italiano al festival di Berlino del 2018, è quindi insieme il migliore e il peggiore dei film italiani.
Alba Rohrwacher fa la sua parte di donna perduta, un po' alcolizzata, un po' puttana, Valeria Golino fa la parte della brava donna.
all'inizio c'era stato un accordo fra le due donne, ma il tempo e le cose creano problemi.
toccherà a Sara provare a salvare le madri (come tutti i bambini adottati, anche se non lo sa, ma lei lo sa, ha due madri) e se stessa, è l'unica che ne ha la forza, anche morale.
Sara da bambina oggetto deve diventare un soggetto, un ruolo che fa tremare i polsi.
sfondo del film è una Sardegna povera, sottosviluppata, non è roba per turisti.
Sara (la bambina Vittoria nel film), ha una certa somiglianza con un'altra Sara (Cate, la protagonista di Bellas Mariposas, di Salvatore Mereu), per chi se lo ricorda.
buona (e terribile) visione - Ismaele





Stavolta mi pare che hai fatto un lavoro con le bambine che non sono la protagonista un po’ più difficile, mi parevano un po’ impacciate. Come è andata?
LAURA BISPURI: “Ti premetto che di solito quando vedo i film con i bambini al cinema non mi piacciono mai. Soprattutto i film italiani. Poi certo ci sono eccezioni e casi eclatanti ma la norma è che esco terrorizzata. Quindi ero preoccupata per questo casting. Ho girato soprattutto la Sardegna (ma non solo) per 8 mesi battendo tutte le scuole, alla ricerca della protagonista e poi le amiche le ho scelte tra le migliori che per un motivo o per l’altro ho dovuto scartare, è un gruppo di cui sono molto soddisfatta. Forse ti riferisci però alla scena in cui stanno in gruppetto e guardano il video sul cellulare facendo le antipatiche, quella è stata la scena in assoluto di cui abbiamo dovuto fare più ciak di tutto il film. Non era facile per niente e c’erano anche battute accavallate, inoltre non facevano che guardare in macchina. Se non lo faceva una, lo faceva l’altra, lì mi sono un po’ alterata e ho dovuto urlare ad un certo punto, è stato un momento non facile…”
Invece Sara, la protagonista, visivamente è perfetta. Fisico, capelli, colori…
LB: “Secondo me lei è proprio un fenomeno. Ho girato anche stavolta tutto il film con lunghi piani sequenza, e le coreografie erano particolari, più complesse che in passato. A lei chiedevo cose complicatissime dalla scena con il tappeto [in cui mette sua madre svenuta su un tappeto per poterla trasportare tirandola con le sue forze ndr] ad altre molto complicate, le chiedevo molto insomma, ma faceva tutto e non abbiamo dovuto ripetere nemmeno un ciak. Davvero è un talento”…

il lungometraggio della Bispuri è davvero una ventata di aria fresca, di cui a questo punto si avvertiva la necessità. Con Figlia Mia dimostra di essere cresciuta e di poter competere con vigore all'interno del circuito festivaliero. Forte di un cast perfettamente calato nella parte, in cui alla bionda Alba Rohrwacher tocca il ruolo della madre irresponsabile e alla mora Valeria Golino quello di Tina, si addentra con abilità nell'umana tragedia, e nella difficile posizione di una figlia confusa, senza mai confondere lo spettatore.
Non ci ammorba con discorsi contorti sul bene e sul male. Non fa subdolamente leva sui nostri sentimenti per indurci alla lacrima o, per lo meno, a parteggiare per una o per l’altra. Al contrario, percorre la via del melodramma e lascia sempre aperta la porta ad un futuro migliore. Non ci sono vittime ma persone con le loro complicazioni, i limiti e le cadute. Vediamo attraverso i loro occhi, siamo con loro ma non cerchiamo un colpevole. Abbiamo la certezza si rialzeranno anche quando la ricaduta è imminente.
Figlia Mia è una storia ambientata in Italia, ma non è per forza italiana. Fa riflettere senza suggerire un’opinione. È una fotografia lucida che si lascia ammirare evitando di divenire indigesta. Ha tutte le qualità che deve possedere un dramma per riuscire a farsi amare e trasformarsi in cinema d’autore.

Figlia Mia costituisce però un bel salto in avanti rispetto a Vergine Giurata anche perché possiede (cosa rarissima nel genere) un intreccio forte che coinvolge soldi chiesti, non prestati, cercati, un tesoretto da recuperare in una necropoli per non essere costretti a partire verso “il continente”, Udo Kier (!!) e soprattutto ha una maniera vincente di mescolare le acque. La madre naturale e quella che invece ha voluto la bambina si scambiano quasi i ruoli, il film le fa passare dal torto alla ragione con una naturalezza e una disinvoltura ammirabili, per non dare ragione a nessuno. Per tutto ciò Laura Bispuri deve ringraziare se stessa (e Francesca Manieri che ha co-scritto il film) ma soprattutto Alba Rohrwacher…

