giovedì 31 agosto 2023

Il Terzo Cinema e i film davvero radicali - Michael Galant

 

Nel mezzo delle discussioni confuse e infuocate che ormai accompagnano ogni nuova grande uscita nelle sale, sarebbe utile riprendere l’eredità vitale di uno dei movimenti cinematografici più rivoluzionari del Novecento, quello nato in Argentina negli anni Sessanta

Barbie è una decostruzione radicale non solo del patriarcato, ma anche delle stesse convenzioni del cinema. Oppure è una pubblicità della durata di un film addolcita da luoghi comuni pseudofemministi. Oppenheimer è un’accusa feroce al genio tormentato la cui ambizione immorale non ha portato ad altro se non la distruzione assoluta. Oppure è una scintillante glorificazione dell’uomo dietro a una delle più grandi atrocità della storia.

La lotta politica sui temi degli ultimi blockbuster è scoppiata settimane prima della loro uscita. Proprio come le particelle quantistiche inosservate di Oppenheimer, i film esistono nell’era di Twitter in stati antitetici e simultanei: al contempo rivoluzionari e reazionari, woke e problematici. È molto semplice proiettare su qualsiasi film un’immagine esagerata della propria posizione (o di quella dei propri nemici).

Criticare il messaggio politico trasmesso dai mass media è certamente un’occupazione valida. Ma nel vasto oceano delle discussioni circolari e sterili della guerra culturale, è facile perdere di vista il porto. Cosa dovrebbe cercare sulla linea dell’orizzonte il cinefilo anticapitalista? Qual è la stella polare del cinema di sinistra?

Nell’epoca dei franchising di supereroi e remake della Disney, di film vincitori agli Oscar che inneggiano all’odio verso l’élite, e dei film impegnati alla Adam McKay, la sinistra farebbe meglio a considerare il modo in cui il messaggio politico di un film viene valutato, e quale potrebbe essere l’aspetto di una produzione cinematografica veramente alternativa e radicale. E non c’è punto di partenza migliore del Terzo Cinema.

La teoria del Terzo Cinema

Nell’ottobre del 1969, la rivista Tricontinental pubblicò un articolo scritto da due giovani registi argenti, Octavio Getino e Fernando Solanas, intitolato Verso un Terzo Cinema. Questo pezzo lungo ventitré pagine sarebbe diventato in seguito una sorta di manifesto, che esplicitava la teoria di un nascente movimento cinematografico, dando vita a un nuovo approccio alla regia politicizzata che rimane tuttora attivo, dopo più di cinquant’anni. 

Verso un Terzo Cinema osserva che la maggior parte dei film prodotti fino a quel momento potevano essere classificati entro due categorie. Il Primo Cinema era quello di Hollywood, con film prodotti da grandi corporation e il cui obiettivo primario era l’intrattenimento (e dunque il profitto). Un esempio sono i musical della Golden Age di Hollywood o i film della Marvel. Pur avendo dimostrato il potenziale dell’uso del film come mezzo per raggiungere un pubblico di massa, il Primo Cinema non aveva alcun intento radicale.

Il Secondo Cinema, invece, era molto spesso sperimentale, influenzato dalla visione artistica del regista e concentrato principalmente sulla sua espressione. Rappresenta sotto molti aspetti un passo avanti rispetto al Primo, forzando i vincoli del mezzo a obiettivi più alti del semplice spettacolo. Ma secondo Getino e Solanas, il suo potenziale politico è rimasto fortemente circoscritto dall’imperativo commerciale. Al peggio, il Secondo Cinema sarebbe diventato autocontemplativo e individualista; al meglio, avrebbe saputo testimoniare l’esistenza dell’ingiustizia e la sofferenza della classe operaia, ma senza per questo articolare una critica sofisticata delle relazioni materiali da cui deriva tale sofferenza, o immaginare alternative.

Riconoscendo sia i punti di forza che i limiti di queste due forme, Getino e Solanas hanno proposto un Terzo Cinema, che mirava esplicitamente a usare la forza cinematografica per formare e mobilitare le masse verso la lotta di classe e la liberazione nazionale. Probabilmente influenzati dall’opera del cinema sovietico degli albori, dal pensiero dell’educatore e filosofo Paulo Freire e, forse prima di tutto, dal teorico e drammaturgo Bertolt Brecht, Getino e Solanas denunciavano il fatto che l’industria cinematografica argentina era «predisposta ad accettare e giustificare la dipendenza, origine del sottosviluppo». Al contrario, i due registi spingevano verso la crescita di un cinema mirato a incrementare la coscienza di classe anti-imperialista del pubblico. Nelle loro parole:

La lotta anti-imperialista dei popoli del Terzo mondo e dei loro equivalenti all’interno delle nazioni imperialiste costituisce oggi l’asse della rivoluzione mondiale. Il Terzo Cinema è, secondo noi, il cinema che riconosce in questa lotta la più grande manifestazione culturale, scientifica e artistica dei nostri tempi, la grande possibilità di costruire una personalità liberata in cui ogni popolo è il punto di partenza – in una sola parola, la decolonizzazione della cultura.

Getino e Solanas non credevano semplicisticamente nel potere unilaterale dell’arte o del linguaggio di cambiare il mondo. Piuttosto, vedevano nella cultura uno dei vari nodi della contestazione. La produzione culturale era un mezzo potente dotato del potenziale di interagire in maniera dialettica con le condizioni materiali per spingere in avanti la vera lotta per la liberazione del Terzo mondo.

Nel libro Political Film, lo studioso Mike Wayne evidenzia i quattro elementi chiave con cui il Terzo Cinema punta a raggiungere questo obiettivo: la storicità (il film si situa nella storia, interpretata come «processo, cambiamento, contraddizione e conflitto»); la politicizzazione (il film esplora «il processo secondo cui persone che sono state oppresse e sfruttate prendono coscienza della propria condizione e decidono di agire»); l’impegno critico (se nessuna opera artistica è immune dall’ideologia, il Terzo Cinema abbraccia la propria prospettiva critica); la specificità culturale (il film è radicato nel contesto culturale specifico del proprio pubblico).

Forse l’espressione più chiara di questo approccio è il film di Getino e Solanas La Hora de los Hornos (L’Ora dei forni) prodotto nel 1968. Il film combina filmati originali e documentari d’archivio per costruire quattro ore di trattato sull’Argentina, sul suo passato coloniale, il suo presente neocoloniale, la sua stratificazione di classe e, non da ultimo, la necessità di una lotta per la sua liberazione.

