mercoledì 29 ottobre 2014

Arna's Children - Danniel Danniel, Juliano Mer-Khamis

difficile trattenere le lacrime e la rabbia vedendo un documentario così, che racconta e dice molto di quello che è successo, succede e succederà.
nato per ricordare Arna, la madre di Juliano, il documentario cresce e diventa un film collettivo, su una generazione e un popolo, bambini e ragazzini per i quali Arna era come una madre e crescendo diventano partigiani e guerriglieri contro l'invasore (non a caso si chiamano "territori occupati").
i ragazzini che hanno fatto teatro con Juliano, crescono e scelgono da che parte stare, e ricordano tutti quel teatro, Arna e Juliano fra le cose più belle della loro vita.
nel film Juliano ci fa conoscere i suoi ragazzi, e non fa sconti a nessuno, dice e chiede quello che pensa.
adesso Juliano non c'è più (leggine qui).
se non l'avete mai visto provateci, le parti in arabo e in ebraico sono sottotitolate, non spaventi la parte in inglese, abbastanza comprensibile - Ismaele



C’era una volta un’israeliana che decise di dedicarsi ai bambini del campo profughi palestinese di Jenin, facendo disegno e teatro; anni dopo il figlio, attore, va alla ricerca di quei bambini, diventati vittime o terroristi. Tanto suggestiva ed emozionante è la prima parte con l’eccezionale figura della trascinatrice Arna, una vera forza della natura, quanto straziante e disperante è la seconda, scandita dall’invasione dei carrarmati e dalla morte, per concludersi su ragazzini diversi, senza teatro ma con troppa rabbia nel cuore. Imperdibile.

…"Arna’s Children" è il più straordinario e commovente, più utile di tanti articoli per comprendere la situazione israelo-palestinese e l’oppressione del Popolo palestinese.
Mi ha colpito il coraggio, l’altruismo e la saggezza dell’ebrea Arna che pur gravemente ammalata esce dall’ospedale per difendere il suo Teatro di Jenin e mi ha rattristato e commosso vedere quei bambini e ragazzi palestinesi intelligenti, vivaci, con grande voglia di vivere ma già colpiti fin dall’infanzia dall’uccisione di famigliari e di amici e dalla distruzione delle loro case, e poi vedere e sentire che sono stati uccisi dopo pochi anni, appena diventati adulti . Non si può dimenticare l’immagine di Ala seduto a 10-11 anni sulle macerie della propria casa e vedere un manifesto con la sua immagine con il figlio appena nato, al momento della sua uccisione

Gripping virtually from start to finish,Arna's Children is an examination of several Palestinian children living in a refugee camp within Israel. Arna Mer was an Israeli woman who married a Palestinian, and - at some point after that - eventually switched sides and started a theater group for kids in Jenin. But, true to the film's title, the film isn't about Arna as much as it is about her "children," several of whom we follow from their youth into adulthood. Co-director Juliano Mer Khamis shot a lot of footage in the early '90s of some of the kids, and then returned to Jenin in 2002 with Danniel Danniel to discover what happened to them. We soon learn many took up the Palestinian cause and subsequently died for it; in one of the film's most heart-wrenching moments, a mother discusses the death of all her sons save one (and even admits that she'd rather see him killed than captured). Arna's Children is chock full of emotional revelations like that one, including Khamis' realization that one of the "children" gave his life for the cause - and even left behind a farewell tape for his friends and family (which we see portions of). In the end, that's what makes Arna's Children so riveting; as a rare glimpse into what life is like for Palestinians on a day-to-day basis, the film is clearly an important work that deserves to be seen.

Heartbreakingly compassionate, this 2003 Israeli documentary by Danniel Danniel and Juliano Mer Khamis starkly juxtaposes a Jewish woman's founding of a theater workshop for Palestinian refugee kids in 1989 and her actor son's quest to discover what happened to these kids over a decade later and why. In contrast to the clueless media cliches about suicide bombers, this offers a comprehensive and comprehending portrait of what helps to produce them.
da qui

lunedì 27 ottobre 2014

Il giovane favoloso – Mario Martone

le cose positive: Elio Germano è un bravissimo attore e Giacomo Leopardi è e resterà uno dei più grandi della letteratura italiana.
in realtà dentro c’è di tutto un po’ e Germano recita alcune poesie e alcune prose di Leopardi.quando ero bambino avevo un disco di Arnoldo Foà (oltre allo Zecchino d’Oro, naturalmente) che recitava “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia” (qui), adesso ho ascoltato anche Elio Germano che recita Leopardi, sempre brani e poesie più brevi, per non stancare lo spettatore.
il film è meglio nella seconda parte (in alcuni tratti mi ha ricordato “Faust”, di A. Sokurov, che non mi aveva entusiasmato), ma complessivamente mi sembra un film nazional-popolare, didascalico e superficiale di cui non sentivo il bisogno, ma tanti altri forse sì, a vedere la fila che ho fatto per entrare al cinema.forse qualche ragazzina/o in più leggerà Leopardi pensando a Elio Germano, qualcun altro si ricorderà di quando era giovane, chissà…
mi sa che fra qualche mese vedremo il film in due domeniche consecutive su Rai1 in prima serata, amen - Ismaele

ps: aggiungo le considerazioni di Letizia (mia figlioccia di 15 anni), e di Andrea, un amico, che 15 anni li ha avuti, qualche decennio fa.




Film emozionante dove l' arte della poesia e del cinema si fondono creando un'opera intensa, malinconica e sopratutto profonda. Un Elio Germano dallo sguardo infinito che ci mostra un Leopardi introverso, ipersensibile, geniale e tormentato;un Leopardi scomodo nella sua epoca per il suo materialismo (derivato dagli ideali illuministi) e per il suo pessimismo attribuitogli ingiustamente per il suo stato fisico, pessimismo di cui i letterati e gli intellettuali si lamentano ricevendo come risposta:"dovrete convincermi che l'umanità felice è formata da individui infelici". Un film poetico dall'immensa conclusione dove Leopardi ammirando in una notte stellata il Vesuvio recita "la ginestra, o fiore del deserto" sua personificazione :" E tu, lenta ginestra, che di selve odorare queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel possenza soccomberai del sotterraneo foco, che ritornando al loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste..."
Letizia


Vedo recensioni entusiastiche sul Leopardi di Martone e trasecolo. Certo, Elio Germano è bravo, ma il film si spiaggia continuamente su banalità e buone cose di pessimo gusto per solleticare senza posa le reminiscenze dello spettatore medio italiano, con media cultura liceale. Nessun coraggio, quasi nessuna impennata che possa spingere questo film oltre il sano obiettivo di essere amato dai nostalgici di oggi e da tutte le quinte liceo da quest'anno fino all'eternità. Che occasione sprecata e che ruffianeria!
Andrea


Mario Martone ha fatto de “Il giovane favoloso” un riassunto di lezioni scolastiche, mettendo insieme un cast importante, composto di grandi nomi, come Isabella Ragonese e Iaia Forte, per mascherare la sceneggiatura un po’ debole e didascalica. Ovviamente andando a vedere un film su Giacomo Leopardi nessuno si aspetta le forti emozioni di Fast and Furious, ma probabilmente “Il giovane favoloso” non è un film da sala cinematografica, ma da divano, pantofole e pop corn.

