lunedì 28 febbraio 2022

Belfast – Kenneth Branagh

secondo film ambientato a Belfast in un paio di mesi (il primo è questo).

il film è visto con gli occhi di un bambino, Buddy (attore come pochi), il suo essere innamorato, la scuola, l'amore per il cinema, la perdita dell'innocenza, conosce la violenza e la morte, in una famiglia splendida, amato come un bambino dovrebbe essere amato.

siamo nel 1969, sembra tanto tempo fa, eppure sono solo pochi decenni.

dovremmo essere grati a Kenneth Branagh per averci fatto conoscere Buddy, a cui piacciono i detersivi biologici.

buona (protestante, cattolica, molto meglio agnotica o atea) visione - Ismaele


 

Buddy in Belfast è il filtro della visione. Non potrebbe essere altrimenti, perché è lo sguardo retrospettivo di Branagh sulla sua memoria di oltre cinquant’anni anni fa. Non è una visione soggettiva, ma è la soggettività di una sensazione fissata nell’idealità di un ricordo. Basterebbe citare una sola, breve e divertentissima scena al ralenti nella classe del piccolo Buddy, quando il suo volto, raggiante, pregusta il momento in cui la maestra lo farà sedere accanto alla prima della classe, di cui è innamorato, come merito per i risultati raggiunti nelle recenti verifiche, espressione che si riempirà immediatamente dopo di delusione quando invece scoprirà che l’allieva è stata superata da un altro compagno di classe e che quindi è finita dietro di lui, ancora più difficile da contemplare. Buddy non vede e noi non vediamo mai attraverso lui, perché la sua espressione beata si rivolge a un fuoricampo che per esigenze di gag deve rimanere insaturo fino a rivelarsi solo alla fine in qualità di sorpresa, ma il suo personaggio si fa superficie riflettente di un mood, così come, allo stesso modo, l’intera città e la sua cruda realtà sono restituite da una sola strada, microcosmo sineddochico di relazioni, rapporti, conflitti politici troppo grandi da consentire a un bambino di nove anni di averne una visione globale che vada davvero oltre la sua porta di casa…

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Belfast, infatti, non è assolutamente un manifesto storico ma il racconto intimo di come elementi detonanti e d’impatto universale quali il razzismo e la violenza, possano incidere sugli umori e le sensazioni dei singoli. Per rendere la narrazione realistica e onesta, dunque, Branagh si riappropria del suo sguardo di bambino attraverso il quale interpreta e misura i mutamenti della comunità in cui vive. Ed è cosi che la strada si trasforma in un cosmo dove gli eventi lasciano la cronaca per diventare parte di una nuova e incomprensibile quotidianità. Ogni cosa è filmata e interpretata a misura di bambino e uomo comune perché, nonostante tutto, è qui che le rivoluzioni, come le lotte sociali e politiche, lasciano i segni più indelebili…

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Belfast risente della forte esperienza teatrale di Branagh. Notiamo innanzitutto gli spazi: piccoli e pochi in quantità sono però perfetti per ricordare quel senso di unità familiare di cui trasuda il racconto. L’abitazione dei nonni paterni è un piccolo teatro: talmente piccola da poter sentire, od origliare, le conversazioni; non ci sono finestre e le scene si svolgono esattamente entro il campo visivo della macchina da presa.

In conclusione, Belfast non vuole solamente dare voce a fatti storici che rischiano di cadere nell’oblio, ma vuole rendere omaggio a una città che ha visto i suoi abitanti partire in cerca di una vita migliore, dare la loro vita, restare e resistere. Tutte scelte che necessitano di una grande forza d’animo e un profondo legame d’amore che unirà per sempre i suoi abitanti ad una città così unica.

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…Mentre i militari presidiano Mountcollyer Street, il piccolo Buddy oltrepassa le sbarre per il parco, e appena può fugge nella magia del grande schermo del cinema, il suo unico vero rifugio. I disordini civili rimangono sullo sfondo, Branagh si concentra con inquadrature ad altezza bambino, di mostrarci i giochi dei bambini per strada, la cotta di Buddy per la sua compagna di classe, i goffi tentativi di rubare i dolci nel negozietto di quartiere.

Attraverso un tono a tratti onirico e romantico incorniciato dalle musiche realizzate da Van MorrisonBranagh ci presenta le difficoltà economiche di una famiglia operaia, e la necessità di scappare dalla tensione provocata dagli scontri e di non voler distruggere l’infanzia ai propri figli.

Il bianco e nero é un escamotage stilistico per arruolare lo spettatore e immergerlo tra le pagine dell’infanzia irlandese condita da prove attoriali eccezionali anche degli attori non protagonisti, come i nonni (giustamente riconosciute con le candidature dall’Academy).

Belfast é una dichiarazione d’amore allo spirito irlandese con dialoghi irriverenti e disincantati, un viaggio nella memoria del regista che omaggia le sue origini e quello che la sua famiglia ha passato senza mai sembrare eccessivamente melenso.

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Belfast, la película más personal de Branagh es imperfecta, pero la emoción que genera, es el tipo de ancla que el cine nos proporciona en tiempos de inquietud. Los sentimientos se intensifican en el tramo final, cuando Buddy debe despedirse de su novia de la infancia y de la abuela, a la que tal vez nunca vuelva a ver, marcando su memoria y desgarrando su corazón, perdurando tanto en su memoria como en la de los ojos que reflejan las imágenes.

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La película funciona muy bien por su sencillez, buscando la naturalidad en esa historia de tono tan clásico y muy convencional, en ese día a día de un niño que comparte muchas cosas con el Branagh de esa época cuando tenía 9 años, con sus inquietudes y ganas de pasarlo bien dando patadas al balón, pero también en su primer amor. 

Un acierto la elección de Jude Hill, que es el alma de la película, pero también de casi todo el reparto, y para ello ha acudido a intérpretes que en gran parte viven o han crecido en esa zona, con una Caitríona Balfe, conocida por su trabajo en la serie "Outlander", que está magnífica como la madre del protagonista y que tiene unas cuantas escenas potentes a nivel dramático.