Privo di un fascino misterico e claudicante sotto il profilo strettamente narrativo, Figlia mia scoperchia davanti agli occhi del pubblico i problemi di un cinema studiato in provetta, costruito a tavolino senza che vi pulsi dentro la vita. Non c’è reale dolore, né partecipazione, nella messa in scena di Figlia mia, così come il fin troppo abusato pedinamento zavattiniano mostra la sua incapacità – in mani immature – a trasformare l’immagine in senso, e a farsi una volta per tutte sguardo. Ha l’aria di un film conflittuale l’opera seconda di Laura Bispuri, ma in realtà nasconde al proprio interno una visione comoda del cinema, sia come macchina dell’immaginario sia, ed è ancora più grave, come racconto dell’umano. Tutto appare al contrario sterilizzato, pulito là dove dovrebbe grondare sudore, sangue, volgo. Anche la vita sbandata di Alba Rohrwacher (poco ispirate sia lei che una stanca Valeria Golino: l’unica a risollevare le sorti è la giovanissima Sara Casu) sembra totalmente controllata da Bispuri, e assoggettata al suo volere. In un percorso metaforico didascalico e fin troppo facile perfino nella conclusione (si può avere una madre borghese e una madre imbastardita, e imparare da entrambe…), Figlia mia prosciuga ogni sintomo di vita, e lo riduce a immagine preconfezionata e buona per l’uso. Anche per l’esportazione. Al secondo capitolo della sua carriera da regista Laura Bispuri inizia a mostrare con forza le prove di una visione preoccupante, o per lo meno poco interessante, del cinema e della vita.

Premesse ambiziose e molto coraggiose, decisamente controcorrente, alle quali fa riscontro un film che parla con immagini crude ma conformiste nel loro sforzo eccessivo di tagliare ruoli netti alle protagoniste. Immagini manieriste nel loro simbolismo, girate nella Sardegna di oggi, ma non nella parte turistica e mondana dell’isola, bensì in un villaggio di pescatori e di operai che dalla pesca traggono il loro scarso sostentamento. Nella prima metà della proiezione si assiste a scene giustapposte delle quali è difficile dare una descrizione perché non sono legate da una trama memorizzabile. Da lì in poi il film inizia a prendere una direzione, che svela il motivo del legame tra le tre protagoniste: Tina (una Valeria Golino poco convincente), operaia devota alla madonna e alle opere pie nella locale parrocchia, ha una strana relazione che l’amica/rivale Angelica (Alba Rohrwacher che sembra una pallida imitazione della cattiva madre Nastassja Kinski di Paris Texas), relazione che si impernia su Vittoria, la figlia contesa, che nel film compie dieci anni ed è la migliore protagonista di questo film, la bravissima, espressiva e intensa Sara Casu…
Nella prima parte, fno a quando il film si mantiene nella sua fase di introduzione dei personaggi e di esplorazione dei loro ambienti, Figlia mia funziona bene. Bispuri ha un bel tocco, rispettoso, delicato, che ricorda quello di un’altra giovane regista italiana, Alice Rohwacher. Utilizza la camera senza pomposità, mettendola, e mettendosi, al servizio di storia e personaggi. Una camera di cui non avverti quasi la presenza, un cinema fluido e trasparente. E quella parte di Sardegna, quei paesaggi, quella necropoli calcinata produttrice di paure e incubi, non vengono mai degradati dallo sguardo dell’autrice a cartolina. Un film che sembra sintonizzato sul respiro dei suoi personaggi. Purtroppo il cinema è anche narrazione, e qui Figlia mia collassa. Se decidi di ri-raccontare la storia del figlio di due madri devi poi costruirla drammaturgicamente, renderla interessante e portarla da qualche parte, verso sviluppi non così prevedibli e un credibile finale. Qui no. Quando Tina e Angelica cominciano a contendersi Vittoria – perché fino ad allora un tacito patto tra le due aveva mantenuto l’equilibrio – Figlia mia sbanda, prende le parti ora dell’una ora dell’altra, e nel voler essere equanime e corretto rinuncia a scegliere depotenziando ogni possibile storia. Quando poi la ragazzina prende, dopo tanto silenzio, la parola, ecco uscire dall’innocente frasi rotonde e sentenziose, apparecchiate e fintissime con incorporata la moralina finale. Disastro, davvero…

domenica 25 febbraio 2018

I quattro dell'apocalisse - Lucio Fulci

un film sorprendente, sembra un western come tanti, e invece è eccezionale.
la sceneggiatura è di Ennio De Concini.
ci sono tante scene memorabili che basterebbero per diversi film.
è un film violento, divertente, terribile, commovente, con un Tomas Milian che diceva di essersi ispirato a Charles Manson, banditi, bari, alcolizzati, cercatori d'oro.
la parte finale, poi, è davvero indimenticabile.
non perdetevi questo piccolo grande film, un gioiellino sottovalutato - Ismaele






QUI il film completo (durata 1h e 44')



Meraviglioso, lirico, fisico, tecnicamente eccelso, I quattro dell'Apocalisse è uno dei grandi titoli crepuscolari del western italiano, genere che nel giro di pochi subisce una netta metamorfisi e sconta la perdita d'interesse da parte del pubblico, come quello americano. Un genere che dalla cenere nasce, che di morte si nutre già dal suo primo passo (il leoniano Per un pugno di dollari), si spegne nostalgicamente, perde i suoi eroi (che senza macchia non sono, pur rimanendo eroi) e si ritrova colmo di violenza insensata, di personaggi mansoniani (il Chaco, impersonato da Milian), di atmosfera infantile/fiabesca (pur se perversa/polverosa). Fulci, di suo, ci mette dei passaggi di pura poesia (il villaggio di soli uomini che adotta il bambino, il nero che parla coi morti e si aggira tra le tombe, sotto la pioggia), luci remingtoniane, tecniche di ripresa sopraffine.

