lunedì 24 luglio 2017

Lion - La strada verso casa - Garth Davis

Saroo da piccolo è immenso, corre corre corre, si merita la medaglia d'oro per la mezza maratona, oltre che un Oscar.
la storia è terribile, e bellissima.

Saroo sembra il bambino dell'Elogio dell'infanzia (di Peter Handke):

Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.
Quando il bambino era bambino
non aveva opinioni su nulla,
non aveva abitudini,
sedeva spesso con le gambe incrociate,
e di colpo si metteva a correre,
aveva un vortice tra i capelli
e non faceva facce da fotografo.
Quando il bambino era bambino,
era l’epoca di queste domande:
perché io sono io, e perché non sei tu?
perché sono qui, e perché non sono lì?
quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
la vita sotto il sole è forse solo un sogno?
non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
c’è veramente il male e gente veramente cattiva?
come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono?
Quando il bambino era bambino,
si strozzava con gli spinaci, i piselli, il riso al latte,
e con il cavolfiore bollito,
e adesso mangia tutto questo, e non solo per necessità.
Quando il bambino era bambino,
una volta si svegliò in un letto sconosciuto,
e adesso questo gli succede sempre.
Molte persone gli sembravano belle,
e adesso questo gli succede solo in qualche raro caso di fortuna.
Si immaginava chiaramente il Paradiso,
e adesso riesce appena a sospettarlo,
non riusciva a immaginarsi il nulla,
e oggi trema alla sua idea.
Quando il bambino era bambino,
giocava con entusiasmo,
e, adesso, è tutto immerso nella cosa come allora,
soltanto quando questa cosa è il suo lavoro.
Quando il bambino era bambino,
per nutrirsi gli bastavano pane e mela,
ed è ancora così.
Quando il bambino era bambino,
le bacche gli cadevano in mano come solo le bacche sanno cadere,
ed è ancora così,
le noci fresche gli raspavano la lingua,
ed è ancora così,
a ogni monte,
sentiva nostalgia per una montagna ancora più alta,
e in ogni città,
sentiva nostalgia per una città ancora più grande,
ed è ancora così,
sulla cima di un albero prendeva le ciliegie tutto euforico,
com’è ancora oggi,
aveva timore davanti a ogni estraneo,
e continua ad averlo,
aspettava la prima neve,
e continua ad aspettarla.
Quando il bambino era bambino,
lanciava contro l’albero un bastone come fosse una lancia,
che ancora continua a vibrare. (da qui).

poi cresce e Dev Patel, sempre molto bravo, diventa Saroo.
bravissima anche Nicole Kidman, in una parte da casalinga, senza sex appeal.
se non avete paura che gli occhi si appannino è il film per voi, anch'io non ho resistito.
nel film ci sono mille cose, ma sono ben amalgamate, meno male che qualcosa di bello portano ai cinema estivi.

cercatelo, vi piacerà, una storia dei nostri tempi, dove convivono la schiavitù e Google Earth, gli obesi e i morti di fame, los todopoderosos y los de abajo - Ismaele

in questa recensione poetica come non citare Bertolt Brecht?
Il dormitorio
Sento che a New York
all'angolo fra la 26.a strada e Broadway
durante i mesi d'inverno ogni sera c'è un uomo
e ai senzatetto che là si radunano
pregando i passanti procura nel dormitorio un letto.

Il mondo così non si muta,
i rapporti fra gli uomini così non si fanno migliori
l’era dello sfruttamento così non diventa più breve.
Ma alcuni uomini hanno un letto per la notte,
il vento per una nottata viene tenuto lontano da loro,
la neve a loro destinata cade sulla strada.

Non chiudere il libro dove questo leggi, uomo.
Alcuni uomini hanno un letto per la notte,
il vento per una nottata viene tenuto lontano da loro,
la neve a loro destinata cade sulla strada.
Ma il mondo così non si muta,
i rapporti fra gli uomini così non si fanno migliori
l’era dello sfruttamento così non diventa più breve.


















Un film molto emotivo e sincero, in cui non vi sono forzature melodrammatiche. Garth Davis si fa portavoce di una storia sincera e lo fa mantenendosi a distanza, facendo parlare la fragilità del giovane protagonista. “Lion” é un abbraccio affettivo che ci fa entrare in una realtà totalmente diversa dalla nostra, e lo fa con assoluta sensibilità e dedizione.

Lion’s first half, which focuses on the young Saroo, is exceptionally well done. Davis effectively captures the boy’s fear and confusion at being separated from his brother then stranded in a strange country where he understands nothing, can’t speak the language and doesn’t know the culture. Non-professionally trained actor Sunny Pawar (who doesn’t speak English) conveys the essence of a child’s view of this big, frightening world…

Hay un plano que a mi especialmente me gusta repensar y es cuando Saroo, perdido en Calcuta, se mira a los ojos (con una profundidad y pureza que pocos actores consiguen) de los otros niños como si se tratase de un espejo, sin ninguna intercesión del egoísmo identitario, viéndose reflejado en las acciones del otro, mientras que cuando viaja a Australia, le enseñan a ser un ego individualizado, a competir contra los demás. Por otra parte, la crudeza de la realidad de Calcuta es bien reflejada casi sin filtros por el director. Es un buen trabajo de inmersión.
Lion, al final pone sobre la mesa la búsqueda de nosotros mismos, del hogar, de la familia como construcción, la infancia como nostalgia y anhelo, el crecimiento y la superación personal, pero sobre todo, la necesidad de la memoria en una civilización que engulle progresivamente a las otras. Es una historia sobre la convivencia entre culturas y sus conflictos personales.

