mercoledì 30 luglio 2014

El violín - Francisco Vargas

rimani catturato da Plutarco, il vecchio campesino povero che suona il violino.
non può lavorare (gli manca una mano), ha un figlio e un nipotino che lo accompagnano per guadagnare qualche peso nei locali della cittadina vicina.
vivono in una delle tante parti del Messico dove i militari cercano di distruggere la resistenza dei poveri contadini, che si difendono come possono.
il violino è un protagonista del film, Plutarco ha una forza di volontà fortissima ed è disposto a tutto, per difendere la famiglia e il villaggio.
in più si crea un rapporto strano e difficile con il capo dei militari.
Plutarco (Ángel Tavira) ha girato solo questo film ed è stato premiato a Cannes, dopo un paio d'anni è morto, Francisco Vargas, il regista, non ha fatto altri film dopo questo.
non c'è giustizia a questo mondo, almeno questo piccolo capolavoro sono riusciti a girarlo.
da non perdere - Ismaele 







Storia di un vecchio, di un violino e di una battaglia contro l'oppressione, El violín è un film di puro racconto, l'esordio nel lungometraggio di un regista che desidera intrattenere con una vicenda esemplare, destando l'interesse del pubblico senza cedimento alcuno. Nessun vezzo, nessuna teoria, soltanto la voglia di dare la massima credibilità ad una situazione tipo in cui alcuni uomini ne affliggono degli altri. Non per niente, Francisco Vargas preferisce il bianco e nero al colore, operando una scelta stilistica capace di camuffare nel miglior modo possibile il tempo in cui ha luogo l'azione. Che sia il Messico oppure un qualsiasi altro angolo dell'America del Sud, il nodo centrale rimane quello della necessità di mantenere la propria libertà, valore inalienabile da trasmettere dal più grande al più piccolo come fosse l'unica favola da narrare davanti all'ardere di un fuoco…

Il violino del titolo è la chiave di accesso al territorio sgomberato dall’esercito in cui i resistenti hanno nascosto le loro munizioni. Realismo sociale, una regia impeccabile, con una fotografia in bianco e nero che sottolinea il realismo della storia raccontata, interpretazioni da parte di attori non professionisti di rara efficacia, una spanna sopra tutte quella di Don Ángel Tavira, qui al suo primo ruolo dopo essere stato oggetto del documentario di Vargas del 2004 Tierra caliente… Se mueren los que la mueven, fanno di El violin un film di grande bellezza ed efficacia, grazie anche a un ritmo dettato dalla sceneggiatura che non conosce alcuna forzatura. Volutamente privo di riferimenti temporali, il film narra una storia comunque mai finita.
Semplicemente bellissimo…

…cuando uno se asoma a “El violín”, tiene la sensación de estar haciéndolo a un pedazo de verdad, con la historia de tres personajes (el abuelo, el hijo, el nieto) que se buscan la vida tocando música por los pueblos cercanos a una selva indeterminada (podría ser Chiapas, pero también, tristemente, otros muchos puntos diseminados por América) mientras colaboran con una guerrilla que busca plantar cara, de manera desesperada, a la violencia de un ejército que mata, asola y viola con impunidad a las comunidades indígenas.
Pero este tema, que en manos de otros directores más panfletarios apenas descendería el peldaño de la denuncia social y política sin tomar una verdadera encarnación humana, en el portentoso guión de Vargas Quevedo, en su poderoso blanco y negro y, sobre todo, en las interpretaciones –con el no profesional y anciano don Ángel Tavira al frente– cobra su verdadera identidad, su capacidad de trascender la anécdota para transformarse en una narración universal…

L’histoire pourrait se passer de nos jours dans les forêts chiapanèques du Mexique, où l’armée est encore présente face aux forces zapatistes mobilisées pour défendre les droits élémentaires d’exploitation de la terre. En effet, les soldats ont les uniformes de l’armée régulière mexicaine, les protagonistes sont hispanophones, déambulent dans une situation géographique d’Amérique centrale et le film lui-même est mexicain. Pourtant, à aucun moment il n’est fait mention de lieux, de dates ni mêmes de propos idéologiques de la part des rebelles face à leur oppresseur. On entre très vite dans une fable universelle où les protagonistes ne sont plus qu’un vieil homme seul avec son violon face à un homme massif armé, entouré d’un groupe d’hommes armés qui n’ont de comptes à rendre qu’entre eux. Si le rapport de force est dès les premiers instants totalement déséquilibré, c’est sur celui-ci que repose toute l’histoire du Violon et qu’apparaît la puissance symbolique de cette confrontation. Inutile d’attendre un beau pathos lacrymal ou encore un ange vengeur rétablissant à la toute fin un désordre dont le spectacle aurait satisfait diverses perversités spectatrices. Le ton de cette histoire est entièrement ancrée dans la fable et en possède tous les moyens d’expression…

…La película propone una lectura del presente (momento cuando Lucio sería adulto) en la que la justicia es posible sólo a través de la combinación de todas las armas tradicionales y modernas de las que se disponen: el mito, la memoria, la música popular, el discurso legal y pos-colonial, y la lucha armada. Al mismo tiempo, esta justicia depende de cierto modo de ver y escuchar en el espectador. La imagen final se puede leer como pesimista: frente el fracaso de las generaciones anteriores los ciclos de violencia se perpetuarán en Lucio. Sin embargo, creo que la imagen apunta hacia otra posible lectura, una extrañamente optimista donde el espectador es capaz de oír y reconocer la importancia de la canción reelaborada por Lucio. El violín como herramienta cultural busca definitivamente afectar los modos de ver y oír del espectador; queda en él o ella la agencia para reconocer a los campesinos como vidas que importan y hacer del espacio cultural un móvil político.

