venerdì 29 novembre 2019

Aspromonte - La terra degli ultimi - Mimmo Calopresti

negli anni '50 del XX° secolo certe parti d'Italia erano come molti villaggi dell'Afghanistan di oggi, Africo era uno di quelli.
il film racconta di quel paese, senza servizi, senza futuro, in balia di una natura matrigna, di uno stato indifferente, di un signorotto che sembra di qualche secolo prima.
eppure il poeta del villaggio (un bravissimo Marcello Fonte), e tutti gli abitanti amano la loro terra e ci stanno attaccati come possono.
poi un'alluvione, una frana, nel 1951, li costringe a scendere a valle, lasciandosi un buio medioevo alle spalle, senza un posto dove poter morire.
(nello stesso anno è successo lo stesso, coincidenza, in un paese della Sardegna che si chiamava Gairo, una frana costrinse gli abitanti a lasciare il loro paese, abitato dalla notte dei tempi, e a scendere a valle).
vedendo il film ti affezioni agli abitanti di Africo, ai bambini, e al poeta, lucciole ormai estinte, per usare le parole di Pasolini.
un film che non sarà perfetto, ma che merita molto - Ismaele

ps: nel 1979 Corrado Stajano scrisse Africo (leggi qualcosa qui)
un libro da non perdere, come tutti i suoi libri.






Interessante e poetico, agreste e solidale questo passaggio montano calabrese, tuffo nel passato degli anni 50, diventa una pellicola elegante e seria, politica e attuale per rappresentare:
A la vita di campagna (semi estinta)
B la vita calabrese (magica nella totale povertà e assenza)
C la generosità d'animo che sprigiona dal non avere, ma dall'essere che inevitabilmente sfocia in una totale e appagante condivisione, sorta di baratto esistenzaile che, per fortuna ancora oggi persiste come stile vita in centri calabri.
Ottimi gli attori, perfetti nei ruoli, veramente intensi e credibili. Ottima la storia dove la latitanza dello stato permane da 70 anni fino ad oggi, dove le strade hanno buche immense, dove a Tropea e Vibo si muore di parto ancora oggi - sei donne solo nell'ultimo mese. Tutto rimane come allora ed è per questo che i paesini arroccati dove  gli scorci sono peraltro bellissimi, con viste mozzafiato, anche nella fotografia, si svuotano. Perchè lo stato latita.
Ad Africo, un paesino arroccato nella valle dell'Aspromonte calabrese, alla fine degli anni '50, una donna muore di parto perché il dottore non riesce ad arrivare in tempo e perché non esiste una strada di collegamento. Gli uomini, esasperati dallo stato di abbandono, vanno a protestare dal sindaco. Ottengono la promessa di un medico, ma nel frattempo, capeggiati da Peppe (Francesco Colella), decidono di unirsi e costruire loro stessi una strada. Tutti, compresi i bambini, abbandonano le occupazioni abituali per realizzare l'opera. Giulia, la nuova maestra elementare (Valeria Bruni Tedeschi), viene dal Nord, e vuole insegnare l'italiano "se Africo entrerà nel mondo grazie alla strada, i ragazzi dovranno conoscerlo prima, imparando a leggere e a scrivere". Ma per il brigante Don Totò, quello che detta la vera legge, Africo non può diventare davvero un paese "italiano"…
Calopresti ha definito Aspromonte – La terra degli ultimi una sorta di racconto western; ed è proprio nel momento in cui ricerca quella dimensione collettiva, unita allo sguardo antropologico e al tentativo di raggiungere un portato “epica” (espresso nello scontro che è culturale e sociale insieme, con le istituzioni da un lato e il bandito col volto di Rubini dall’altro) che il film gioca le sue migliori carte. L’isolamento del paese, unito a quegli scorci sul mare a rivelare meraviglie invisibili (e irraggiungibili), funge da detonatore per le tensioni a stento trattenute; tensioni rappresentate in un affresco collettivo che si fa apprezzare per il suo realismo, per la puntualità con cui mette in scena la quotidianità di una comunità, per l’attenzione a evitare gli stereotipi e le figure macchiettistiche. Persino il personaggio interpretato da Fonte – figura decisamente meno cupa di quella vista in Dogman – riesce a essere funzionale pur nei suoi tratti grotteschi. Il film di Calopresti, tuttavia, perde decisamente compattezza e mordente quando sbanda sul versante più elegiaco e fiabesco, cercando di comporre un elogio – malgrado tutto – della semplicità contadina e dei suoi rituali, che cozza decisamente contro il suo dichiarato realismo. Soprattutto, il film risulta debole quando tenta (con poca convinzione) di adottare il punto di vista del piccolo Andrea, e di sposare quello sguardo infantile – che vorrebbe trovare una sponda da un lato nella figura della maestra, dall’altra in quella del Poeta – che non viene né approfondito, né adeguatamente contestualizzato…

…I personaggi sono ben disegnati e tra tutti spicca Marcello Fonte, un vero e proprio poeta a suo agio nella sua Calabria natia. Non si può dire altrimenti per Valeria Bruni Tedeschi, il cui personaggio è fuori contesto per scelta registica ma che manca di spessore psicologico. Non di grande impatto anche Sergio Rubini, nel personaggio del cattivo con poche apparizioni su un grande cavallo bianco con fucile in spalla.
Quello che veramente colpisce in “Aspromonte – La terra degli ultimi” è la location perfetta, quella di Ferruzzano, paese abbandonato da tempo e di grande impatto paesaggistico. Meravigliosi gli interni delle case e i costumi di scena. In sintesi, si potrebbe dire che la cornice è perfetta, ma il quadro non lo è altrettanto nonostante l’ottima performance degli attori che recitano per lo più in dialetto calabrese.