Fulci sembra essere andato fuori tempo massimo per girare un film western. Il genere aveva passato abbondamente l'età dell'oro ed erano abbastanza rari vederli sullo schermo. In effetti è più un road movie di ambientazione western che un film di genere vero e proprio. I quattro protagonisti sono già di per sè perfetti prototipi dei reietti: Un nero folle, un alcolizzato e due rappresentanti delle professioni più antiche del mondo, una prostituta e un baro di professioni. Tra i paesaggi naturali e le musiche della colonna sonora si consuma la fine di una certa controcultura tipica di quegli anni, nel quale Chaco dello straordinario Milian ne rappresenta tutte le aberrazioni possibili immaginabili. Un film particolare a cui Fulci riesce a dare un buon equilibrio tra l'atmosfera crepuscolare, situazioni bizzarre ed esplosioni di violenza inaudita. Certamente non è il solito western.

I QUATTRO DELL’APOCALISSE è uno dei migliori western degli anni settanta. Più tradizionale e meno crepuscolare dello stilizzato e nervoso KEOMA. Benché superiore, a mio avviso, l’opera di Castellari – il film di Lucio Fulci naviga nel mare sicuro del genere canonico, con alcune infiltrazioni. Per esempio nella figura di Chaco si toccano picchi di violenza non indifferenti, ma lo script di Ennio De Concini offre una garanzia. Una sceneggiatura di ferro (scritta da un maestro dei generi) con alto tasso di arte artigianale italiana: un baro, una prostituta, un matto e un ubriacone sopravvissuti ad una strage in quel di Salt Flat intraprendono un viaggio di vita e morte. Stubby è il capo spedizione, rassicurante e cultore della pulizia; Bunny è in attesa di un bambino, quando incontrano una carovana di cristiani metodisti si spacciano per marito e moglie…

I quattro dell’apocalisse è un film del 1975, diretto da Lucio Fulci, con Fabio Testi. Esistono diverse versioni del film. A causa della crudezza di alcune scene all’uscita nelle sale la versione originale del film ricevette il divieto per i minori di 18 anni. Per ottenere un abbassamento del divieto a 14 anni, il produttore fece tagliare molte delle scene più crude, realizzando così la seconda versione, ma il divieto venne lasciato comunque ai minori di 18 anni…

Lucio Fulci è un genio. Da ragazzo ha parato un rigore a Mazzola (Valentino) ed è universalmente riconosciuto come uno dei maestri dell'horror e dello splatter. Nel 1975, anno in cui esce nelle sale "I quattro dell'Apocalisse", ha smesso di fare commedie e musicarelli. "I quattro dell'Apocalisse" è uno spaghetti western (Lucio Fulci ha già diretto nel 1968 il cruento "Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro" con Franco Nero che, per l'occasione, indossa le "vestigia" del "biondo" Clint Eastwood). La sceneggiatura è di Ennio De Concini e si basa su quattro racconti di Francis Brett Harte. Pistole, deserti, villaggi di minatori e villaggi fantasma. Puttane, ubriaconi. Reverendi che giocano a poker e i soliti, immancabili, mormoni (o meglio "la chiesa felice del Cristo vivente") svizzeri. Ma nel 1975 il genere stava morendo e Lucio Fulci, che si considerava un "terrorista dei generi", decide di arricchire la trama con il suo personalissimo stile.
"Uno degli unici tre western prodotti sino ad oggi nel mondo che sia vietato ai minori di 18 anni per la sua drammatica, feroce, violenza." Così recitava la frase di lancio. Il limite fu poi abbassato ai 14 anni. Ma alcune scene vennero tagliate. Marco Giusti, autore televisivo e critico cinematografico che nel 2007 ha curato la retrospettiva dedicata al western all'italiana per la Mostra del cinema di Venezia, lo ha definito un "western sadico". E' un western sadico e un road movie allucinato e psichedelico. I protagonisti sono quattro perdenti. Un baro, una puttana, un ubriacone e un matto che viaggiano attraverso il deserto. Come il capitano Willard che risale il fiume Nung fino in Cambogia. Come Capitan America e Billy che viaggiano attraverso gli Stati Uniti a bordo delle loro motociclette. Chaco è vestito come un hippy di Woodstock. E le bellissime musiche - da segnalare, alle percussioni, la presenza di Tony Esposito - di Bixio, Frizzi (Fabio) e Vince Tempera giocano un ruolo fondamentale nelle dinamiche della storia. Tomas Millian, in quello che è e resterà il suo ultimo western, è perfetto nel ruolo di Chaco e dichiarerà poi di essersi ispirato, nella caratterizzazione del suo crudele personaggio, al serial killer statunitense Charles Manson. Fabio Testi è ancora un attore.
"I quattro dell'Apocalisse" è un film violento. Ci sono vendicatori con il volto coperto che compiono massacri. Sceriffi corrotti e sceriffi scuoiati vivi. Stupri e banditi che si fanno di peyote. Cannibalismo. E vendette al sapore di schiuma da barba.