Nonostante la mano destra amputata in giovane età per via dell'esplosione di un petardo ad una festa di paese, Ángel Tavira ha imparato a suonare diversi strumenti, divenendo violinista e compositore e dandosi come scopo nella vita quello di insegnare, diffondere e salvaguardare la tradizione messicana attraverso la musica. Un anno dopo aver fatto di questo operaio delle sette note classe 1924 l'oggetto del documentario Tierra caliente... Se mueren los que la mueven, il giovane regista e sceneggiatore Francisco Vargas lo ha voluto come interprete principale di quello che (alla luce della morte, sopraggiunta nel 2008) è rimasto il suo unico film recitato, El violín, che nel 2006 gli ha permesso di vincere il premio come miglior attore a Cannes nella sezione A Certain Regard nonostante la mancanza di qualsiasi titolo specifico in fatto di recitazione…
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martedì 29 luglio 2014

Akibiyori ("Tardo autunno" o "Giorni sereni d'autunno") - Yasujiro Ozu

uno degli ultimi film di Ozu, a colori.
la storia è semplice, una figlia non pensa a sposarsi, per fare compagnia alla madre vedova.
gli amici del padre, un terzetto da Billy Wilder, tramano per far sposare la madre con uno di loro, vedovo anche lui, ma le cose non vanno per il verso giusto, ma poi tutto si sistema.
come una slapstick comedy, a tratti, al ritmo di Ozu.
pochi movimenti della cinepresa, ma Ozu è sempre un bel vedere.
ha il segreto della semplicità, del ritmo, lento, della profondità delle cose semplici.
cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele









dans Akibiyori / Fin d’automne, c’est une veuve nullement encline à se remarier qui laisse elle aussi planer le doute un moment pour que sa fille se décide à franchir le pas décisif.
Cette intrigue principale, qui doit occuper tout au plus un tiers du film, est traitée avec une simplicité, une franchise récusant toute sensiblerie et prenant soin de ne jamais brouiller la perception. L’émotion qu’elle parvient à susciter est donc d’autant plus forte qu’elle reste très contrôlée. Elle doit beaucoup aux deux magnifiques actrices que sont Yoko Tsukasa, touchante de droiture fragile, et la radieuse, l’immense Setsuko Hara, qui du rôle de la fille dans Printemps tardif passe ici à celui de la mère.
Mais dans le cinéma d’Ozu la distinction entre rôle principal et secondaire est peu pertinente et bien d’autres personnages existent à part entière dans cet univers où les rituels sociaux occupent une si grande place (la cérémonie commémorative du début, le mariage, mais aussi les visites de courtoisie ou les réunions arrosées dans les bars) et où le spectateur lui-même se sent bientôt chez lui au milieu de visages devenus immédiatement familiers…

As important as the actors are, Ozu’s distinctive use of interior spaces is every bit as crucial. The lines, the lighting, the discreet placement of objects around the perimeters and in the forefront of his frames… these technical details seem like eccentricities to the novice, but become sources of a peculiarly comforting form of inspiration as we allow ourselves to be drawn into the environments Ozu presents on the screen...

L'humour est ainsi très souvent présent par l'intermédiaire du trio de quinquagénaires, tous trois amoureux de la même femme (la mère) et qui cherchent d'une certaine manière à assouvir leurs désirs que par personne interposée. Par sa forme, le film est enchanteur avec les superbes plans fixes, très construits (1), caractéristiques du style d'Ozu et une belle utilisation de la couleur. Au delà son apparente légèreté, Fin d'automne est un film vraiment admirable.

The film is essentially a simple story about three men who decides to play matchmaker for the daughter of their late colleague who is reluctant to leave her mother. When one of the men decides to pursue the mother since she is a widow and he’s been a widower for years, it causes some tension between mother and daughter as the latter has been reluctant to the idea of marriage despite the prospects she has. It’s a film that just doesn’t explore the ideas of traditional customs but also the sense of reluctance from young people to leave their parents and go into the world of marriage as there’s also some cynicism towards the subject…
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domenica 27 luglio 2014

El dependiente - Leonardo Favio

un film con un fascino misterioso, apparentemente semplice, e però profondo.
un film di poche parole e di ripetizioni, dove tutti sembrano normali e sono eccezionalmente strani, o esattamente il contrario.
una sceneggiatura che è sempre al punto giusto di tensione e di ripartenza.
bisogna abbandonarsi alla storia, si verrà ricompensati, e molto.
un piccolo capolavoro da non perdere, dentro c'è il Cinema - Ismaele




QUI il film online, in spagnolo



Feroz, esperpéntica, hilarante, poética, tierna y surrealista, la película mezcla eficazmente el melodrama, la comedia negra e incluso, de manera subterránea, el género de terror a la hora de efectuar un macabro retrato de la vida de provincias en el que todos -y no solo el protagonista en relación a su profesión- son dependientes no ya de las barreras sociales sino también de las personales, las que ellos mismos crean o no aciertan a superar. No es casualidad que Fernández, al despertar de su mal sueño, nombre a Estanislao, el hermano disminuido de la señorita Plasini del que ella se avergüenza y que quiere mantener escondido -quien, por cierto, es el único que repara en el idéntico parecido físico del pretendiente con su padre, llamándolo “papá” (el público debe sacar las conclusiones que crea oportunas al respecto)-, porque en el fondo identifica su(s) dependencia(s) con la(s) de aquél. Por otra parte, se trata de una obra sobre el deseo reprimido, manifestado de forma implacable en dos largas y magistrales secuencias resueltas en un solo plano: aquella en que a la señorita Plasini le sobreviene una especie de orgasmo cuando el protagonista le dice que siente amor hacia ella, y otra en el coche que los conduce al entierro de Vila, donde ambos empiezan acercando sus manos y rozando sus rodillas hasta acabar besándose y acariciéndose frenéticamente…

El dependiente es lo más. Tiene esa sustancia fantasmal; de tensión, que me hace acordar a Lynch, que daría a conocerse al mundo años más tarde que El dependiente.
¿Es Leonardo Favio ingenuamente visionario? No lo sé, quizá. Lo que sí, hizo una (y posiblemente alguna otra) película inolvidable. La historia de el señor Fernández, quien ya hace 25 años (desde los 15) es no solo el empleado de Don Vila (aquel viejo que no muere más), también es lo único que ese "pobre" viejito tiene.
Más allá de ese trabajo denso, aburrido y rutinario (por no decir dependiente...), ya al principio, con esa voz en of que narra cómo es la situación del presente, antes de que los hechos digan más que las palabras, nos enteramos que el señor Fernández vio ya tres veces a una mujer parada en su puerta (tres movimientos de cámara-tipo-ojo desde un auto en movimiento), y que de alguna manera (quizá indirecta) quiere hablarle…