Pur sfociando occasionalmente in un formato documentaristico più tradizionale, La Hora de los Hornos raggiunge i suoi picchi quando Getino e Solanas giocano con il formato, manipolando in modo quasi tangibile il potere del cinema di formare e interessare. Il film si apre con una batteria di tamburi, assaltando lo spettatore con immagini di conflitto sociale (proteste, repressioni violente, episodi di guerriglia), interrotte da cartelli contenenti slogan come «Liberaciòn» e «Un passato comune. Un nemico comune. Una possibilità comune». Una sequenza successiva mostra un montaggio di scene cruente di macelleria, pubblicità e cartelli che indicano, per esempio, la percentuale dei beni minerali argentini che appartiene a multinazionali straniere.

Per Getino e Solanas, il Terzo Cinema non era solamente definito dal suo contenuto e dalla sua forma, ma anche dal metodo di produzione e distribuzione. I due registi avevano fondato il Grupo Cine Liberación, introducendo nel processo di produzione cinematografica il controllo democratico e la titolarità operaia. Lavorando sotto una dittatura fantasma, e cercando di ridurre al minimo qualsiasi debito finanziario che avrebbe potuto minare il messaggio politico, il collettivo faceva affidamento su una «produzione di guerriglia», con piccole squadre che operavano entro un budget irrisorio, e spesso al di là dei limiti della legge.

La distribuzione seguiva uno schema simile. Vietato in molteplici luoghi, La Hora de los Hornos veniva di solito proiettato segretamente da organizzazioni politiche radicali e accompagnato da sessioni intense di dialogo e dibattito. Non tutti i registi del Terzo Cinema avrebbero soddisfatto gli standard rigorosi di produzione e distribuzione fissati da Getino e Solanas, ma la critica della produzione culturale capitalista e lo spirito di rigoroso coinvolgimento del pubblico che i due registi rappresentavano si sarebbe rivelato in ogni caso formativo per lo sviluppo del Terzo Cinema.

La pratica del Terzo Cinema

Pur se Getino e Solanas ne coniarono il nome, il Terzo Cinema non appartiene certo solamente a loro. Sia L’Estetica della Fame del regista brasiliano Glauber Rocha, uscito quattro anni prima, e Per un Cinema Imperfetto del regista e teorico cubano Julio García Espinosa sono saggi che hanno avuto una simile influenza sul potenziale politico del film. Ma più eloquenti di qualsiasi teoria scritta sono gli stessi film.

Il Terzo Cinema ha assunto molte forme. La batalla de Chile: La lucha de un pueblo sin armas (La battaglia del Cile: lotta di un popolo disarmato) di Patricio Guzmán usa video tratti da documentari per seguire il contraccolpo reazionario della presidenza di Salvador Allende. Yawar Mallku (Sangue del Condor) di Jorge Sanjinés è un dramma basato su una supposta storia vera della comunità Quechua che scopre che le loro donne sono state forzatamente sterilizzate dai Peace Corps statunitensi. Il film buffo e a volte bizzarro di Kidlat Tahimik, Mababangong Banhungot (L’incubo profumato), segue un autista di jeep filippino, ossessionato dagli Stati uniti e fan sfegatato di Wernher von Braun, nel suo viaggio di disinganno del mito dell’Occidente.

Molti film del Terzo Cinema rappresentano esplicitamente la lotta per l’indipendenza nazionale e politica: ambientato nell’Angola del 1961, il film Sambizanga di Sarah Maldoror tratta del viaggio di una donna per liberare il marito militante imprigionato, che aveva fatto parte del Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola. Altri, come il «padre» del cinema africano Ousmane Sembène, famoso per aver dichiarato che «L’Europa non è il mio centro», si sono concentrati invece sulla comprador bourgeoisie postcoloniale. Il suo film Xala, per esempio, narra la storia di un corrotto uomo d’affari senegalese condannato all’impotenza, sia politica che sessuale.

Pur se profondamente convinto della propria posizione politica, il Terzo Cinema non teme le sfumature o la complessità. Memorias del Subdesarrollo (Memorie del sottosviluppo) di Tomás Gutiérrez Alea raffigura la borghesia cubana come frustrata e sradicata in un paese che l’ha ormai superata, mostrando, nelle parole di un critico, «un ritratto compassionevole di un uomo che non merita compassione».

Anche se il Terzo Cinema viene generalmente prodotto da artisti del Terzo mondo, non si tratta di una regola assoluta. L’opera d’arte neorealista dell’italiano Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri viene spesso inclusa in questo canone, insieme al suo meno noto film Queimada. Né la definizione si applica solo ai film veri e propri. Agarrando Pueblo (I vampiri della povertà) dei colombiani Carlos Mayolo e Luis Ospina, per esempio, dura ventisette minuti e inizia come una satira anonima del feticismo della povertà per poi trasformarsi in qualcosa di molto più più potente quando la narrazione viene abbandonata per consentire a un attore (effettivo residente del quartiere rappresentato) di infrangere la quarta parete e articolare le proprie opinioni sul processo di produzione del film direttamente verso la telecamera.

Il Terzo Cinema come corrente artistica ha seguito la crescita e poi lo stallo del movimento del Terzo mondo. Ma non è rimasto interamente nel passato. Vent’anni dopo l’uscita del suo Touki Bouki, un classico del Terzo Cinema, Djibril Diop Mambéty ha girato Hyènes (Iene), un’allegoria dell’arrivo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (Fmi) sul continente africano, e della capacità di alcuni di sacrificare ogni cosa davanti alla promessa di ricchezza. Nel film del 2006 Bamako, del regista mauriziano-maliano Abderrahmane Sissako, le popolazioni africane mettono sotto processo l’Fmi e la Banca mondiale per i loro crimini contro il continente nel cortile della casa di una famiglia maliana. Man mano che procede l’udienza, gli altri membri della famiglia guardano un film-dentro-al-film in cui una banda di cowboy americani fa partire una sparatoria a Timbuktu; «Due insegnanti sono troppi», dice uno di loro prima di sparare.

Il Terzo Cinema attraversa decenni, continenti e generi, a partire dai film che hanno ispirato Getino e Solanas fino ad arrivare ai loro discendenti contemporanei, e più che costituire un movimento unito rappresenta un approccio e un impegno comune: usare il potere del cinema per portare avanti il progetto di liberazione del Terzo mondo.