Grande western sadico di Fulci, che non lo considerava completamente riuscito perché non aveva un gran rapporto con De Concini, lo sceneggiatore imposto dalla produzione. "De Concini fece una brutta sceneggiatura. Io tentai di rifarla, ma era difficilissimo, perché De Concini ci credeva e non voleva variazioni di sorta" (Segno Cinema). Detto questo Fulci si scatena citando i quadri di Frederic Remington, fa omaggio a Leone, gira un grande finale ("credo che la cosa migliore siano gli ultimi 800 metri") e, soprattutto, costruisce dei grandi personaggi con attori che lui stesso impone al produttore. [...] Malgrado tutta l'energia spesa da Fulci il film non andò bene. "Quando uscì, non gliene fregò un c*zz* a nessuno, fece un insuccesso totale [...], Frizzi, il produttore, mi disse: 'Be', allora ho perso un po' di tempo...', infatti fu una brutta botta perché il film costò 500 milioni!" (Segno Cinema). Grande colonna sonora di Frizzi-Bixio-Tempera. Il gruppo Cook & Benjamin Franklin, che nasconde ovviamente i tre musicisti più Toni Esposito, Franco Di Lello e Massimo Luca, esegue "Movin' On", "Bonnie (Let's Stay Together)", "Was It All in Vain", "Let Us Pray", "Stubby (You're Down and Out)". Per la versione televisiva vennero tagliate le scene più sadiche, lo scuoiamento e lo stupro. Frase di lancio: "Uno degli unici tre western prodotti sino ad oggi nel mondo che sia vietato ai minori di 18 anni per la sua drammatica, feroce violenza".
STRACULT di Marco Giusti

sabato 24 febbraio 2018

intervista a Lucio Fulci

La nave dolce – Daniele Vicari

vedere questo film aiuta a capire quella cosa unica che è stato l'arrivo della Vlora in Italia.
Daniele Vicari riesce a raccontare quei giorni, in un documentario davvero sorprendente, bellissimo.
cercalo, non te ne pentirai - Ismaele






QUI il film completo (non buona qualità)


Il materiale utilizzato non può essere definito 'di repertorio' perché Vicari si è trovato di fronte a centinaia di ore di girato mai utilizzato da parte di televisioni private dell'epoca. Ha potuto così far rivivere ciò che era finito in un archivio grazie alle testimonianze di chi, per le ragioni più diverse, era salito sulla Vlora sperando oltre ogni speranza. Si tratta di un viaggio nel tempo che trasforma la massa apparentemente minacciosa appollaiata ovunque sulla nave (e poi ammassata sul molo e nello stadio di Bari) in uomini, donne, bambini. Ognuno con la propria storia. Tutti ripresi oggi su uno sfondo neutro tale da far risaltare i gesti del presente che richiamano quelli di quei giorni in cui la libertà e il benessere sembravano a portata di mano…

L'8 Agosto del 1991 il porto di Bari veniva violato da una nave brulicante uomini e speranza. Era la nave Vlora che da Durazzo trasportava migliaia di persone, anziché il consueto zucchero.  Il comandante era stato costretto a partire alla volta della Puglia da una fiumana di corpi che all'unisono assalivano un sogno di libertà con la fuga. Non ci avevano pensato su due volte, tutti svolgevano le loro normali attività fino a un momento prima - chi era in spiaggia con gli amici, chi lavorava, chi passava per caso - ma la vista di quella nave animò una corsa disperata per raggiungerla, con i corpi che si incastonavano fino alla cima più alta dell'imbarcazione. Così cominciava il viaggio verso l'Italia. Lamerica.
Come spesso accade, i sogni devono scontrarsi con la realtà. E l'Italia non era quell'Eldorado fantasticato né panacea di ogni male di povertà. La televisione, attraverso cui questo popolo aveva conosciuto il nostro paese, ne aveva alimentato la visione idilliaca, e si sarebbe palesata - di lì a poco - come schermo mistificatorio. Ad accogliere il primo grande esodo non una città impaurita ma un cordone solidaristico tra abitanti e istituzioni locali che disponeva i primi soccorsi, pur nell'impreparazione legittima. Circa ventimila persone sfidavano il caldo asfittico e la sete per lasciarsi alle spalle il regime. La stretta morsa della dittatura era diventata ormai insopportabile per una popolazione che anelava democrazia e libertà. Una storia che si ripete e che, come suole, si cristallizza in una statua che crolla buttata giù…

…Un film che racconta della transizione dell’Albania ma anche molto dell’Italia: fa sorridere, commuovere e indignare. Il regista collega quei fatti all’oggi ma senza inutili moralismi e sottolineature. Un documentario forte, solido, avvincente e da vedere, che ci aiuta a rimettere insieme tasselli di memoria e riflettere su chi siamo e come ci poniamo rispetto agli stranieri che arrivano.
“Siamo abituati alla tv del dolore, a sapere che fine fanno i protagonisti – ci ha raccontato a Venezia Daniele Vicari – questa vicenda non ha né lieto fine né un epilogo tragico, è ancora in atto. I testimoni non avevano bisogno di sottopancia o scritte che spiegassero chi sono. Contano le loro emozioni. E quella nave è una metafora senza tempo. Là sopra sarei potuto essere pure io che al tempo ero uno studente universitario e seguivo da lontano gli eventi. C’erano esseri umani sulla nave, non profughi, disperati o clandestini, semplicemente esseri umani che cercavano di cogliere un’opportunità”.
Come è nato il progetto?
Nel settembre 2010 alcuni produttori italiani e albanesi mi parlarono dell’avvicinarsi del ventennale e mi proposero un film sull’accoglienza in Puglia. Ho trovato tanti materiali, mi sono innamorato della vicenda e del suo aspetto metaforico. È una vicenda che si ripete ogni giorno da qualche parte del mondo e spesso in Italia. Allora non eravamo preparati, bisognava avere un atteggiamento di maggior accoglienza e umanità.
Come ha scelto i testimoni?
Non ho fatto delle interviste vere e proprie. Li ho messi tutti su un set con uno sfondo bianco per astrarre un po’ le loro testimonianze. E li ho lasciati parlare per ore. Hanno ricordato cose che loro stessi avevano dimenticato e si sono lasciati andare. Ho montato tutte le persone filmate, ma prima la mia cosceneggiatrice Antonella Gaeta ne aveva contattati e incontrati molti di più. Non abbiamo scelto quelli con le storie più interessanti, ma quelli più capaci di mettersi a nudo”.
E per le immagini di repertorio?
Ho cercato di conservare le emozioni e anche lo stupore degli operatori che per otto giorni a Bari cercarono di filmare quello che accadeva. Fu un momento di inconscio collettivo, ma gli operatori dimostrarono una grande capacità di narrare quei fatti, non solo testimoniare ma anche elaborare gli avvenimenti e realizzare immagini simboliche come la ripresa della bambolina che ho usato per il finale del film.
Ha pensato a film come “Lamerica” di Gianni Amelio o quelli più recenti di Emanuele Crialese mentre lavorava al film?
No, mi sono fatto prendere la mano dai materiali e dalle emozioni che mi hanno provocato. In ogni caso Amelio e “Lamerica” sono un punto di riferimento per me, hanno rivitalizzato il cinema italiano e sono contento che ora i registi della mia generazione siano tornati a raccontare la realtà.