…es una película sobre la pobreza, y sobre la crueldad que entraña esa situación. En ese sentido Favio se acerca a Brecht y a Buñuel, quienes retratan la pobreza y la marginalidad sin edulcorante ni miradas paternalistas. Lucrecia Martel dice de él que “una de las características más interesantes del cine de Favio es su ubicación social. La mayor parte de los directores ubican sus historias en la clase media o alta. Sin embargo, Favio explora universos poco vistos. Por eso su cine es tan particular y tiene un sentido del pudor totalmente distinto. Una relación con lo emotivo que por momentos hasta se convierte en ingenua, pero extrañamente lo vuelve muy genuino.”
Al igual que Crónica de un niño solo, ésta también es una película profundamente silenciosa, no sólo desde lo despojado de la banda sonora, sino por las dificultades que presentan los personajes para comunicarse. Las repetidas cantinelas de Don Vila, el discurso cortado y brutal de la señorita Plasini, La verborragia sin sentido de su madre, la mudez del hermano oculto, el discurso vacío y convencional del dependiente… Incluso madre e hija se susurran al oído frente a él, ocultando el discurso. Los personajes nunca llegan a comunicarse, nunca llegan a la intimidad a través del discurso.
En una película así, el único que comunica información elegante y cínicamente es el narrador, que conduce el hilo de la historia de manera magistral. Este narrador en off, omnisciente, marca el ritmo de la película, llevándola a un lugar más literario que Crónica de un niño solo…


…La película fue filmada sin colores y con un estilo austero, tenebroso, casi primitivo. La cámara del director Leonardo Favio casi siempre está fija para hacer más efectivos las dos o tres ocasiones que se mueve. La técnica de contar la historia mediante narración es una torpeza; mejor comunicar lo necesario con medios más cinemáticas. El efecto más logrado es el ambiente opresivo de enajenación, de un mundo simpático que queda siempre fuera del alcance.
La película en su totalidad es un intento sincero de producir una obra de arte de verdad sin embargo el resultado algo forzado. Tiene un fin irónico y no sutil que me cae artificial. A fin de cuentas es una película difícil de juzgar: admiro el intento pero no es tan buena como se pretenda.
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sabato 26 luglio 2014

Il mistero delle dodici sedie (The Twelve Chairs) – Mel Brooks

un Mel Brooks minore, ma solo perché ha prodotto dei capolavori.
attori molto bravi, ricordo un Frank Langella (il Nixon di "Frost vs Nixon") giovanissimo e un Dom DeLuise strepitoso.
alla storia si è ispirato (qui) Carlo Mazzacurati nel suo ultimo film, dove Battiston e Dom DeLuise si danno la mano, per la bravura.
per me queste dodici sedie di Mel Broks sono da non perdere, prova per i film eccezionali che seguiranno - Ismaele






The Twelve Chairs is primarily recommended for fans of Mel Brooks, and for insatiably curious movie-watchers looking for hidden gems they may have overlooked.  Although I can't quite give it a personal recommendation, the performances are enough to keep most of the film afloat, and and far as Mel Brooks films go, it's probably the most palatable to watch with the whole family.   Over the years, Brooks has shown that he's not exactly the master of subtle comedy, but the attempt is interesting to see.  I suspect that after his experience making this one, he too realized that bawdy, broad farce was the way for him to go in the future.
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venerdì 25 luglio 2014

Adelheid - Frantisek Vlácil

un film di molti silenzi, di attese, di estranei, di umiliazioni, Viktor e Adelheid vivono nella stessa casa (requisita ai tedeschi, nei Sudeti), senza conoscersi mai, non sembrano avere neanche una lingua comune.
Viktor arriva dall'Inghilterra, torna in patria per un lavoro importante, ma non capisce bene lavoro e la patria, Adelheid è una tedesca che, dopo la seconda guerra mondiale, deve abbandonare tutto, e tornare in Germania.
l'occhio di Frantisek Vlácil è perfetto, e non tralascia nessun particolare.
non è un film da prima serata alla tv, per fortuna.
non ti distrai un attimo e quando sembra alla fine...
pare che il regista abbia fatto dei capolavori, intanto ho iniziato con questo, senza nessuna delusione, anzi - Ismaele





In all honesty, I find František Vláčil's cinema hard to talk about, and not because it's too complex or difficult to interpret. The real difficulty comes when all you have at your disposal to do it justice are mere words. You could, of course, remedy this by presenting copious screencaps, pointing out elements you like, and yet, even in this form, it wouldn't be enough.  Not by a long chalk. It goes without saying that his meticulously composed shots will look beautiful, but in doing so, you'll miss the motion. You'll miss the alchemy of it all unfolding before your eyes and the strange, haunting presence that resonates in every frame and maybe even between them.
OK, I'll freely admit that what I'm suggesting may sound a little hyperbolic. However, what I'm attempting to describe is less ghost in the machine and more a presence of the director himself – and no, I don't mean his departed spirit – that he gives part of himself away with each film, and if you could, you'd probably see that very essence sandwiched between the stock and the image printed upon it. The speed of the projector or more appropriately the spin of the DVD drawer means we miss it physically, but feel it emotionally instead.  This sensibility is something that Vláčil and only Vláčil can bring to the screen…
Adelheid is a taut, powerful and compelling film. A Character study on the one hand and love story on the other, Vláčil's first colour film is not only a challenge from a visual perspective, but also an emotional one. Though it may not be one of the most well-known constituents of the director's output, it's no less interesting. This is a must for any fans creating intent on creating their own collection of the director's work or indeed, with a love of Czech cinema. Highly recommended.