Gli intenti di Calopresti sono nobili e accompagnati da una evidente cura nel dettaglio. Il film ha delle ambientazioni sceniche suggestive, si avvale di una colonna sonora evocativa firmata da Nicola Piovani, la fotografia di Stefano Falivene immerge l'azione in colori dalle sfumature grigiastre che annullano il senso di natura rigogliosa e benevola attorno ai protagonisti. E la regia stessa di Calopresti è generosa nel suo prodigarsi in scene ritmate, sequenze di gruppo, ricostruzioni d'ambienti d'epoca aderenti al contesto. E in più Valeria Bruni Tedeschi, pur costretta in un ruolo che sa di già visto e di usurato, fornisce ancora una volta una prova attoriale in grado di catalizzare su di sé i momenti più forti dal punto di vista emotivo.
Ma "Aspromonte" ha proprio nella generosità, o meglio nel suo eccesso, la più pesante zavorra che non fa decollare mai il film. Fin troppo didascalico in fase di scrittura, il film è sceneggiato con troppa superficialità. Gli snodi narrativi diventano tappe forzate e ampiamente prevedibili di una vicenda che viene messa in scena con un'esagerata dose di semplicità. Tutto è meccanico, sottolineato, evidenziato e fornito di didascalie, a volte nelle scelte di regia, a volte in quelle di scrittura. Certo, quando si vuole lavorare per metafore, il rischio è sempre presente, ma a volte Calopresti davvero non riesce a porre dei limiti…

martedì 26 novembre 2019

Piano 17 - Manetti Bros

i personaggi di Coliandro quando Coliandro ancora non c'era.
una sceneggiatura che non ti lascia annoiare mai, quando ti sembra arrivare a un vicolo cieco si riapre le strada e si riparte.
e il tempo è il protagonista del film.
i Manetti Bros non deludono.
non perdetevelo, buona visione - Ismaele







L'idea base del film sta nel timer di una bomba, che procede inesorabile, mentre il tempo viene frammentato in molteplici flashback, che pian piano ricompongono l'intera vicenda. Una banda di rapinatori, non proprio gentili ma nemmeno troppo cattivi, capeggiata dal riflessivo Matteo Mancini, comincia a sfaldarsi per le incomprensioni interne. Sospetti e gelosie fra i membri del gruppo intorbidano le acque e fanno emergere la figura del secondo Mancini, fratello minore del capo, malvivente dal cuore tenero e dallo spiccato acume psicologico-introspettivo. I Manetti Bros spiegano che inventando questo personaggio hanno pensato a una specie di Sherlock Holmes del crimine, sottile osservatore di dettagli e psicologie umane.
In effetti nella lunga scena claustrofobica all'interno dell'ascensore, con la tensione che cresce ogni minuto e diventa palpabile, Mancini junior si dimostra freddo e padrone di sè, e riesce a mettere a nudo le debolezze dei suoi compagni di sventura…

Bella sorpresa questa pellicola firmata dai Manetti bros. che vede protagonista il bravo (e diciamolo, pure simpatico) Giampaolo Morelli, il quale un anno dopo sotto la direzione degli stessi Manetti porterà in televisione uno dei più riusciti personaggi televisivi di questo ultimo decennio, L'Ispettore Coliandro.
Ora anche se in Piano 17 non c'è la mano di Carlo Lucarelli, bisogna dire che i Manetti dimostrano di conoscere a menadito le regole del thriller e confezionano una pellicola che ha tutto per rendere felici gli amanti della suspance.
A parte il fatto che Morelli qui interpreta un criminale (ancorché simpatico ed accattivante) come 
Marco Mancini mentre nella serie televisiva veste i panni del poliziotto, bisogna dire che i due personaggi sono molto diversi e dare merito all'attore di aver dato grande credibilità ad entrambi.
Se Coliandro è un casinista che una ne pensa e cento ne combina finendo per risolvere i suoi casi grazie alla sua tenacia ma anche a qualche colpo di fortuna, Mancini è un duro vero, parte di una banda di criminali, obbligato con un ricatto a espletare una missione (deve mettere una bomba in un ufficio per distruggere dei documenti) che cerca di eseguire nel modo più rapido ed essenziale.
Proprio il tempo della bomba (che esploderà un'ora e mezza dopo l'innesco) scandisce il tempo del film…

lunedì 25 novembre 2019

Light of My Life - Casey Affleck

è scoppiata una pandemia, che fa morire le donne, ma non gli uomini, per cui le donne sono rare e richieste, a qualsiasi costo.
un padre e una figlia sono in fuga, per salvare la vita a Reg, che si traveste da ragazzino.
e il rapporto fra padre e figlia è davvero bello, lui racconta storia a lei, poi tocca a lei raccontare storie, e proteggere e curare il padre quando è necessario.
sembra una scopiazzatura di altre storie, e film, ma non lo è per niente, la sceneggiatura ha una sua forza e originalità, in un crescendo di tensione e violenza.
sembra anche un omaggio alle donne e un accenno al futuro, dove violenza e prevaricazione non avranno ostacoli.
un film che merita molto, Anna Pniowsky e Casey Affleck sono bravissimi.
buona visione - Ismaele

ps: mi è venuto in mente Anatomia umana (pubblicato da Fanucci nel 1993), di Carlos Chernov, scrittore e psichiatra argentino (qui una recensione)





Papà e figlia vivono i postumi di una doppia catastrofe, personale e planetaria, tanto che l'infanzia nella quale s'è trovato ad educarla - costretto a conciarla come un maschietto perché in quanto femmina è merce rara quindi in pericolo - non è altro che un'infanzia votata alla sopravvivenza: lui vive per proteggerla faticando a trovare le parole per definire la crudeltà umana, lei vorrebbe sempre agire d'impulso, ma il rischio è la vita. Lui dovrà iniziare a credere nelle capacità di una ragazzina, che ha pur sempre il vantaggio di non aver mai conosciuto altra realtà che quella, di aver appreso come dominarla in situazioni critiche, e lei dimostrare di esserne in grado, sì da poter esser lei, in caso di necessità, a rassicurarlo che è tutto ok e che quella che stanno vivendo, in fondo, «It's a love adventure»: è un'avventura d'amore.