…Non c’è niente di filologicamente sbagliato o trasandato nel film. E anche se ci fossero errori o forzature filologiche davvero poco importerebbe. C’è piuttosto una sorta di tensione illustrativa, più che narrativa, che ricorda una certa tradizione (penso ai film della Cavani dedicati a Galileo o a Nietzsche) che io pensavo ci si fosse lasciati alle spalle.
Mi son così trovato, non senza vergogna, ma quasi spontaneamente e inconsapevolmente, ad accondiscendere con gli occhi, alla fine del film, all’esclamazione sgraziata e sconveniente di una terribile e antipatica signora seduta al mio fianco, con i vestiti da maschio anni ’70 che sapevano di migliaia di sigarette e caffè delle macchinette:
Piacerà moltissimo alle professoresse democratiche.

….Il giovane favoloso racconta un Leopardi profondamente umano, prendendo il più possibile le distanze dalla storiografia scolastica (non sempre riuscendoci, però), e assolutamente tutt'altro che rassegnato: la sua proverbiale infelicità infatti non deriva tanto dalla salute malferma, quanto dalla sconsolata visione di un Paese che rifiuta senza mezzi termini le aspirazioni e le capacità dei suoi cittadini più illustri, tarpando loro le ali anzichè stimolarne il talento. Che siano i rigidissimi genitori o gli spocchiosi 'colleghi' degli odiati salotti letterari poco importa: traspare evidente in Martone la volontà di rappresentare una realtà e una classe sociale poco aperta al progresso e prigioniera del proprio egoismo. IlLeopardi errante, ripudiato dalla famiglia, costretto a vagare povero in canna in giro per lo stivale, è l'emblema (purtroppo molto attuale) di una nazione che spreca i propri talenti migliori…

Il giovane favoloso, e non poteva essere altrimenti, procede con lo stesso passo del suo protagonista, instancabile flâneur: diseguale nel ritmo, si muove a strappi e a salti, alternando corse forsennate a pause inaspettate. Un perfetto correlato visivo della prosa leopardiana e del suo Pensiero “stupendo e tremendo”, in continuo mutamento. Non è un caso che le pagine meno efficaci del film siano soprattutto quelle in cui Martone sembra sforzarsi di “illustrare” le visioni leopardiane o di “dare voce” alla sua poesia. Con risultati, occorre dirlo, irrimediabilmente didascalici, e alcune cadute francamente evitabili (l'ultimo bacio di Consalvo, ad esempio, o il dialogo tra Giacomo e la Natura, ripreso dalle Operette)…

La visione del film Il giovane favoloso di Mario Martone richiede uno specifico livello di spettatorialitá. Fin dalle prime immagini, la macchina da presa costringe lo sguardo a seguire le linee tracciate dalle scelte stilistiche dell’autore. Lo scenario che predomina nella prima parte del film è quello di Recanati e di Palazzo Leopardi, da cui il giovane poeta sente sempre più forte il desiderio di andare via. Come scrive in una delle lettere a Pietro Giordani (lo scrittore italiano con il quale intrattiene una lunga corrispondenza) «unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia». Il desiderio di fuga appare, fin da subito, come un anelito alla conoscenza più profonda delle cose, che la casa paterna e i luoghi conosciuti non possono dargli. Leopardi non può far altro che immaginare, al di là della siepe che, come il «rovente muro d’orto» o la «muraglia con cocci aguzzi di bottiglia» di Montale, ostacolano la visione e si frappongono tra il poeta e l’esistenza. Riuscita contaminazione di cinema e letteratura, cinema e poesia, laddove quest’ultima trova il suo naturale prolungamento nelle immagini, mai banali, che vanno a tracciare la storia di un uomo reso immortale dai suoi versi…


domenica 26 ottobre 2014

Perfidia – Bonifacio Angius

capita a volte di vedere un film che poi ti resta in testa, e allora, per i miei gusti, un film che mi parla anche dopo è un film che vale, non so se in assoluto, per me di sicuro.
Bonifacio Angius è al suo secondo film, il primo, “Sa Grascia” (qui) è un film solare, bucolico, fantastico, invece “Perfidia” è un film livido, freddo, oscuro, realistico.
padre e figlio sono quelli di “Un borghese piccolo piccolo”, di Monicelli, la città potrebbe essere qualsiasi città del Nord Est di Pietro Maso, in realtà la città è quelle quattro strade, col il bar al centro, come in “Radiofreccia”, solo che non c’è nessuna via di fuga.
Angelino e suoi amici sono (ex) giovani, uomini senza qualità e senza futuro, se non in fondo a un bicchiere o  a un videopoker.
Angelino e suoi amici li conosciamo, sono quelli che alcuni di noi sono o sono stati, o almeno sono quelli che avremmo potuto essere, non sono altro da noi.
e il padre di Angelino (un attore bravissimo), che non interpreta il padre, è il padre, è il padre che abbiamo avuto, o avremmo potuto avere.
le donne sono un’altra specie, per Angelino, impossibile avere un rapporto appena umano, lui e suoi amici sembrano aver cominciato da ragazzini ad interpretare un ruolo, nella commedia umana, e poi ne sono rimasti imprigionati.
il film è rigoroso, impietoso, non ci sono scorciatoie, si ride e si scherza, anche, ma lo si fa sull’orlo dell’abisso.
cercatelo, non vi deluderà, non si abbassa verso lo spettatore, è lo spettatore che deve salire a un livello più alto del solito, per fortuna - Ismaele




Diciamolo, la diffidenza intorno a questo unico film italiano del Concorso internazionale era tanta. Stando alle voci che circolavano, Perfidia si annunciava come l’ennesimo film sociologizzante sulla generazione giovane, la generazione perduta dei trentenni condannata alla disoccupazione, alla passività sociale, all’eterno stare in famiglia ecc. ecc, e allora molti a pensare (me compreso), macheppalle sarà la solita lagna. Invece no, Perfidia è un film notevolissimo, e non è quella cosa lì che si temeva…

…Permane comunque, forte, la sensazione di trovarsi di fronte a un regista dal futuro tutt’altro che banale, conferma del talento già espresso quattro anni fa in Sagràscia e che deflagra in un finale di rara potenza ansiogena.