Although František Vláčil’s directing career continued to 1987, Adelheid (1969) was the last of his films to get much exposure outside his native country. It also marked the end of his most creatively fertile period: in the years following the Soviet invasion of Czechoslovakia, the Communist authorities prevented him from making features until 1976…

František Vláčil is surely one of the greatest directors to have ever lived. For what it’s worth, he is certainly one of my favorites…
The complexity of racial history and its impact on the individual is played out between the two main characters of Viktor and Adelheid in a way that only Vláčil can make visible. They don’t speak each others language – at least Viktor has very little German and Adelheid seems to be pretending she can’t understand any Czech. Therefore much of the film is tied up in the subtle interactions between Viktor and Adelheid  that we view from Viktor’s perspective.We know almost nothing about the two main characters.  In Viktors case we only know the little he reveals to others, and he is obviously hiding a great deal, and in Adelheid’s case we only know what others deem interesting or important enough to say about her. There is both opposition and attraction between Viktor and Adelheid. Initially Viktor is attracted to her physically, but over time this develops into an intense connection. We are never sure for Adelheid, because she is a servant, and therefore is bereft of free will. This is left deliberately ambiguous and open to interpretation…
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martedì 22 luglio 2014

La costa del sole (Sunshine State) – John Sayles

il solito John Sayles  fa un film che, pur non essendo un capolavoro, non annoia mai.
la storia è quella di una speculazione edilizia, e gli abitanti quasi non se ne accorgono.
il vecchio dottore (un bravo Bill Cobbs, da non confondere con Bill Cosby, si assomigliano molto) è un po' la memoria storica e prova a convincere gli abitanti a non cedere,.
come sempre gli attori di John Sayles sono convincenti e sono così bravi, nelle mani del regista, da sembrare "veri", non attori.
forse dovrebbe essere sempre così, ma non tutti i registi sono come John Sayles.
dice James Berardinelli (secondo Roger Ebert il migliore dei critici che scrivono in Internet) che questo film non è il migliore di John Sayles, ma che è necessario dire che un film medio di John Sayles spesso è migliore dei "capolavori" di tanti registi.
parole sante, come non essere d'accordo?
provare per credere, cercatelo e vi farete un idea. 
per me da non perdere, come tutti i film di John Sayles - Ismaele




Sunshine State does not represent John Sayles at his best, but it is imperative to note that middle-of-the-road Sayles is often better than the top-of-the-line product from many other filmmakers. The reason is simple: Sayles takes the time to investigate the humanity of his characters. For him, easy labels like "hero" and "villain" do not apply, and plot is typically secondary to the development of his protagonists - a means to flesh them out and move them forward. This is very much true of Sunshine State, the story of a small group of characters set during a late spring weekend in the Florida community of Plantation Island…

John Sayles' "Sunshine State" looks at first like the story of clashes between social and economic groups: between developers and small landowners, between black and white, between the powerful and their workers, between the chamber of commerce and local reality. It's set on a Florida resort island, long stuck in its ways, that has been targeted by a big development company. But this is not quite the story the setup seems to predict…

"Sunshine State" is not a radical attack on racism and big business, not a defense of the environment, not a hymn in favor of small communities over conglomerates. It is about the next generation of those issues and the people they involve. Racism has faded to the point where Eunice's proud home on Lincoln Beach no longer makes the same statement. Big business is not monolithic but bumbling. The little motel is an eyesore. The young people who got out, like Desiree, have prospered. Those who stayed, like Marly, have been trapped. And the last scene of the film tells us, I think, that we should hesitate to embrace the future in this nation until we have sufficiently considered the past.

Sayles è indignato dal progressivo snaturamento della cultura e dalla sua omogeneizzazione, ed è troppo intelligente per rappresentare il mondo di oggi come un luogo ideale e autentico. Perciò, nel ricostruire i movimenti e i moventi delle due protagoniste (la bianca Edie Falco e la nera Angela Bassett) e dei loro amici e parenti, sottolinea quanto di fasullo ci sia in realtà in quelle che credevamo fossero le nostre vere radici, e di quanti equivoci e compromessi sia inevitabilmente lastricata la nostra vita. Qui, forse, non ci sono più giuste cause per le quali schierarsi; la stanchezza segna i gesti e i rapporti dei personaggi e rappresenta la misura etica e narrativa della pellicola: la nostra dignità è l'unica certezza che ci è rimasta, sembra dire Sayles, facciamola valere. Pur nelle sue lungaggini e nei suoi accenni moralistici, _La costa del sole_ è un film giusto e raro, concentrato sugli esseri umani.

…I want to emphasize that, though Sayles is a political storyteller and does not shy away from the current events implicit in his story, he somehow manages not to beat us over the head with them, or continually congratulate himself for being so timely and important.
Instead, he gives us a town heading toward inevitable change. He gives us its people -- different sizes, shapes and colors. He shows them working, complaining about the heat, drinking, worrying and fading away. Sunshine State is a movie that both feels and thinks. It's a must-see.

Ne La costa del sole gli abitanti sono smarriti, come un’ eco lontana di un qualcosa che non c’è più (il film è ambientato nella storica Lincoln Beach): difendere quel luogo, quel paesaggio culturale, ora per loro è impossibile. Solo qualche vecchio, testimone di un tempo, lo fa. Ma neanche quest’ultimo può nulla contro l’avanzare delle multinazionali edili per il turismo: a mettere i paletti tra le ruote (simbolicamente?), in definitiva, saranno i resti, le ossa, di abitanti antichi, gli unici custodi di quel paesaggio culturale. E i “cattivi” (che così cattivi non sono poi), se ne vanno a suon di musica rock – interpretata da Chris Cote – verso altri edificabili “paradisi”. John Sayles è un gran regista, rigorosamente indipendente, capace di una scrittura ed una messa in scena quasi esemplari: il luogo – per quanto vicino all’Atlantico – è raccontato senza incanti, come i personaggi. A definirli sullo schermo un gruppo di attori pressoché perfetti. A partire dalla pluripremiata per il ruolo Edie Falco, ma bella figura fanno anche Angela Bassett, Timothy Hutton, Bill Cobbs e specialmente il premio Oscar Mary Steenburgen.
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lunedì 21 luglio 2014