Il Terzo Cinema, allora e oggi

Il Terzo Cinema non è immune dalle critiche. Nonostante la grandiosità dei suoi obiettivi, è rimasto un fenomeno culturalmente marginale. Pur avendo cercato un pubblico di massa, le grandi aspettative che il Terzo Cinema ripone sugli spettatori ne hanno allontanati e persino alienati molti.

Né si può dire che il Terzo Cinema abbia la prerogativa sui film politici. Dai maestri sovietici a Bong Joon-ho, passando per grandi movimenti di cinema radicale nero, femminista e queer, il film è stato usato come veicolo di cambiamento sociale sin dalla sua nascita. 

Ma il contributo del Terzo Cinema alla storia della produzione politica di film, vista come lo sforzo collettivo di mettere in pratica una politica radicale dalla produzione alla distribuzione al consumo, è enorme. Dove molti film sfruttano la rabbia e l’oltraggio per mitigarli, il Terzo Cinema dà loro una direzione. Superando il lamento sterile e superficiale sullo stato del mondo, il Terzo Cinema articola una critica sostanziale del sistema capitalista e imperialista. Invece di esistere in funzione del profitto, la raison d’être del Terzo Cinema è proprio sviluppare la coscienza di classe per contribuire culturalmente alla lotta materiale antimperialista.

Getino e Solanas chiudono il loro manifesto dichiarando che «la nascita di un Terzo Cinema rappresenta, almeno per noi, il più grande evento artistico rivoluzionario dei nostri tempi». Anche se questa affermazione può apparire drammatica col senno di poi, giungeva in un momento in cui le posizioni politiche del Terzo mondo sembravano in procinto di rimodellare le relazioni internazionali. Il mondo del 2023 è certamente molto diverso da quello del 1969, ma l’obiettivo fondamentale del Terzo Cinema, ovvero la decolonizzazione, non è meno urgente.

Non tutti i film devono necessariamente soddisfare gli standard del Terzo Cinema per avere un impatto politico, e ancor meno valore artistico. Barbie e Oppenheimer possono essere guardati con piacere, criticati, condannati o valorizzati senza alcun problema. Ma nel mezzo delle discussioni confuse e iperboliche che ormai accompagnano inevitabilmente ogni nuova uscita, l’eredità vitale di uno dei movimenti più influenti del cinema offre un approdo sicuro. Il Terzo Cinema è un memento del potenziale radicale del cinema.

 

*Michael Galant fa parte del Comitato internazionale dei Democratic Socialist of America (Dsa). Questo articolo è uscito su Jacobin Magazine, la traduzione è di Valentina Menicacci.

 

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mercoledì 30 agosto 2023

Gli amici di Nick Hezard - Fernando Di Leo

film un po' folle, a 100 all'ora, un imbroglio per rubare, una stangata, un orologio lo chiamano.

commedia degli equivoci e della truffa, non è un capolavoro, ma è divertente.

tutti gli attori sono sopra le riche, ma è il film che è sopra le righe, come diverirsi altrimenti?

merita la visione, senza aspettarsi troppo non si sarà delusi.

buona (truffaldina) visione - Ismaele

 

 

 

Bellissimo film di Di Leo, intrigante e ben diretto, una vera e propria bomba a orologeria(solo chi ha visto il film può capirla), pronta a scattare in qualunque momento.
Divertentissimo, scanzonato e favolosa la prova di tutti gli attori.
Davvero una piacevolissima sorpresa con una regia solidissima e un finale inaspettato.
Recuperatelo, è una chicca!

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Il film è una piccola gemma: ottimi attori (soprattutto Merenda-Hezard e Gabriele Ferzetti, a volte troppo sopra le righe Lee J. Cobb, ma ci sono anche Luciana Paluzzi, Valentina Cortese e una Dagmar Lassander da sturbo). Di Leo si avvale di una sceneggiatura che funziona come un orologio svizzero, paese dove tra l'altro è ambientato il film (con un po' di ingenuità, non si va in battello da Lugano a Zurigo...). Evidenti i problemi di budget e il richiamo alla Stangata, che chiaramente porta a ingenerose comparazioni.

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È nei film di questo tipo che viene fuori il grande talento del regista pugliese. Ottimo intreccio di truffe, inganni, manigoldi e furfanti nella grande tradizione de La stangata. Divertente, pieno d'azione e si ride anche, complice un Luc Merenda veramente sopra le righe (forse anche troppo) e un cast di comprimari veramente eccellente (Ferzetti, Lassander, Cobb). Da riscoprire (anche perché è considerato un film "minore" e ciò è inconcepibile).

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martedì 29 agosto 2023

Hardcore - Paul Schrader

un film su due Americhe, ieri come oggi.

la parte sana, religiosa, bigotta e quella malata, diabolica, tentatrice, due Americhe inconciliabili.

George C. Scott è il padre che ha la disgrazia di una figlia che scompare e si getta alla sua ricerca, dall'Iowa alla California.

ne passa di tutti i colori, scende sempre più a fondo nell'abisso del Male, ma non può farne a meno.

un film doloroso, inquietante e straordinario, un gioiellino da non perdere.

Paul Schrader non delude mai, è una certezza.

buona (porno-paterna) visione - Ismaele



QUI si può vedere il film, in italiano

 

 

“Hardcore” è un film completamente spaccato in due: il moralismo di Jake è costretto a scendere a compromessi con l’inferno della metropoli californiana, dove il bigottismo provinciale viene letteralmente divorato dall’edonismo che ruota attorno al sesso e al divertimento. È lo specchio di un’America che sta percorrendo due strade inconciliabili tra loro, due estremi privi di un qualsiasi equilibrio e quindi entrambi dannosi per l’essere umano. Un vicolo cieco perso tra ossessioni religiose ed emancipazioni forzate. Anche lo stacco tra il giorno e la notte è netto, così come il passaggio dal candore della neve alle invitanti luci al neon dei vari club della città. In questa magnifica location si muove un personaggio in cerca di giustizia (anche la giustizia privata segue il corso di “Taxi Driver”) ma soprattutto di verità, un sentiero ostile in cui l’indagine diventa sempre più torbida e affascinante.
Il regista sacrifica in parte la tensione puntando molto sulla caratterizzazione di Jake (eccelsa la prova di George C. Scott), il perno su cui girano tutte le vicende del film, un uomo cresciuto dentro una campana di vetro che scopre se stesso confrontandosi con un terreno inesplorato, almeno fino a quel momento. Con “Hardcore” Paul Schrader dirige un thriller atipico e coraggioso, da annoverare tra le sue migliori pellicole in assoluto.