Un'immagine tanto reale da diventare a tratti insostenibile e che Angius porta avanti con grande coraggio e onestà, forse il pregio più grande di Perfidia, opera lontana dagli scandali, che non sembra mai procedere per tesi per porsi invece allo stesso piano, profondamente umano, dei suoi protagonisti. Un cinema quindi assolutamente vitale, a dispetto dell'aura mortifera che racconta. Capace di viaggiare nella tradizione (quanto ricordano Angelo e Peppino un'altra coppia padre/figlio, quella del monicelliano Borghese piccolo piccolo?) e nel cinema contemporaneo, fra pedinamenti dardenniani e uno sguardo internazionale che si rivela, paradossalmente, quello più diretto e tagliente possibile…

…Angelino non è lo scemo del villaggio, non è un depresso né tanto meno un bamboccione da stereotipo socioeconomico. Soffre piuttosto di un autismo sociale che non gli impedisce di porre e di porsi domande (solo apparentemente banali) che vanno ad impattare contro un muro di gomma che persegue l’indifferenza come obiettivo auspicabile. Anche quando sembra che la vita gli scorra sopra senza lasciare traccia nel suo intimo impermeabile a qualsiasi evento non è così…
da qui



venerdì 24 ottobre 2014

Buoni a nulla – Gianni Di Gregorio

"Buoni a nulla" non aggiunge niente ai due film precedenti di Gianni Di Gregorio, pensavo che Marco Marzocca facesse la differenza, ma è solo con il grande Corrado Guzzanti che Marco Marzocca è indimenticabile.
Gianni Di Gregorio è simpatico, tenero, ma ripetitivo, una sceneggiatura esile, fatta di una serie di sketch, non sempre riusciti.
dispiace dirlo, ma credo che questo sia un film dimenticabile.
vedete voi - Ismaele




…Se il già menzionato Pranzo di Ferragosto poteva aver rappresentato all’epoca una salutare boccata d’aria fresca, il resto della filmografia di Di Gregorio corre il rischio di sembrare un’eterna coazione a ripetere, sia pure con toni in apparenza differenti tra loro. E non basta far finta di essere diventati birbantelli – magari anche orientando la macchina da presa sul generoso décolleté di Valentina Ludovini – per poter fregiarsi del prestigioso ma tuttora vacante titolo di nuovo autore nello scombiccherato panorama del cinema leggero nostrano. Se non ci prova nemmeno un regista ormai sessantacinquenne – che dovrebbe quindi aver acquisito una qualche libertà creativa – alla sua opera terza ad uscire dal gregge da chi altri dovremmo aspettarcelo?

Scorre così tranquillo da essere trasparente e subito dimenticabile. Se mi vedi ti cancello. Con quella dose di buonumore posticcio, attraverso lo schema di un cinema che non cambia di una virgola. Non è tanto quello che si racconta, ma è quella ruffiana pigrizia che rende Buoni a nulla proprio l'esempio di un film asfittico. Ma che invece viene frainteso spesso come intelligente, garbato e che magari "offre uno sguardo lieve ma non banale sul prepensionamento". Certo, come no. Dove per magia i dentisti si trasformano in psicoterapeuti e i rospi in principi. Magari il personaggio di Marco era anche più interessante di quello di Gianni. Ma Di Gregorio, nella sua democratica gentilezza, gli lascia gli scarti. Perché il suo personaggio vuole essere anche un po' un Tati de' noantri. Saltella, non riesce ad attraversare la strada, cerca di scacciare la mosca come il postino di Giorno di festa. Da oggi stiamo più tranquilli: anche noi abbiamo il nostro Monsieur Hulot della Capitale. Rispetto a lui, parla solo un po' di più…

Buoni a Nulla racconta, come in tutti i film del regista, personaggi sinceri, con i loro problemi, le loro manie mentre affrontano le loro giornate; e anche questa volta Di Gregorio è riuscito a narrare la realtà attraverso un aspetto comico che coinvolge con grande affetto il pubblico. E arriva alla meta con successo, perché non fa mai perdere al suoi personaggi il necessario e importante senso di credibilità. 
Anche se verso la fine perde un po’ il mordente, e anche un po’ di ferocia - perché la vita ha il sesto senso cinico e i personaggi di Di Gregorio lo vestono alla perfezione - Buoni A Nulla ha ritmo, sfugge il tragico e ci gioca anche…

La pagella - Alessandro Celli

mercoledì 22 ottobre 2014

Il lavoro e le passioni – Giovanni Columbu



il GAL mari e monti (Gruppo di Azione Locale ) vuole che si racconti con immagini, parole e musica la propria natura, economia e cultura.
Giovanni Columbu qui fa un lavoro su commissione, e, a differenza di tutti, o quasi, i suoi colleghi, crea un documentario che ha un'anima.
provate a guardarlo e credo sarete d'accordo con me.
ha fatto solo due film e alcuni documentari, per me è uno dei migliori registi sardi, se non il migliore, fate voi - Ismaele