La diversa fabbrica - Maurizio Corda



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Senza bisogno di parole, appare una fabbrica, che potrebbe essere polacca o ceca, chissà, dove marionette e umani vivono e lavorano insieme, in perfetta simbiosi, con i burattini che sono vivi (come in “Che cosa sono le nuvole?”), e non sai chi lavora per chi.
Tutto è sempre in movimento, nessuno e niente si riposa, la musica crea il ritmo, il respiro - Ismaele

Da 34 anni apre alle 9 del mattino e chiude alle sei di sera, alcune volte rimane aperta fino a tardi la notte e altre anche la domenica. Ci lavorano sei persone ma certi giorni di persone ne entrano 135 di cui molti bambini. É una diversa fabbrica dove, al rumore incalzante della serranda che si solleva, come fosse la sirena che richiama al lavoro, segue il rumore meccanico dell’interruttore che va su, è ora, si inizia.
Si illuminano i reparti…l’ufficio, l’officina, i laboratori, la sartoria. I lavoratori prendono posto, dall’officina stride il rumore della sega o lo sfrigolio della saldatrice, nei laboratori il rumore lieve della matita usata per il progetto lascia presto il posto al rumore della lama che scolpisce il legno e a quello impercettibile del pennello che dipinge. Il suono vibrante della macchina da cucire e quello metallico delle forbici distinguono le fasi della finitura di questo prodotto artigianale. Qui, come in tutte le fabbriche che si rispettino entra la materia prima grezza: ferro, legno, stoffa, ed esce trasformata, grazie alla manodopera, alla manualità, all’estro. Qui, come in tutte le fabbriche che si rispettino c’è l’indotto e un qualcosa in più, un valore aggiunto sul prodotto dato dalla trasformazione del materiale grezzo in altro materiale che contiene anima ed emozioni. L’eccezionalità della diversa fabbrica sta proprio in questo processo di trasformazione della materia prima, in vita e sentimento. È la diversa fabbrica o teatro laboratorio di Is Mascareddas a Monserrato comune della Sardegna meridionale, dove grazie alla Fondazione con il Sud, che ha finanziato il progetto Momoti, si è ristrutturato un vecchio cinema trasformandolo in un teatro moderno e funzionale. Un luogo dove nascono marionette, burattini, spettacoli e storie diverse, per trenta lunghissimi anni si è dato più valore al fine che al profitto, creando un prodotto unico, che è riuscito ad arrivare al cuore di tanti, trovando poi un posto nella memoria degli stessi. E questo è successo perché una preziosa componente ha lavorato da sempre in questa diversa fabbrica, ha lavorato in silenzio, senza rumore alcuno, una componente forte, instancabile, insostituibile, chiamata resistenza.
Lei fa si che questa diversa fabbrica ancora esista e che qui si trovi ogni giorno, ancora, dopo trenta lunghissimi anni, un valido motivo per cui valga la pena di sollevare la serranda e l’interruttore.
Questa fabbrica è una diversa fabbrica, con un fine importante, la cultura.

domenica 20 luglio 2014

The Experiment - Cercasi cavie umane - Oliver Hirschbiegel

mi ha ricordato "L'onda", che è posteriore di qualche anno, entrambi partono da degli esperimenti sul comportamento umano, fatti in California (a Palo Alto nel 1967, qui, a cui si ispira "L'onda", e a Stanford nel 1971, qui, a cui si ispira "The Experiment") in condizioni estreme, ma neanche tanto.
spicca l'interpretazione di Moritz Bleibtreu, che come sempre, vale la visione del film.
la storia è su cosa può diventare l'essere umano se ha una divisa e un potere senza limiti su chi deve subire (Abu Grahib insegna), alcuni vengono estratti a sorte per fare le guardie carcerarie, altri i prigionieri.
e, come ne "L'onda", molti interpretano il ruolo affidatogli oltre qualsiasi limite prevedibile.
un gran bel film, non perdetelo - Ismaele

QUI il film completo in italiano



Si des références à plusieurs longs métrages parsèment les 20 premières minutes, celle à Orange mécanique est la plus intéressante et la plus travaillée. Non content de signer un film formidable d'humanité, Oliver Hirschbiegel se permet de filmer des scènes d'anthologie (je ne l'écris pas souvent), où la violence et la haine ne se traduisent que par un simple regard. Enfin, l'interprétation sans faille de Moritz Bleibtreu (Tarek) affiche l'engouement qu'a pu susciter une telle histoire. Pour notre plus grand plaisir, Sartre avait raison : l'enfer c'est bien les autres.

"Das Experiment" is told with panache and vitality from the first to the last shot. Moritz Bleibtreu, one of Germany's finest contemporary actors, and Justus von Dohnanyi as the head guard deliver powerful performances. The story, based on the novel "Black Box" by Mario Giordano, works as action drama, psychological thriller, and cautionary tale about the human beast. The word "Nazi" is only uttered once, but of course the ghost of Germany's past hovers over the entire movie. How could anybody commit the horrific crimes of the Third Reich? How much does it take to turn ordinary citizens into monsters? Not much, "Das Experiment" seems to suggest. Start with uniforms and rules, and anger, desire, and fear will soon follow. The seductiveness of power will do the rest. The shocked silence at the end of the film is a warning.

Human behavior is determined to some degree by the uniforms we wear. An army might march more easily in sweat pants, but it wouldn't have the same sense of purpose. School uniforms enlist kids in the "student body." Catholic nuns saw recruitment fall off when they modernized their habits. If you want to figure out what someone thinks of himself, examine the uniform he is wearing. Gene Siskel amused himself by looking at people on the street and thinking: When they left home this morning, they thought they looked good in that.
"Das Experiment," a new film from Germany, suggests that uniforms and the roles they assign amplify underlying psychological tendencies. In the experiment, 20 men are recruited to spend two weeks in a prison environment. Eight are made into guards and given quasi-military uniforms. Twelve become prisoners and wear nightshirts with numbers sewn on them. All 20 know they are merely volunteers working for a $1,700 paycheck…

Mica male questo film tedesco. Basato su avvenimenti più o meno realistici, riesce a creare una tensione ideale, destinata ad esplodere nella parte finale, che non risparmia scene di efferata violenza. Certo, alcuni personaggi sono molto stereotipati e spesso le loro reazioni sono prevedibili, comunque restano impressi e in alcuni casi riescono a suscitare disgusto. Molte le sequenze "dure", con un certo spargimento di sangue e un'atmosfera sporca e asfittica. Non un capolavoro, ma sicuramente un buon film indipendente.