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The man is played by George C. Scott, the girl by Season Hubley. They have moments in the movie when they talk, really talk, about what's important to them and we're reminded of how much movie dialogue just repeats itself, movie after movie, year after year. There's a scene in "Hardcore" where the man (who is a strict Calvinist) and the prostitute (who began selling herself in her early teens) talk about sex, religion, and morality, and we're almost startled by the belief and simple poetry in their words.

This relationship, between two people with nothing in common, who meet at an intersection in a society where many have nothing in common, is at the heart of the movie, and makes it important. It is preceded and followed by another of those story ideas that Paul Schrader seems to generate so easily. His movies are about people with values, in conflict with society. He wrote "Taxi Driver" and "Rolling Thunder" and wrote and directed "Blue Collar." All three are about people prepared to defend (with violence, if necessary) their steadfast beliefs…

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Schrader è riuscito a rendere disturbante il suo film donandogli una luce malata, realizzando delle immagini a tinte fortissime, sfruttando al massimo un attore di livello eccelso come George C. Scott con il quale ebbe durante le riprese un rapporto molto travagliato, pare che dopo l’ennesimo alterco Scott pretese che se avesse finito il film Schrader non avrebbe più fatto il regista, il talentoso sceneggiatore di “Taxi driver” acconsentì mentendo clamorosamente poiché sappiamo tutti benissimo che la sua carriera è proseguita fra alti e bassi, sta di fatto che l’immenso George C. Scott mangiò la foglia consegnando agli archivi uno dei suoi personaggi più riusciti per il quale dovette girare una scena molto scomoda per i suoi principi e mi riferisco all’esplosione di violenza innescata dalle pesanti parole dell’attore partner della figlia nel film porno che la vede protagonista, una sequenza di brillante brutalità.

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Il film è intelligente. Più che collocarsi fra un atteggiamento moralistico ed il divertimento gratuito, costruisce un resoconto cronologico in cui è lo spettatore stesso a scoprire e decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Le fredde zone rurali sono il contrappunto alla città, che a sua volta la notte si trasforma, con luci al neon dai colori vivaci che eccitano gli occhi ed i sensi, una grande vetrina sessuale nella quale gli uomini danno sfogo ai propri istinti più bassi in molteplici maniere: con prostitute, guardando pellicole o riviste pornografiche, assistendo a spettacoli dal vivo, e così via.
La fotografia del film, di Michael Chapman, è eccezionale, ricca e piena di sfumature e contrasti. Chapman ha lavorato in film come Ghostbusters IIIl fuggitivo Ragazzi perduti (The Lost Boys di Joel Schumacher, 1987). Ma ha anche reso lucente (dettaglio assai importante) il mitico Taxi Driver del 1976, una pellicola che condivide con Hardcore, girata tre anni dopo, stile, intenzioni ed aspetto.
Non è dunque irragionevole affermare che il film di Martin Scorsese abbia influenzato la pellicola di Paul Schrader [che del resto, per il capolavoro di Martin Scorsese scrisse lo script, ndr].
La sceneggiatura ha un ritmo sempre coinvolgente, pur se assai differente dall’idea originale che ha subito diverse trasformazioni. Nella prima stesura il personaggio di Jake avrebbe dovuto trovare la moglie scomparsa, non la figlia. Un’altra modifica sostanziale è presente nel finale. Nella sceneggiatura originale Jake nella sua oscura ricerca scoprirà che la figlia è morta in un incidente automobilistico, così l’uomo, sconfitto e a testa bassa, tornerà nello Utah provato dal tragico epilogo della sua ricerca.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Schrader, si basa su due punti fondamentali. Da un lato la vita religiosa ed austera del protagonista del film, che condivide con l’esperienza autobiografica del regista-sceneggiatore la medesima provenienza da un ambiente religioso ed austero. Jake, il protagonista, altri non è che il riflesso del padre di Paul Schrader che, dopo la visone del film, rimase profondamente offeso per gli evidenti richiami al proprio modo di essere e pensare. L’altro punto attorno al quale Shrader ha costruito la propria storia è il mondo del porno, che proprio alla fine degli anni settanta stava imboccando la strada del successo del decennio successivo, con attrici come Ginger Lynn, Barbara Dare, Tracy Lords, Tracy Adams, Kascha e molte altre ancora. Pertanto, come lo definì lo stesso Paul Schrader, Hardocore è un film congiunturale, una pellicola che ha voluto mostrare al grande pubblico il nuovo mondo del cinema porno, a quell’epoca in rapida ascesa nei costumi della società.
George C. Scott compie un lavoro di gran livello nella recitazione che, congiuntamente e parimenti alla forza del film, al ritmo, alla qualità visiva ed alla sua scrittura, fanno di questa pellicola un lavoro semplicemente eccellente, adulto ed intelligente.
Quel che non viene detto, è che tutto questo è reale ed accade di frequente negli Stati Uniti. La California è nella mente di molti una specie di paradiso idealizzato dove tutto è luce, bel tempo, felicità, spiagge e corpi abbronzati, stelle del cinema, glamour e Hollywood. Ed è proprio per questi motivi che molte ragazze nate in zone remote fuggono dalle loro case, da sole, con amici o con i fidanzati, emigrando in California in cerca di una vita migliore.
Ma la realtà è dura. Come molti altri luoghi, per vivere bene devi lavorare molto, guadagnare denaro ed aver una testa. Capita questo in California, perché si tratta di uno degli stati più costosi degli Stati Uniti. Affittare un piccolo appartamento, può facilmente venire a costare 1000 dollari, il doppio che in altri stati. In California tutto è costoso: l’affitto, il cibo, la vita giorno per giorno… E tutti sanno che quando tutto è costoso ed il denaro scarseggia, ogni cosa diviene dura, difficile e complicata. È uno contro con la realtà.
Per queste ragioni è assai frequente che molte ragazze alla ricerca di una vita migliore, più spensierata e libera, finiscano per fare le attrici di film porno, o esercitino la prostituzione o lavorino nei night-club. Questa è una realtà che è accaduta e sta accadendo innumerevoli volte (basta leggere le biografie della gran parte delle attrici porno per rendersi conto che questo è un denominatore comune per molte di loro). Il film mette in scena magistralmente proprio questa realtà, questo mondo.
Una grande pellicola che raccomando. La scena snuff è realmente inquietante. 