Un documentario che, come ha detto il sindaco di Silanus Mario Attene nella conferenza stampa di ieri alla biblioteca Satta, racconta le peculiarità «di tre territori omogenei per alcuni aspetti e disomogenei per altri». Indissolubilmente uniti, però, dalla singolarità delle persone che vi abitano, dai saperi che si tramandano, e dalla purezza dei paesaggi che li contraddistinguono. Un viaggio nei comuni del Gal mari e monti, e cioè Bitti, Bolotana, Borore, Bortigali, Dualchi, Flussio, Lei, Loculi, Lodè, Lula, Modolo, Montresta, Noragugume, Onanì, Osidda, Sagama, Silanus, Sindia, Suni, Birori, Magomadas, Posada, Tinnura e Torpè. «Il racconto di una Sardegna intima - lo ha definito Salvatore Soru, direttore tecnico del Gal - dove sono emersi temi unificanti in territori diversi».
 Ad accompagnare gli scenari del viaggio sono i testi di Paolo Pillonca. E proprio lui ha tradotto in poche ma essenziali parole lo spirito di questo entusiasmante lavoro: «Percorriamo la Sardegna da un mare all’altro, dalla Baronia alla Planargia. Raccontiamo emozionandoci. Questo viaggio si sarebbe potuto fare in cento modi ma noi abbiamo preferito compierlo attraverso un percorso che tenga conto dei saperi materiali e immateriali degli abitanti di questa zona, dalla poesia alle passioni della gente, dalla manualità femminile, uno dei più grandi beni che la Sardegna abbia, fino al canto tradizionale, soprattutto quello a tenore».
 Un rapporto importante, come ha sottolineato Giovanni Columbu, quello tra l’arte manuale delle donne e l’arte del raccontare. Le donne intrecciano l’asfodelo per realizzare i cesti, tessono filet e tappeti, impastano farina e grano. «La loro manualità - ha detto Pillonca - è un mistero sconosciuto per buona parte anche a loro stesse».
 L’intento è chiaramente quello di coniugare economia e cultura, di valorizzare e promuovere la tipicità di alcuni territori dell’isola e divulgarla nelle scuole e nei circoli sardi del continente.

 «Siamo soddisfatti del risultato - ha detto Attene - il progetto d’altronde è stato condotto da professionisti quali, a parte il regista Columbu, Mario Masala, Enedina Sanna, Natalino Piras, Michele Columbu, i tenores di Bitti, Daniele Cossellu, Paolo Pillonca».
da qui

martedì 21 ottobre 2014

Il mostro – Luigi Zampa

leggi Johnny Dorelli e dici chissà, poi leggi che il regista è Luigi Zampa e allora non ci sono dubbi, Luigi Zampa è stato un grande regista, di quelli di secondo piano ai suoi tempi, oggi sappiamo che era di valore assoluto.
il film è avvincente e convincente, comico e serissimo, con una sceneggiatura a orologeria (di Sergio Donati), sarebbe da studiare nelle scuole di giornalismo, se esistessero le scuole e i giornalisti.
poi non sarà perfetto, forse ai suoi tempi era un film di serie B, con l'attore di successo della tv,  e Luigi Zampa a fine carriera, visto oggi è un gran bel film.
ci hanno lavorato Ennio Morricone e Dante Ferretti, per togliere ogni dubbio ai dubbiosi.
a me è piaciuto molto, e così spero sia per voi - Ismaele





QUI il film completo



Penultimo profetico film di Zampa, questa volta sulle ciniche deviazioni dei massmedia, scritto da quel Sergio Donati che già nel 1972 aveva detto la sua in Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio circa il modo in cui la stampa manipola e ri-crea l'informazione. Protagonista per questo giallo inusuale, un Dorelli informissima, scelta programmaticamente inusuale per il genere. La presenza di Dorelli porta i toni del racconto a metà fra il dramma tinto d'horror e la commedia, con il Johnny nazionale che parla con frasi e prosodia che ricordano L'Abatantuono dei giorni nostri. Dietro tanti dialoghi semiseri e caratterizzazioni bizzarre (vedi quella dell'industriale della Baruffi Cosmetici interpretato da Palmer) il film nasconde, ma neanche troppo, un'anima nera non da poco che profetizza una società in cui i lettori cercano roba "volgare, violenta aggressiva, nevrotica, senza nessuno scrupolo esattamente come è la gente e il mondo a cui è destinata", come ben chiaramente espone il figlio del capo del quotidiano al padre che, almeno a parole, è ancora legato ad un modello di giornalismo non sensazionalista. Diseducativo al massimo fin dalle prime battute che vedono Dorelli dare pessimi consigli al figlio, il film dipinge un mondo di persone avide di successo disposte a tutto per averlo. Modernissimo. Tutta la morale impacchettata nel giallo di tradizione argentiana, con tanto di primissimi piani dell'occhio del killer e soggettiva di visione dell'assassino. Il killer però questa volta usa un martello. Film valido, anche dal punto di vista tecnico e del cast; una piccola parte anche per Sydney Rome. Sarebbe bello definirlo un giallo grottesco ma Il Mostro è definibile piuttosto una tragicomica riduzione cinematografica della realtà quotidiana. Bello e cupo il finale.

…Film cupo, cinico e assolutamente spietato nel ritrarre la figura di un giornalista disposto a tutto pur di tornare nel grande giro ma capace solo di mantenersi a galla in un mondo ben più corrotto e indecifrabile di quello che riesce a descrivere con la sua pericolosa fantasia.
Ventisei anni dopo L’asso nella manica di Wilder, Zampa e lo scrittore Sergio Donati tornando a riflettere sulle devianze dei mass media e la natura situazionale della violenza scegliendo un registro sempre in bilico tra dramma e commedia nera. L’operazione riesce fino all’improbabile finale dove solo la straordinaria prova di Dorelli (degno custode dell’anima nera di Charles “Chuck” Tatum ma anche ispirato dal Tognazzi visto all’opera nell’episodio L’educazione sentimentale de I Mostri) impedisce di far scadere il tutto nella farsa.
Ottimi i dialoghi, come le caratterizzazioni (spesso impietose) dei personaggi di contorno a cominciare dalla moglie del protagonista che non perde mai l’occasione di manifestare al fragile e disadattato figlio, tutto il suo disprezzo per l’ex compagno di vita (“Lo sciacallo è una bestiaccia schifosa e vigliacca che non ha il coraggio di battersi con gli altri animali per procurarsi il cibo, allora segue le bestie più forti, e quando queste hanno finito di mangiare, si prende gli avanzi”).
Non latita del tutto la suspense anche se gli autori stemperano costantemente i toni con scene più grottesche come quella della riunione redazionale dove giornalisti e creativi avanzano le loro proposte per sfruttare al massimo l’appeal del mostro presso tutte le fasce di pubblico: (“Noi dei fumetti abbiamo pensato a due nuovi personaggi; questo è Viperix il massacratore inafferrabile – andrebbe bene fra gli otto e i dodici anni – Per i più grandicelli abbiamo creato Mostrella che va più sul sadomasochista porno”).
Grandioso anche Renzo Palmer nel ruolo di un industrialotto che vuole commerciare prodotti legati al killer (il Rossetto mistero). Per lui solo una piccola parte ma è davvero irresistibile nella sequenza in cui spaventa Barigozzi nascondendosi dietro un inquietante bambolotto gonfiabile realizzato a fini pubblicitari…