Pero si hay dos personajes entrañables, aparte del de Buddy, son los abuelos del protagonista, que nos regalan las escenas más alegres, y que nos hacen reflexionar con algunas frases históricas en esas conversaciones tan sinceras, en especial las de nietos-abuelos. Los dos intérpretes, Ciarán Hinds y Judy Dench, lo hacen bastante bien, y merecerían la nominación al Óscar, aunque todo parece indicar que la veterana actriz británica se va a quedar fuera del quinteto de nominadas de este año…

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After Love – Aleem Khan

la prima scena è come un cortometraggio che può vivere da solo, poi il film si illumina, e, come in un piccolo giallo, Mary vuole scoprire un mistero che riguarda il marito.

questo mistero piano piano la coinvolge oltre ogni previsione, e Genevieve è più una sorella che una nemica e Solomon è come un figlio, quello che Mary non ha mai avuto. 

insomma, l'opera prima di Aleem Khan è un film che non puoi smettere di guardare.

buona (imperdibile) visione - Ismaele



ps: un po' di anni fa, nel 1999,  in un altro grande film, East is east, di Damien O'Donnell, appare un'altra straordinaria donna inglese, sposata con un uomo pakistano. 

 

 

 

 

Film intelligente e sentito, After Love non ha nemmeno un tassello fuori posto: perfino gli elementi periferici, come il segreto del giovane Solomon, vengono dal vissuto personale di un regista che è riuscito a mettere su schermo la storia della sua famiglia trovandogli però una chiave di astrazione che affascina lo spettatore.

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…Nel raccontare la storia di un’elaborazione di un lutto e la ricerca di un’identità forse perduta, il film dell’esordiente Aleem Khan mette in scena un racconto capace di parlare al pubblico con due attrici protagoniste straordinarie. Lo stile di ripresa asciutto e raffinato potrebbe risultare un po’ statico, soprattutto nella parte centrale del film, dove il racconto sembra dilatarsi un po’ troppo, ma la sensazione finale è quella di trovarsi di fronte a un ottimo film, girato con mano esperta nonostante sia un’opera prima.

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es una gran película magníficamente construida sobre un guion que cuida muy bien los diálogos en la dosificación de la trama. Estudio psicológico de personajes femeninos con excelente interpretación de la protagonista principal. La identidad personal, la autoestima emocional las dobles vidas y las verdades ocultas están en su núcleo argumental.

A su vez, se confronta sutilmente el papel de las mujeres en las distintas culturas y religiones del mundo occidental laico y el religioso musulmán. Interesante película de autor del prometedor debutante director Aleem Khan.

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a noi interessa solo quella dannata prima scena. Bellissima.

Nella luce soffusa di una cucina, una donna che ha appena tolto l’hijab dialoga con il marito, di cui, dopo un rapido ingresso in casa, si scorge solo la sagoma semioscurata perché è nel tinello, dalla parte opposta rispetto alla cinepresa, confinato nella profondità di campo (cioè nell’ampiezza nitida dello spazio completamente a fuoco dell’inquadratura) e incorniciato dallo stipite della porta della stanza successiva, con un effetto che il cinema utilizza spesso, quando vuole evidenziare qualcosa, detto di quadro nel quadro. Lei sta preparando la cena e intanto discutono dell’’aqīqa, il battesimo islamico di una neonata, Khalila, che conoscono e a cui dovranno partecipare. È un quadretto di ordinaria vita familiare, come potrebbe capitare a tutti se solo fossero visti dal di fuori (grattatevi pure, ma non per il quadretto familiare, perché c’è di peggio, tipo ciò che seguirà). La macchina da presa staziona in cucina, osserva la moglie affaccendarsi, mentre sullo sfondo il marito accende la televisione, mette una mano al petto, che è solo un atto di devozione ma a ragion veduta lascia presagire qualcosa. Il marito è fisso nel riquadro, la moglie si sposta lungo l’ampiezza dello spazio scenico a disposizione, dal frigo, al fornello, poi al lavandino. Dialogano, il marito riconosce che il nome dato alla bambina è un bel nome, la moglie ammette che non ama vedere i bambini rasati a quella tenera età, mentre il marito, sedendosi pesantemente sulla poltrona, le fa notare che non è molto diverso dall’infilare la testa nell’acqua del battesimo cristiano. Il fischio della teiera irrompe progressivamente in scena, sovrapponendosi alla consuetudine del dialogo: sembra faccia parte di quella stessa normalità che stiamo seguendo, da cui si è attratti senza capire bene perché, se non per quell’istinto voyeuristico incoraggiato e mai sanzionato dal cinema, e invece è un’incursione impropria, in qualche modo dissonante in quella serenità crepuscolare. Perché pensandoci, pur nella sua apparente fissità, tutto è basato su evidenti opposizioni: mobilità della moglie/sostanziale stabilità del marito, luce sulla moglie/ombre sul marito, vicinanza della moglie/lontananza del marito, armonia della sera/fischio acuto della teiera, fisicità/evanescenza della presenza. La moglie continua a parlare, riflette quasi a voce alta, il marito non dice più nulla, ulteriore opposizione. Il tè è pronto e a quel punto anche lei si allontana dalla cinepresa per raggiungere il marito nel tinello.

Si sporge verso la poltrona ma il marito non risponde. Non risponde più. È l’ultima opposizione, quella decisiva, tra commedia familiare e tragedia improvvisa, senza alcuna avvisaglia se non per gli indizi disseminati in precedenza, le opposizioni, le condizioni di luce, il fischio, la mano sul petto, volendo anche la distanza intercorrente tra battesimo ed estremo saluto. Tutto in due minuti e in un’unica inquadratura, in una continuità sconcertante perché non fornisce l’appiglio di un’evidente cesura tra il prima in cui le cose sono banali nella loro normalità e un dopo per il quale, inevitabilmente, niente potrà più essere come prima…

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domenica 27 febbraio 2022

The Song of Sparrows (Avaze gonjeshk-ha) - Majid Majidi

Karim, il padre (orso d'argento a Berlino nel 2008), è una specie di Marcovaldo iraniano e il film sembra sceneggiato da Zavattini .

in un villaggio di campagna vive una famiglia povera, e dignitosa, il padre si inventa mille cose, e il figlio è affascinato dalle continue scoperte della vita, e oltre alla mamma, c'è una ragazzina sorda.

e quando l'apparecchio acustico deve essere ricomprato Karim cerca soldi in città, lavorando come portapacchi con la sua moto.

chi ama i film del neorealismo, spero tanti, non si pentirà se guarda questo film.

buona visione - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo, con sottotitoli in inglese

 

 