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lunedì 28 agosto 2023

Un marito sospetto - Christophe Lamotte

una storia sbagliata, un assassino della sua famiglia se la cava e dopo un po' di anni ha una moglie e un bambino.

nel film se la caverebbe se non fosse per una poliziotta testarda come pochi.

niente di straordinario, ma facendo zapping su Raiplay capita di vederlo, e va bene così.

buona (morte della famiglia) visione - Ismaele

 

 

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

 

…Pur cambiando i nomi dei protagonisti della vicenda, il film è chiaramente ispirato ad un caso di cronaca nera, noto come il Massacro di Nantes, avvenuto nel 2011 e che ha sconvolto la Francia. Quell’anno, infatti, il 21 aprile furono ritrovati i corpi senza vita di cinque membri della famiglia Dupont de Ligonnès, a Nantes. Questi appartenevano ad Agnès e ai suoi quattro figli ArthurThomasAnne Benoit. Ad essere da subito sospettato dell’omicidio è stato il membro mancante della famiglia, ovvero Xavier, marito di Agnès e padre dei quattro ragazzi. Le vittime sono state drogate e poi uccise con un fucile lungo calibro 22 mentre dormivano, per poi essere seppellite sotto il patio nel giardino sul retro della loro casa.

Già dai primi giorni di aprile si iniziarono a notare strani comportamenti da parte della famiglia, che sembrava in procinto di trasferirsi. Xavier viene infatti visto più volte caricare l’auto con grandi bagagli e tutti i pagamenti in sospeso della famiglia vennero saldati in quei giorni. Dall’11 aprile Xavier inizia però a spostarsi in varie località della Francia, venendo avvistato o tramite telecamere di sorveglianza o tramite i pagamenti da lui effettuati. I vicini iniziano però a sospettare che il resto della famiglia sia ancora in casa e pertanto allertano la polizia, che il 21 aprile individuerà appunto i corpi. Da subito Xavier fu accusato degli omicidi, avendo inoltre acquistato diversi chili di calce nei giorni precedenti ed aver ereditato poche settimane prima lo stesso fucile con cui la famiglia è stata poi uccisa.

Quando il mandato d’arresto nei confronti di Xavier è stato emanato, però, di lui non vi era ormai più traccia. Probabilmente scappato definitvamente subito dopo aver commesso l’omicidio, Xavier non è infatti mai stato trovato, facendo di questo un caso irrisolto. Negli anni sono giunte varie segnalazioni di avvistamento, ma nessuna ha mai portato ad effettive conferme né di conseguenza a localizzare la posizione dell’uomo. Alcune teorie sostengono che Xavier possa essersi suicidato, ma se così fosse il corpo non è mai stato ritrovato. La polizia spera ancora oggi di individuare Xavier, ma è difficile se non impossibile stabilire in quale parte del mondo egli si trovi ora…

da qui

 

Leggo recensioni severe e purtroppo non riesco a smentirle. Il tema teoricamente sarebbe interessante, ancorché già declinato in svariate salse, ma la sceneggiatura scricchiola, penalizzata da, buchi temporali,dialoghi banali e soprattutto da una scarsa introspezione psicologica dei personaggi, che invece costituisce il nodo centrale della vicenda: quanto e cosa si può capire circa l’indole di una persona, che si frequenta intimamente e per tanto tempo? Come è possibile, per una moglie, prendere una cantonata siffatta e scambiare l'incarnazione del male, per un esemplare marito e padre di famiglia?

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domenica 27 agosto 2023

Oppenheimer - Christopher Nolan

Di Christopher Nolan (uno dei registi più grandi in attività) si potrà dire di tutto, ma non che i suoi film lascino indifferenti o che siano girati avendo come obiettivo altro che la perfezione.

Tre ore che non annoiano, in un film di scienza, spionaggio, amore, amicizia, dubbi, ignobiltà, coraggio, fra le altre cose.

Gli attori sono tutti bravissimi, Cillian Murphy in primis (già ottimo attore nei film di Neil Jordan e Ken Loach, fra gli altri) e Robert Downey Jr, in un ruolo di pezzo di merda, vendicativo e maccartista, e tutti quanti.

Oppenheimer è un grande fisico, un genio, gli propongono la missione impossibile, non si tira indietro. Ha carta bianca per costruire la bomba atomica prima dei tedeschi, costruiscono per il suo team di teste d'uovo un villaggio nel deserto*.

Lui è un utilissimo e preziosissimo idiota, per Truman e la sua cricca, banda di assassini senza rimorsi, quelli restano al pilota dell'Enola Gay e a Oppenheimer.

Il complesso economico militare era già ben rodato.

La figura di Oppenheimer è complessa, ha molte facce, è insieme ingenuo, ma anche non lo è, e non sa dire bugie, grave difetto in quel mondo che prima lo ha messo sul piedistallo e poi l'ha schiacciato nella polvere.

uno dei film più grandi della stagione (italiana) 2023-2024.

non perdetevelo, se vi volete bene.

buona (atomica) visione - Ismaele


*quando Oppenheimer propone di restituire quel pezzo di deserto, dove era stata edificata Los Alamos, agli indiani, gli ridono addosso, noi siamo i distruttori del mondo, non in teoria, ma in pratica, si fottano gli indiani, e anche tu, Oppenheimer, ormai ci servi più.

ps: un film non è un saggio storico; se c'è bisogno di scriverlo, ecco, l'ho scritto.



 

…Nel ‘45 Hitler si era sparato nel suo bunker e il Giappone era allo stremo, lanciare quella bomba non era più una priorità difensiva, anzi era la crudeltà più imprudente che si potesse commettere. Nolan ci mostra i vertici militari e governativi a questionare su quale obiettivo colpire: un sito abbastanza grande, di impatto mediatico, sufficientemente abitato da civili, ma non troppi, per carità. Gli Usa potevano scegliere se infierire sulla popolazione o tirare il freno a mano, se affermare la propria superiorità militare o scegliere la lungimiranza e la saggezza. Oppenheimer era al bivio della sua vita e della storia, una particella tra due fenditure: andare fino in fondo alla sopraffazione con l'ordigno più potente al mondo o calmare le acque e optare per la condivisione di quelle esiziali informazioni. Condivisione o sopraffazione? Un’altra polarizzazione.