lunedì 20 ottobre 2014

Io sto con la sposa – Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry

nessuno si aspetti Chaplin o Lubitsch, questo è un film diverso, un documentario che racconta un viaggio di quattro giornate.
il viaggio va a buon fine tutti arrivano a Stoccolma, ma non era scontato.
la cosa eccezionale è che ognuno non interpreta se stesso, è sé stesso, ognuno racconta quello che ha visto e ha subìto di persona, solo perché il caso ha voluto che non nascesse in Europa.
e su quei barconi non ci sono delinquenti (quelli arrivano in modi più comodi e sicuri), sono sempre più spesso persone molto simili a noi, "gente che che non voleva né vincere né morire", per usare le parole di Luigi Tenco.
e quando i "clandestini" sono delle persone in carne e ossa, le conosci, li ascolti, hanno un nome, ti affezioni, non sono numeri, alla fine questo è secondo me il pregio più grande del film.
e fa piacere essere uno dei 2617 che hanno contribuito, nel loro piccolo, alla riuscita del film.
alla fine trovate un corto siriano, l'ho visto qui per la prima volta, mi sarebbe piaciuto vederlo al cinema insieme al film, guardatelo qui, e andate a vedere "Io sto con la sposa", non ve ne pentirete, sta "addirittura" in 38 sale, questa settimana, non fatevelo sfuggire, dopo direte anche voi: "Io sto con la sposa" - Ismaele






Il documentario Io sto con la sposa è un'opera interessante e originale che non sfrutta mai la retorica per parlare di immigrazione e questioni politiche, proponendo una testimonianza significativa ma al tempo stesso tempo in grado di intrattenere. Grazie alla regia dinamica e uno svolgimento scorrevole e lineare riesce ad avvicinarsi con sensibilità alle vite dei protagonisti, realizzando inoltre l'obiettivo di far riflettere immortalando un capitolo importante delle vite degli immigrati clandestini senza però mai mettere in secondo piano la speranza che li anima.

Si potrebbe dire che Io sto con la sposa è la classica storia vera che fa pensare: ma questa definizione suona scontata, superficiale, ed anche un po’ riduttiva. La classificazione come opera d’impegno, per quanto più che mai appropriata, non rende infatti merito al suo discreto potere incantatore: la sua profondità morale,  striata di fatalistica leggerezza, ci trasporta dentro le emozioni interrotte di una normalità violata, che tenta di ricostruirsi, di ricucire gli strappi, mantenendo, nonostante le circostanze, un sano e pacifico rapporto col mondo. L’amore per la vita è un sentimento ferito. Ma è un bagaglio di tristezza che, con la dovuta modestia, riesce ancora a mostrarsi bello e forte.

Io sto con la sposa, che fin dal titolo nasconde una precisa volontà d’appartenenza non solo a qualcosa ma anche a qualcuno, è la cronistoria, familiare e amicale, ravvicinata e utopica, di un sogno irrealizzabile che eppure si materializza lasciandosi accogliere su uno schermo in cui immaginare è possibile, senza per questo limitarsi all’evasione priva di costrutto o al favolismo fine a se stesso: un attraversamento dei confini travestito da atto qualunque, una sofferenza che si fa (finalmente!) gioia contagiosa e vitale, anche nel dolore, anche nella confessione di vite dai tracciati biografici tutt’altro che rosei. Perché così dovrebbe essere, sempre e comunque, per chiunque.
Un gesto impudente, per certi versi radicale nel suo essere palesemente eversivo, quello dei tre registi, che però al di là della curiosità o della sorpresa che può generare nasconde al suo interno una forza dirompente, tanto simbolica quanto anarchica, che non è solo sfacciataggine ma è voglia di documentare il paradosso contemporaneo di chi, nel momento in cui decide di abbandonare il luogo in cui è nato e cresciuto, diventa solo un numero tra tanti o un punto all’ordine del giorno delle Nazioni Unite puntualmente bypassato.
Tale contraddizione, sulla bocca di tutti ma realmente prossima all’interesse di pochissimi, è sciolta dagli autori – almeno da loro, verrebbe da dire – con una risoluzione pragmatica, in cui chi sta dietro la macchina da presa invade il profilmico diventandone non solo parte attiva ma anche parte in causa. Un’operazione cinematograficamente interessante, certo, che mette in moto diverse idee e soluzioni riguardo al coinvolgimento di un regista in una storia, ma anche un’azione umanamente rilevante in cui gli autori si sono evidentemente messi in gioco non solo come registi ma ancor prima come uomini…

Domina, come in un thriller, l’attesa di vedere come andrà a finire. Un punto a favore degli autori, che si assicurano l’attenzione di chi se ne sta seduto in platea ed evitano le la noia di tanti, pur benintenzionati, documentari. Tutto è girato con gran sapienza, secondo gli standard del nuovo cinema giovane-internazionale, con camera a mano/a spalla che restituisce l’accadere nel suo farsi, la vita nel suo svolgersi (con forse, viene da pensare, qualche aggiustamento successivo in fase di editing). Ritmo alto, un alternarsi sapiente di fasi di chiamiamola così azione con altre di conversazione in cui si svelano le identità e il brackground dei cinque migranti. Una struttura decisamente narrativa che evita anche il rischio, così presente nei documentari, del didascalicismo e dell’intenzione pedagogica. Fin qui le cose buone. Poi però bisognerà anche dire dei limiti, notevoli, di Io sto con la sposa, e di come gli autori (e tutto il gruppo) finiscano con lo sprecare, se non buttare via, la buonissima idea di partenza. Quando sono uscito dal cinema ho sentito dietro di me uno spettatore imprecare e quasi urlare esasperato: “ma cosa mi significa ‘sto film? ma dove vuole arrivare?”. Esagerato, però non aveva mica tutti i torti. Perché, dopo il notevole inizio, dopo che il corteo degli sposi per finta si è messo in moto, le tue aspettative di spettatore sono alte, ti immagini un avventurosissimo viaggio da cuore in gola attraverso il continente in cui quel bellissimo abito bianco indossato da quella bellissima ragazza riuscirà a sventare ogni avversità, a sgominare ogni avversario. Come l’armatura magica di un super eroe. Posti di blocco miracolosamente evitati, poliziotti astutamente ingannati, passanti e passeggeri incontrati on the road allegramente, festosamente presi in giro e depistati. Con magari gente che si complimenta con gli sposi, li invita a casa, offre da bere. Cose così, ecco. Invece non succede niente. Zero. Quello che vediamo sarebbe successo tale e quale anch, anche se il gruppo non avesse organizzato la messinscena. Allora, scusate, perché tanto sbattimento? Sì, conosco l’obiezione: la finzione era solo un cautelarsi contro gli imprevisti, che per fortuna non ci sono stati. Una exit strategy dai possibili casini. Mica mi sto lamentando che tutto sia andato liscio, sottolineo solo come la bellissima trovata iniziale finisca col rivelarsi celibe, sterile, incapace di produrre una narrazione, una qualsivoglia trama (sì, anche nei documentari ci deve pur essere uno storytelling). Cos’avrebbero dovuto fare gli autori? Ah, non lo so, non ho mica avuto io l’idea di portare cinque clandestini attraverso il continente mascherandoli da sposi e invitati…