…Casey Affleck, nel triplice ruolo di sceneggiatore-regista-attore riconferma il suo talento davanti alla macchina da presa. Proprio come la fotografia del film, anche la sua recitazione è studiata per essere naturale e mai sopra le righe. Il premio Oscar per Manchester by the Sea si riconferma un attore sensibile che come in altri ruoli della sua carriera interpreta un personaggio dolorante ma deciso a combattere le avversità.
Affleck però funziona anche come sceneggiatore e insieme all’interprete Anna Pniowsky rende molto credibile il personaggio di Rag: dolce e pratica essa è il centro di tutto, la luce della vita che dà il titolo al film. Speciale in quanto sopravvissuta cerca semplicemente di essere se stessa in un mondo che non glielo concede, come testimoniano le due scene chiave in cui vuole indossare una giacca chiaramente femminile e subito dopo imita il padre in una camminata maschile. I due di fatto sono delle prede per i feroci predatori, ma, un po’ come le volpi, hanno dalla loro parte l’intelligenza e la furbizia.
Alla sua seconda regia, Affleck confeziona un’opera sicuramente imperfetta e dal ritmo incostante, ma che riesce a regalare allo spettatore 120 minuti riflessivi in cui viene messo in scena il più puro legame tra un padre ed una figlia.

potrebbe sembrare che Light of my life sia un prodotto molto derivato... ma non è così. In un sottogenere così stringente è ovvio che molte situazioni abbiano il sapore di “già visto”, ma è solo contorno. Il vero cuore emotivo del film risiede tutto nel rapporto padre e figlia che viene costruito con pazienza e perizia di dettagli, anche grazie ai (pochi) flashback che mostrano la madre/compagna di Affleck. Per questo motivo il film è un’ottima prova di scrittura, regia e recitazione dell’attore. Ora non ci resta che aspettare con curiosità il suo prossimo progetto.

Casey Affleck disarticola e arricchisce una storia non originalissima attraverso una propria e personale visione del cinema e del mondo: insegnandoci che non serve inseguire modelli cinematografici se poi non si è capaci di far parlare le emozioni. E allora, a differenza di tanti altri attori dietro la macchina da presa, Affleck accelera sulla via dell’impressionismo, lasciando per strada vanità e virtuosismi non richiesti. Fino ad un finale amaro ma dolcissimo, che ci accompagna, con una sola battuta, dentro ad un ribaltamento dei ruoli uomo-donna capace perfino di commuovere. Ne siamo certi: se questo Light of my life è il primo assaggio della sua poetica, di Affleck autore sentiremo parlare ancora molto in futuro.

…In the wonderful opening scene of Light of My Life, Rag and Dad are getting ready to go to sleep in their tent. He tells her a beautifully improvised, playful, and humorous Noah's Ark tale which is designed to give her the courage to carry on despite the dangers which may lie ahead. She asks him questions as he goes along, revealing that she is growing up to be an inquisitive, reflective, and intelligent woman. In other scenes, the two discuss ethics and morality and how they are played out in history. And he tells her stories about the way things used to be and how much she is loved. All this is important knowledge to have in their desperate, unbalanced, dystopian world…

La ópera prima de Casey Affleck es una película de hermosa manufactura, dirigida con tacto y calidez, decide centrarse en un espacio distópico, pero enfocar la mirada en una de las relaciones más humanas y llenas de luz que pueden ser concebidas, la de un padre con su hija. La luz de mi vida es oscura y crítica con lo que la sociedad hace a la inocencia, pero como su título lo indica, no deja caer la figura de la esperanza y mantiene un rincón reservado para la luz de un nuevo inicio para la humanidad.

Nosotras - Natalia Beristain

domenica 24 novembre 2019

Il giocattolo – Giuliano Montaldo

un grandissimo Nino Manfredi dà la marcia in più a questo bel film, un gioiellino con un'ottima sceneggiatura.
negli anni '70 il cinema italiano ha prodotto molti film nei quali la violenza e l'insicurezza erano protagoniste, il film di Giuliano Montaldo è uno dei meno conosciuti, immeritatamente.
cercatelo e guardatelo, non sarete delusi - Ismaele




Il Giocattolo è un piccolo grande capolavoro per vari motivi. Il primo, l’ambientazione. A distanza di anni, riesce a trasmettere il grigiore e l’oppressione degli anni ’70. Magistrale la scena iniziale con Manfredi ammanettato a una valigia piena di contanti per una commissione. Nei suoi occhi c’è la paura di chi sa di poter essere rapinato in ogni momento. O quella del supermercato. Con il poliziotto piantato all’entrata e la voce dalle casse che ricorda: “I clienti possono essere perquisiti in qualsiasi momento”. Secondo: la clinica regia di Montaldo. Perfetta nel documentare senza sbilanciarsi la lenta discesa nella disperazione del “piccolo borghese” Vittorio. Tra parentesi: colonna sonora di Ennio Morricone. Ma ciò che rende indimenticabile Il Giocattolo è senza dubbio l’interpretazione di Nino Manfredi. Grande nel far ridere, immenso nel far piangere. Sbalorditivo nell’abbandonare tutti i tratti caratteristici per mostrare le sfaccettature e la complessità del protagonista. La sequenza in cui passa la notte a fumare e preparare pallottole dalla punta cava, ricorda fin troppo bene la medesima scena di De Niro in Taxi Driver.
Doloroso quanto indimenticabile, Il Giocattolo è una pietra miliare del cinema italiano. E un’istantanea imprescindibile della nostra storia. Per quanto “di piombo” questa sia.

Mesta “tragedia di un uomo ridicolo”, Il giocattolo segue la spirale d’umiliazione e risentimento del pavido portaborse Vittorio Barletta, fidato prestanome di un volgare e disonesto industrialotto del Nord. Nel raccontarne l’ossessione feticistica per una pistola (“il giocattolo” del titolo), lo psicodramma di Montaldo confonde la denuncia col grottesco, e pure dove schematico, facilotto o melenso, sa portarsi dietro una febbre che non si dimentica, una vertigine sottile e malsana che è anche la nota più intonata della nostra commedia di quegli anni. Anni di piombo, di terrore diffuso, di appelli al disarmo. La commedia all’italiana si era appena vestita a lutto con il postremo Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, intenzionale pietra tombale del genere: sulla sua scia, e di quella del coevo L’arma di Squitieri, Il giocattolo torna a parlare di “cittadini che si ribellano” con una pistola in mano e di un abisso ormai insanabile frappostosi tra le istituzioni e l’anonimo, sfiduciato Povero Cristo di turno. Il rag. Barletta conserva del resto tutte le stimmate fantozziane del caso, come la disobbedienza quieta del Bartleby di Melville, riferimento a monte dello stesso Villaggio: così il suo timido “Eh no, io esisto” è a un passo dal “Preferirei di no” melvilliano, e per Barletta apre a una rivolta non meno frustrata e suicida della routine fin lì condotta. Al di là di quel che si può trascurare in termini di riflessione sociale, dall’antiborghesismo spicciolo al pietismo strisciante, è vero che il dramma umano di Montaldo racconta, su tutto, la storia di una solitudine spersa tra l’indifferenza dei tanti, e anziché fornire – come si è scritto – un epigono nostrano al nutrito filone dei “giustizieri della notte”, lo problematizza e lo rovescia in farsa tragica (si rifà pure l’auto-motteggio di Taxi Driver, di due anni prima, solo che qui tutto è più ridicolo e fallimentare). Prodotto da Sergio Leone e interpretato da un Nino Manfredi ai suoi picchi d’intensità e disperazione, Il giocattolo funziona, un po’ come il memorabile finale di Il Belpaese di Salce (stessi anni, stesso humour), anche nel farci presente che il vero problema non è la paura dell’inflazione (o di altri moloch), ma l’inflazione della paura. 