Era una questione di potere. E il potere è contrario all’unione, potere è ciò che divide, come fa etimologicamente il diavolo, forza ontologico-centrifuga.

La decisione del nostro anti-eroe sta in una citazione della Bhagavadgita, Canto del Divino: “sono diventato Morte, il distruttore di mondi”. Oppenheimer credeva davvero a ciò che affermava, e cioè che un’arma così tremenda avrebbe avuto un effetto scoraggiante e quindi avrebbe vincolato l’umanità alla pace? Oppenheimer il distruttore di mondi era un costruttore di pace?

L’opera di Nolan inizia come un problema algebrico-chimico e diventa un problema di teodicea: come spiegare la presenza del male nel mondo e la spinta folle dell’uomo verso di esso, se c’è un Dio provvidenziale?

NON E’ UN FILM DI PROPAGANDA

Quello che accadde sulle due città è storia, e Nolan non ci mostra un solo fotogramma confuso e poche parole della devastazione nelle città giapponesi. Questo sgomenta, ma del resto è una narrazione della vita di un personaggio e non un documentario di storia.

La terza ora del film è invece spesa dal regista nel raccontare la vendetta personale di Strauss, presidente della Commissione per l’energia atomica degli Usa, nel tramare la rovina di Oppenheimer[6], titano caduto che si fa mangiare il fegato in udienza, per punirsi del rimorso. Il processo è truccato, ma il giudice della sua coscienza è ormai inappellabile. Il dilemmatico scienziato è precipitato in un buco nero dal quale non si vede nessun orizzonte catartico. L’espiazione personale del fisico, è darsi in pasto a un processo viziato. Il suo Tartaro era il senso di colpa anche se non appare mai palesemente pentito del suo frutto nefasto. Robert il ravveduto, Robert il colpevole ostinato.

L’ultima impresa titanica (!) di Nolan non è un film sulla Seconda guerra, e neppure propriamente sulla bomba, e non ci pare neppure un film di propaganda; è un film sulla condizione esistenziale lacerante dell’essere umano. Nolan non scagiona Oppenheimer e non ne fa un capro espiatorio delle azioni americane. Non si tratta di caricare il peso del mondo su un uomo solo, sarebbe riduttivo e falso.

Questa fatica di Nolan è un film biografico-storico che diventa un thriller di spionaggio, e durante la prima ora sembra talvolta di vedere la regia di Malick, per la meraviglia che rimbalza tra atomi incandescenti e stelle brillanti sulle rughe del tormentato protagonista. Sullo schermo vediamo un film apocalittico “retroattivo” che ci porta all’innesco delle reazioni atomiche che potrebbero trascinarci verso la fine della specie umana: l’innesco è nel film, lo svolgimento sta a noi…

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…Attingendo alla pietosa magrezza di Cillian Murphy – che ha raggiunto attraverso una drammatica perdita di peso che difficilmente poteva permettersi – e alle possibilità più morbide del suo viso con la bocca rosa e gli occhi grandi, Nolan ci presenta un naif perennemente distratto, teneramente eccentrico che si lascia trasportare dalle proprie visioni ed entusiasmi finché non è troppo tardi per fare i conti con le conseguenze schiaccianti di ciò che ha fatto. Non ha molto senso, in particolare, la ben nota e imponente ambizione di Oppenheimer.

Potrebbe certamente aiutare a spiegare alcuni suoi comportamenti altrimenti sconcertanti, come la sua insistenza nel comparire davanti al tribunale riunito per rimuovere il suo nulla osta di sicurezza e offuscare la sua reputazione in forme potenzialmente fatali per la sua carriera titanica. Accadeva nell’era delle liste nere di McCarthy per partecipazioni al comunismo molto minori rispetto a Oppenheimer, per quanto frammentarie fossero le sue attività concrete. Nel 1954, le probabili conseguenze erano ovvie. Lo stesso Einstein avvertì Oppenheimer di non apparire e poi, quando Oppenheimer si rifiutò di ascoltare, lo congedò con un’osservazione tagliente al suo assistente: «Ecco un narr», che in tedesco significa «sciocco».

Il rifiuto di Oppenheimer di evitare l’udienza è attribuito al suo sincero patriottismo, ma sicuramente anche il suo senso di importanza personale e intoccabilità ne facevano parte.

Come dimostra il film, una volta ricevuti gli attacchi della commissione, Oppenheimer divenne morbido e cauto in un modo che fece infuriare sua moglie, che voleva che lui combattesse con forza contro le forze del governo statunitense che stavano dietro alla lista nera. Nolan lo rappresenta come una sorta di «martirio di Saint Oppenheimer», ma una certa quantità di grossolano carrierismo avrebbe potuto essere più evidente, come quando sua moglie grida: «Perché non combatti?».

Dopotutto, aveva molto da perdere. Come dimostra il film di Nolan, Oppenheimer nel dopoguerra era famoso, considerato il massimo scienziato d’America e forse del mondo, celebrato sulla copertina della rivista Time. La sua convinzione di poter aiutare a condurre la gestione delle armi nucleari da parte del governo lungo linee più umanamente attente lo fece davvero licenziare da Harry S. Truman in quanto «piagnucolone», ma il fatto è che in realtà veniva consultato dal presidente su ogni altra importante vicenda in corso.

Quello di Nolan è il tipo di film che presenta una battuta astoricamente drammatica e una pausa con brivido di orrore del pubblico quando qualcuno menziona il nome di «Los Alamos», la misteriosa località nel deserto dove è avvenuta la costruzione segreta della bomba atomica e il sito dei test di Oppenheimer. C’è esattamente lo stesso tipo di brivido antistorico in Via col vento (1939), quando Rhett Butler cita la battaglia che si sta preparando in una piccola città della Pennsylvania che potrebbe decidere il destino dell’intera Guerra civile, chiamata – pausa esasperata – «Gettysburg». È banale da morire, ma piace sempre alla folla…

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Al loro apice, i film di Nolan sono davvero intelligenti nella concezione e nella costruzione. Gli illusionisti di The Prestige, che impazziscono nel tentativo di superarsi l'un l'altro, sono figure decisamente nolaniane. La struttura tripartita di Dunkirk, che intreccia linee di trama che si svolgono in periodi di tempo distinti, è altrettanto ispirata. Nel peggiore dei casi, le sue opere di diventano troppo pensose e pretenziose. Le meccaniche di distorsione della realtà di Inception, Interstellar e Tenet, a malapena comprensibili, sanno di sciocchezza. Oppenheimer sembra allo stesso modo ossessionato dalla risoluzione dei problemi. Per prima cosa, Nolan si pone delle sfide. Per esempio, come rappresentare una reazione di fissione subatomica in Imax? Come fare di un biopic su un fisico teorico un blockbuster estivo di grande intrattenimento? Poi si mette all'opera. Oppenheimer riesce a mantenere il pubblico col fiato sospeso e a far sì che le polverose conversazioni e le verbose deposizioni a porte chiuse sembrino il materiale di un thriller teso e avvincente. Ma quello che sfugge a Nolan è la metafisica più profonda alla base del dramma.