Certo, una di quelle storie ricattatorie cui non ce la si fa a resistere, anche per non passare da cinici e insensibili ai mali del mondo, con dentro tutte le miserie e le sofferenze atte a suscitare il nostro senso di colpa di affluenti occidentali. Ma con un senso robusto della narrazione, con un racconto che, finché si muove sullo sfondo dell’India delle ultime caste e delle sue città-mostro, non annoia e perfino avvince, anche grazie a un attore bambino di quelli che rubano la scena e sembrano nati per la macchina da presa (nome da annotare: Sunny Pawar). Se Lion riesce a evitare il peggio è anche per la regia, energetica e assai fisica, assai corporale, per niente formalistica e ingessata, del giovane australiano (viene da lì, Australia e Nuova Zelanda, la produzione, cui poi ha apposto il proprio sigillo Harvey Weinstein) Garth Davis, al suo primo lungometraggio, ma con alle spalle la direzione condivisa con Jane Campion di una serie di peso e di culto come Top of the Lake. E poi il cast, ottimo. Con un Dev Patel – tutti i ruoli di giovane uomo di origine indiana vanno a lui – che sa di avere una buona carta in mano e non se la lascia scappare, e con la migliore Nicole Kidman degli ultimi anni, dimessa al punto giusto e qualunque al punto giusto, quale madre adottiva del protagonista. Sì, c’è anche Rooney Mara, ma in un ruolo inconsistente che spreca il suo talento e quella sua naturale grazia audreyhepburniana. Storia vera signori, verissima, di vere lacrime e veri dolori, perché si sa che la vita sa essere più romanzesca di ogni invenzione, e questo è il caso, tantopiù che ci son di mezzo ambienti esotici dove diventa possibile quel che da noi è perfino inimmaginabile…
…La seconda parte, con Saroo ormai grande avvolto sì nel confortevole benessere della famiglia adottiva ma ansioso di ritrovare come usa dirsi le proprie radici, è più di maniera e sentimentalista. Eppure anche qui ci sono passaggi non così melensi che instillano qualche sano dubbio e interrogativo sugli effetti collaterali che l’adozione, ogni adozione, anche la meglio intenzionata, può comportare. Si guardi al fratello adottivo di Saroo, che mai si integrerà sviluppando invece una sorda ostilità verso un mondo che non è il suo e non ha scelto. Ma anche l’ottimo Saroo, consolazione di mamma e papà d’Australia, ci ha sempre quel grumo dentro, quel bisogno di ritrovare la vera madre, quel richiamo così prepotentemente biologico che contraddice ogni versione semplificatoria e tranquillizzante dell’adozione, quell’aura di correttezza che la circonda, quell’ideologia e mitologia salvifica così autosbandierata: ma l’abbiamo fatto per lui! ma gli abbiamo garantito un futuro e una vita migliore! ma l’abbiamo strappato alla fame e alla miseria! ma gli abbiamo dato quell’amore che non avrebbe avuto! Sottacendo magari poderosi egoismi e grovigli psicologici assai complessi…

Dev Patel consigue transmitir con sensibilidad, con delicadeza, la sensación de confusión, de sentimiento de pérdida. Logra emocionar, pero es Sunny Pawar, el niño Saroo, el que está maravilloso en su papel. Su interpretación (mejor verla en original, no doblado) es auténtica, cautivadora.
“Lion” plantea cuestiones de peso en una historia de superación de infancias difíciles, de vínculos familiares, de pérdidas y reencuentros, logrando una película envolvente en su primera parte, conmovedora y bien construida a pesar de ir de más a menos.

en su tramo final es capaz Lion de sobreponerse para entregar uno de esos desenlaces emotivos y capaces de sacar la lágrima al público más duro de corazón. Broche final previsible para uno de los filmes, en conjunto, más bellos e inspiradores del año, de esos que parecen pensados al detalle para colarse en las carreras de premios.
da qui

la mamma di Saroo è in queste fotografie:



sabato 22 luglio 2017

The Sweeney - Nick Love

inizio a vederlo prima di andare a letto, poi, se è interessante, lo finisco domani, mi sono detto.
invece, sorpresa, è un gran film, non mi sono annoiato un secondo, fino al termine, senza nessuna interruzione.
sceneggiatura come si deve, personaggi credibili, attori bravissimi.
chissà se è mai arrivato in sala.
non perdetevelo, non ve ne pentirete - Ismaele

si può vedere QUI



Un crime-noir di produzione inglese, questo The Sweeney, che ha il segno sporco, luridissimo dei più cattivi e sconvenienti poliziotteschi, quelli con gli agenti carogna incarnazione di tutti i mali però bravi come nessuno contro i delinquenti e pure capaci di bagliori ultimi di umanità e lealtà. Una Londra notturna di mille luci e con un serpentesco, inquietante Tamigi ad attraversarla, una città ripresa dal cielo simile a un’astronave in cerca di allunaggio, fantasmagoria luminiescente che somiglia a tutte le peggiori metropoli-trappole viste al cinema, la Los Angeles di Collateral, la Tokyo di Enter the Void,la città futura di Blade Runner. Il giorno ha sempre la luce livida dell’alba, sparatorie e inseguimenti e amazzamenti si svolgono in location-landmark come Trafalgar Square, eppure vuote, spettrali, fantasmatiche. Come se un metafisico alla De Chirico avesse ridisegnato la città a uso del film. Il regista Nick Love, di cui poco sappiamo, mostra di avere stile al massimo grado, racconta bene una bella storia e la mette in pagina ancora meglio…
è non solo un magnifico action che si segue sussultando e senza un attimo di requie, ma una discesa in uno di quegli inferni in cui ogni legge è sospesa, dove il male si oppone al bene ma qualche volta lo incontra e gli si sovrappone. Uno di quei film, che con il pretesto del cinema di genere, affonda nel sottosuolo pernennemente barbaro del nostro Occidente e ti mette di fronte all’incoercibile esistenza e virulenza del selvaggio. Ray Winstone gigantesco, orsonwellesiano. Qualche incongruenza (la facilità con cui Regan esce di galera), ma sono difetti minimi in un gran film.