venerdì 22 novembre 2019

dice Francois Truffaut


Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell’infanzia, costruire un oggetto che è allo stesso tempo un giocattolo inedito e un vaso dove si disporranno, come se si trattasse di un mazzo di fiori, le idee che si hanno in questo momento o in modo permanente. Il film migliore è forse quello in cui riusciamo a esprimere, più o meno volontariamente, sia le nostre idee sulla vita che le nostre idee sul cinema.

martedì 19 novembre 2019

Tarantino's Mind - Manitou Felipe, Bernardo Dutra

L'arrivo di Wang - Manetti Bros

tutto il film è girato in un bunker sotterraneo, per cui potrebbero soffrire gli spettatori claustrofobici.
una giovane traduttrice viene misteriosamente cercata, si tratta della traduzione di un interrogatorio molto cattivo, molto forte, anche se  il signor Wang sembra non capire.
e poi alla fine si capirà tutto, o quasi.
bel film, da recuperare - Ismaele







…Fedeli a quel cinema di genere frequentato sin dall'inizio della loro carriera, i Manetti Bros. si cimentano con la difficile via della fantascienza, confezionando una pellicola che pur entrando ampiamente nella categoria finisce con l'avere un'impostazione tanto curiosa da sconfinare nel dramma psicologico. Tra il breve incipit in cui la protagonista viene bendata e quel finale rivelatore per più motivi, si sviluppa, infatti, una storia basata sullo scontro tra discordi, inconciliabili visioni e sulla difficoltà di comprendere se stessi così come l'altro da sé. Con una caratterizzazione spesso esasperata, soprattutto nell'agente interpretato dal bravo Ennio Fantastichini, i tre personaggi in campo - più o meno stabili intorno al tavolo dell'interrogatorio - diventano presto simboli della volontà di comunicazione o della sua negazione assoluta, perdendo tuttavia la possibilità di diventare caratteri a tutto tondo, dotati quindi di profondità e spessore…

il nuovo film dei Manetti Bros. colpisce per la capacità di indirizzare emotivamente l’attrazione dello spettatore verso un determinato personaggio, salvo poi stravolgere questo orientamento con originale imprevedibilità. L’ironia propria dello stile dei fratelli Antonio e Mario Manetti si fonde con una costruzione narrativa imperniata sui crismi del cinema di genere e rafforzata dall’incalzante colonna sonora; l’accompagnamento musicale è infatti impeccabile nell’alimentare le suggestioni derivanti dall’evolversi della storia e conferisce quindi un valore aggiunto alla pellicola.
Considerati come degli outsider alla Mostra del Cinema di Venezia 2011, i fratelli Manetti regalano un raro esempio di un appassionato modo di fare cinema caratterizzato dall’umiltà di non prendersi troppo sul serio e preoccupato invece di appassionare con immediatezza il pubblico.

Però è pur vero che il cinema di serie B dei decenni gloriosi del cinema italiano, cioè il vero riferimento dei fratelli Manetti, è stato un fiume in piena di sceneggiature pasticciate e qualità intermittente, e dunque la delusione di cui sopra è dettata dal troppo amore per il cinema di genere, dalla passione cinefila per una sua resurrezione, un giudizio che andrebbe mitigato, perché ingiusto nei confronti di due filmmaker comunque generosi ed appassionati che quasi miracolosamente sono stati in grado di costruirsi una filmografia eccentrica, pressoché unica nel panorama anemico del cinema italiano dell’ultimo decennio (esordirono nel 2000 con il lungometraggio Zora la Vampira).

I Manetti Bros, da sempre alla ricerca di un percorso alternativo rispetto ai canoni imperanti, scelgono la fantascienza, merce rarissima anche nei periodi d’oro, probabilmente a causa del confronto, inevitabilmente penalizzante, con l’industria americana, che sull’efficacia dell’impianto spettacolare ha basato il suo successo. Invece il risultato si apprezza proprio per la capacità di osare l’impensabile, affrontando un soggetto originale e stimolante senza limitarsi ad alludere, ma sfoggiando effetti speciali che non sfigurano affatto con i più illustri colleghi d’oltreoceano. Interessante anche il sottotesto che pone interrogativi non banali sulla fiducia da riporre nell’altro, chiunque esso sia, uscendo da tesi buoniste e optando per il beffardo…

Senza spoilerare troppo (il finale è a sorpresa), pur nella consapevolezza che già sia a tutti nota l’identità dell’“ospite”, diciamo che in ballo ci sono la sicurezza nazionale, una possibile invasione extraterrestre, i servizi segreti, l’aeronautica militare e il solito labile confine tra verità e apparenza. Bravi Manetti: la tensione nel film si costruisce non tanto sull’attesa della rivelazione (molti gli spettatori che sanno, o sospettano) quanto sull’atmosfera angosciosa della stanza degli interrogatori. Mentre una seconda parte, quando la traduttrice riesce a fuggire, ci immerge nei meandri più canonici (e autentici) del thriller: inseguitori, vie di fuga, nascondigli. Il valore aggiunto sono però i personaggi.
La traduttrice, forte del fatto di essere la sola a capire il signor Wang, pensa naturalmente di avere intuito tutto; l’inquisitore, convinto che la violenza sia il solo linguaggio universale (letteralmente…) sente comunque il peso drammatico del proprio compito (magnifica la sequenza di Fantastichini in bagno, e soprattutto magnifico lui!). Ne L’arrivo di Wang osano, i Manetti Bros. Non hanno paura del confronto con gli omologhi spacconi Made in Usa: L’arrivo di Wang è fantascienza pura e semplice, concepita da chi non solo la capisce, ma la ama (per dire: Fantastichini ha una sua società di produzione che si chiama Klaatu Production). Un film da difendere con i denti che per fortuna avrà una distribuzione in Italia e all’estero. Welcome back, brothers.
da qui