Nos cuenta sobre un padre bastante humilde, híper carismático –de aspecto del que cuántos ya quisieran ser tan naturales- y todoterreno (Mohammad Amir Naji, que ganó el oso de plata por su performance, en el festival de cine de Berlín del 2008) que expulsado del trabajo, de vigilar el cuidado de avestruces, tras la pérdida de uno (en que hay un momento audaz en el disfraz de una de éstas aves en plena imponente cima), no sabe qué hacer para mantener a su amada familia, en especial tras malograrse el costoso audífono de su hija mayor que es sorda, habiendo además una pequeña trama de uno de sus hijos pequeños que quiere llenar de peces un estanque abandonado, de agua sucia empozada, como un sueño infantil personal, que además es colectivo con sus amigos, y que repite gags e intenta otros instantes de emotividad (en un filme que bascula entre aciertos y cierta fallas, pero gana en virtudes, como le pasa a El sauce llorón). Karim, el padre, solo tiene una moto básica como mayor pertenencia material, y pronto de la casualidad esta le servirá para sobrevivir, para llevar dinero a su hogar, con lo que pasara por mil y un peripecias en un Irán urbano, poco visto como muy contemporáneo, en un protagonista que implica comedia, tanto como meditación melancólica, en esos silencios expresivos que tan bien maneja Majidi en su obra, en un periplo por el trabajo casual e independiente que desnuda la imperiosa necesidad y la firmeza de lograr subsanarla.

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Majid Majidi’s universe is full of do-gooders. It’s where you can trust people with your money. No matter how economically challenged you are, you’re always kind to share your meal with a guest. Customers at a shop don’t whisk away extra-change you may have handed over by mistake. People are extremely hospitable, welcoming and innocent. Crime, murders are unheard of. People tell lies, but for a larger good. There are no human villians in his films. If any, the enemy is a product of circumstances - often intangible, something the protagonist must overcome.

That’s exactly the context of The Song of Sparrows. Karim (Reza Naji) who works at an ostrich farm on the outskirts of Tehran, wants to loan some money from his boss, so that he can buy a hearing aid for his daughter since the one she used to wear has stopped working after it fell in a dirty cesspool. Poor Karim faces an uphill task to generate that money, after he gets fired from his job thanks to a moment of carelessness that leads an ostrich to escape from the farm.

The Song of Sparrows captures Karim’s loss of innocence as he frequents the city every day posing as a motorbike pilot who ferries people and heavy goods. Although he earns well by doing this, every piece of city scrap he begins to accumulate in his backyard becomes a symbol of the degradation of the generous and good-hearted Karim he was once known for.

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…In most of Majidi’s films, the protagonist, always a male, struggles through a life-changing experience that ostensibly ends in a crushing defeat. But at the conclusions of these films, the effect of the struggle has (usually) elevated the protagonist to a higher level of understanding about the world and about human relations. This is not a theoretical understanding, but something else – an intuitive sensitivity to interactive experience that goes beyond the verbal. And this is what connects Majidi’s films to Sufism and other extramundane spiritual practices.

This is not to suggest that Majidi’s characters are particularly philosophical. They are typically drawn from the working classes and have, for the most part, not had a higher education. In this connection, though, one must make note of the fact that the popular culture of Iran permeating all social levels is generally more reflective about destiny and spiritual matters than those of Western societies.

The story concerns the experiences of Karim, a middle-aged family man who lives in a village outside of Tehran, where he is initially seen working at his job on an ostrich farm. After a momentary oversight causes him to lose his job at the farm, Karim’s struggles to earn a living by other means take him to another world altogether – the hectic and confusing opportunities of the Tehran metropolis. There he finds himself faced with the conflicting moral dilemmas of modern life. Although this basic story theme has been presented countless times, the organic development of the story, with its compelling visual metaphors, has a slow, understated build-up that make it effective…

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giovedì 24 febbraio 2022

Grain (Bugday) - Semih Kaplanoğlu

un altro bel film mai apparso da noi.

una storia ambientata in un futuro non troppo lontano, l'agricoltura è fatta solo di semi transgenici e sterili, ma qualcuno, contro la legge, cerca di resistere e tramandare i semi tradizionali.

la terra sta molto male, cambiamenti climatici hanno causato gravi danni, i migranti (solo climatici?) sono innumerevoli.

la storia è ispirata al Corano, ed è di un'attualità credibile.

vedere per credere, a me è piaciuto molto, e così spero per chi lo guarda.

buona (distopica) visione - Ismaele

 

 

 

…Ce drame est celui de notre début de siècle : le bouleversement criminel par l’homme de son environnement. Dans un futur relativement proche, les manipulations génétiques ont dégradé tous les écosystèmes et finalement tué le monde vivant. Dans un monde dictatorial et coupé entre la Ville et les Terres mortes, et dans une ultime lutte pour la survie de l’espèce humaine, Erol Erin, un généticien spécialiste des semences, entreprend de retrouver un théoricien disparu.

Semih Kaplanoğlu est un réalisateur de grand talent, et la facture de son film en est la preuve. Le scénario est érudit. Il s’inspire en effet d’une sourate du Coran, et d’une manière générale laisse libre cours à une spiritualité œcuménique tendant vers un spectre métaphysique large. Pour son inscription dans le genre de la science-fiction, et dans son ambition allégorique, La Particule humaine est très inspiré du Stalker d’Andrei Tarkovsky. C’est effectivement dans ce modèle de cinéma que le film de Kaplanoğlu veut se fondre, avec une économie de mots et une aridité éloquentes…

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…O cruzar do local deserto, belissimamente filmado nas vastas paisagens da Anatólia, traz muito das fábulas religiosas e encontra espaço para a divagação poético-filosófica de Kaplanoğlu sobre a vida e o ser humano. Ainda que seja fácil perceber toda a inspiração em Tarkovski no filme, o diretor ressignifica a jornada estética e imprime um tom muito próprio, que encontra ecos em sua própria filmografia (como na trilogia Yussuf).

Observativo e instigante, Grão individualiza o tempo de apreensão dos espectadores, mas nem sempre de forma confortável. Há complicações e facilidades metafóricas contratantes e prolongamentos não tão oportunos. Porém, vale pela incrível construção imagética e por sua mensagem.

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This is a film that is important for viewers familiar with the GMO debate.  The pro-GMO enthusiasts will debunk the science in this English film, which is a Turkish-German-Swedish-French-Qatari co-production.  According to the director, the film has been wilfully kept out of certain important film festivals that wanted to initially screen the film by the influential pro-GMO lobby. In spite of this, the film won the top award at the Tokyo film festival. The film was shot in Michigan (USA), in Germany and in Turkey. Visually the film is stunning in its stark beauty—an antidote to colour and natural flora that one encounters in commercial cinema. The subject itself is an antidote to the prescription of a better world as seen by the private sector corporations for us.