Questo film è un’azione politica, oltre che un documentario, ed è stato costruito come un ibrido, senza dialoghi e personaggi prefissati: le persone si muovono nelle proprie scene in piena libertà, raccontandosi. Tutto questo facendo i conti con le esigenze e i rischi della missione: arrivare in Svezia il più presto possibile. Ciò ha comportato ritmi di lavoro durissimi, sopportabili solo grazie al clima che si è creato nel gruppo. Alcuni dei racconti sono molto commoventi, altri sono devastanti, per la crudeltà a cui sono stati sottoposti questi uomini. La sposa stessa condivide la sua esperienza della guerra, di come, prigioniera in casa sotto le bombe, finisse per passare ore con la musica in cuffia a ballare come una pazza per reagire in qualche modo alla disperazione. E’ proprio lei che, parlando con il suo finto sposo, guarda fuori dal finestrino e dice: il cielo è di tutti. C’è un Sole unico per tutta l’umanità, una sola Luna. Anche il mare è di tutti, così anche la vita è di tutti e per tutti. No alle frontiere.
Una frase che suggerisce il cambiamento che questa esperienza di viaggio opera su coloro che l’hanno affrontata: un diverso sguardo sulla realtà, la ricerca di un linguaggio che è una nuova estetica della frontiera, sapere che la condivisione di un rischio porta alla condivisione di un sogno. Questo sogno piomba sul gruppo con una potenza inimmaginabile: appena usciti dalla stazione, a Stoccolma, finalmente a destinazione, tutti si mettono a ballare e stappano lo spumante. Le emozioni sui loro volti sono difficili da dimenticare e fanno venire voglia di applaudire.
Lo stile del film è appropriato, le telecamere sono al servizio di ciò che viene raccontato, le immagini sono funzionali ma non per questo meno affascinanti. Mi è piaciuta la fotografia perché mantiene una luce molto naturale, senza pesanti correzioni colore.
Un film corale, istruttivo, emozionante…da vedere!

Per quanto le parole dei clandestini protagonisti del doc siano spesso toccanti, e le intenzioni (oltre che il risultato effettivo!) alla base della pellicola indubbiamente nobili, andando però al sodo filmico, alla grammatica cinematografica e al valore complessivo dell'opera, sono davvero poche le briciole d’interesse che ci si ritrova fra le mani, come critici più che spettatori (non neghiamo che una parte di pubblico, abituato a reportage giornalistici in questo stile, possa apprezzare e magari appassionarsi). Perché trattasi di un diario di viaggio piuttosto amatoriale, addirittura quasi un filmino delle vacanze – giacché gli ostacoli e i momenti di tensione di un percorso perennemente sul filo del rasoio sono quasi nulli. Insomma, più che un film da presentare (sebbene fuori concorso) nella categoria Orizzonti a Venezia 71 – selezione, questa, che ci pare più che altro rispondere ad esigenze “doverose” e “necessarie” – Io sto con la sposa troverebbe dignitosamente la sua collocazione più adatta all’interno di un programma d’inchiesta, per il suo approccio televisivo e l’andamento più improvvisato che narrativo. Il cinema, semplicemente, non abita qui. 
da qui

…L’idea al centro di tutto è di una potenza cinematografica rara, e quando l'ho capito ho capito anche cosa ci ha visto tu per donare, perché è quel genere di trovate che ti rendono il film piacevole, che spostano un racconto “d’impegno” nel terreno dell’intrattenimento: per evitare i controlli tutti si vestono da corteo matrimoniale. Ci sono i due sposi e tutti sono vestiti da cerimonia. Con questa finzione sperano di non essere fermati. 
Dunque persone disperate che rischiano grosso cercando di migliorare la propria vita con un piano che è tanto rischioso quanto esilarante, girano vestiti a festa per i confini d'Europa. Il film purtroppo non è così, non indugia su questa componente né sfrutta le potenzialità del fatto che questi stanno passando davvero diversi confini (Italia-Francia, Francia-Germania, Germania-Danimarca e infine Danimarca-Svezia) sempre vestiti da sposi! Cioè c’è una parte di realismo grottesco (ripeto: sul serio attraversare confini, alcuni tra i monti a piedi, vestiti a festa) che non è per nulla resa come dovrebbe. Poteva sembrare la vera storia di un film di Kusturica, ma non è, poteva essere un modo paradossale di riflettere e "mostrare" l'assurdo di alcune legislazioni e invece no…
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giovedì 16 ottobre 2014

Le Far West - Jacques Brel

nessuna recensione è oggettiva, questa meno che mai.
Jacques Brel ha diretto due film (qui l’altro, “Franz”); "Le Far West " è un film non perfetto, una storia strana e folle, forse, ma ha un'anima.
bisogna farsi prendere per mano da Jacques Brel, e dai suoi amici, che cercano un sogno, e non provano a viverci dentro, loro lo vivono davvero.
Jacques Brel è un cantautore e cantante immenso, un artista come pochi.
diceva Totò: "Signori si nasce, e io lo nacqui, modestamente!".
a provare amore, stima, devozione, quello che volete voi, per Jacques Brel si può sempre imparare, io per esempio ho studiato il francese per poter riuscire ad ascoltare meglio le sue canzoni.
in realtà questa non è una recensione, direbbe Magritte, forse è più una dichiarazione d'amore.
e però potete leggere una recensione sotto e vedere un concerto del 1963, a  Knokke-Le-Zoute (nel secolo scorso c'eravamo arrivati in bici da Bruges, e nella spiaggia c'era un campionato di castelli di sabbia, cose mai viste, ma questo non c'entra, e chiudo la parentesi).
intanto guardate questo film (entrambi i film è meglio), e ascoltate le sue canzoni, vogliatevi bene - Ismaele