QUI un’intervista con il regista


venerdì 23 febbraio 2018

Vergine giurata - Laura Bispuri

Hana è una ragazza cresciuta come un uomo, ha dovuto scegliere di crescere come un uomo.
a un certo punto va a cercare la sorella, sposata, con una figlia, vivono in Italia.
per Hana quel mondo albanese è finito, e la sorella la accoglie, e inizia la rinascita.
gran film - Ismaele



La regia di Bispuri ha una qualità ipnotica, soprattutto durante le sequenze acquatiche che stanno diventando un suo "marchio di fabbrica". I dialoghi sono ridotti all'osso, ma la storia è resa esplicita dalla limpidezza della narrazione e dalla recitazione intensa e rigorosa di Alba Rohrwacher, interprete di una femminilità di confine priva di vanità ma non di sensualità segreta.
La cinepresa che soffia sul collo dei personaggi, inseguiti da dietro, ricorda lo stile "documentario" dei Dardenne, e quella del "film di realtà" è evidentemente una scelta narrativa: non a caso Vergine giurata è prodotto, tra gli altri, da Vivo Film, che da sempre predilige questo genere. Ma l'appeal carnale delle immagini ricorda soprattutto l'opera di Lucrecia Martel, la regista argentina che ha raccontato la femminilità, soprattutto adolescente, in modo magistrale in La ciénaga e La niña santa (dove l'acqua assumeva la stessa valenza amniotica che ha in Vergine giurata). Entrambe le registe maneggiano con disinvoltura gli elementi naturali, e non hanno paura di ciò che può apparire osceno o imbarazzante. Attraverso di loro, la conoscenza del corpo e dell'animo femminile si fa forma filmica, e accende un altro riflettore su una realtà diversa (sommersa?) ancora poco vista al cinema.

…Laura Bispuri dimostra una sensibilità e un talento personale raro anche tra le poche registe italiane, condizionate quasi sempre dai modelli narrativi, molto maschili, di quel cinema “ufficiale” e centrale, che potremmo anche chiamare romano, e della televisione.
Segue il filo logico di una narrazione che evoca e spiega, e che pone Hana/Mark di fronte alle contraddizioni di una società urbana e moderna, senza però concedere nulla alla denuncia facile, al moralismo e al confronto dogmatico noi/loro. La regista si dimostra tale nell’invenzione di piccole situazioni che accennano, suggeriscono, e a volte propongono stacchi molto netti in direzione di una lettura più profonda, non dichiarata, ma che sta allo spettatore cogliere nella loro allusività.
Per esempio, ricorrendo alla musica solo in alcuni momenti, con una funzione più straniante che di commento e sottolineatura di situazioni. Per esempio con una riflessione sui corpi, sul corpo, che passa – nelle scene girate in una piscina, motivo ricorrente della parte italiana – dalla transitoria perfezione del geometrico ballo acquatico di due nuotatrici fisicamente perfette alla confusione dei corpi, belli e brutti, maschili e femminili, giovani e vecchi di un’altra scena di piscina.
Per tornare infine al corpo di Hana, un corpo vero, che Hana torna a scoprire riconquistandolo, così come non riscopre ma scopre il sesso in un modo titubante ma diretto, privo di romanticismi. Finalmente “libera di non essere per forza qualcosa” (un progetto che dovrebbe ovviamente riguardare anche i maschi, anche qui, anche ora). Ottimo esordio, dunque, e un’altra buona speranza per il cinema italiano non ruffiano.