…sono proprio gli ultimi – e inaspettati – sviluppi della narrazione ad aumentare il peso specifico dell’operazione, trasformando il pur gradevole film in un’intelligente metafora sulla complessità dei rapporti umani e sull’incomunicabilità. La scelta di costruire tutta l’opera attorno ad un interrogatorio si rivela doppiamente riuscita, poiché riesce a catturare da subito l’attenzione dello spettatore, costringendolo a doversi misurare con questioni nient’affatto banali, ma anche per il suo significato meta-cinematografico di traduzione di un linguaggio, quello del cinema di fantascienza nel contesto industriale italiano. Ne L’arrivo di Wang la parola assume un ruolo centrale come veicolo primario della narrazione e nella contrapposizione con l’immagine così assurda e irrazionale dell’alieno. Allo shock visivo, davanti al quale veniamo privati di qualsiasi spiegazione, i due registi oppongono la parola, come impossibile strumento di contatto e di scambio, nonché unico dispositivo in grado di costruire, inventare, immaginare mondi alternativi. Necessità da low budget forse, ma quanta forza, quanta autentica passione riesce a sprigionare il film! Ennesima conferma del talento unico e prezioso dei loro autori, tra i pochissimi eredi di una gloriosa stagione di cui si sente sempre più la mancanza.
da qui

domenica 17 novembre 2019

Le Mans '66 – La grande sfida - James Mangold

Christian Bale è Ken Miles in una interpretazione da Oscar.
già solo per questo dovrebbe esserci le file al cinema per questo film.
James Mangold gira i suoi film come se fossero degli western, ho letto da qualche parte, e questo film lo conferma, ci sono i buoni e i cattivi, i potentissimi proprietari di multinazioni che vogliono comprare l'anima dell'artigiano, lavoratore umile e geniale, senza riuscirci, ci sono l'amicizia e la famiglia, mancano i cavalli, ma ci sono quelli nascosti dentro i motori.
le due ore e mezza volano via, senza annoiare mai.
fra le tanti morali del film una è chiarissima, mai fidarsi dei potenti, ti fregheranno di sicuro.
qualcuno penserà a Rush, di Ron Howard, del 2013, ma sono film diversissimi, quello era sulla rivalità fra due piloti, questo no, c'è la sfida con se stessi e il coraggio di essere uno de los de abajo contro il todopoderoso di turno.
un film da non perdere, promesso - Ismaele








“Le Mans ’66 – La grande sfida” di James Mangold è una metafora della competizione umana, non un film unicamente sportivo ma un racconto di relazioni tra persone ambiziosissime, i cui sentimenti sono universali e vanno oltre l’ambiente in cui si muovono. La domanda sul valore della propria identità, sulla morte accettata nel rischio di vivere, sul bisogno antropico di trascendere se stessi, abbraccia sentimenti collettivi e per questo potrebbe piacere anche a chi non ama le corse automobilistiche, donne comprese. Un film rivolto al grande pubblico: spia ne è la scena di una moglie che scoprendo i due protagonisti, di cui uno è il marito, scazzottarsi davanti casa, invece di dividerli si siede a vedere lo spettacolo. Ma James Mangold ha chiarito che a lui interessavano i retroscena della gara, mostrare perché un pilota fa ciò che fa, illuminare il lato intimo dell’ambiente. C’è dunque una profondità di analisi psicologica nel film che ne accresce il valore: Mangold non risparmia le invidie, le lotte di potere nella stessa gerarchia aziendale. La sua abilità narrativa è nella fluidità, nella capacità di sorprendere e di tenere con il fiato sospeso per tutta la durata delle due ore e mezzo. Il regista ha precisato di aver fatto un film dove le auto non sono costruzioni digitali e sulla pista ci sono persone: l’effetto si vede e il cuore di chi guarda balza in gola. Parafrasando una battuta di Matt Damon, Mangold ha aggiunto che l’effetto speciale non acquistabile è sempre e comunque quello dell’“umanità”. “Le Mans 66” ha il merito di non parlare di supereroi e per questo stimola ancor più perché, per la maggioranza degli spettatori, il fattore umano nello sport è qualcosa di poco conosciuto.

James Mangold continua a stupire con un lungometraggio che fa bene il suo dovere: «Le Mans ‘66» è infatti un prodotto di buon intrattenimento, capace di appassionare per l'intera durata e di coinvolgere anche gli spettatori meno avvezzi al mondo delle corse automobilistiche.
Il merito va soprattutto al buon ritmo e a un montaggio adrenalinico al punto giusto, ma anche la sceneggiatura è efficace, grazie a dialoghi ben assestati e a una struttura narrativa capace di ricostruire efficacemente la vera storia che ha visto protagonisti questi personaggi.
Sono rarissimi i momenti di calo (nonostante le circa 2 ora e 30 minuti di durata) e i passaggi poco riusciti in questo film che arriva nelle sale italiane dopo essere passato in diversi festival, tra cui quelli di Telluride, Toronto e Londra.
Buona prova dell'intero cast, ma tra tutti svetta Christian Bale in una performance che conferma ancora una volta la sua grande intensità attoriale.

Christian Bale è il pilota britannico Ken Miles, brusco e ingovernabile eroe della Seconda guerra mondiale: “Macché beatnik, è sbarcato con un carro armato e lo ha guidato fino a Berlino” lo presenta agli azionisti il socio Matt Damon, l’ex pilota e progettista di automobili Carroll Shelby (passato dalla parte sbagliata dei box per problemi cardiaci). Il duetto è grandioso. Sappiamo, o almeno sospettiamo, come andrà a finire. Ma non c’è una sola scena banale, neanche nei passaggi obbligati. Le corse automobilistiche sono una scienza esatta, teorizza Ken Miles. Anche il cinema ben fatto. Come in pista, ci sono i segnali per affrontare bene le curve.