Whether one agrees with the basic scientific premise of the film or not, Grain is definitely one of the most important films of 2017, arguably the most ambitious work of Kaplanoglu, especially for any reflective viewer with either an interest in science or in theology/spirituality.

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mercoledì 23 febbraio 2022

Raghs dar ghobar (Dancing in the dust) - Ashgar Farhadi

già nel primo film Ashgar Farhadi realizza un gioiellino che inizia lentamente e poi cresce, a sorpresa, per un film, che, come tutti i film iraniani, inizia nel nome di allah.

un sempliciotto si innamora e sposa una ragazza che ama alla follia, ma è costretto a divorziare e a fuggire per non andare in galera per debiti.

se fosse stato un film hollywoodiano sarebbe stato un campione d'incassi, ma l'opera prima di un povero regista iraniano è sconosciuta.

ma una sceneggiatura a orologeria ti tiene incollato allo schermo senza un attimo di noia, e lo scontro-incontro dei due protagonisti ha qualcosa di epico (l'epica dei poveri, naturalmente).

cercate questo piccolo capolavoro, non potrà deludervi - Ismaele


 

 

Capita che sorgano improvvisi dilemmi etici e morali (insomma, religiosi): debbo per forza divorziare dalla donna che ho sposato solo perché la famiglia e la società non accettano il fatto che sua madre fosse una prostituta? Questo aut aut imposto dalla famiglia crea una serie di situazioni e meccanismi al limite della comicità involontaria: ad esempio restituire la somma di denaro che l'uomo aveva avuto in prestito per il matrimonio. Alla fine, decide di lasciare la città. Si ritrova nel deserto, insieme a un uomo che passa il tempo estraendo veleno dai serpenti.

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Dispensing with heavyhanded symbolism, Farhadi tells the tale engrossingly and with a lot of physicality through the two main actors. As the young swain, Khodaparast creates an original, often irritating character redeemed by his great love. Gharibian’s haunted face needs no words to express his inner devastation, and in fact he barely speaks in the film.

The snakes are genuinely scary, almost as much as the protags’ unpredictable emotions.

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martedì 22 febbraio 2022

Sonbahar - Ozcan Alper

Yusuf esce dalla prigione turca, era prigioniero politico, dopo dieci anni, malato ai polmoni, torna al villaggio, molti non se lo ricordano più, la mamma sì, lo cura con attenzione e amore.

Yusuf è un uomo solo, ormai, non ha più rapporti con i compagni di prima, e sta a casa, nel paesetto di montagna dimenticato da dio e dal mondo.

prova a vivere di nuovo, segnato dalla malattia e dalla solitudine.

altro non si può dire, se non di cercare e trovare questo gioiellino.

buona (solitaria) visione - Ismaele 




Özcan Alper sceglie di raccontare la storia per sottrazione: eliminando qualsiasi elemento superfluo, riducendo i dialoghi all’essenziale evitando riferimenti troppo espliciti – mentre gli incidenti del passato vengono rievocati attraverso alcune scene in retrospettiva, con sequenze di repertorio che irrompono nella forma di incubi nell’inquieto sonno di Yusuf. Lascia che le accuratissime atmosfere (costruite con il prezioso contributo della fotografia curata da Feza Çaldiran) si impossessino della storia diventandone ulteriori protagoniste e fondendosi in essa senza mai prendere il sopravvento. E non lascia nulla al caso, in un film di cui ogni singolo elemento è frutto di lunghi studi e profonda conoscenza della materia.
Con grande eleganza non solo formale ma ancora di più nell’approccio ai personaggi e al tema, disillusione, lotta, sopraffazione diventano materia per un racconto sempre forte e profondamente poetico, con echi di Chekhov, rivolgendosi infine a una platea potenzialmente senza confini.
Sonbahar è il sorprendente debutto nel lungometraggio di quello che, già con la sua seconda opera, si confermerà come uno tra gli autori più interessanti della sua generazione, che comprende anche, tra gli altri, Hüseyin Karabey, Seren Yüce e Emin Alper e segue quella di Nuri Bilge Ceylan e Zeki Demirkubuz, delle cui lezioni sa fare tesoro elaborandole in modo personale.
Gioiello di sottigliezza e intelligenza, raro esempio di capacità di scavare nell’anima dei suoi personaggi seguendo percorsi inusitati e usando empatia, Sonbahar è uno di quei rari film di cui ogni singolo elemento si fonde nell’altro restituendo un’opera di tale bellezza da lasciare a bocca aperta…

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La speranza di un futuro sedimenta nelle nozioni di matematica trasmesse al ragazzino, Onur, o attraverso l’innamoramento con la prostituta georgiana Eka, elusione della solitudine e tentativo disperato di aggrapparsi alla vita. Ma Yusuf è un personaggio uscito dalle pagine di una novella russa, come lo definirà la sua amante, abitante di un mondo distante dal presente, tanto da rinunciare alla fuga d’amore, da disattendere la (nuova) vita.
E il grumo poetico, custodito segretamente,  rappreso  tra le “grinze” della pellicola (fotogramma dopo fotogramma), emerge nel piano sequenza finale (tanto simile, nella sua dinamica, a quello che chiudeva Professione Reporter), in cui la macchina fluttua – s’impadronisce del film – passa dall’interno al di fuori: movimento lento, speculare a quello dell’anziana, accompagnata da una funerea zampogna, foriera di morte: oltre i vetri della finestra, un corteo funebre marcia tra la coltre di neve posatasi lungo il pendio, caduta silente e bianca a confondere i limiti, i perimetri dell’essere, a dissolvere la superficie, il contatto con la terra.

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lunedì 21 febbraio 2022

Leonora addio – Paolo Taviani

un film in due parti, in comune c'è Pirandello, il tempo, la morte.

la prima parte, aperta dalle immagini del cinema italiano degli anni della guerra e subito dopo, ricorda il complicato ritorno delle ceneri di Pirandello a Girgenti (qui un articolo che racconta la storia); la seconda parte rappresenta l'ultimo racconto scritto pochi giorni prima della morte.

la prima parte è in bianco e nero, la seconda a colori.

il ritorno delle ceneri in Sicilia ha momenti che fanno sorridere, il racconto finale è terribile, non c'è altro che dolore, insostenibile, a causa di un chiodo capitato nelle mani di Bastianeddu nel momento sbagliato, "apposta". 

è un film dove non c'è niente da dimostrare, solo mostrare la morte in due momenti diversi, alla fine della vita e in gioventù, nel primo caso, per quanto difficile, il momento complicato, e pirandelliano il dopo, nel caso di Bastianeddu un dolore eterno.

buona visione di un film diverso, non sarete delusi - Ismaele


ps: ecco le ultime disposizioni di Pirandello:

 « I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. 

II. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. 

III. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. 

IV. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui »


  

 

Leonora addio è un film LIBERO. Nell’atteggiamento, ci ha fatto pensare agli ultimi film girati da Luis Bunuel: è ciò che si prova davanti all’opera di un maestro che, giunto a un’età così matura, lavora in assoluta libertà rinunciando a qualsiasi convenzione. Il film è totalmente anti-naturalistico, ma del resto il cinema dei fratelli Taviani è sempre stato così. Leonora addio va a collocarsi accanto ai film più belli e poetici che Paolo e Vittorio abbiano realizzato in coppia: a Padre padrone, a La notte di San Lorenzo, a San Michele aveva un gallo, a Kaos. Nel panorama del nostro cinema, in questo 2022 così difficoltoso, è un film-UFO che va approcciato con rispetto e con curiosità: se ne viene clamorosamente ripagati.

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Il film è nettamente diviso in due parti: ognuna delle due ha al centro una morte, un cadavere, una tomba. Nella prima parte (in bianco e nero) è la morte di Pirandello (avvenuta il 10 dicembre 1936, due anni dopo il Premio Nobel) a essere evocata: una morte che rimane senza sepoltura, e che solo 15 anni dopo trova rocambolescamente la tomba dove ora riposano le ceneri del drammaturgo siciliano. Nella seconda parte, invece, ispirandosi all’ultimo racconto scritto da Pirandello, Il chiodo, Paolo Taviani racconta (a colori) di una morte che non trova spiegazione: quella di una ragazzina dai capelli rossi che mentre si sta accapigliando con una compagna viene uccisa con un chiodo (un punteruolo…) da un suo coetaneo, approdato a Brooklyn con il padre che l’ha strappato dalle braccia della madre e l’ha obbligato a emigrare con lui. Il delitto non ha movente, il ragazzo dice solo che il chiodo gli è capitato fra le mani “apposta”, ma non sa spiegare cosa significhi “apposta”. Il cadavere della ragazzina viene sepolto nella nuda terra e per tutta la vita il ragazzo assassino andrà periodicamente a renderle omaggio, raccogliendosi in meditazione davanti alla croce che segna la sepoltura, in una cerimonia privata di elaborazione del lutto che dura per tutta la vita…

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domenica 20 febbraio 2022

Bes Vakit (Times and Winds) – Reha Erdem

siamo in un villaggio di campagna, lontano dalle luci delle città.

la storia segue la vita del villaggio, a partire da alcuni ragazzini e ragazzine e quello che gli gira intorno.

è il momento della crescita, per quegli adolescenti, c'è il conflitto con i genitori, a volte anche odio, i grandi non sono granchè, anzi.

quel paese di campagna/montagna, da cui si vede il mare, in Turchia, è un piccolo luminoso paradiso, ma ci sono gli umani.

il film merita, non succede molto, ma accade quella cosa che si chiama la vita.

Reha Erdem è un grande regista, da noi lo conoscono troppo poco; nella sua filmografia ci sono veri capolavori, Bes Vakit è "solo" un gran belfilm.

buona (non bucolica) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

In Bes vakit, senza ancoraggi e con levità funambolica, la macchina da presa sembra ripercorrere fugacemente le traiettorie ondivaghe di Malick, procedendo tra l’essenza inconfessata della natura e i muri plumbei e scalcinati degli abituri. Ma l’inquadratura non è un frammento di un frammento più grande che è il film, come accade nelle opere del regista texano; qui, risaltano tallonamenti che, sulla scia di Bela Tarr, conducono lo spettatore in un territorio insondabile, all’inseguimento vano delle immagini.
Immagini che si lasciano trasportare dalle ariose partiture musicali del compositore estone Arvo Part: esse mimano la contrazione involontaria, il respiro primordiale della natura. La vita accarezza le fronde degli alberi sottoforma di vento, sciama tra i vicoli del villaggio e i viottoli e le crepe della campagna scoscesa, attraverso i corpi esili e i passi svagati di piccoli ragazzi, che sembrano scarti campestri, stesi tra le sterpaglie, dentro a un fosso, al riparo dalla durezza e dall’aridità degli adulti.

Il regista sembra velare discretamente uno sguardo sociologico, marcando quella distanza incolmabile tra genitori e figli, rottura insanabile che è propria di una cultura, quella turca, spaccata tra tradizione, che può essere letta come isolamento quanto resistenza, e modernità, crescente sotto la spinta di forze magnetiche e illusorie del progresso occidentale. Nei loro gesti violenti o di indifferenza, vibra una qualche condanna nei confronti dei propri figli, colpevoli di aver ceduto a qualcosa di poco familiare, remoto, estraneo…

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…Bes Vakit (titolo internazionale: Times and winds) è ambientato in un paesino rupestre dell'odierna Turchia. Il film è scandito da cinque momenti, notte, sera, pomeriggio, mezziogiorno e mattina, le cinque tappe della preghiera quotidiana di ogni musulmano. Quattro bambini affrontano il passaggio dall'infanzia all'età adulta in un paese ricco di contraddizioni. Nonostante il regista abbia dichiarato di non richiamarsi direttamente alla realtà del proprio paese, quasi abbia deciso di affrancarsi di ogni considerazione di natura politica, sono evidenti i riferimenti alla Turchia di oggi, sospesa tra modernità e tradizione, legami ad un passato antico e ricettività ed apertura al mondo occidentale e all'Europa. Da un lato la preghiera ed una struttura sociale fortemente patriarcale, dall'altro l'insegnamento della scienza e della natura fisica della terra, non a caso affidati ad una maestra giovane ed avvenente, che suscita l'ammirazione di uno dei bambini così come del padre. Sono presenti anche alcuni riferimenti ai maltrattamenti nei confronti dell'infanzia, così come pure alcune inquietanti allusioni a fantasie di parricidio. Nella prospettiva del film però l'uccisione del padre (in particolare se brutale o ingiusto) non deve essere intesa in senso letterale, ma come superamento dei limiti infantili in favore della libertà e della responsabilità dell'uomo maturo. Tale passaggio è sottolineato da una canzone che vede i bambini come dei dormienti, che solo al risveglio realizzeranno il loro potenziale al prezzo della perdita dell'innocenza. A fare da sfondo è la struggente campagna turca, aspra e allo stesso tempo rifugio sicuro ed avvolgente per i piccoli protagonisti.