QUI  "Le Far West", il film completo, in franceseQUI "Franz",  il film completo, in francese 


Sarebbe veramente troppo facile sparare a zero su Le Far West, il secondo e ultimo film scritto e diretto e ovviamente interpretato da Jacques Brel.
Le Far West è l'episodio che ha messo fine alla carriera cinematografica di Brel, ed è quasi riuscito a mettere fine alla sua carriera artistica tout-court, se non fosse che l'irrefrenabile desiderio di esprimersi lo ha portato a registrare nel 1977 il suo ultimo omonimo album.Le ragioni di questo allontanamento stanno nell'ostilità con cui sia pubblico che critica hanno accolto il film, che peraltro portava con sé un livello di attesa piuttosto alto, dopo il suo inserimento nella selezione ufficiale del Festival di Cannes del 1973 e l'ottimo esordio alla regia nel 1972 con Franz.
Si sa che più alta è l'attesa verso un film, più cocente è la delusione quando la sua accoglienza è negativa, ma a parte questo Le Far West presenta effettivamente una serie di errori e di incomprensioni che da un lato in parte giustificano il trattamento ricevuto, dall'altro ne hanno reso un oggetto misterioso e da tutti dimenticato su cui vale la pena tornare a riflettere.
Io credo che Jacques Brel avesse un talento potenziale anche per la regia e la recitazione; non certo al livello inarrivabile di cantante, poeta e performer mostrato durante la sua carriera musicale, ma probabilmente un talento superiore alla media. Il problema è stato che nel cinema Brel non ha trovato i Rauber e Jouannest che, incontrati alla fine degli anni '50, gli hanno fatto spiccare il volo nel mondo della chanson. Detto in altri termini, Brel aveva secondo me bisogno, sia come sceneggiatore che come regista (e anche come attore) di un partner più esperto o semplicemente più severo che ne disciplinasse e controllasse l'immensa capacità creativa. Mancando questo, viene a mancare (come appunto in Le Far West) la capacità di trovare un linguaggio e una misura del gesto registico e interpretativo necessari per comunicare al meglio il senso del racconto.
Troviamo così in Le Far West innanzitutto un grosso errore 'tattico' di scrittura: il film inizia con i personaggi già perfettamente delineati, e tali personaggi (mi riferisco ai 3 protagonisti; Jack, Gabriel e Lina) non cambieranno di una virgola durante tutto il film; questo fa sì che venga a mancare totalmente l'effetto di sorpresa o di attenzione verso la trama, perché e chiaro fin da subito che ci troviamo di fronte a personaggi donchisciotteschi che porteranno avanti testardamente la loro missione senza cambiare il mondo e senza venirne cambiati. Credo che almeno un accenno all'esistenza anteriore dei protagonisti, un loro anche minimo dettaglio psicologico, avrebbe giovato molto all'interesse del pubblico. A peggiorare le cose è la costruzione frammentata della trama, nel senso che la storia, già di per sé molto esile, prosegue solo a forza di episodi, ognuno solo debolmente legato agli altri e presentato in sequenza, quasi come fossero canzoni che compongono un album. Non è un caso che a mio avviso sia il finale la parte migliore del film, quando finalmente gli episodi si intrecciano e vanno avanti in parallelo usando un linguaggio cinematografico adeguato dato dall'uso del montaggio alternato. Per finire, non migliora la situazione lo stile abbondantemente in uso nel cinema medio degli anni '70, che oggi in molte situazioni appare piuttosto stucchevole e ridondante.
Ciò detto, non posso però limitarmi a uncahier de doléances,perché da conoscitore e appassionato di Brel non posso non scorgere gli elementi di interesse di questo film. Intanto, chi conosce bene Brel trova disseminati lungo il film alcuni degli elementi caratterizzanti la sua opera artistica e la sua vita personale: dalla ripetuta citazione di Don Chisciotte a certe battute sul Belgio che solo Brel poteva permettersi, per finire con le numerose riprese fatte dall'aereo, che in quegli anni era il suo passatempo preferito, così frequentato che doveva avergli evidentemente 'imposto' di usare con abbondanza il particolare punto di vista aereo per le riprese. Da questo si deduce tra l'altro che il film è sicuramente costato parecchi soldi (ci sono anche delle demolizioni di edifici non piccoli appositamente realizzate) e quindi che il suo fallimento non è stato solo artistico ma anche commerciale.
Ma il riferimento più importante e più ovvio è quello relativo al discorso sull'infanzia. L'infanzia è stato uno dei temi delle canzoni di Brel, non quello che ha più frequentato ma senz'altro uno di quelli che ne hanno maggiormente marcato la distanza di qualità poetica nei confronti della generalità degli altri cantautori. In Le Far West i personaggi sono tutti adulti, alcuni addirittura anziani, ma lo sono solo anagraficamente, perché le cose che fanno e che dicono li caratterizzano come bambini, o come adulti non cresciuti; si aggregano tra di loro semplicemente per simpatia e vanno alla ricerca del loro Far West e dell'oro in esso nascosto proprio come un gruppo di bambini (di quelli di qualche decennio fa, certo!) andava all'avventura negli squarci di terreno incolto ai bordi delle città o all'interno dei palazzi in costruzione.
Le Far West è quindi interamente costruito sul concetto tipicamente breliano che l'infanzia è il periodo della vita in cui gli individui si formano il proprio immaginario, i propri sogni e obiettivi di vita ma che una volta arrivati all'età adulta tutto ciò dovrà essere messo nel cassetto e chiuso a chiave perché non potrà in alcun modo far parte della vita delle persone adulte. Contro questo concetto Brel furiosamente combatteva scrivendo i suoi testi e con le dichiarazioni rilasciate nelle interviste. Quello che per tutti si può considerare come la normalizzazione dell'età adulta, per Brel invece è la perdita della sincerità, del sogno, della purezza infantile, della capacità di stare assieme agli altri, e bisogna quindi che apra gli occhi e si dia da fare per cercare di riconquistare la propria essenza perduta.
Se non si comprende e non si accetta questo pensiero è impossibile anche minimamente apprezzare un film come Le Far West. Ed è proprio qui il punto: come può un pubblico di adulti come siamo praticamente tutti noi, che sopravviviamo avendo archiviato i nostri sogni, immedesimarsi nei personaggi del film o anche semplicemente assecondarne i dialoghi e le azioni? È questa la grande sfida - clamorosamente perduta - posta da Jacques Brel in questo film: convincere le persone che col passare degli anni hanno dimenticato l'innocenza e la purezza dell'infanzia, almeno per gli 85 minuti di durata di Le Far West, a tornare a pensare come un bambino, agire come un bambino, avere la stessa capacità di stupirsi, di indignarsi e di creare sogni che solo un bambino può avere.
Questi sono concetti che Jacques Brel riusciva splendidamente a trasmettere nei tre minuti di tempo di una canzone, con la sua voce e presenza scenica e con il solo aiuto dei musicisti di supporto. La realizzazione di un film, e soprattutto la creazione di un linguaggio cinematografico che sia in grado di realizzare l'ambizione di Brel, ovvero rappresentare i concetti e i pensieri più che le azioni, sono però opera molto più complessa che non può poggiare sulle spalle di un uomo solo. Quindi Le Far West è, e temo sarà sempre di più, un film destinato al circolo ristretto di sognatori irrecuperabili e di incondizionati appassionati di Jacques Brel.
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lunedì 13 ottobre 2014

