si vede lo sguardo coincidente di scrittore e regista, il che non è una bella cosa, come se non potessero esserci registi capaci di filmare come si deve l'opera dello scrittore, se non se stesso.
la storia è complicata, non lineare, va avanti e indietro, e bisogna stare attenti.
e però alla fine si scopre tutto, meno male.
il film non è male, sembra però che il regista voglia far vedere quanto è bravo lo scrittore, insomma se la suona e se canta.
e però il film non è male, anche se a tratti sembra un gioco della Settimana Enigmistica, per solutori esperti, forse.
bravissima Valentina Bellè.
comunque buona visione - Ismaele
Con L’uomo del labirinto l’autore di
Martina Franca sceglie di fare un gioco con lo spettatore e, man mano che la
trama si srotola, semina dettagli che dovrebbero aiutarci a trovare la verità.
Ma esiste
davvero un’unica verità? Esistono davvero buoni e cattivi?
Basandosi su una sceneggiatura sicuramente non lineare, atta a infondere nello
spettatore una sensazione di caos perenne, Carrisi si diverte a introdurre
nella pellicola riferimenti che vanno dal cinema horror italiano (impossibile
non pensare a Suspiria di Dario Argento vedendo le sequenze
in cui è protagonista la Linda di Caterina Shulha) ad Alice nel paese
delle meraviglie (ma anche Donnie Darko) fino a Saw
– L’enigmista. Fa scattare meccanismi automatici nella nostra mente
sapendo che non siamo pienamente in grado di controllarli e così edifica una
prigione buia, un labirinto fatto di “pareti vive”, corridoi in cui la luce si
accende al passaggio della prigioniera e le porte si aprono per consegnare
ricompense. Parallelamente costruisce un labirinto in superficie, facendo in
modo che entrambi convergano e si moltiplichino dal punto di vista psicologico.
Una sceneggiatura ben architettata, fatta di specchi e fili
da ricollegare, che però alle volte sembra inciampare su stessa: richiede
attenzione e intuito come nella risoluzione di un caso, come dovrebbe fare un
buon thriller, ma talvolta lesina racconti che ci avrebbe fatto piacere
ascoltare, come quelle tormentate storie dei “figli del buio” rimaste a
mezz’aria; semplici bulloni nell’ingranaggio di una macchina…
… L’uomo del labirinto ha il limite di sembrare proprio un libro sullo
schermo, con troppi dettagli che un lettore non farebbe caso ma che uno
spettatore non può non notare e per i quali ovviamente si aspetta una
spiegazione.
L’uomo del labirinto invece
spiegazioni ne dà poche, ma è proprio questo il bello: esci dalla sala con un
senso di insoddisfazione e inquietudine che non ti fa smettere di pensare alla
trama così intrecciata e speculare. Sei fuori ma sei ancora dentro a provare,
invano, a rimettere insieme i pezzi.
È questo ciò che rende un bel film L’uomo del labirinto, la capacità di catturarti anche oltre la
durata del film e di tenerti con la mente incollata allo schermo senza la
possibilità di distrarti nemmeno per guardare l’orario sul cellulare, e al
giorno d’oggi è un vero lusso…
La storia è ben costruita e si lascia
seguire ma, come nel film precedente, è spesso ridondante e molto concentrata
sulla volontà di spiazzare lo spettatore, aggiungendo anche un colpo di coda
finale che dà il via ad una doppia lettura di tutta la vicenda precedente. La
struttura labirintica della narrazione, legittimata fin dal titolo, può
affascinare ma anche confondere, e crea un effetto straniante che è consono
alla storia, ma mette a dura prova chi tenta di seguire le contorsioni della
trama. E la tecnica registica rischia di apparire più di maniera che di stile.