Interessante notare come un gruppo di persone che parte alla pari durante i "provini" possa piano piano essere completamente scisso in dominatori e sottomessi. L'abuso di potere è, psicologicamente, una delle condizioni più forti e allettanti per portare l' Uomo ad un rapido cambiamento. In questo senso straordinaria l'interpretazione di Justus von Dohnányi nelle parti di Berus, un timido e disadattato impiegato che, approfittando della situazione, diventa un vero e proprio aguzzino, leader decisionale ed emotivo delle guardie. Supera addirittura in bravura l'ottimo Bleitbreu, attore formidabile, qui nei panni di Tarek, il protagonista…
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sabato 19 luglio 2014

52 gioca o muori (52 Pick-Up) - John Frankenheimer

tratto da un romanzo di Elmore Leonard, una storia di ricatti, solo che il ricattato è uno tosto, e prova a vendicarsi dei ricattatori, che, come avviene spesso, sono incapaci di gestire una cosa più grande di loro, sono una banda quando tutto va bene, ma non capiscono bene il lavoro di équipe.
bravo come sempre Roy Scheider, si aggiunga la regia di  John Frankenheimer, e allora si capisce che è un film che merita - Ismaele





The story of "52 Pick-Up" is basically revenge melodrama. No thriller fan is going to be very astonished. What matters is the energy level and the density of detail in the performances. This is a well-crafted movie by a man who knows how to hook the audience with his story; it's Frankenheimer's best work in years. And if we can sometimes predict what the characters will do, there's the fascination of seeing them behave like unique and often very weird individuals. They aren't clones. I have gotten to the point where the one thing I know about most thrillers is that I will not be thrilled. "52 Pick-Up" blind-sided me.

From the start to finish the film plays just like a Leonard novel. A new-money business man (Scheider) is blackmailed by three sleazy characters after having an affair with a sexy 22-year-old. They plan on giving video tapes to Mitchell's wife if they don't get 105-thousand from the business man. John Glover (playing one of the thugs Alan Raney) would say what everyone in the movie audience was probably thinking after seeing that Mitchell's wife is Ann-Margret and girlfriend is Kelly Preston, “I like your taste in women!” At first, the criminals have the upper hand catching Harry Mitchell off guard. They assume Mitchell is soft and will fold quickly. They turn out to be wrong when Mitchell fights back. With a few clues, he searches for his blackmailers identities in the dark corners of L.A.'s strip clubs and adult film world. Eventually he finds all three men and (in classic Leonard style) trick them into turning against each other. Lots of twists and turns follow ending with an extremely satisfying climax…

Grande noir, tra i più cattivi realizzati negli anni 80 (e purtroppo tra i meno conosciuti). Crudo, violentissimo, coinvolgente, ricco di suspense, e con una messa in scena da parte di Frankenheimer (in grande spolvero) semplicemente magistrale: la rete di ricatti, prostituzione e omicidi in cui viene intrappolato Harry, oltre a trasmettere molta angoscia, è quanto di più sporco e squallido si possa immaginare (come per "Velluto Blu" di Lynch); alcune sequenze (davanti alle quali sarà impossibile rimanere indifferenti, vedere scene della Preston trucidata o della tortura con il cuscino alla povera Vanity) sono di una violenza inaudita; e dulcis in fundo, alle performance lineari e poco incisive di Scheider (messo con le spalle al muro) e Margret (troppo di contorno) fanno da contraltare quelle spietate e raggelanti di Glover (bastardo come pochi) e Williams III (psicopatico totale, fa venire la pelle d'oca solo a guardarlo), due grandi caratteristi che finiscono, con la loro cattiveria, per rubare la scena a tutto e a tutti. State sicuri che non ve li dimenticherete.
Unica pecca: il finale, poco originale e troppo, troppo americano.
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venerdì 18 luglio 2014

Tir-na-nog (Into the west) – Mike Newell

un cast di bravi attori, i due protagonisti bambini, sopratutto, un bravissimo Gabriel Byrne (il nonno nel film è lo stesso de "La fabbrica di cioccolato", di Tim Burton, e appare anche un Brendan Gleeson più magro e giovane di adesso), per una storia avventurosa.
dalla periferia povera di Dublino due bambini zingari fuggono verso l'Ovest, portati da un cavallo speciale, che ha un legame speciale con Ossie, e tre zingari e la polizia alla loro ricerca.
uno di quei film che ti da più di quello che ti aspetti - Ismaele 




If I were to tell you that "Into the West" was about two boys and their magical white horse, you would of course think it was a children's film. But it is more than that, although children will enjoy it. The movie is set in a world a little too gritty for innocent animal tales. It concerns two young gypsy boys growing up in the high-rise slums of Dublin, with their father, who loves them but has grown distant and drunken since their mother died.
One day their grandfather, who still travels the roads in the ancient way in his horse-drawn gypsy caravan, gives them the gift of a horse. The horse is named "Tir na nOg", which means "Land of Eternal Youth," the grandfather explains, although he may be making it up as he goes along. Where are two city boys to keep a horse? In their apartment? Of course! But of course the neighbors complain, and the police are called, and one thing leads to another…

Papa Riley (Gabriel Byrne), a widower, and his two young sons, Ossie (Ciaran Fitzgerald) and Tito (Ruaidhri Conroy), live in the run-down projects of Dublin. Their life is pretty bleak until the arrival of the boys' grandfather (David Kelly) with a glorious white stallion by the name of Tir na nOg, a figure out of Irish legends, who takes an instant liking to Ossie and Tito. Events conspire, however, to separate the horse from the children, as he is impounded by corrupt police officers and sold to a wealthy businessman. Never fear, though -- it's Ossie and Tito to the rescue. They steal back Tir na nOg, and, with their father and the police in pursuit, head westward.
Into the West is probably the first-ever Western to be set in Ireland. Actually, it isn't a Western per se, but more of a modern-day fairy tale. Certainly, a great deal of what happens is beyond the realm of reality and requires a willing suspension of disbelief. Director Mike Newell perhaps put it best when he said, "There are certain things that happen in the film that cannot happen unless the world is a very odd, mysterious, and unreal sort of place."…