all this criticism aside; it remains a perfectly watchable genre movie. It has good atmosphere to it and you have to remember this is a British production, so it's quite different from a more polished Hollywood production, so to speak.
You could call this a raw and gritty movie with its story but even more so with its characters. In essence the goods guys are sort of scoundrels as well, despite the fact they work for the police. The break the law to get suspects and evidence but also for their own personal benefit. I guess this also was what made the TV-series popular at the time and also still makes this movie distinct itself somewhat from other similar genre movies. You are sort of rooting for bad guys, which is not an easy thing to achieve, for any sort of movie.
But you can thank the cast for making it work out. Ray Winstone is a great main character, with the right sort of look as well. He looks tough and mean but you still know he can be a loyal and great guy to hang around with, as long as you stay on his good side.
There also is plenty of action to enjoy. Nothing too big but still quite spectacular at times. There are some long shootouts car chases and good old fashioned fist fights to enjoy in this, so you could hardly call this movie a boring one. 
It all adds up this movie being a slightly better than average one, though the fact that it's a sort of low-key and low-budget production shall probably mean not that many people will ever see it.

Ispirato all'omonimo protagonista della fortunata serie tv in onda negli anni '70, il personaggio interpretato da Ray Winstone si fa portavoce di una morale assai dubbia in cui il fine giustifica i mezzi e il fine, nel suo caso, è quello di sbattere dietro le sbarre i criminali usando ogni metodo, lecito o illecito. Regan non teme i rischi derivanti dal ritagliarsi un ricavo personale in ogni missione e così facendo si attira le ire dei superiori che mettono in piedi un'inchiesta interna sui comportamenti della sua squadra. L'ambiguità mostrata sul lavoro si rispecchia nel privato, visto che l'uomo ha una relazione con una dei suoi agenti, l'ottima Hayley Atwell, qui in un ruolo altrettanto spregiudicato, sposata con un altro superiore, eppure completamente disinibita sessualmente. Nick Love non ama le mezze misure. Nel suo universo niente è tutto bianco o tutto nero e ogni personaggio, pur trattato come figura di genere, senza un approfondimento psicologico realmente acuto, si distingue per le proprie ambiguità e incoerenze…

…La scena iniziale, che strizza l’occhio alle cold open dei telefilm, è UNA BOMBA, una mega-rissa tra guardie e ladri con certe mazzate (date con vere mazze da baseball!) che le senti pure te attraverso lo schermo. In generale, tutte le scene d’azione sono ben coordinate, compresi gli inseguimenti (marchio di fabbrica della serie originale, mi è parso di capire) che non sono proprio il mio genere eppure trovano sempre il modo di tenerti incollato allo schermo.
Bella e riuscita anche l’alchimia tra i due protagonisti: è chiaro che Drew non è proprio un attorone, ma Winstone lavora per entrambi e fa l’impossibile per non mangiarselo. E sentiti ringraziamenti a chi ha deciso di proporci una dinamica poliziotto giovane/poliziotto vecchio scevra da tutte le cagate e i luoghi comuni cui ci ha abituati la filmografia americana di genere (allievo/maestro, impulsivo/saggio, rampante/mi-mancano-5-giorni-alla-pensione eccetera eccetera)…

venerdì 21 luglio 2017

Devil's Knot - Fino a prova contraria – Atom Egoyan

Atom Egoyan gira negli Usa una storia nella quale l'unica certezza è che tre bambini di otto anni vengono ritrovati ammazzati, con una fine crudele.
cosa è successo non lo sapremo mai, che quei tre ragazzi condannati non sono colpevoli è un'altra ipotesi.
non è un film dell'orrore o di violenza, per buona parte è girato in un tribunale.
Colin Firth è l'attore più famoso, un investigatore privato che fa bene la sua parte, in un gioco già deciso dalla vox populi (e dalla tv che amplifica gli umori).
chi si aspetta grandi scene madri sarà deluso, è un film fatto di silenzi, di sguardi, di attese.
a me è piaciuto - Ismaele