La chiave di lettura più interessante riguarda i cosiddetti "figli del buio" (al punto che poteva essere quello il titolo della storia), ovvero i bambini rapiti traumatizzati dall'esperienza, e portati a perpetuare all'infinito (come in un labirinto che "non ha inizio e non ha fine") il loro trauma. Ma Carrisi è troppo impegnato ad accendere fuochi d'artificio per esplorare in profondità le tematiche più impegnative, accontentandosi della sua consumata abilità di costruttore di incastri e di suggeritore di incroci…
La chiave di lettura più interessante riguarda i cosiddetti "figli del buio" (al punto che poteva essere quello il titolo della storia), ovvero i bambini rapiti traumatizzati dall'esperienza, e portati a perpetuare all'infinito (come in un labirinto che "non ha inizio e non ha fine") il loro trauma. Ma Carrisi è troppo impegnato ad accendere fuochi d'artificio per esplorare in profondità le tematiche più impegnative, accontentandosi della sua consumata abilità di costruttore di incastri e di suggeritore di incroci…
Suggestivo e disuguale, L’uomo del labirinto appare
asimmetrico nella sua costruzione, specie laddove concentra l’attenzione sul
personaggio interpretato da Servillo, relegando il profiler di Dustin Hoffman a
un ruolo apparentemente marginale; un ruolo che risulta immobilizzato e isolato
nelle interazioni – dapprima prive di evoluzione – con la vittima interpretata
da Valentina Bellè. Un’asimmetria, quella del film, la cui giustificazione
narrativa diverrà chiara quando il mistero sarà infine districato, ma che
tuttavia, portata sullo schermo così com’è, inficia l’armonia di un racconto
che vorrebbe il giusto spazio per tutti gli interpreti principali. Mette tanta
carne al fuoco, Carrisi, gioca in modo disinvolto con i tanti temi della storia
(tra questi, la paura del diverso, gli orrori nascosti nelle comunità
religiose, l’inefficienza della polizia), rischiando a più riprese di perdere
centro e coerenza narrativa; il twist finale arriva in modo forse troppo
affrettato, non riuscendo a tirare adeguatamente le somme dei vari subplot –
dispersi tra passato e presente – di cui la storia si compone…
…La riflessione è
su una società che riconosce la violenza come elemento costitutivo, da
tramandare da psicopatico a vittima. Ognuno ribalta i propri traumi su chi ha
intorno, in un gioco di specchi dove le immagini si sdoppiano, i disegni sono
schizzi oscuri.
Thriller
d’atmosfera, che danza sul baratro, sceglie di superare il limite e di giocarsi
fino all’ultima carta: durata extra- large, grandi divi che non si incontrano
mai (Toni Servillo e Dustin Hoffmann duettano una volta sola), finale
apertissimo, in un maledetto imbroglio che si trasforma in un nodo gordiano.
È un cinema
claustrofobico, tra luce e oscurità, dove ovunque ci sono pareti pronte a
schiacciare, a stritolare. Le inquadrature dall’alto si alternano a primissimi
piani, e il delirio si ispira anche al sadismo (ma senza sangue) di Saw e The
Cube. Film imperfetto, affascinante, molto coraggioso, specialmente in
Italia. Un’opera seconda da sostenere, perché lascia ben sperare nel futuro.
…L’uomo del labirinto alterna questi due scenari senza mai
farli confluire uno nell’altro, aumentando così le perplessità dello spettatore
ancora sveglio. Chi ha ingaggiato Bruno? Perché continua a indagare se la
ragazza è stata ritrovata? Perché non va a trovarla? Non si sa, come non si
capisce se le due vicende si svolgano su piani temporali diversi. Quando
lentamente la matassa comincia a dipanarsi, tra ripetuti e inutili colpi di scena e un numero eccessivo di personaggi,
l’interesse del pubblico è ormai venuto meno. Anche per colpa di banalità a pioggia, come per esempio
il fatto di far camuffare il mostro con una testa da coniglio e chiamare Alice
una delle sue vittime. Gli aspetti avvicinabili all’horror sono del tutto
scolastici, quelli noir sono penalizzati dalla mancanza di ambientazione, il
mistero è troppo fitto per coinvolgere.
In questo guazzabuglio annaspa
vistosamente Toni Servillo nella parte di un detective
stropicciato, troppo ridicolo per assomigliare al Philip Marlowe di Raymond
Chandler, ma al tempo stesso troppo poco ironico (salvo il fatto che giri in
sandali da frate) per essere avvicinato al Lazzaro Santandrea del compianto
Andrea G. Pinketts. Privo del suo mentore Paolo Sorrentino, l’attore non
azzecca un film. Forse è ormai prigioniero del particolarissimo immaginario del
regista premio Oscar e dei suoi personaggi, che lo rendono inadatto a incarnare
qualunque altro genere di personaggio. È troppo “ingombrante” per non fare il
protagonista, ma al tempo stesso, da napoletano atipico, gli manca quella
naturale empatia che da sempre connota i grandi protagonisti del cinema
italiano.
L’unica cosa da salvare de L’uomo del
labirinto è, come prevedibile, l’interpretazione di Dustin Hoffman. Il quale,
pur apparendo comprensibilmente un po’ svogliato, grazie alla sua classe e alla
sua esperienza è l’unico a mantenersi su toni sussurrati, smarcandosi da quelli
esageratamente sopra le righe di tutti gli altri, forse adottati sulla base di
errate indicazioni di regia. Il vero mistero, che nemmeno con un arzigogolo di
Donato Carrisi si potrebbe risolvere, è dunque cosa lo abbia spinto a
partecipare a un film tanto scombinato.
…cosa vorrebbe essere questo
film non è chiarissimo. Non è chiaro se voglia omaggiare Argento o Refn, non è
chiaro se voglia essere avanti anni luce oppure memore della tradizione del
genere, se ami essere classico come mostra il segmento con Dustin Hoffman o se
pensi che quel che fa in quello con Servillo sia sperimentazione. Di certo non
riesce in nessuna di queste imprese ma semmai mette in scena quanto sia
difficile fare un buon film e quante cose diverse sia possibile sbagliare
quando non lo si fa.
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