…La Bispuri utilizza una tecnica mista, che prende molto dal cinema del reale (oltre allo stile di ripresa e al rispetto delle location, efficace e coraggiosa è la scelta di far parlare Mark in lingua albanese), senza rinunciare a momenti di lirismo che prendono forza dall'assoluta veridicità di ciò che vediamo. A cominciare dalle suggestioni indotte dagli inserti dedicati al rapporto tra la protagonista e il ragazzo conosciuto in piscina, in cui l'istintualità violenta e rapace dei personaggi sottolinea la volontà di liberarsi da qualsiasi tipo di condizionamento o sovrastruttura. Oppure, nelle due scene, quella delle ragazze che urlano di gioia, schiamazzando sotto i portici, e nella ripresa subacquea, con la soggettiva sulle gambe in movimento delle atlete di nuoto sincronizzato, in cui le pulsioni sessuali di Mark vengono anticipate dalla spontaneità di quelle esternazioni. Contribuisce al risultato una straordinaria Alba Rohrwacher, capace di calarsi nel ruolo con immedesimazione da Actors Studio. Il resto del cast, formato anche da attori alla prima esperienza non gli è da meno, a conferma di una bontà complessiva davvero sopra la media.

Initiant bientôt un voyage à travers les sens, au fil des souvenirs de celui qui est né Hana, Laura Bispuri compose un film proprement organique d’une intensité rare. Chaque étape introspective assoit la réalité culturelle et traditionnelle qui ôte aux femmes leur liberté faisant d’elles un objet que l’homme acquiert par quelque mariage. Bien que la réalisatrice mette en exergue les règles du Kanun dans une région précise d’Albanie, elle offre au film une dimension universelle sur la place de la femme dans la société et l’étroitesse des codes qui n’ont cesse d’en restreindre les droits.
Pour pouvoir être une femme libre, Hana s’est pliée à la norme masculine. C’est le même dessein qui a conduit Lila à fuir en Italie. Devenue Mark, le parcours de Hana est d’autant plus percutant qu’elle a totalement intégré les codes qui annihile la femme.
La découverte de Jonida au corps libéré, qui pratique la nage synchronisée, ancre un basculement. Si l’adolescente bouscule Marc, l’univers de la piscine où elle s’émancipe est un espace insécure pour lui car il y est contraint de masquer son corps là où la nudité des autres s’affichent. C’est aussi le lieu où la silhouette de Mark se confronte à celle d’un maître-nageur, telle une brebis face à un taureau.
Optant pour une mise en scène naturaliste, Laura Bispuri parvient à trouver une juste distance pour transcender les sensations vécues par son protagoniste. Ce faisant, portant des choix de cadrage pertinents sans jamais tendre à la moindre esthétisation, elle insuffle au film une réelle dimension organique. Les quelques emplois musicaux, telles des envolées marquant l’importance de certains instants, font sens, tout comme leur brusque arrêt. Il s’agit d’épouser le regard de Mark sur lui-même ; d’épouser son évolution et sa sensibilité. De comprendre son désir aussi.
L’interprétation d’Alba Rohrwacher– maîtrisant un idiome albanais très spécifique – est l’élément clé du film. Son corps se module comme son visage s’ouvre au fil de l’évolution de son personnage. De Hana à Mark et de Mark à Hana, elle ne cesse de se métamorphoser tout en transcendant une palette d’émotions d’autant plus troublantes que les mots manquent à son personnage qui se réfugie dans un mutisme et ne cesse de replier sur lui, sur la prison qui est son corps. Et si la confrontation à l’altérité marque son évolution, l’ensemble du casting est choisi avec soin si bien que les corps, souvent, parlent d’eux-même et que la sincérité de rapports gomme l’impression de toute représentation.

…A salvarsi è infatti anche la scelta di interrompere il film presto, senza dilungarlo eccessivamente e renderlo ridondante come volendo rischia di essere in rari momenti. D'altro canto il finale, forse un po' troppo conciliante, riesce a concludere alcune cose, ma a lasciarne aperte altre, tanto che si fatica a credere di essere arrivati ai titoli di coda così in fretta. Nonostante dunque il carattere esplicito di tutta l'operazione, Vergine giurata vanta splendidi ritratti di ambienti e atmosfere, inquadrature che alternano grandangoli (uno notevole nella solita piscina) e primi piani (con l'attenzione per i dettagli corporali), paesaggi mozzafiato e messa in scena di tradizioni misteriose, che non smettono di essere mai fortemente condizionanti e dopotutto positive. In effetti, la vergine giurata diventa una scappatoia per riuscire ad accettare la diversità in una comunità chiusa e bigotta, una possibilità che è certo più accettabile dell'assurda noncuranza per la dignità umana. Dunque, il bello del film è proprio il suo evitare qualunque intento folkloristico, rifuggire gli spiegoni, non condannare nessuno, e lasciarsi trasportare dagli eventi con una mdp mossissima e necessaria, che sa giocare con il montaggio e il sonoro e si fa portavoce di un futuro promettente per un'esordiente che speriamo di rivedere presto all'opera.


giovedì 22 febbraio 2018

La legge della tromba – Augusto Tretti

un altro film di Augusto Tretti, di quelli che vedi più volte e ti dice sempre cose nuove.
una storia con capo e coda, piena di economia, amore, amicizia, tradimenti, e trombe, di tutti i tipi.
un film ricco (di idee), folle, corto, denso, imprevedibile, da non perdere insomma - Ismaele


QUI il film completo



       Basterebbero le pause, i silenzi, e il pathos alto ed acuto di quelle rarefazioni improvvise in cui precipita, e che peraltro sempre sott'intende, l'azione, a dirci della personalità precisa ed intensa che affiora da questo film.
       E a saper sfuggire al solito e sterile tranello dei «riferimenti» (Vigo, Chaplin, Clair) si tratta a mio parere di una autentica eccezionale originalità.
       Insomma è un film che mi ha colpito e a tratti emozionato moltissimo.
Francesco Maselli