Bes Vakit è un film poetico e leggero anche nelle sequenze più dure, e non mancherà di dare spunti di riflessione, anche dal punto di vista religioso. Vengono messi in luce infatti alcuni punti comuni tra cristianesimo ed Islam, che com'è noto hanno un importante trait d'union nella figura di Abramo, e alcune dinamiche tra figlio prediletto e figlio respinto possono ricordare i due fratelli della Genesi, Caino e Abele.

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I tre piccoli protagonisti si muovono senza tregua (con la steadicam che li accompagna spesso di spalle) in quei luoghi vergini, ma in realtà sono fermi, addormentati, imbalsamati nei loro crudi pensieri e nei sogni più ingenui, come raccontano le suggestive immagini dei loro corpi distesi immobili sulla terra, ricoperti d'erba, di pietre, di avanzi di vita e natura, mentre una poesia continua a ripetere: svegliatevi bambini, è tempo di crescere.

I bambini non capiscono i loro genitori. Li spiano fare l'amore e non riescono a distinguere questo dalla brutalità del sesso tra gli asini, li guardano con presunzione diventare vecchi e indebolirsi nella malattia, li fissano e si sentono prosciugare quando li vedono umiliati dai loro stessi padri. Tre generazioni di uomini si perdono così, nell'impossibilità di riconoscersi e di assolvere con coraggio il proprio ruolo, distratti dai problemi più pratici e dai dettati religiosi…

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sabato 19 febbraio 2022

Je veux voir - Joana Hadjithomas, Khalil Joreige

film un po' documentario, un po' no.

Catherine Deneuve si trova a Beirut e vuole vedere com'è quel bel paese che è il Libano, uno stato fallito, che passa da una guerra all'altra, non dichiarate, ma terribili.

insieme a Rabih Mroué, attore libanese, che guida la macchina, vanno in giornata verso il sud, e vedono, e ci fanno vedere, un paese che poteva essere un paradiso, ed è diventato una rovina.

un film testimonianza, si potrebbe definire e svolge il suo compito egregiamente, grazie ai due attori, stupiti e addolorati.

buona (libanese) visione - Ismaele



 

 

 

Je veux voir nasce da una tragedia, dalla guerra scatenata da Israele contro il Libano nel luglio del 2006. Da una domanda che Hadjithomas e Joreige si sono posti: “Che cosa può fare il cinema” di fronte a una tale, ulteriore situazione di conflitto? Dalla loro impossibilità di raggiungere Beirut, bloccati a Parigi dallo scoppio della guerra, vissuta così da loro, per la prima volta, a distanza, da spettatori. E dall’idea, quindi, di recarsi appena possibile sul posto insieme a un’icona del cinema francese come Catherine Deneuve. Per raccontare le attese di un film da farsi, con una minima troupe e due attori nel ruolo di se stessi (Deneuve e l’attore libanese Rabih Mroué). Film da farsi che è già il film che stiamo vedendo…

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Curioso filme a medias entre el documental y el guión improvisado, realizado por dos de los grandes talentos cinematográficos del Líbano (aunque afincados en París). Este tour por entre las ruinas de la guerra del Líbano, tiene como principal protagonista la mirada limpia de Catherine Deneuve. Esta actriz fetiche junto con una actor de la tierra Rabih Mroueh, recorren en coche los desangelados paisajes, grandes cicatrices de esta tierra, pues como bien dice el título, la actriz francesa "quiere ver". El uso de cortes entre planos roba frescura a un supuesto documental; algunas escenas en las que se insinua que peligraba la integridad de los actores queda al descubierto. Ello no roba de buenas intenciones al filme, el cual solo quiere mostrar la realidad del actual Libano a través de sus paisajes desolados, sin más pretensiones políticas. Deneuve muestra valentía al participar en la cinta, más cuando los directores no ocultan la necesidad que tuvieron de tenerla en el encuadre para así poder filmar algunas cosas que sin ella serían prohibidas. El rostro de Deneuve quiere reflejar lo que ve. Una pena que esta imagen en otra época tan bien usada ahora está estirada por las operaciones y así quede un poco muda. Filme crudo y curioso.

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Película testimonio, película comprometida, película bella, cierto, pero también película difícil de ver; en la que un espectador poco prevenido se encuentra mirando a un coche que avanza por la carretera sin que suceda nada. El espectador puede no se sentirse interpelado y la mirada de Catherine Deneuve puede no bastar para retenerle en la sala.

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Lo mejor es sin duda el fragmento en que Mrouè busca los restos de la casa de su abuela, sin que pueda reconocer el barrio, y el epílogo, con Deneuve en una lujosa fiesta, entre embajadores, pero que aún se acuerda de su experiencia viajera. Sin embargo, es un film premioso, que se detiene mucho tiempo en mostrar a los protagonistas por la carretera sin que avance la acción.

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mercoledì 16 febbraio 2022

Lamma shoftak (When I Saw You) - Annemarie Jacir

Tarek è un ragazzino palestinese che nel campo profughi in Giordania non sta bene, vorrebbe tornare a casa.

nella scuola del campo sta male, e nonostante ami la madre (il babbo forse gliel'hanno ammazzato) decide di lasciare il campo in cerca della libertà, forse della strada di casa.

lo trovano dei fedayn (combattenti per la libertà per i palestinesi, terroristi per i maledetti israeliani) e lo "adottano".

è un bambino fra i grandi, e si sente come loro, vuole anche combattere.

intanto lo trova la mamma, e stanno insieme ai combattenti per la libertà.

Tarek è un fratello di Antoine Doinel, lo vedrete.

un film che merita, promesso - Ismaele

 

 

 

Tarek, el protagonista, es un niño rebelde por naturaleza que no encuentra la respuesta a una pregunta simple, pero determinante de su nueva vida: ¿Por qué no podemos volver a casa? No encuentra la respuesta por dos razones. Es tan solo un niño y las causas del conflicto árabe-israelí son ajenas a él, y tal vez su madre, a pesar de ser increpada y culpada por el niño en su ingenuidad, no tiene el corazón para darle una respuesta desesperanzadora. Sabiendo que llegaron al campo de refugiados caminando, Tarek decide un día, en lugar de asistir a la improvisada escuela, simplemente volver caminando a casa. Al poco tiempo es detectado por un grupo de milicianos palestinos rebeldes fedayín, quienes para protegerlo, y llevados por la inmediata empatía que les produce su determinación, astucia y simpatía, tratan de disuadirlo, al menos provisoriamente, de seguir su camino y terminan por adoptarlo como «mascota»…