Il film ritrae l'Oppenheimer interpretato da Cillian Murphy più come uno scienziato metodico. Il fisico, invece, era un pensatore profondo e radicale la cui mente affondava nel mistico, nel metafisico e nell'esoterico. Un film come Tree of Life di Terrence Malick dimostra che è possibile rappresentare in un kolossal anche questo tipo di idee anche, che però sembrano non sfiorare nemmeno Nolan. A voler essere generosi, si potrebbe dire che la struttura a salti temporali del film rifletta la nozione di tempo non lineare della Gita. Tuttavia, il rimescolamento della cronologia della storia da parte di Nolan sembra più nato dall'istinto dell'uomo di spettacolo di conservare il “grande botto” per il climax. Quando la bomba esplode, e i suoi torrenti di fuoco riempiono il gigantesco schermo Imax, non c'è la sensazione che Vishnu si stia rivelando in quello "splendore di mille soli". È solo un'immensa esplosione. Il regista è in definitiva un tecnico del mestiere, e proietta questa sua personalità su Oppenheimer. Reagendo agli orribili e ingiustificabili bombardamenti di Nagasaki e Hiroshima (che non vengono mai rappresentati sullo schermo), l'Oppenheimer di Murphy li definisce "tecnicamente riusciti".

Se valutato rispetto alla vita del soggetto al centro del film, Oppenheimer può apparire deludente. Non riesce a comprendere la visione del mondo, più ampia e sostanziale, che ha animato l'esistenza, il lavoro e il tormento morale del suo protagonista. Se confrontato con le ambizioni più puramente pratiche dello stesso Nolan, forse la cosa migliore che si può dire del biopic è che – parafrasando le parole pronunciate dal fisico nel momento della sua ascesa allo status di dio distruttore del mondo – funziona. È un successo, anche se solo da un punto di vista tecnico.

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…Superato lo scoglio della prima ora, Nolan inizia a tirare le fila del discorso, senza però rallentare nel ritmo né nella costruzione della tensione. Perché il film stesso è un ordigno esplosivo e più ci si avvicina all’azzerarsi del conto alla rovescia più il terrore per la detonazione diventa palpabile. Un esplosione che diffonde il suo eco fino ai nostri giorni, giorni di guerra, di minacce nucleari e, appunto, di morte e distruzione. Il regista ha definito Oppenheimer un horror e nel procedere della visione tale affermazione si spiega e trova dunque conferma.

Perché con Oppenheimer si esplora come il peggio di certi eventi non si manifesti necessariamente subito, ma possa invece avere un impatto sull’umanità con effetti ritardati. Proprio come avviene nel film al momento dell’esplosione: prima la luce, solo in seguito il boato. Tutta la seconda parte della pellicola mira dunque a riflettere su ciò, assumendo le sembianze di un monito senza però che questo si presenti in modo didascalico. Il racconto e i personaggi ci parlano di un dato evento, rendendo però sempre ben chiaro quanto la sua onda d’urto si sia tutt’altro che estinta. È allora da qui che cresce l’emozione e la potenza del film, evidentemente “nolaniano” ma allo stesso tempo diverso dalle sue precedenti opere.

Paul Schrader ha definito Oppenheimer il film più importante di questo secolo. Un’affermazione forte, tutta da verificare, ma che potrebbe non essere così azzardata. Ci sono opere in grado di diventare le perfette definizioni del periodo in cui vengono prodotte e il nuovo film di Nolan, pur parlando di un evento passato, potrebbe diventarlo per questi nostri tempi. Perché? Perché per Nolan Oppenheimer è stato l’uomo più importante mai esistito, moderno Prometeo che ha consegnato all’uomo lo strumento definitivo con cui autodistruggersi. E di fronte all’idea di quel frastuono, di quella luce accecante e a quei timori che si fanno strada sottopelle, non resta che chiudere gli occhi.

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sabato 26 agosto 2023

Submergence - Wim Wenders

una storia d'amore, d'acqua, di rischio, di vita e di morte.

James e Danielle s'incontrano in Normandia e va da sè che s'innamorano.

poi succede di tutto, nessuno sa niente dell'altro, ma non smettono di pensarsi,

buona (acquatica) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

Wim Wenders ha sempre sondato l’abisso (in)visibile dei sentimenti umani, concependo le proprie immagini come il falso movimento necessario per dar forma proprio a quelle dimensioni interiori. Da questo punto di vista Submergence è un film intimamente wendersiano: produzione e cast internazionale, stile e referenze transnazionali, tematiche universali che ci immergono nella storia recente. Tra la perturbante alienità dei fondamentalisti che rapiscono James e la ricerca dell’origine della vita che risucchia Danielle (quindi tra l’oblio della storia e il buio dell’oceano) scocca una scintilla di luce in quel semplice incontro amoroso. Un fantasma di memoria che torna ossessivamente nel fuori campo delle loro vite: il cinema si configura quindi come tempo sospeso e dilatato che impasta le immagini di Alain Resnais con quelle di David Lean, gli umori di Nicholas Ray con quelli di Terrence Malick…

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Submergence è diviso abbastanza brutalmente in due tronchi. L'innamoranento: unità di spazio e tempo, monologhi, piani sequenza; l'allontamento: distanze spaziali e temporali, montaggio alternato, movimento e azione. La prima parte è forse la migliore: il centro sono i corpi dei due attori protagonisti, convintissimi e fisicamente votati alla causa, probabilmente motivati dalla presenza stessa del veterano in regia. Wenders ritrae lo svilupparsi del rapporto tra i due interessanti personaggi attraverso primi piani sinuosi e patinati, lunghe scene di confronto e dialogo. Poi l'idillio finisce, e il film cambia ancora.