Dotato di un gusto particolare per l'essenziale, in questo caso il regista non lascia grande spazio all'espressione emotiva della vicenda, ma si concentra sulla ricostruzione del caso riuscendo allo stesso tempo a descrivere con particolare "fastidio" l'ottusità di una certa provincia americana guidata dal bisogno di aderire a delle convenzioni sociali obsolete.
Una scelta a prima vista fredda e piuttosto drastica ma che invece rappresenta chiaramente la posizione assunta da Egoyan rispetto all'insieme piuttosto confuso di stravolgimenti emotivi e prove inquinate che hanno caratterizzato il caso. Attento, scrupoloso e non nascondendo una sua personale opinione, il regista non cede alla tentazione d'imporre la propria presenza e, utilizzando l'eleganza moderata di Colin Firth, veste il doppio ruolo di osservatore e narratore. In questo modo l'attore, anche se posizionato sempre in una posizione marginale rispetto alla scena del delitto e allo svolgimento processuale, rappresenta lo sguardo con cui il pubblico raccoglie informazioni sulla realtà rappresentata. Stanco e fiaccato dai suoi insuccessi personali, il personaggio continua a lottare spinto dall'ideale di giustizia e dalla necessità di salvaguardare un futuro minacciato proprio dagli uomini. Per questo, seduto tra la folla o sul fondo dell'aula, Colin Firth continua ad imporre la sua presenza mai invasiva per definire il particolare all'interno di un insieme universale. Un lavoro che Egoyan svolge, allo stesso tempo, con la macchina da presa intervallando close up intensi a campi lunghi per raccontare le reazioni dei singoli in relazione con una comunità spesso soffocante e impersonale. Il tutto con un minimalismo che potrebbe rasentare la freddezza, ma che lascia spazio alla forza naturale del dramma liberato da ogni orpello narrativo.

Egoyan mette in scena un film crudo, freddo, quasi analitico. Il caso giudiziario viene preso in esame non tralasciando nessuna parte. La sequenza del ritrovamento dei tre cadaveri è un vero pugno nello stomaco  oltre ad essere una delle rare volte in cui un poliziotto americano viene mostrato sconvolto per un cadavere (siamo lontani anni luce dalla situazione alla CSI dove i detective sono dei superumani immuni alle emozioni). Di contro il lavoro che fa Egoyan alla regia è a tratti quasi documentaristico: pochissimi esterni e molte scene in tribunale, è quasi un esposizione pura  dei fatti riportati sul verbale del caso. Più romanzata è invece la parte che riguarda le motivazioni personali di Ron Lax. Egoyan però non esagera mai e rimane sempre fedele all’impostazione “realistica”, non prova nemmeno a dirci chi ha ucciso i tre ragazzi, nella realtà non si è mai saputo e quindi lui non si sente in diritto di inventarselo. Insomma promosso a pieni voti…

…Facile accostare, quantomeno per ambientazione, quest’ultimo a Fino a prova contraria. Ma la spettrale freddezza del racconto visivo e il peso quasi insostenibile di ogni suo fotogramma, sottolineato da continui flashback e flashforward, rendono Fino a prova contraria il frutto di un pessimismo senza fondo. Come se l’animo umano non si potesse mondare dal marciume di cui è destinato a nutrirsi, e sia costretto a convivere con i propri errori, a volte intravedendo una piccola luce (come la madre di uno dei tre bimbi assassinati, interpretata da una convincente e dolente Reese Whiterspoon), più spesso preferendo crogiolarsi nelle sue sciocche certezze, alimentate dal peso delle menzogne.
Con astuzia, Egoyan e gli sceneggiatori non forniscono certezze, ma accennano e ipotizzano delle possibili soluzioni, smentibili perché anch’esse puramente indiziarie. Si spiegano così alcuni salti logici nello script, come a sottolineare l’impossibilità del raggiungimento di una verità universale. Nerissimo e cupo nel suo gelido spessore, Fino a prova contraria inquieta, insinuandosi silenziosamente sotto pelle. Un bel ritorno, per un maestro del cinema contemporaneo.

…Il problema è che Devil's Knot - Fino a prova contraria non fa quel che sarebbe stato più intelligente fare: osservare la storia attraverso i risvolti psicologici, dal punto di vista dei personaggi, magari da un punto di vista popolare. In questo film invece non c'è un vero e proprio approfondimento, tutto sembra trovarsi là per caso e i margini su cui gli stessi attori hanno potuto lavorare sono minimi. E allora ci ritroviamo con una brava e sfattissima Reese Witherspoon alle prese con un personaggio (Pam Hobbs) insipido, quasi appena abbozzato nonostante la sua importanza, e con un Colin Firth assolutamente imbambolato e monocorde nel ruolo di un investigatore privato che chissà perché prende tanto a cuore una vicenda del genere. Non parlo degli altri attori, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Credo che le colpe però siano da dare soprattutto alla coppia di sceneggiatori, Paul Harris Boardman e Scott Derrickson. Quest'ultimo (regista di Sinister) delude ancora una volta in fase di scrittura soprattutto quando affronta la componente religiosa, presente e per lui (si sa) molto importante ma qui trattata come nel peggior film televisivo del pomeriggio presto. Ed è proprio dal punto di vista della sceneggiatura che il film vacilla maggiormente. E sembra che la lezione impartita in questi ultimi anni da illustri predecessori (uno su tutti? Mystic River) non sia stata realmente recepita. Un vero peccato, perché una storia del genere avrebbe meritato molto di meglio. Non di certo questo film assolutamente inutile che non lascia nulla se non un gran senso di delusione. E questa è la cosa peggiore di tutte.