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In the final scene of The 400 Blows, Jean-Pierre Léaud’s Antoine Doinel famously runs along a beach at low tide before stopping to look at the camera. Antoine, without a home, is unable to cope in an institutional setting, and the ocean is his final oppressor, the ultimate unassailable authority of the boy’s stubbornness and imagination. Annemarie Jacir’s When I Saw You often alludes to this image of Antoine running. Like Antoine, young Tarek (Mahmoud Asfa) has a penchant for fleeing from situations that don’t suit him, but Tarek is also a Palestinian refugee in the aftermath of the Six-Day War. His homelessness is literal; he’ll never find a home because it isn’t there any more…

In Jacir’s vision, the bearded fedayeen and their coed camaraderie can make their camp seem more like a college campus than a training ground for armed rebellion. They listen to Western music, quote Marx, and paint posters of revolution. It’s not difficult to see why Tarek prefers this to the pedagogical authoritarianism of his refugee-camp classroom. When Tarek’s mother tracks him down, she’s won over by the fighters, not because of their political stance, but because they make her feel like less of a victim. For Tarek, the act of joining the fedayeen is the act of joining a community. Jacir, however, makes sure we know this bildungsroman is a temporary one. Tarek is restless, and unlike a “temporary” refugee camp, the end of the fedayeen training ground is inevitable.

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lunedì 14 febbraio 2022

Piccolo corpo – Laura Samani

oggi sembra una storia di fantasia, quella che la chiesa cattolica (degli uomini) per secoli non ha permesso di battezzare i bambini e le bambine nati morti, e questa regola misericordiosa è durata fino a pochi anni fa.

il film è l'umile storia di Agata (che non si rassegna alla regola, come dice il prete) e della sua bambina, e del loro viaggio fra mille pericoli, appena un secolo fa, quando fare un viaggio come il loro era pericoloso come un viaggio in Afghanistan oggi.

Agata (una bravissima Celeste Cescutti) è disposta a rischiare la vita per il miracolo di dare un nome alla sua bambina, anche con l'aiuto di Lince (Ondina Quadri).

un piccolo grande film che sarà uno dei più belli e commoventi della stagione cinematografica. 

al cinema è solo in una ventina di copie, vogliatevi bene, non fatevelo sfuggire.

la fine vi lascerà senza fiato, come solo i film bellissimi sanno fare.

buona visione - Ismaele



 

 

LA PAROLA ALLA REGISTA

"Nel 2016 ho scoperto che a Trava, nel mio Friuli Venezia Giulia, esisteva un santuario dove fino al XIX secolo si diceva avvenissero particolari miracoli, che i bambini nati morti potessero essere riportati in vita per il tempo di un solo respiro. Un miracolo come questo era necessario per battezzare i bambini, che altrimenti sarebbero stati condannati a essere sepolti in un terreno non consacrato, come gatti morti. Senza il battesimo, non avrebbero mai avuto un nome o un'identità e le loro anime avrebbero vagato eternamente nel Limbo. Questi tipi di posti sono chiamati à répit, o santuari del respiro, ed erano presenti in tutte le Alpi (nella sola Francia se ne contavano quasi duecento). Sorprende come la loro storia sia del tutto sconosciuta nonostante le dimensioni del fenomeno.

I santuari sono rimasti da qualche parte nella mia mente e hanno finito per catturare la mia attenzione. Sono stata colpita da una cosa in particolare: erano soprattutto gli uomini a recarsi in viaggio nei santuari con i piccoli corpi dei loro neonati. Ovviamente, le donne che li avevano dati alla luce erano confinate nei loro letti soggette a una vana attesa.

La prima domanda che ho posto ai cosceneggiatori Elisa Dondi e Marco Borromei, che hanno deciso di condividere il mio viaggio cominciato con il cortometraggio La santa che dorme, è stata: cosa succede alla donna che è a letto? E se invece fosse lei a mettersi in viaggio? Così abbiamo cominciato a scrivere con due sole certezze: la donna in questione è Agata ed è alla sua prima gravidanza.

Quando la sua piccola nasce morta, Agata sprofonda nel dolore e non ce la fa ad andare semplicemente avanti, come sembrano fare tutti coloro che le stanno intorno. Per me, la parte migliore di una storia è data da quel momento in cui un personaggio decide di ribellarsi. La scelta di Agata è praticamente scandalosa perché denota orgoglio e protesta non solo contro la sua religione ma anche contro le leggi della natura. Arriva un momento preciso, di solito di notte, in cui le possibilità davanti a noi sembrano improvvisamente consistere in una sola scelta ed è allora che il destino si compie: Agata decide di ascoltare le voci che parlano dei miracoli. Seguendo il suo istinto e senza dirlo a nessuno, si mette in viaggio con la sua bambina in una piccola scatola. Da sola.

Ovviamente, la pratica di rianimare i bambini non era vista con benevolenza dalla Chiesa perché considerata un abuso dei sacramenti e simile alla stregoneria. Agata si impegna in un viaggio ai confini dell'ignoto, abbandonando le sue radici e rischiando di perdersi così come di morire. Il suo costante desiderio è quello di dare un nome a sua figlia al fine di lasciarla andare e separarsi da lei, divenendo a quel punto due individui distinti. La verità però è che il viaggio è un modo per prolungare lo stato di simbiosi con la figlia con cui ha vissuto per mesi, una sorta di continuazione della sua gravidanza: la bambina dalla pancia viene trasferita alla schiena, divenendo un peso che porta sulle sue spalle. Il suo viaggio è sì fisico ma diventa anche trascendentale. Agata non si rende conto che per continuare la sua missione deve trasformarsi lei stessa e diventare una morta in mezzo ai vivi.

Agata aveva bisogno di compagnia per il suo viaggio ed è così che è nato il personaggio di Lynx: selvaggio e astuto, chiuso e isolato perché amare significa essere compromessi, indeboliti. Lynx mostra ad Agata la strada, offrendole protezione, ma quello che riceverà da lei è qualcosa di necessario per la sopravvivenza: il profondo senso di attaccamento a qualcosa di amato, l'impegno, il sacrificio e il senso di appartenenza a qualcosa che non puoi controllare e che ti rende vulnerabile. Grazie ad Agata, Lynx si ricongiunge con quella parte di archetipo femminile che ha il coraggio di accettare il lato oscuro dell'amore: il dolore.

Ho ambientato il film nella mia terra natale ma non significa che questa storia sia esclusiva solo di quel luogo. Credo che le storie siano le stesse ovunque. Ho girato in maniera cronologica intraprendendo lo stesso tipo di viaggio che porta Agata da Caorle e dalla laguna di Bibione alla Carnia e alle montagne del Tarvisiano. Questo film è cresciuto con noi come noi siamo cresciuti con lui.