La seconda parte è cinematograficamente forse più interessante, ma meno potente: Dani recede al ruolo di Penelope in attesa, e il film vira su una svolta politica piuttosto pretestuosa. Troppi cliché, troppa insistenza sulle sequenze di James e del suo conflittuale rapporto con terroristi da cartolina. Ampio spazio, invece, lo acquistano le riflessioni tra il mistico e il naturalista di Wenders: affidandosi quasi esclusivamente a inquadrature mute e stacchi di raccordo (superando in questo senso la tentazione dei flussi di coscienza malickiani), vediamo colmarsi la distanza di personaggi, di anime e di mondi (l'Europa civilizzata e l'Africa sanguinaria) attraverso il contatto con elementi primari quali luce, sole, rocce; e ovviamente l'acqua, centrale fin dal titolo, nel suo eterno doppio ruolo di Madre generatrice e mortifero oblio uterino. E' questo brodo primordiale dell'umanità, in cui Dani intende immergersi per trovare l'origine della vita, che si rivelerà il tramite tra i due amanti oltre lo spazio e il tempo.

L'occhio personale del regista rende in fin dei conti impossibile scambiare il  film con un prodotto di largo consumo. Poco oltre non si va, ma l'anima di Wenders è presente, e il suo sguardo pure.

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Per sommi capi si potrebbe definire una storia d’amore tra due persone fuori dal comune che si troveranno forzatamente a subire il dolore della lontananza. Wenders innesta, al classico film sentimentale, una storia di spionaggio, con McAvoy rapito dai jihadisti e tenuto a marcire in una fatiscente cella. Le due parti riescono perfettamente a intersecarsi, creando una pellicola originale, con dialoghi ficcanti e una fotografia di assoluto valore. La Vikander e McAvoy formano una affiatata coppia di protagonisti, dimostrando tutta la loro bravura.

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giovedì 24 agosto 2023

La supertestimone – Franco Giraldi

Monica Vitti e Ugo Tognazzi sono spettacolari, Isolina è una povera zitella che riesce grazie alle sua testimonianza a far condannare Marino per omicidio.

poi succedono cose incredibili e vedere loro due è proprio una gran cosa.

cercate Monica e Ugo, un regalo.

buona (galeotta) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

 

Attenzione a non farsi sviare dal titolo o dall'incipit, con il rottame di un auto recuperato dal Tevere e cadavere a bordo. Nessun giallo, se non qualche incrocio molto marginale col genere. Il film è invece una non disprezzabile analisi della vita carceraria vista attraverso gli occhi di Marino Bottecchia (Ugo Tognazzi), condannato a vent'anni per l'omicidio della prostituta con cui viveva. Nessuna vera prova, solo "gravi indizi" culminanti nella testimonianza di Isolina (Monica Vitti), una maestra d'asilo "privata" che la sera incriminata dice di averlo visto sul luogo del delitto. Basta? Poco importa: il processo si risolve in modo surreale tra intonaci che cadono e immagini distorte, conta solo la vita a Regina Coeli e il rapporto con Isolina, che mano a mano si convince che Marino sia innocente e ai colloqui cerca di accontentrarlo in ogni cosa. Cupido è in agguato... Non una sceneggiatura impeccabile (con qualche incongruenza, pure) ma una notevole interpretazione dei protagonisti. Soprattutto Tognazzi è straordinario: mai sopra le righe, vive con grande trasporto la detenzione, il rapporto col secondino amico e insieme infido (Orazio Orlando, molto bravo pure lui), l'evolversi del rapporto con la donna che l'ha condannato. Con qualche momento divertente (quando Marino chiede a Isolina di fotografarsi in pose osè e per passargli poi le fotografie), un'intensità non comune nella descrizione del rapporto grazie a una Vitti che sa caratterizzare molto bene il suo personaggio. L'amarezza di fondo ci accompagna fino al durissimo finale, come nella miglior tradizione della commedia all'italiana. La regia di Giraldi non ha la spigliatezza dei grandi, il film non sempre riesce a essere interessante, ma è sincero e a suo modo originale.

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Nella migliore tradizione del cinema italiano dell'epoca, un gustoso incrocio tra il film drammatico di denuncia a sfondo carcerario e la storia d'amore bizzarra, dagli esiti imprevedibili; Giraldi è bravo a mantenere la storia in equilibrio tra luci e ombre, non disdegnando momenti più da commedia uniti a digressioni amare, come nel finale tipicamente settantiano. Tognazzi spettacolare ma non da meno la splendida Vitti; azzeccati anche la location e i personaggi di contorno per un lavoro peculiare e coinvolgente che a tratti può far riflettere su temi difficili del nostro Belpaese.

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Sottovalutatissima ma notevole commedia nera, con un Tognazzi voce principale nei panni dell'ambiguo "Mocassino", cosidetto in onore della sua ossessione per le scarpe (!) e una Vitti brava ma con un personaggio ricalcato su altri ruoli precedenti. Un film dall'insolita ambientazione (il carcere) e dalla sceneggiatura non sempre coerente (troppe svolte inprovvise e turning points) ma sicuramente salace e non privo di mordente, oltre che gradevolissimo umoristicamente. Tante trovate e tante battute memorabili.

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A volte,si sa,gli attori rendono un film piu'digeribile di quanto esso davvero non sia.E la bravura,oltre che l'alchimia tra Monica Vitti e Ugo Tognazzi,servono molto a migliorare l'effetto che "La supertestimone",che si regge su uno spunto piu'adatto a reggere la durata di un episodio che di un intero lungometraggio:Giraldi,regista non male con gli western-spaghetti,è meno a suo agio con la commedia di costume.Non divertentissimo, anzi,in un certo qual modo un po' triste.

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Non fa ridere e non funziona neanche il lato malinconico.

Ugo Tognazzi finisce in galera perché accusato ingiustamente di omicidio dalla supertestimone Monica Vitti. Ma poi lei si accorge dell'errore e si sposano...

Dopo un inizio interessante, il film si sgonfia subito e diventa ripetitivo e noioso. Non fa ridere e non funziona neanche il lato malinconico. E' un peccato per i due protagonisti, bravi e sprecati.

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