Il grande assente alla fine è proprio la cultura metal - occultistica, che avrebbe fornito sulla carta un ottimo spunto cinematografico. In particolar modo essere riusciti a rendere non interessante un personaggio come Damien Echols (il principale accusato) deve essere stato non semplice dati i diversi livelli di lettura (dal disagio sociale, alla follia, all'intellettualismo) con cui poteva essere affrontata la sua vicenda umana. Sarebbe forse bastato assegnare il ruolo alla stella in ascesa Dane DeHaan invece di relegarlo inspiegabilmente in un ruolo minore. Ma Egoyan non persegue neanche la strada del film di critica sociale: alle gravissime colpe della polizia o all'oppressione religiosa nella Bible belt viene dedicato il minimo tempo possibile. Insomma questi fatti sono successi senza contesto, senza significato, quasi verrebbe da dire senza conseguenze, e il punto di vista da cui vengono guardate è quello della lettura del verbale. Forse Egoyan si è fatto bloccare dal timore di dire qualcosa di improprio in una vicenda che aveva già causato tanto dolore nella realtà?
Notare come il trailer sia volutamente ambiguo, dato che i) fa vedere DeHaan in manette (così suggerendo sia uno degli imputati, quindi uno dei protagonisti), ii) si basa in buona parte sui sogni in modo da tale da far credere che si tratti di un horror quando invece è un legal thriller e pure piuttosto piatto.

giovedì 20 luglio 2017

De noorderlingen (Les Habitants) – Alex van Warmerdam

in un paese nel quale l'impresa ha finito i soldi, e solo poche case sono state costruite e abitate succedono un bel po' di cose strane, un po' Tati, un po' fantascienza, famiglie infelici, bambini in fuga dalla famiglia, nascondigli sottoterra (prove per Borgman), i miracoli, le corna, in quel villaggio c'è il mondo.
cercatelo e guardatelo, vi stupirà - Ismaele

ps: il ragazzo grasso in bicicletta è Theo van Gogh (qui, per chi non si ricorda)



In una cittadina olandese degli anni '60, che sembra un villaggio western, brulicano personaggi inquietanti: dal postino che legge la corrispondenza di tutti all'autorità pubblica che gira armata con un fucile da caccia, fino al macellaio erotomane. L'insieme viene osservato attraverso lo sguardo del figlio adolescente di quest'ultimo, un adolescente che si identifica con Lumumba, figura di primo piano della rivolta indipendentista del Congo Belga.
L'inconfondibile registro cinico-grottesco di Alex Van Warmerdam (il regista del capolavoro Il vestito) viene messo a servizio di un'analisi spietata dei rapporti di vicinato. Con sequenze che stanno tra le coreografie da musical e gli elementi fiabeschi, il regista olandese ci consegna un ritratto corale spietato e straniato di una piccola comunità voyeurista, rappresentata da individui sordidi e infingardi. L'assemblaggio dei tanti personaggi però non riesce fino in fondo e nella seconda parte il film perde mordente, finendo con l'esaurire le risorse migliori e avvitandosi su se stesso…

When you're watching an Alex van Warmerdam movie you know you're to get something interesting and unusual. He always fills his films with a large amount of surrealism but at the same time knows to keep his films accessible and watchable for the main stream public. It might very well be true that this movie is his best known and most appreciated movie.

It's not the type of movie with a clear point or purpose but this doesn't prevent this movie from being simply an enjoyable one to watch. This movie is mostly so fun to watch due to its many eccentric characters and unusual settings.

The entire movie is set in an housing development, that consists out of one long street, without pavement on the road, with a school and butcher shop. At the end of the road there is a bus-stop and an artificial planted small forest. This is their entire world. It's set in the '60's, which of course also gives the movie a certain atmosphere but really this movie could had also easily been set in modern time and it just wouldn't make that much different to the story or any of its characters.

The movie is filled with lots of eccentric characters. Every characters has somethings strange or unusual around him or her, some more extreme than others. It are mostly this quirky little aspects about each and every character that makes this movie such a fine comedy, since its not a movie with an awful lot amount of dialog and its also a rather slow moving movie, with long stretched shots…

Anni '60, Olanda: in un aborto di quartiere residenziale sorto in mezzo al nulla, campionario di varia umanità: il postino indiscreto (interpretato dal regista), il macellaio in fregola con moglie casta sulla via della santità, la guardia forestale miope e sterile... Commedia nera in cui l'assurdo va a braccetto con la satira: la "gente del nord" del titolo è limitata, meschina, razzista, oscillante fra sessuofobia e sessomania. Si salva solo un ragazzino che, per trovare un eroe in cui immedesimarsi, se lo deve andare a cercare in Congo. Film felicemente spiazzante, sorprende e diverte.
Film de groupe, davantage que film choral, Les habitants évolue sur un ton et une forme étranges, difficiles à saisir et classer, entre la rigueur burlesque des cadres d’un Tati et un regard parfois quasi-documentaire sur des vies individuelles dotées chacune de leur singularité. Alex van Warmerdam – précurseur en ce sens d’un Kaurismaki ou d’un Von Trier – expérimente un emploi trouble du studio et du décor naturel, dont les codes se modifient au fur et à mesure que la psychologie collective de la ville évolue. Le personnage le plus important des Habitants est peut-être l’espace, qui conditionne la mentalité du groupe et crée une forme de huis-clos organisé selon des règles originales. De manière paradoxale, les espaces faussement « naturels » (la forêt) se révèlent les espaces de l’enfermement et de l’intimité, en ce qu’ils sont riches de creux et de recoins obscurs, quand les lieux d’habitation, troués de larges fenêtres et bouchés par le vis-à-vis, sont précisément ceux où l’on peut soi-même observer et être observé…

Reposant sur une galerie de personnages excentriques et assez peu attachants, extrêmement économe en mot, très stylisé - à la limite de la préciosité - dans sa direction artistique comme dans sa narration un peu abstraite, rythmé sur un tempo plutôt lent mais composé d’une succession de petits morceaux de bravoure, et habillé d’une bande-son qui n’épargne ni les silences dérangeants ni les dissonances, Les Habitants pourra désarçonner, et il sera aisé aux déçus de l’évacuer du revers d’une expression péjorative du type "cinéma poseur" ou "arty". Il aura toutefois, à sa manière et aux côtés, par exemple, d’un Aki Kaurismaki, contribué aux débuts des années 90 à l’émergence d’un courant du cinéma nord-européen, habité par un véritable regard sur le monde et une volonté constante de composer des images fortes et insolites. A cet égard, il mérite indéniablement la (re)découverte.