Durante la ricerca dei luoghi in cui girare, ho incontrato persone che sono diventate personaggi nel film, o forse è il contrario, dal momento che nessuno dei due può essere considerato senza l'altro. Quasi l'intero cast è composto da persone che non hanno recitato prima (in alcuni casi, intere famiglie). È anche questo il motivo per cui ho deciso di girare il film nel dialetto veneto e friulano: non solo rendendo più autentica la lingua parlata al tempo della storia ma anche dando alle persone la possibilità di esprimersi nel modo più naturale possibile. Il processo di imposizione della lingua italiana cominciò nella seconda metà dell'Ottocento e proseguì sotto il fascismo, rivelandosi un'operazione politica che, tesa al controllo del territorio, finì per causare un enorme impoverimento culturale. Fortunatamente, non riuscì a cancellare del tutto l'ampia varietà di idiomi. Penso che il dialetto sia un arricchimento prezioso e spesso commovente: basti pensare che la parola per bambino in friulano è frut, perché un figlio è il frutto dei suoi genitori.

Per varie ragioni (e spesso estranee alla storia stessa), tutte le persone coinvolte hanno trovato qualcosa di loro nella storia e nei suoi temi. Questa è la ragione per cui spesso hanno finito per parlare più della loro vita che del cinema e per imparare gli uni dagli altri: alle volte ero io a dirigere loro mentre altre volte accadeva il contrario ed erano loro a guidarmi. La trasversalità è la migliore forma di creazione.

nel film, Dio non si trova nei miracoli, nella preghiera o nel dogma che divide l'aldilà in paradiso, inferno o limbo. Dio esiste a un livello diverso: in Lynx, che crede in niente e che non è toccato dall'iniziale premessa del miracolo; in Agata, che imbriglia la rabbia per ridisegnare i confini di ciò che è possibile; e nel rapporto tra le loro due visioni solitarie che, per un attimo, sono meno dolorose. C'è una linea sottile che divide la vita dalla morte, la realtà dalla magia, le possibilità in cui abbiamo sperato e il tempo che ci resta.

Spero che questo film crei uno spazio condiviso più grande senza la presunzione di trovare risposte assolute per vivere insieme nel dubbio".

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Agata (come Samani) si spinge sempre oltre: attraversa luoghi (e fasi esistenziali) di non ritorno, entra dentro la visceralità di un istinto primigenio, affronta in maniera diretta e vertiginosamente profonda il dolore per la perdita di un non nato, e rifiuta il commento più ottusamente crudele di tutti: "Farai altri figli". Perché per Agata esiste solo quella bambina, unica ed irripetibile, e la sua determinazione a strapparla dall'anonimato ha una potenza ancestrale inarrestabile.
Il viaggio di Agata, come ogni percorso femminile, è una staffetta per portare un poco più avanti il testimone secondo un movimento irreversibile, ed è capace di far ritrovare la propria femminilità anche a chi l'ha negata, a ricostruire il legame indissolubile fra una mamma e una figlia anche in chi, dalla propria madre, è stata rifiutata.

È un "viaggio dell'eroina" nel senso drammaturgico più puro, disseminato di prove, antagonisti, mentori e alleati, e Samani ne segue la linea archetipale rimanendo incollata ai corpi e alle cose, essenziale e autentica, tattica e olfattiva, silenziosa e dolente. Agata, giovane donna di mare, si inerpica su per la montagna entrando in un universo a lei ignoto, attraversa una galleria senza sapere se rivedrà mai la luce, si immerge in un lago del quale non vede il fondo: membrane naturali che sono anche tappe di conoscenza e gradini di consapevolezza che contagiano anche Lince. La morbidezza delle immagini nasconde una durezza di fondo che è la piena coscienza di un dolore inaccettabile, perché "il corpo e il cuore non dimenticano"…

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…la conclusione di questo viaggio (che ovviamente non riveliamo) è totalmente all’altezza delle premesse e di ciò che è stato messo in campo. Coerente e potentissimo. Ovviamente parliamo di cinema d’autore, non ci cinema commerciale, cioè di un film che non vuole acchiappare lo spettatore con l’azione e lo spettacolo ma che anzi vuole coinvolgerlo in un viaggio interiore, che vuole approfondire cosa sia vivere in quel mondo per una donna di quel tempo. Invece di essere un limite è un tratto originale che conquista immediatamente. Non siamo in un film americano che trasforma qualsiasi scena in un dispositivo di tensione ma in un film italiano che vuole raccontare qualcosa e sa come farlo.

Se è vero che il cinema italiano fa molta fatica con il fantastico Piccolo corpo dimostra che è solo una mentalità ristretta quella che identifica la fantasia con i soliti luoghi, le solite figure e i soliti svolgimenti. L’immaginario fantasioso sta nella maniera in cui i personaggi vedono il mondo. E se seguiamo una contadina di montagna dal forte credo religioso, per la quale tutto è animato da forze invisibili, magiche e onnipotenti, allora anche lì si può respirare lo spirito del cinema fantastico.

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In un mondo del cinema italiano sempre più anodino Laura Samani ha il coraggio di lavorare e ragionare sul corpo, vivo e pulsante o cadavere che esso sia. Esibisce le secrezioni e la perdita di fluidi di una donna che ha partorito con sofferenza da pochi giorni, e non ha neanche timore di mostrare il corpicino della sua figlia senza nome, con un effetto speciale che probabilmente creerà molti problemi a una parte degli spettatori ma è in profondità la dimostrazione della coerenza espressiva della giovane cineasta. Cos’è infatti oggi il visibile? In un mondo che sta perdendo sempre più contatto con il materico non è forse uno dei compiti del cinema quello di far sopravvivere – anche ricorrendo a un “miracolo” tecnico – la necessità dello sguardo, unica reazione possibile forse alla deriva dell’oggi? Piccolo corpo non ha paura delle notti buie, non ha timore di affrontare un cunicolo dal quale nessuno è uscito vivo, e si arrischia con gran coraggio a sfidare il naturalismo, e la supposta oggettività del reale. Nelle profondità acquatiche, un attimo prima dell’assideramento, Samani sa ancora trovare il calore dell’umano che sopravvive nel sogno a ogni lutto. E lì, quasi occhieggiando all’onirismo di Vigo, ritrova la vita, e dunque il cinema.

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QUI un’intervista alla regista