       La « Legge della Tromba» è il film più strabiliante che abbia mai visto, il più fuori dal comune. lo credo che dietro questo film ci sia una personalità.
       I produttori italiani oggi sembrano molto propensi a rischiare sui giovani. Io mi auguro che ce ne sia uno disposto a chiamare Tretti e fargli questo discorso: Ti lascio libero di fare quello che vuoi, dimmi solo cosa, quanto e quando.
       E chissà alla fine, fra le altre sorprese che Tretti riserberà, non ci sia anche quella della riuscita speculazione finanziaria.
Florestano Vancini

       La «Legge della Tromba» di Augusto Tretti ci fa ringiovanire. Contiene infatti gli estri, un po' anarchici, il salutare bisogno di nuovo, di diverso e anche gli errori della giovinezza.
       A me sarebbe piaciuto che la sua vena satirica, assai forte, si fosse italianizzata di più nei suoi bersagli, ma non vorrei far prevalere ora la critica di fronte a un'opera prima in cui si possono cogliere così spesso battute, immagini, invenzioni sonore cariche di quei valori creativi che sono così rari nella maggior parte dei films e che sono i soli che contano.
       Auguri con tutto il cuore per il suo secondo film che spero di vedere prestissimo.
Cesare Zavattini

       Ho veduto la « Legge della Tromba» di Augusto Tretti. Il film risente delle infinite difficoltà economiche incontrate durante la lavorazione e il suo linguaggio è tutt'altro che risolto.
       Ma, sottolineati questi limiti, bisogna aggiungere che siamo di fronte ad un'opera assolutamente nuova di un regista che domani sicuramente diventerà un autentico autore.
       Vengono in mente le fantasie di Charlot, i films di Tati, intere sequenze sono rette da un miracoloso equilibrio di ironia e di lirismo. Poi il film lavora nella memoria.
       E così Liborio, la seduzione, l'inaugurazione del trombifìcio, il consiglio d'amministrazione e le grandi manovre acquistano una precisione di linguaggio e una dimensione poetica per cui assolutamente secondaria rimane quella certa impronta goliardica del film.
       Io spero di vedere un altro film di Tretti e lo invito ad essere fedele sino in fondo alle sue idee ed al suo temperamento.
Valerio Zurlini

       Passato il primo momento di stupore, «La Tromba» suona nella mente con un timbro esatto e prolungato. Di rado il cinema italiano ha dato una verità così precisa come quei campi, quelle scarpate, quella desolata officina e quei personaggi, che demistificano la lustra apparenza dei "miracoli" economici e ritrovano una provincia farsesca e sinistra.
       Quelle che possono sembrare le debolezze del film sono invece la sua forza: quel che di smarrito, di disperso, di scucito. L'autore della «Tromba» salta sopra le nostre teste, e sopra quelle del pubblico viziato, ritrova lo stupore delle verità elementari. Se la parola poesia è troppo grossa, sceglietene un'altra. Ma, a quell'uomo, bisogna mettere in mano una macchina da presa: non capita spesso di poter sentir suonare il Dies Irae con l'accento stralunato e straziante d'una trombetta di latta.
Franco Fortini

       Io non mi intendo di films, perché, tra l'altro, sono un cattivo frequentatore di cinematografi, però 'le orecchie le ho buone e nel film « La Legge della Tromba}} ho gustato come raramente, e forse mai, la parte chiamiamola così musicale (dico chiamiamola così, perché in questo film pazzo anche la musica che lo accompagna è a suo modo pazza).
       Veramente le trovate rumoristiche e sonore per la loro essenzialità, ingenua ed elementarità fanno centro in certe situazioni e diventano elemento integrante con quello che avviene sullo schermo.
       Ricordo per esempio la musica gracchiante che accompagna le grandi manovre, che tra parentesi sono a mio avviso uno dei più bei pezzi del fìlm, la bandetta a bocca e le macchine del trombifìcio, senza contare gli innumerevoli piccoli rumori, come quando Liborio si gratta in testa...
       Insomma Tretti ha trovato una sua orchestra insostituibile e non mi resta che dirgli tre volte bravo per la trovata originale di aver supplito con mezzi primitivi al solito commento sonoro, senza contare l'originalità unica di questo suo lavoro che merita di essere visto e divulgato perché mi pare che segni nel suo genere, una tappa nuova nella storia del cinematografo.
Giorgio Federico Ghedini (Direttore del Conservatorio Giuseppe Verdi - Milano)

       La «Legge della Tromba» mi ha molto divertito. Qualcuno obbietta che il film ricorda Chaplin e Tati. Può darsi. Ma Tretti, il regista, non disponeva né di Chaplin né di Tati, disponeva soltanto di una cuoca settantenne, e tuttavia è riuscito a fare un film di alto livello comico. Vi sembra poco, in un paese dove il comico ha quasi sempre il tono della farsa dialettale?
       In questo giovane e nel suo film c'è estro da vendere.
Michelangelo Antonioni

       Dò un consiglio a tutti i miei amici produttori:
       Acchiappate Tretti, fategli firmare subito un contratto, e lasciategli girare tutto quello che gli passa per 1a testa. Sopratutto non tentate di fargli riacquistare la ragione; Tretti è il matto di cui ha bisogno il cinema italiano.
Federico Fellini


Un 7 come valore affettivo e per:
- Maria Boto che è esilarante, guardatevi il prologo su youtube!
- tutti i vecchietti che fanno un sacco ridere.
- il montaggio sonoro che ridicolizza la guerra e non può non far sorridere.
- il tipo di cui non viene inquadrata la testa (questo è puro genio)
- il coro anziani come colonna sonora.
- il contesto sociale nel film, ovvero una parodia del nostro sistema.
Insomma, quanta roba in un film solo! Ed è pure un esordio... peccato che la sceneggiatura sia molto confusa, ma bisogna anche comprendere che questo film ha passato non poche difficoltà!