Assez difficile à définir, Les Habitants est une comédie surréaliste empreinte d’un bel humour légèrement teinté de noir : insolite, baroque, fantaisiste, original, saugrenu,… tous ces adjectifs peuvent s’appliquer au film et, surtout, à ses personnages. Il y a de belles trouvailles, l’écriture est précise et on comprend aisément que la préparation ait nécessité de nombreux mois. Au-delà de l’humour, Alex van Warmerdam porte un regard sur notre faculté à vivre ensemble, il oppose le monde de l’enfance et le monde des adultes, ou plus exactement fait un parallèle entre les deux. Le réalisateur utilise l’excentricité pour mieux faire ressortir certains traits de caractère qui peuvent s’appliquer à tout un chacun. La photographie est assez belle, très épurée et aux couleurs vives. Les Habitants donne vraiment envie de découvrir les autres films de ce cinéaste néerlandais.

lunedì 17 luglio 2017

Glassland - Gerard Barrett

due attori straordinari come Toni Collette e Jack Reynor (già visti in altri film, lei qui e lui qui,  per esempio) sono mamma e figlio, e tocca a John farsi carico di Jean, la madre.
sceneggiatura perfetta, niente melensaggini, né prediche, le cose vanno davvero male, senza finte, con difficoltà enormi, come è la vita per quelli sfortunati.
solo se sei già morto questo film ti lascerà indifferente.
è piccolo grande film da non perdere - Ismaele







La presentación del protagonista es de un pragmatismo ejemplar. Con tan sólo una escena somos capaces de conocer las rutinas generales por las que discurre la vida de este taxista que, tras llegar a su casa después de un largo turno de noche, se encuentra a su madre, con quien comparte casa, inconsciente en su propio vómito. La precisión de cada movimiento y la relativa calma con la que asume la penosa situación nos dan a entender que éste es un escenario conocido para el personaje principal. No ha sido la primera vez que ha tenido que llevar, con una mezcla de preocupación y vergüenza, a su madre al hospital; sin embargo, a deducir por las palabras del médico, sí que podría ser la última. El doctor ofrece pocas esperanzas a John. Su madre debe dejar el alcohol inmediatamente o morirá, incluso si decidiera dejarlo es posible que no sobreviva si no encuentra el tratamiento adecuado a tiempo…
Glassland se hace eco de toda esa violencia hegemónica para componer su canto a la depresión y a la dramática situación de cientos de familias desestructuradas. Pero ante todo, Glassland es una historia de amor incondicional. Ese vínculo inquebrantable y único que se crea entre una madre y un hijo. 

Irish writer-director Gerard Barrett’s second film, the sensitive and heartbreaking Glassland, premiered at Sundance last year. Jack Reynor stars as the almost grown boy John who is dealing with the daily stress of being forced to become his parent’s (Toni Collette) parent. His mother is an alcoholic and taking care of her is a frequent source of frustration and anger. But you really see the love shared between them even though she’s not able to take care of herself, let alone her son. Most of the film is shot from John’s perspective, capturing the loneliness of taking care of an adult who should be taking care of him — exacerbated by the fact that his best friend (Will Poulter) is about to move away…

Movies alone don't have the power to discourage people from drinking or encourage them to stop; but if they did, "Glassland," about the relationship between an alcoholic mother and her grown son, might not be a bad candidate to show on Intervention Movie Night. Written and directed by Gerard Barrett, this intimate Irish drama travels a road that'll be familiar to anyone who's ever seen a film about addiction, or known an addict, but the fact that all stories of addiction are essentially the same doesn't blunt its impact…

domenica 16 luglio 2017

State of dogs - Peter Brosens, Dorjkhandyn Turmunkh

quando Peter Brosens ancora non faceva i film con Jessica Woodworth.
la storia è quella di un cane che segue le vicissitudini della famiglia, che da pastori della steppa diventeranno, forse, baraccati della capitale.
e Basaar, uno della famiglia, viene, forse, abbandonato, o si perde, e diventa un cane randagio, uno dei tanti, troppi, e l'unica sua speranza è la reincarnazione.
film unico, che merita davvero - Ismaele