Class enemy – Rok Biček

il regista è del 1985, ed è al suo primo film.
prima una nota di (fanta) realtà: per noi sembra un film di fantascienza, i professori hanno uno studio personale dove possono preparare le lezioni, incontrare gli studenti, hanno le fotocopiatrici in sala professori, non devono chiedere il favore di una fotocopia in bidelle ria, non devono portarsi la carta da casa.
ogni film ricorda tanti film, eccone alcuni:
“Monsieur Lazhar” (qui), per via del suicidio; “If”, in piccolo,per via della ribellione; “L’onda”, in parte, per via dei comportamenti dei ragazzi, ma soprattutto mi ha ricordato “L’attimo fuggente”, anche qui un professore arriva e provoca, disorienta, divide, insegna “cose”grandi, vuole che si pensi, presto alunni, genitori, colleghi e dirigente gli si mettono di traverso.
in “Class enemy” molti sono gli elementi a favore di chi dice che ci troviamo davanti a un gran film (lo dico anch'io), il rigore, il realismo, i caratteri di tutti i personaggi, inclini, gli adulti a un vogliamoci bene, i ragazzi bisogna capirli, siamo una grande famiglia, gli studenti pigri e in cerca delle strade meno faticose.
magari non siete d’accordo con me, ma non lo saprete se non guardate il film, bisogna cercarlo bene, è soltanto in una ventina di sale in tutta Italia, così va il mondo (o forse solo l’Italia).
guardatelo, poi ne parliamo.
dimenticavo: Robert c’est moi - Ismaele






…Una película que nos hace darnos cuenta de que los niños de hoy serán los hombres y mujeres de mañana y que darles la educación necesaria para que piensen y tomen parte en las cosas que le preocupan es fundamental. Este profesor los deja volar como si de adultos se trataran y los obliga a reflexionar, quizá de una forma que los propios alumnos no son capaces de apreciar, este profesor, a pesar de los insultos y de la rebelión de sus estudiantes, los hace crecer.
En definitiva, es una bomba de relojería que sacude nuestro yo interno, desde el principio podremos sentirnos cercanos a ella, y al finalizar su visionado no nos queda más que aplaudir a su valentía, a su veracidad, a su honestidad, a su realismo. Recomendada sin lugar a dudas, una joya como pocas.

Macchina quasi fissa, attenzione estrema alla parola e agli scontri verbali tra i personaggi, ritmo lento anche se non solenne, e il risultato ha un che di ieratico, di rituale. Ogni violenza viene come congelata, raffreddata da un approccio a-emozionale e distanziante. Una sceneggiatura benissimo scritta, che non si tira indietro di fronte a temi grandi e complicati, che non semplifica ma complessifica. Attraverso le lezioni di Robert ritroviamo un gigante come Thomas Mann, autore che sembra sparito dai nostri orizzonti, e che in questo film diventa una sorta di totem della germanicità, del suo spirito, della sua anima più nobile, anche della sua inflessibilità. “Thomas Mann si rifiutò di andare al funerale del figlio scrittore morto suicida, secondo voi perché?”, chiede gelido Robert alla classe ancora traumatizzata dal suicidio della loro compagna. Cos’è la sua, crudeltà, sadismo appena velato e nobilitato da una presunta missione pedagogica, o è l’amaro disincanto dello stoico che guarda al Male e al dolore senza abbassare lo sguardo, e questa forza vuole trasmetterla ai suoi allievi? Robert osa dire a Luka, cui è appena morta la madre, che tutto ciò che non riguarda lo studio deve rimanere fuori dalle mura della classe. È odioso. Un uomo volutamente inattuale che osa ancora parlare di necessità della disciplina, di severità con se stessi e verso gli altri, del primato della volontà e della ragione sulle pulsioni basse. La partita che si svolge in questa classe slovena ci riguarda tutti, ed è abbastanza incredibile che a firmare un film così complesso e ambizioso sia un 28enne…

importante è però sapere come i temi della ribellione adolescenziale, la severità della generazione dei “maestri”, il dramma della perdita, le dinamiche di gruppo della rivolta e della solidarietà “di classe” sono qui sviluppati senza quasi alcun errore drammaturgico, con saldezza registica e stilistica encomiabile, e con in fondo un solo piccolo passo falso nel finale, comprensibile in un giovane autore che “deve crescere”: una certa esagerazione nell’accennare a paragoni con i regimi totalitari che hanno devastato l’Europa del XX secolo. Ma, lo diciamo senza timori di smentita, Rok Bicek ha studiato molto, molto bene: giovane di classe.

Teso e doloroso, Class Enemy non pone mai gli studenti come un elemento a se stante da studiare con entusiasmo entomologico, ma li configura al contrario come parte in causa di una dialettica sul senso dell’esistenza, delle regole, della “comunità” che acquista spessore con il passare dei minuti. Perché Biček non pone la firma in calce “solo” a un ottimo film sulle problematiche adolescenziali, ma lancia in maniera neanche velata un j’accuse sull’intero sistema educativo, sulla degenerazione dei rapporti genitori-figli, sul crollo dell’istruzione nel senso più etimologico del termine, perfino sulla deriva di un’Europa incapace di comprendere l’universale perché troppo presa a disquisire – senza averne le basi – sul particolare…
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