Una buona pellicola asciutta e realistica che fa osservare da vicino il mondo dei motori. Al giorno d'oggi è sempre bello rivedere le ambientazioni, le auto, i modi di vestire e di essere degli anni 60/70.
Non si tratta solo di lustrini, qua si assapora il gusto dell'asfalto, della corsa, del sacrificio e Christian Bale centra un'altra ottima recitazione dove sembra davvero stregato dalle corse e dai motori come sua unica ragione di vita.
Certo fa strano vedere la Ferrari come il "nemico" da battere soprattutto per noi italiani, con Enzo Ferrari catalogato come spocchioso e maleducato.
A parte questo risvolto, il film anche se abbastanza lungo è godibilissimo.

sabato 16 novembre 2019

Il maestro di Vigevano - Elio Petri

il maestro Mombelli vive in un mondo che non gli piace, l'unica sua autorità è, quando ci riesce, sui bambini,
i colleghi (tranne uno molto sfortunato), la moglie, gli industriali del posto, non lo sopportano, il suo tiranno è un direttore scolastico che ricorda alla lontana il direttore di Fantozzi, e Mombelli subisce, subisce, subisce, fino a quando subire diventa impossibile.
il film racconta un mondo che sta cambiando velocemente (come capita a Tognazzi ne La vita agra, di Carlo Lizzani, che mi sembra un film gemello di quello di Petri), dove il sistema economico annienta l'essere umano.
un film da vedere e rivedere, e Alberto Sordi è un mostro di bravura - Ismaele


Questo film è una grande e triste descrizione della realtà, penso ke in qualche modo se ne ritrovino tracce nei film che saranno posti al centro dell' attenzione nella metà degli anni '70, come Fantozzi o Un borghese piccolo piccolo.
la storia si evolve senza filtri, sotto gli occhi dello spettatore che assiste in qualche modo alla malinconia ed alla delusione di un uomo da parte della vita.
indimenticabili caratteristi il Direttore, e l'amico del maestro Mombelli che poi si suiciderà.

Una commedia amara di Elio Petri sul momento storico del boom economico. A molti una vita fatta di poche cose ed oneste, spesso tra le umiliazioni dei padroni, non basta. La corsa all’arricchimento coinvolge tutti e spesso si ricorre anche a pratiche non proprio corrette. Il dilemma del tempo è conciliare la necessità di costruire un potere personale nuovo con quella di conservare gli affetti. Su questo conflitto si sfalda la coppia dei protagonisti Sembra davvero impossibile riuscire a tenere insieme amore e potere. Ma se la situazione economica può cambiare fino s ribaltarsi completamente, il senso del proprio io può rimanere intatto anche attraverso sconfitte e dolori. E cosi nella storia che finisce come era iniziata si può trovare un percorso umano intenso che pur dolorosamente riesce a cambiare il senso dell’esistenza.
da qui

…Il terzo lungometraggio di Petri pare abbandonare l’esistenzialismo proprio dei primi due film per flirtare con l’industria culturale: abbiamo una sceneggiatura tratta da un romanzo di successo, un eccezionale Alberto Sordi nei panni del protagonista (imposto dalla produzione De Laurentiis), la bravissima Claire Bloom in quelli della moglie Ada.
In realtà la questione è più complicata. Per cominciare, la pellicola non è facilmente classificabile secondo la tassonomia dei generi e così le frasi di lancio si esprimono più per perifrasi o aggettivi caratterizzanti che per definizioni: ad esempio sull’Unità il film è presentato come “nuova interpretazione di un grande attore, […] è commovente, divertente, interessante, curioso, è una novità”. Petri stesso ebbe a dire di quest’opera: “E’ un film drammatico, ma trattato in maniera grottesca”.
In secondo luogo la presenza dello stesso Sordi è inserita da un canto nella fase dell’utilizzo più serio del mattatore, dall’altro nella poetica di Petri dell’affidamento a un personaggio delle sue istanze più politiche, che già si riscontravano nelle opere precedenti: il condizionamento dell’ambiente sociale ed economico sull’uomo, la corruzione morale operata dal (desiderio di) denaro, lo scontro irrisolvibile tra l’aspirazione individuale e la realizzazione sociale.
In terzo luogo, Petri si riconferma assoluto maestro nel far convergere ogni elemento cinematografico nell’espressione della sua poetica, dai temi che sottostanno alla sceneggiatura fino agli aspetti visivi. Abbiamo visto la corrispondenza tra le inquadrature iniziali e la presentazione verbale di Mombelli, a cui si deve aggiungere il subitaneo cambiamento di prospettiva e di scala non appena viene chiamato in causa il direttore della scuola: le figure dei maestri vengono rimpiccolite e schiacciate da un’inquadratura dall’alto, che fissa la direttrice di gerarchia tra il potere e il popolo…

…l’insegnante-tipo dell’ultimo scorcio del passato millennio? Se ne può abbozzare un ritrattino? La prima tentazione potrebbe essere quella di recuperare i tanti amarcord degli insegnanti che abbiamo avuto nelle varie tappe della nostra storia scolastica – dalle elementari all’università – per proporvi una sorta di coperta di Arlecchino imbastita nel filo trasparente dei fatti personali. Troppo personali per esibirli qui in una peregrina moltiplicazione dell’irripetibile Posto delle fragole. Verrebbe fuori di tutto. Anche l’amore. Anche l’odio. Anche la saccente sicumera di chi pretendeva inopinatamente di sbirciare nella palla di cristallo del nostro futuro. Ma anche la gratitudine per le tante cose che abbiamo imparato. Soprattutto per le lezioni di vita, forse le più importanti anche se sul momento potevano sembrare le più detestabili. Quando Brecht diceva qualcosa di simile pensava soprattutto a quello che si impara stando in castigo dietro alla lavagna.
È arrivato il momento di ribadire l’energia dell’errore. La prova del nove del buon insegnante è la sua capacità di sbagliare. Nella trasmissione del sapere e nei comportamenti interpersonali. È allora che, fragile come i suoi allievi, finalmente umano, è in grado di scendere dalla cattedra e di insegnare sul serio. Forse per questo il maestro di Vigevano, che sbaglia quasi tutto in classe e in famiglia, assurge ai vertici, esagerati e parossistici, dell’esempio. Inimitabile.