Baasar è un cane randagio. Mentre sta vagando tra le strade della capitale Ulan Bator, viene ucciso da cacciatori il cui compito è ridurre il numero, altissimo, di cani senza padrone presenti in città. L’anima del cane si deve quindi reincarnare e, come si narra in una leggenda mongola, potrà avvenire sotto forma di essere umano, dopo aver passato una vita a vagare libero. Ma Baasar non vuole rinascere come uomo. L’anima di Baasar inizia quindi a ripercorrere tutta la sua esistenza: prima cane da pastore che viveva nella steppa con una famiglia nomade, poi abbandonato dai proprio padroni, infine l’incontro con una donna che aspetta un bambino.
Diretto dal mongolo Dorjkhandyn Turmunkh e dal belga Peter Brosens, quest’ultimo autore anche dello splendido Khadak (2006), State of Dogs è un film straordinario, sicuramente il migliore della Mongolia post comunista e forse dell’intera storia cinematografica di quel paese. Si tratta di una pellicola difficile da definire e inserire in un genere preciso. Elementi di finzione si integrano con stralci documentari, quasi etnografici, e altri fiabeschi, fantastici e impressionisti, come impressionista è l’immagine di Ulan Bator e della Mongolia che gli autori danno. Alle vicende del cane Baasar che non vuole diventare uomo, si affiancano leggende mongole, miti di fondazioni, cerimonie e canti popolari. Il risultato è un film profondo, riflessivo e altamente spirituale, dal sapore quasi mistico, lento, ma mai noioso, che affascina sin dal primo istante.
La reincarnazione di Baasar si fa metafora della condizione umana, in cui tutto scorre e tutto è movimento. Come fa ben notare Carson Lund su Cinelogue, il movimento è il tema centrale della pellicola, il nodo focale: il fluire della vita e il rapporto vita-morte sono mostrati visivamente attraverso movimenti reali e concettuali. Si va dall’errare del cane randagio al vagare della sua anima, dal transito di treni e auto in paesaggi sconfinati sino al passaggio dai costumi tipici a quelli della modernità. Il tutto si conclude con la scena che vede protagonista una contorsionista, che si esibisce sulle note di Charo Calvo, e che dà bene l’idea quasi di un’astrazione della vita.
Il misticismo di State of Dogs è autentico e non infastidisce certo lo spettatore che si ritrova trasportato in una realtà lontana. Presentato alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e al Festival di Toronto, ha vinto 18 premi in giro per il mondo, tra cui il Grand Prix al Visions du Réel Film Festival di Nyon, Svizzera, tra le principali manifestazioni documentaristiche internazionali. Sono premi davvero meritati.
da qui

sabato 15 luglio 2017

You, the Living (Du levande) - Roy Andersson

You, the Living contiene già Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, il film premiato a Venezia nel 2014.
comico e tragico si alternano e si rincorrono, in quel mondo lontano che è il nostro.
secondo me sarebbero piaciuti a Giacomo Leopardi, questi 50 piccoli e densi episodi da Zibaldone dell'umanità.
gran film, da recuperare senz'altro - Ismaele

ps: Roy Andersson ha fatto molti corti pubblicitari, imperdibili; per chi li vuole (ri)vedere, eccoli qui







Andersson’s “You, the Living” is hypnotic. Drab, weary people slog through another depressing day in a world without any bright colors. A bitter alcoholic woman sits on a park bench hatefully insulting a fat, meek man, screams that she will never see him again, finds out there’s veal roast for dinner, and says she may drop by later. A tuba player complains that the bank has lost 34 percent of his retirement fund. He says this while a naked Brunnehilde with a Viking helmet has loud sex with him. A carpet salesman loses a sale because someone sold the end off a 10-foot runner.
So it goes. There are 50 vignettes in this film, almost all shot with a static camera, in medium and long shots. Sometimes the characters look directly at us and complain. A psychiatrist says he has spent 27 years trying to help mean and selfish people be happy and asks, what’s the point? A girl imagines her marriage with the rock guitarist she has a crush on. The tuba player is hated by his wife and his downstairs neighbor. A bass drum player is also unpopular when he rehearses…

Andersson -todo un director de culto- no volvió a filmar hasta 2007, cuando estrenó en Cannes Du levande, aquí rebautizada como La comedia de la vida. Sin dejar de reconocerle méritos, la visión -en un mucho más modesto microcine de la calle Ayacucho- de su nuevo trabajo no me generó ninguna de las sensaciones que aún conservo de aquel film que aprecié en 2001: fascinación, asombro, entusiasmo.
No sé quién cambió más (probablemente sea yo), pero el efecto ya no fue el mismo. Y digo que el "problema" aquí es el receptor porque el cineasta sueco sigue sosteniendo y hasta redoblando la apuesta por historias corales, episódicas, que ofrecen una visión pesimista, desesperanzada sobre la angustia existencial, sobre la vida más bien gris de los centros urbanos, con sus atascamientos de tránsito, sus moles de hormigón, sus borrachines de bar, sus penosos músicos, sus empresarios despiadados, las pesadillas de sus antihéroes (como un albañil que es ejecutado en la silla eléctrica por romper un juego de porcelana), bombardeos y lluvias bíblicas.
Entre el humor físico, el surrealismo/lo onírico y la tragicomedia negra (una extraña mezcla entre Buster Keaton y Jacques Tati, Delicatessen y Aki Kaurismäki), Andersson construye una fábula que recurre siempre al humor absurdo, al artificio, a la exageración y al desparpajo. Su cine, es innegable, está lleno de ideas, muchas de ellas muy buenas, pero, al menos en el caso de La comedia de la vida, la acumulación abruma y la suma, el resultado final, es menos interesante que cada una de sus partes por separado.
De todas maneras, aunque no es una propuesta que me haya generado un efecto eufórico, la recomiendo. La recomiendo porque es Andersson un autor a contracorriente, dueño de un cine diferente y simpre arriesgado. Y porque es una proeza que se sigan estrenando este tipo de películas, en fílmico, en un mercado tan diezmado como el actual. Ojalá le vaya bien. Se lo merece.