Un film con una storia totalmente anticonvenzionale che se ne frega altamente da clichè imposti. Il prologo è esemplificativo di una volontà che vuole farsi sberleffo di fronte ad una logica commerciale. Lo è anche lo stile che proviene dal cinema muto, accompagnato da didascalie e un sonoro rifatto in studio totalmente antirealistico rispetto a ciò che fa vedere l'immagine. E' un film bizzarro come il suo regista che fa già vedere alcuni elementi che si ripresenteranno ne Il Potere.

 impiega attori non professionisti non perché gli interessi rappresentare la dimensione dell’uomo della strada – sto semplificando, il neorealismo presenta molte altre sfumature – ma in quanto i suoi film, ciò che vogliono dire, non necessitano della mediazione dell’attore. «I personaggi devono sembrare marionette che raccontano un discorso che deve servire a pensare» (8); l’autore adotta la “formula” della tesi, rinunciando a caratterizzare psicologicamente i personaggi, azzerando lo spessore drammatico del nucleo narrativo.
Grazie alla tesi Tretti ottiene «un effetto di ‘straniamento’ nei confronti del pubblico; esso non si identifica più, infatti, nel film e nella sua trama (ed in questo sarebbe stata complice una recitazione più impostata da parte degli attori), ma è indotto a pensare e a riflettere su quello che vede e che gli è ‘estraneo’. Da qui nasce appunto la necessità di attori non professionisti, che non recitano» (9).
Trasparenti a questo punto – ma anche perché ad affermarli è lo stesso Tretti – sono i legami con la tecnica teatrale usata da Brecht.
L’effetto di “straniamento” in Brecht avviene però, non solo attraverso la recitazione che annulla l’identificazione tra personaggio ed attore e la rinuncia da parte dell’autore alla messa in scena di conflitti psicologici particolarmente tesi, ma anche frammentando la rappresentazione in una serie di quadri, di stazioni, quasi slegate l’una dall’altra, al fine di appiattire l’eventuale tensione emotiva nello spettatore e rompere il tradizionale sviluppo della vicenda del teatro borghese…

Un film concretissimo come i suoi rumori di fondo,  opera di un regista capace come pochi di scardinare i meccanismi del potere. La parabola della banda di Celestino simboleggia l’uomo otto-novecentesco che passa dal rifiuto del sistema alla ricerca della omologazione nello stesso. I nostri passano dalle rapine alla fabbrica non riuscendo ad evitare il carcere. Le istituzioni che devono reprimere la volontà di trasgredire devono convincere allo stesso tempo l’uomo ottocentesco che conviene servire il proprio paese in guerra o andare a lavorare invece di andare in  prigione . Tretti ribalta il rapporto, il carcere diventa un luogo poco inospitale dove si mangia pure bene e da dove si può scappare facilmente con o senza la  grazia del governatore. L’esercito è un’istituzione facilmente sabotabile, poco efficiente e per niente in grado di assicurare la disciplina dei militari anche durante una semplice esercitazione . i cinque ormai vogliono lo stesso entrare nel sistema, vogliono lavorare e non gli interessa molto di essere sottopagati  se possono evitare di essere  emarginati. Il problema per loro è che prima o poi in economia l’offerta supera la domanda e la produzione deve essere spostata dove costa meno , dove il capitalista guadagna di più e l’operaio di meno. L’uomo novecentesco deve accettare una società post-operaia fatta di lavori strani e improbabili  dove l’ascesa sociale non è chiara e dove l’amore stesso segue logiche poco romantiche e molto materiali. Una visione paradossale ma lucidissima, unica e ironica, simbolicamente dialettica capace di tenere insieme la critica marxista alla borghesia e uno stile cinematografico  ruspante e artigiano casalingo e intelligente.

Eppure, di fronte al suo eccentrico esordio La legge della tromba appare subito chiaro che dietro una parvenza di anarchia formale e povertà di mezzi il regista mette a punto uno studio sottile e articolato, come mostra ad esempio l’accurato trattamento del sonoro – usato in senso creativo e non mimetico - attraverso il quale passano la maggioranza dei riusciti effetti comici del film (valgano per tutti le preghiere dei fedeli, ridotte prima a una nenia insensata e poi a un vero e proprio ringhio bestiale). E’ proprio l’assoluta e rara libertà espressiva che permette a Tretti di orchestrare con inaspettato equilibrio gli spunti più diversi: giochi di parole e invenzioni tra il Dada e il fiabesco, parodie, caricature, travestimenti (come quelli dell’anziana cuoca di casa Tretti, che qui interpreta ben quattro ruoli, peraltro maschili), fino a soluzioni visivo-scenografiche che nella loro autodenuncia di finzione suggeriscono un discorso meta cinematografico (le trombe di carta, il razzo “giocattolo”).
Il cinema di Tretti parla insomma una lingua tutta sua – sovversiva, fresca, sapientemente sgrammaticata - rifiutando mediazioni e compromessi, e proprio in questo sta il suo fascino insolito e farsesco, la sua ricchezza espressiva, la sua carica eversiva.