Into the West is a spirited adventure combining mysticism, social realism, and action/adventure that transcends the facile Disney genre and has a universal appeal. If you think you are too jaded by modern society to enjoy this film, just close your eyes and remember how the world looked when you were 12-years-old. Now climb onto your magic horse and go where it goes. 
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mercoledì 16 luglio 2014

Essere John Malkovich – Spike Jonze

Charlie Kaufman aveva mandato la sceneggiatura di questo film a Francis Ford Coppola, al quale piacque molto e la fece leggere a Spike Jonze (al tempo suo genero, marito di Sofia Coppola).
a Spike Jonze piacque così tanto che cercò subito Charlie Kaufman (da qui).
è un’opera prima per entrambi, ma quando inizi a guardarlo non ti stacchi più.
invenzioni a ripetizione, un John Malcovich strepitoso, molto bene gli altri attori, sceneggiatura ad incastri che stanno tutti insieme, Charlie Kaufman, Spike Jonze, Catherine Keener (Maxine, nel film, e attrice in molti bei film di Kaufman e Jonze, e non solo) sono stati candidati all'Oscar nel 2000.
l'attore quasi mai citato, e però eccezionale, è lo scimpanzé Elijah.
folle e geniale il mezzo piano e i viaggi nei corpi degli uomini traghetto.
un piccolo grande capolavoro, imperfetto per alcuni, ma non importa, guardatelo e godetene tutti - Ismaele






What an endlessly inventive movie this is! Charlie Kaufman, the writer of "Being John Malkovich," supplies a stream of dazzling inventions, twists and wicked paradoxes. And the director, Spike Jonze, doesn't pounce on each one like fresh prey, but unveils it slyly, as if there's more where that came from. Rare is the movie where the last half hour surprises you just as much as the first, and in ways you're not expecting. The movie has ideas enough for half a dozen films, but Jonze and his cast handle them so surely that we never feel hard-pressed; we're enchanted by one development after the next…

Signore e signori, si va in scena. Cala il sipario e compare sullo schermo l'inizio di un viaggio meta-cinematografico, in bilico tra fantasia, schizofrenia, surrealismo, grottesco e dramma psico-sentimentale. Come è potuto accadere tutto ciò in un unico film? Grazie al talento, il genio, l'inventiva del soggettista/sceneggiatore Charlie Kaufman. Poi certo con la mano importante di Spike Jonze, che per l'occasione esordisce come regista così come Kaufman entra di prepotenza nel mondo del cinema. E non si deve dimenticare un cast di lusso e davvero eccezionale nelle varie prove. Ma se Essere John Malkovich è degno della nomea di capolavoro il motivo principale sta senz'altro nel suo sorprendente soggetto, che porta a livelli elevatissimi il livello di avanguardia meta-cinematografica. Meta-cinema, cioè il cinema che parla di sé stesso, o in cui evita di nascondersi (come si faceva una volta) e preferisce mostrarsi apertamente, sfruttando addirittura il proprio potere acquisito nella società…

…Jonze e Kaufman alle porte del nuovo millennio regalano al pubblico uno dei film più stani, innovativi, originali e geniali degli ultimi anni. Con una regia che riesce per buona parte del film a essere dinamica facendo vivere  allo spettatore l’esperienza di trovarsi dentro il corpo di un'altra persona (anche se va detto che in alcuni punti  non sembra essere in grado di mantenere inalterato il proprio ritmo e seguire il livello narrativo visionario mostrando momenti piatti in cui ci sono difficoltà nel rendere fino  in fondo la sceneggiatura) al film va dato il merito di aver portato sul grande schermo tematiche attuali in maniera originale, personale e visionaria, come lo spasmodico desiderio di massa di entrare in contatto quasi maniacale con il mondo delle celebrità. La sceneggiatura è sicuramente il punto forte, infatti i lavori di Kaufman sono sempre particolari ed eccezionali tanto che in molti casi si identifica un film più perche è scritto da lui che perche è girato da un determinato regista…

Spike Jonze esordisce nel lungometraggio con uno dei film più folli e lucidi degli ultimi anni, un turbinio d'invenzioni (s)folgoranti di struggente inquietudine. Al centro del sulfureo script di Charlie Kaufman, l'insoddisfazione, la noia, la tragedia di un gruppo di anime sole e ostili che spera di trovare in un'impossibile intrusione il segreto dell'autorealizzazione: ma il rimedio è solo temporaneo (il quarto d'ora warholiano) e persino più illusorio del previsto…

Essere John Malkovich filtra e ripropone un nuovo complesso concetto di fama. L’attore normalmente è il burattino del suo regista, e il burattinaio dei suoi spettatori, perché ne controlla le emozioni facendo date azioni. L’attore sa cosa sta recitando e che emozioni destare. Nel film di Jonze questa concezione si capovolge, e l’attore diventa il burattino dello spettatore. Malkovich è un bamboccio irritante privo di un’identità integra, sospinto dagli altri (e non da se stesso) verso un successo che è un enorme fantocciata. Il pubblico batte le mani e avverte nella sua figura una consolazione, quella di vivere una delle tante vite che l’attore reinterpreta, e capisce che l’attore deve aspirare alla normalità per fare bene il proprio lavoro e imitare quella stessa normalità. Allora il pubblico istruisce il suo attore, e ne diviene la spinta inconscia. Il divo diventa strumento nelle mani del pubblico, che è cosciente della portata filosofica di simile evento ma non gliene frega più di tanto perché il suo desiderio è essere quella finzione, essere quel manichino-fantoccio, essere finto. Nella confusione fra realtà e finzione, il motore che muove Essere John Malkovichè in accelerazione verso la finzione…
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martedì 15 luglio 2014