giovedì 14 novembre 2019

The Irishman - Martin Scorsese

potrei dire che è un film capolavoro perfetto e non ci sarebbe bisogno di aggiungere troppo cose:
1. il protagonista principale, oltre agli attori mostri sacri, è il Tempo, raramente in un film il suo ruolo è così potente e decisivo.
2. la bellezza di guardare il film in lingua originale con i sottotitoli è quella di vedere e ascoltare come e quando gli italoamericani mafiosi parlano l'italiano, non per le storie di mafia, ma per le cose belle, il mangiare, i ricordi, la gioventù, la famiglia.
3. il film dura tre ore e mezzo, ma potrebbe durare anche il doppio senza problemi, ogni scena è necessaria, i dialoghi sono strepitosi.
4. alla sceneggiatura c'è Steven Zaillian, regista di quello straordinario filmone che è The night of.
5. Joe Pesci, Al Pacino e Robert De Niro sono al loro meglio, ancora una volta, uno spettacolo.
6. alla fine tutto si paga, ma non per sempre e non per tutti, potenza della realtà.
non perdetevi The Irishman, al cinema, o almeno su Netflix, tre ore e mezzo di perfezione per pochi euro, non capita spesso.
buona visione - Ismaele









Il disincanto che azzera valori e morale è sottolineato da una regia mai gridata, che utilizza con convinzione il fuori campo, che si apre improvvisamente a inflessioni di suspense hitchcockiana, a gridati momenti di nerissima ironia, per poi ripiegarsi con cupissima grazia nel fatalismo che non ammette redenzioni. C’è sempre un prezzo da pagare che non lascia spazio a rimorsi o rimpianti: la colpa è un fatto congenito, non lascia tracce se non quelle diluite in una memoria criminale che rende attoniti e rassegnati.
The Irishman è un gigantesco, colossale, sepolcrale finale di partita. Una fluviale narrazione punteggiata da matrimoni e battesimi girati al ralenti, messi in scena come momenti onirici e allucinati, ma che si rivela un funerale interminabile in cui ci si incrocia in attesa del proprio turno. Una seduta spiritica in cui i pochi sopravvissuti sono ombre, uomini-fantasma prigionieri del loro passato.
«It is what it is» – «è quello che è» – ripete come un mantra Bufalino al devoto e dubbioso Sheeran nella convinzione che quei codici animaleschi e brutali di violenza e sopraffazione, gli unici che conoscono, siano gli ingranaggi immutabili che fanno girare il mondo, seppur nella direzione sbagliata…

The Irishman è un capolavoro perché è un film senza precedenti. Destinato, al di là di qualsiasi imperfezione, a porre degli interrogativi nuovi nel mondo del cinema, riguardo la sua fruizione, i modi di scrivere e gli orizzonti produttivi. Una pellicola di una complessità capillare, bulimica nei contenuti e nel linguaggio, ma tenuta in piedi da colonne solidissime, quali prove recitative magistrali nella loro funzionalità, una poetica maestosa, uno scopo preciso e la classe dei maestri. Un Titanic con un timone abile e un cuore ardente, che, oltre a portare la barca in porto, scopre nuovi lidi lungo il tragitto. Agli altri la verifica della loro potenzialità.

Formalmente è l’opera più ingombrante di Scorsese, quella più ambiziosa, in un certo senso fuori controllo. Non solo ci sono decine di momenti che non portano avanti la trama, ma ci sono scene diverse che assolvono alla stessa funzione, cioè operano un consolidamento dei rapporti tra i personaggi basato sulla pura insistenza, in ultimo è come averli impressi addosso – nella testa, nella retina, nelle orecchie.
Naturalmente non è una questione di noia o piacere, come ogni esperienza è diversa per tutti, ma è chiaro che si va molto oltre le necessità del romanzo storico, ci sono anzi certi stralci perfino e paradossalmente frettolosi da questo punto di vista, l’unica necessità riguarda i personaggi e gli interpreti, cioè l’autore, è un’opera generosa ed egoista assieme.
Le scene migliori sono, ancor più che in passato, attorno a un tavolo. O dentro un’auto. I dialoghi sono spesso brillanti, le interpretazioni superbe. Non se ne parla molto nelle recensioni lette fin qui, ma Harvey Keitel – che ha appena 5 minuti in tutto il film e parla pochissimo – ha ancora una presenza scenica notevole (senza bisogno del digitale). Joe Pesci, che interpreta un mafioso dall’indole opposta a quella del Tommy De Vito di Quei bravi ragazzi, un piccolo boss dalle premure quasi materne, uno che non alza mai la voce, è da brividi: una grande emozione, attore di infinite sfumature, ancora più evidenti accanto alle performance di sfacciato mestiere di Pacino e De Niro…

Il contrasto fra un De Niro sobrio e prosciugato nella sua maschera laconica e un Pacino scatenato nel suo delizioso istrionismo, in un ruolo che in precedenza era stato interpretato da Stallone e Nicholson, funziona benissimo ed è una delle scelte vincenti della regia, insieme ad un Joe Pesci che ritorna al cinema dopo una pausa di molti anni e ci offre un'interpretazione minimalista ed inquietante del suo Russell Bufalino, un ruolo che resterà negli annali del cinema di Scorsese e non solo; fra i caratteristi una menzione d'onore a Jesse Plemons nella parte del figlio maschio di Hoffa e Anna Paquin come Peggy Sheeran adulta. La durata poteva forse essere un po' alleggerita, ma lo sceneggiatore Zaillian ha una scrittura di ampio respiro romanzesco, come già in "Schindler's list", che necessita dei suoi tempi per arrivare alla fine a trasmettere una desolante sensazione di sconfitta, solitudine e morte incombente…