However, You, the Living goes off the tracks in choosing its targets. In Songs from the Second Floor, Andersson took aim at corporate hot shots and government officials for their mendacious, clueless behavior. His satire was barbed and appropriately savage. Unfortunately, You, the Living takes aim at ordinary people. Andersson, who also wrote the script for the film, makes fun of curious customs (strange movements to a song sung at a formal banquet), infirmaties (a man using a walker pulling a dog hopelessly entangled in its leash), and annoying behaviors (playing a tuba in the house). These bits are laugh-out-loud funny, but they are cheap shots nonetheless and rather pointless. Yes, some people will never be satisfied, and we might just blow ourselves up because we don’t seem to know any better. But seeing the world as populated with miserable grotesques is more than a caricature; it’s a deeply misanthropic world view that really doesn’t offer much to movie audiences but a chance to feel mean and superior, too…


giovedì 13 luglio 2017

Non dico altro - Nicole Holofcener

è il primo film con James Gandolfini che vedo,è davvero bravo, purtroppo non c'è più.
il film poteva essere una scemenza come tante, ma i protagonisti sono davvero vivi, potrebbe essere un documentario, per quanto la finzione è ben nascosta.
si resta senza parole, ed Eva e Albert li vorresti come amici, davvero.
non privatevene, buona visione - Ismaele





Nicole Holofcener si accolla una sfida non banale: realizzare una commedia romantica con tutti i crismi (corteggiamento, incertezze, coro di comprimari chiacchieroni, scene madri) scegliendo due protagonisti che non hanno (quasi) nulla di seducente. Due persone normali: entrambi hanno passato i 40 da un po', entrambi hanno un divorzio e una figlia da gestire, lui tende all'obesità e lei tende ad avvizzire. Hanno lavori poco cinematografici e carriere tutt'altro che rampanti: lui fa l'archivista di vecchi e dimenticati programmi televisivi americani, lei la massaggiatrice a domicilio. Non hanno voglia di strafare, non sono interessati al gioco estenuante della seduzione, non vogliono piangersi addosso ma nemmeno spacciarsi per quello che non sono: cinematograficamente, una bella sfida, soprattutto a livello di scrittura…
… E poi c'è James Gandolfini, cui il film è dedicato, in un'interpretazione postuma che fa rimpiangere tutto ciò che non ha avuto il tempo di dare al cinema. Principe azzurro fuori formato e fuori tempo, gli occhi due pozze di malinconia, il sorriso dolente e una vulnerabilità esibita con misura e pacatezza, Gandolfini scolpisce con perizia il proprio personaggio sullo schermo

Un’ipotesi: diretto da un uomo Non dico altro sarebbe stata l’ennesima farsa degli equivoci, con corollario di stantie amenità sessuali. Il tocco delicato dell’abile Nicole Holofcener, invece, riesce a fare dell’inconsistenza uno spettacolo gradevole, partendo da un soggetto che non è che un’ideina...

Qui la storia è quella di una relazione matura e di un intrigo nato da un equivoco, in cui la protagonista, la piacente Eva, si innamora del goffo Albert. Ma Albert è James Gandolfini, al quale il film è dedicato, che forse ha chiuso la sua vita d’attore su questo set e la sua presenza valorizza il film. Ma Non dico altro riesce a funzionare, anche per merito della schiera d’attrici di consumata esperienza, Julia Lous-Dreyfuss, Catherine Keener, Toni Collette che fanno da contorno al già citato Gandolfini, grazie ad una scrittura incalzante, ad una struttura collaudata, in altre parole è uno di quei film per cui alla fine ci si domanda cosa abbia trattenuto in sala, tanti spettatori così attenti, accorgendoti di essere stato uno di loro, condividendo la leggerezza della sua regista nel disegnare la vita di quei personaggi, depurata dai momenti noiosi dell’esistenza, che, come diceva qualcuno, pare sia uno dei compiti del cinema. Nicole Holofcener e la sua equipe hanno imparato da tempo questa semplice, ma non semplicistica lezione.

la fisicità dei due attori protagonisti è il punto di forza della narrazione: Julia Louis-Dreyfus, che molti ricordano soprattutto come la Elaine della sitcom Seinfeld, è una piccoletta il cui corpo infantile fa il paio con l'immaturità sentimentale di Eva; James Gandolfini, qui alla sua ultima interpretazione, è un orso dallo sguardo buono, il cui primo istinto è quello di abbracciare e accogliere chiunque abbia di fronte. Non dico altro meriterebbe di essere visto anche solo per come sa mostrare l'altra faccia di un attore noto per i suoi ruoli di mafioso e di killer, e invece capace di infinita tenerezza espressa in delicatissime sfumature di emozione.
Eva e Albert (basterebbe poco a trasformare i loro nomi in quelli della prima donna e del primo uomo) sono lo specchio della solitudine e dello smarrimento contemporaneo, dei tanti single"stanchi di guerra" e spaventati dalla propria ombra, tanto fragili e insicuri quanto terrorizzati dalle debolezze altrui e dagli altrui fallimenti. La loro paura di invecchiare da soli, ora che le figlie stanno prendendo il volo, li spinge a tenere lo sguardo abbassato verso il baratro invece che sollevato verso l'orizzonte. Ed è soprattutto la donna a cercare compulsivamente i punti deboli dell'uomo privandolo del suo diritto alla fallibilità, che è proprio quello che lo rende "sexy" e amabile. Eva sconta decenni di modelli plastificati, cerca con il lanternino i segnali d'allarme di un disastro imminente, e maschera con la propria intolleranza il disagio che prova verso se stessa e verso le proprie inadempienze…