The Lost Weekend (Giorni perduti) – Billy Wilder

il protagonista  Don (Ray Milland) ha vinto l'Oscar miglior attore protagonista, e Billy Wilder per il  miglior film, la migliore regia, e la migliore sceneggiatura.
pare che Billy Wilder abbia letto il libro durante un viaggio in treno (un libro da edicola, prima di essere famoso), e che sia stato ispirato per un film sull'alcolismo dalla frequentazione di Raymond Chandler.
l'interpretazione di Ray Milland è straordinaria, e questo film fu una delle prime volte che l'alcolismo viene visto come una malattia e non come una cosa da ridere.
se questo film l'avesse fatto un altro sarebbe stato il suo capolavoro, ma per Billy Wilder è "solo" un piccolo capolavoro, visto i film immensi che ha girato in seguito.
come per tutti i film di Billy Wilder, se vi volete bene, non perdetevelo - Ismaele






…A fare la differenza, è lo sguardo: quello senza facili moralismi e pregiudizi che, nel partito preso, non sono mai in grado di spiegare e descrivere; quello che si affida ad un colto, sagace, (onni)comprensivo piglio letterario per mostrare le bassezze cui spinge la bottiglia, gli incubi che elargisce, il circolo vizioso che crea, l’amore e le giornate che fa perdere per sempre; quello che sa cosa mostrare all’occhio della macchina da presa, dove ogni dettaglio contribuisce a donare vigore e profondità immane al racconto: ad esempio, lo sguardo indignato della folla che (s)grida con gli occhi (simbolo del terrore del protagonista di essere considerato un inetto) o la rosa lasciata nella borsetta (che testimonia la creativa nobiltà d'animo anche durante un gesto disperato); quello figurativo, potente ed espressionista, inconsueto per Hollywood nella violenta e pessimistica poesia, meraviglioso in quanto sobrio (cioè necessario), non fine a se stesso: le visioni (le ballerine che si trasformano in cappotti; il topo e il pipistrello), l’ombra della bottiglia sul soffitto, lo zoom dopo il primissimo piano sul whisky, la sequenza nel manicomio. Oscar al film, al regista e a Ray Milland.

…”Giorni perduti” è un classico dell'alcolismo, rappresenta la tossicodipendenza come una malattia e il tossico come un malato, non semplicemente un vizioso edonista. Tutto il film ruota attorno alle figure del cerchio e della bottiglia, alla perenne condizione di ricaduta dell'alcolista ma anche alla necessità, per uscire dal baratro, di un solido supporto altruista: l'amore, l'amicizia, il prossimo sono i primi ed insostituibili pilastri per una lenta guarigione. Si accenna inoltre al legame tra creazione artistica ed alterazione di coscienza, un semplice accenno ma abbastanza chiaro da suscitare domande quali: lo scrittore beve perché è in crisi o beve per scrivere senza freni inibitori e abbattere le barriere razionali della quotidianità e della grigia medietà?..

Opera espressionista di Wilder, “Giorni Perduti” presenta al pubblico un Ray Milland magistrale nella sua interpretazione letteralmente quasi solitaria sullo schermo: è lui che regna su tutto e tutti, e da lui lo spettatore finisce inevitabilmente per essere catturato e viene coinvolto in quel suo stesso vortice di redenzione e pentimento continui. Fino alla fine della pellicola, non si riesce a intuirne la conclusione: Danny viene sopraffatto dal suo vizio o riesce a sconfiggerlo? È questa la domanda che impera lungo tutta la storia, e forte è l’empatia che lega lo spettatore al protagonista in cui facilmente ci si riconosce, perché tutti siamo vittime di vizi, più o meno capitali. Se il personaggio di Milland guidato dalla speranza altrui, riesce a  salvarsi dal suo circolo vizioso, non si salva però la società che, agli occhi del regista, non offre ancore di salvezza limitandosi semplicemente a condannare certi comportamenti…

Senza sconti né patetismi, un angoscioso viaggio nell'incubo dell'alcoolismo: se da una parte il ripetersi delle azioni del protagonista può rivelarsi alla lunga meccanico ( sbronza, recupero delle qualità motorie, ricerca di denaro per tornare a bere, sbronza e via di nuovo ) colpisce dall'altra la lucida ed a tratti orrorifica messinscena della debolezza umana della dipendenza, maneggiata con cura ed una certa misura da un mostro sacro della settima arte come Wilder.
Visto oggi perde certamente un poco di forza ( ormai neanche i film più crudi sulla droga riescono a fare sensazione ) ma considerato che è una pellicola del '45 le va riconosciuta il rispetto che merita.
A dir poco straordinaria la prestazione di Ray Milland.

…It's a real involving movie. Even though the main character seems like a lazy bum who benefits from- and abuses the kindness of others, you still constantly feel for him and want things for him to go well. This is of course also not in the least thanks to Ray Milland's fine acting performance, who deservedly so received an Academy Award for his role.
The acting in general within this movie is just great. Each and ever actor in this movie gives one great performance, that works out as powerful for the movie. It uplifts the story and lets it all work out even better. 
But it's of course also due to Billy Wilder that the story and movie in general works out so effectively. His handling of the story, actors, characters, dialog is all just all done so extremely well…

…this film was almost never released because of the poor reaction by preview audiences in 1945 who were not used to such stark realism from Hollywood. And what a loss that would have been. Production values are excellent with stunning moody black and white cinematography and a strident musical score by Miklos Rozsa.
This film contains some of the most memorable scenes ever portrayed. Who could ever forget the frightening scene in the alcoholic ward (Hangover Plaza) where we meet male nurse Bim, who tells Don that "Delirium is a disease of the night" and tells him to drink up his medicine, because he will experience the DTs. And the scene where he experiences the DTs is quite terrifying - a scene that will stay with you forever…

Before The Lost Weekend, the typical portrayal of a drunk was comedic in nature, with Chaplin's Little Tramp, who often imbibed too much, being a prime example. Drunkenness and comedy in movies have long been entwined. Hollywood, which has been awash in alcohol throughout its history, did not like to scrutinize this vice too closely. Thus, The Lost Weekend, in which there is no hint of humor, stands apart as an early attempt to dramatize the deleterious effects of alcohol abuse by providing a protagonist who is sympathetic but not loveable…
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