…Una lectio magistralis di Martin Scorsese, che rende tutto tremendamente facile pur disponendo di artifici tecnici, come segmenti sinusoidali, quelle gemme che mandano il cinefilo in brodo di giuggiole, e della tecnica del de-aging che, dopo un primo momento di smarrimento (nella prima incursione di Robert De Niro ringiovanito, sembra di essere catapultati in un brutto esperimento di Robert Zemeckis), mostra i muscoli (tanti soldi ben spesi) e dà frutti pregiati, annullando ogni interferenza.
Questa somma di qualità fanno di The Irishman un’opera senza ritorno (niente è cancellabile), un approdo definitivo, (probabilmente) un’ultima occasione per ammirare Robert De Niro e Al Pacino alla massima potenza, per rivedere Harvey Keitel e contemplare la magnificenza di Joe Pesci (per chi scrive, la sua è l’interpretazione migliore in assoluto all’interno del film e sarebbe scellerato non consegnargli l’Oscar per il miglior attore non protagonista).
Un film prezioso al pari di un tramonto indimenticabile, vissuto un attimo dopo l’altro fino al suo esaurimento, assaporandone ogni barlume di luce, nella consapevolezza che, d’ora in poi, non si potrà andare oltre. Forse nemmeno arrivarci vicino.
Epocale.

Ci sono tre aspetti affatto secondari che credo vadano sottolineati. Il primo, è il fatto che il film vive anche di leggerezza, disinnescando la gravità del potere criminale con pillole di sagace ironia. Si prenda su tutte la sequenza (praticamente già virale) in cui Jimmy Hoffa litiga col boss Tony Provenzano (interpretato da Stephen Graham) perché è arrivato con quindici minuti di ritardo all’appuntamento presentandosi, per giunta, con un colorato paio di bermuda (stiamo in Florida). Uno scontro in stile western dove al posto delle pistole c’è il vicendevole scambio di parole al veleno. Il secondo, la durata del film (circa tre ore e mezza), che potrebbe rappresentare un difetto. O forse no se ci si sintonizza col respiro ampio della storia, al suo carattere da epopea "classicheggiante". L’ultimo (il più importante a mio avviso), è quello relativo al ruolo fondamentale di Peggy, la figlia di Frank Sheeran. Quando è piccola (interpretata da Lucy Gallina), i suoi occhi sono portati a capire cose che una bambina non dovrebbe mai capire, a maturare una diffidenza per il padre quando ad un padre gli si dovrebbe solo voler bene. Quando è grande (Anna Paquin), invece, instaura una complicità spensierata con Jimmy Hoffa, la stessa che si era sempre rifiutata di concedere a Russell Bufalino. Cosa che insinua un ambiguo sentimento di gelosia nell’animo del boss mafioso. Ecco, Martin Scorsese è come se ne avesse voluto fare una sorta di angelo ammonitore, la cui presenza può bastare da sola a far emergere le trame sottaciute della cattiva coscienza. Le trame di una storia che sa scrutare le nascoste profondità delle cose…

il regista newyorkese non fa sconti né a se stesso - a dire, al suo cinema - né al pubblico, portando sullo schermo, allo stesso tempo, la storia privata di un gruppo di uomini uniti dal patto criminale e il grande affresco di una società, quella americana, in cui i valori, le dinamiche e i rapporti sono subordinati alle logiche stringenti del capitale e - perché no - all’avidità del singolo. Se a prima vista tutto questo potrebbe sembrare esagerato, essendo il film in questione prima di tutto un mob movie, in realtà la grande ambizione di Scorsese è stata, e non da ora, non quella di confinare il microcosmo criminale, in particolare quello italoamericano, all’interno di un genere, quanto di fare dello stesso l’epitome di un sistema assai più stratificato e pervasivo coincidente non solo con la stessa società a stelle e strisce, ma addirittura con quella dell’intero mondo occidentale…

…Abbandonati dunque i ritmi schizofrenici di "Quei bravi ragazzi" o "Casino' " ,Scorsese dipinge la sua "Cappella Sistina" del gangster movie,tra montaggio alternato e dialoghi di alta classe, supportati dalla sceneggiatura "monstre" di Steve Zaillan.Il maestro ci accompagna sornione nelle vicende da malaffare del citato Sheeran e del suo mentore Russell Bufalino ,contrapposti alla nevrotica figura del famigerato caposindacalista degli autotrasportatori Jimmy Hoffa.
E' la storia dell'America che parla, dalla Baia dei Porci ai missili su Cuba, dalla crisi con Fidel Castro, sino all' assassinio di John Kennedy. Assistiamo ad un romanzo dalle mille sfumature, narrate nelle performance definitive di De Niro, Joe Pesci e lo scoppiettante Al Pacino,senza dimenticare il comprimario Stephen Graham, molto bravo nel tratteggiare la figura di uno schizzato boss mafioso. Un cast fenomenale dunque, di grandi attori in grado di primeggiare tra loro senza pestarsi i piedi, ma piuttosto creando un alchimia vincente al servizio di una storia fluviale e complessa. Si puo' dire con molta certezza che sia De Niro che Joe Pesci regalano una prova sommessa , fatta di sguardi d'intesa e carisma naturale, due figure intescambiabili nell'indole ,dove la recitazione è lontana anni luce dalla nevrosi di "Quei bravi ragazzi". Un cambio di prova che denuncia una certa maturità nei toni e nel registro narrativo, a loro due è contrapposta la figura esuberante di Jimmy Hoffa ,nella quale Pacino gigioneggia alla grande donandoci un personaggio vigoroso e carismatico. A questo dobbiamo unire la regia elegante e ben intrecciata di Scorsese, nella prova finale della sua carriera. Una sorta di "Amarcord" malavitoso che al contrario di altre sue pellicole non celebra le gesta dei suoi antieroi ,ma piuttosto ne testimonia un decadimento fisico e morale. Perchè in "The Irishman" è presente la morte in ogni sfumatura,ne sentiamo il gelido afflato in ogni inquadratura. Al contrario di "Quei Bravi Ragazzi" dove c'era il lato "vincente" del gangster, qui assistiamo piuttosto ad una lenta e graduale caduta a picco.di Frank Sheeran rimane infine una figura di anziano ingombrante alle prese con i rimpianti e la fine che incombe. Di lui resisterà solo il codice morale che si è portato via anche i suoi piu' cari affetti,tra cui la figlia Peggy che sin da bambina osserva le malefatte del padre