giovedì 31 marzo 2016

Kenneth Branagh è Wallander





avendo letto praticamente tutti i libri di Henning Mankell in italiano ho sempre avuto paura di vedere i film nei quali il commissario Kurt Wallander è Kenneth Branagh.
l'altro giorno ci ho provato, ho guardato L'uomo che sorrideva, era un timore infondato.
buone visioni, se vi capita (senza trascurare i libri) - Ismaele



mercoledì 30 marzo 2016

Fausto 5.0 – Isidro Ortiz, Alex Ollé, Carlos Padrissa

una storia strana, un medico che opera pazienti con il cancro, diversi ne restano sul lettino, e poi tocca fare molte autopsie, per capire e insegnare.
capita che a un congresso il dottor Fausto venga intercettato da Santos, un paziente (entrambi attori bravissimi), stranamente (ma si saprà alla fine) vivo, servizievole fino all'eccesso, conosce molto di lui, il dottore non sa come e perché.
si scavano le profondità e i desideri della mente umana, Santos sa quello che fa, e come farlo, al di là del bene e del male.
ambientato in un futuro già qui, potrebbe disturbare, non è un capolavoro, ma se ti cattura merita certamente.
buona visione - Ismaele




Il dottor Faust è un medico specializzato in medicine terminali, il suo volto provato è indice tangibile della suo perenne stato di insoddisfazione che lo porta alla depressione. La sua vita cambia quando incontra un suo vecchio paziente (Santos) a cui otto anni prima aveva diagnosticato pochi mesi di vita. Santos che ha le vesti di un simpatico truffatore napoletano, si rivelerà presto il diavolo e accompagnerà il dottore nelle viscere di una Barcelona irriconoscibile e segnata dal male. In questo viaggio attraverso i desideri più oscuri Faust scoprirà i suoi demoni e dovrà lottare contro tutti.   Quello che affascina, del patto con il diavolo, sono le infinite possibilità che si aprono quando si va oltre i limiti intellettuali e fisici dell'uomo. E il “Fausto 5.0” esplicita proprio questo confronto tra un costante stato d’insoddisfazione e il desiderio di esplorare anche i segreti più nascosti del mondo. Il Faust visto con gli occhi dei Fura dels Baus altro non è che la visione di un mondo simile a quello dei giorni d’oggi, ma anche altamente indefinito dove le insofferenze e le paure umane vengono raccontate attraverso suoni violenti e provocazioni tecnologiche.  

il film di Ortiz, sicuramente ci disturba dalla prima scena (una vecchia madre che si piscia addosso) fino all'ultima, ma per questo non vuol dire, e il film infatti non lo dice, che sia facile dividere manicheamente il bene dal male. 
L'incubo in cui è scaraventato il protagonista è riscritto dal gruppo catalano come un vero e proprio, e aggiungo bellissimo, esercizio drammatico. E' un bel film, malato e allucinato al punto giusto. Da servire ad ogni ora...

…Ci si poteva aspettare di più dalla Fura Dels Baus, più sperimentalismo (che non manca, ma così a piccole dosi che alla fine è più apparente che reale), maggiori trasgressioni, più eccessi (che qua e là ci sono, ma sono solo piccole concessione ad uno splatter tutto sommato leggero). Alla fine rimaniamo solo con personaggi un po’ enigmatici, ma non tanto da risultare affascinanti: non sappiamo bene perché Fausto, prima restio, si sia lasciato coinvolgere in un girone infernale, non possiamo immaginare come ricomincerà la sua vita di medico ben inquadrato nella società, e non è chiara la fine di Santos Vella: non sono difetti, ma tra i pochi pregi più evidenti di questo film, che non è una brutta opera, ma un film troppo in equilibrio tra due espressioni – lo sperimentalismo e la tradizione del thriller seppur con venature simboliche – che finisce, magari non col deludere, ma nemmeno col convincere né i patiti della Fura né gli spettatori che ignorano ciò che a teatro rappresenta la Fura.
Certo il film non annoia, le interpretazioni degli attori sono buone, ma la regia a tre mani non fa nulla di straordinario, relegando le cose più interessanti nella scena della festa (dove c’è un momento in cui, grazie alla presenza di catene, vediamo l’anima della Fura) e continuando poi lungo solchi meno eccezionali. Un film che si lascia guardare, un progetto a tratti interessante, non del tutto appassionante e non del tutto deludente: un po’ come se si volesse accontentare tutti, senza riuscirci veramente.

Criptico film horror/dramma con elementi da shockumentary (autopsie, gente sotto i treni, ecc.), peraltro molto disturbanti e forse un po' gratuiti.
Isidro Ortiz sa indiscutibilmente ben dirigere, inserendo anche scene cattive come non mai (tipo quando il medico, nel corso di un convegno, si vede proiettato davanti a tutti un suo filmino erotico personale).
Non tutto torna, ma per tutta la durata del film una sensazione di mistero/inquietudine regna ben sovrana, cosa non da poco.
Veramente riuscito, molto scorrevole e ben interpretato, lo consiglio vivamente soprattutto agli appassionati di film di genere.
Qualche citazione (magari pure involontaria) a Lyne, Lynch, Parker e a qualche horror orientale.

The art direction borrows a great deal from the French comic strip artist/director Enki Bilal and his dark and dusty vision of the near future which gives the film a strong visual unity along with some very Lynchean anachronistic contraptions and a tendency to make unexpected journeys into Fausto's subconscious. The film doesn't seek to entertain in the common sense of the word and is unusually bleak - it mostly explores human depravity from all angles and the pleasure one can derive from it but also the price one may have to pay living in such a care-free manner.
Read more:..

A provocative, modernized Spanish retelling of the Faustian story that goes where Hollywood would never dare to go. An uptight doctor who treats and researches terminal patients is barely alive himself until an ex-patient of his with the uncanny ability to grant wishes and be everywhere forces himself into his life. The doctor's evil, nihilistic side starts coming out and his wishes more perverse and immoral. The movie brilliantly leaves the supernatural aspects ambiguous so that you don't know if something magical and evil is truly going on, and uses an ugly but gripping urban set design to explore the psyche of a man who has buried himself in hospital plastic and professionalism, hiding from the ugly world outside and his ugliness inside. A challenging and bold movie that will leave Hollywood fans in the dust, and a great accompaniment to Angel Heart.

martedì 29 marzo 2016

Il condominio dei cuori infranti (Asphalte) - Samuel Benchetrit

titolo non esattamente fedele all'originale, ma così va il mondo.
il protagonista è un palazzo di persone sole, non immerso nel verde, anche se su qualcosa sono tutti d'accordo, tranne uno.
tutti hanno bisogno di amore, affetto, considerazione, e capita, almeno nel film, che possa avvenire.
è un film pazzo, e però si tiene, le tre storie non si incontrano mai, si alternano e poi finiscono tutte bene.
è una specie de "L'odio", di Mathieu Kassovitz, ma al contrario. 
tutti bravi, ne cito solo tre, la vecchietta tunisina (aveva iniziato ne "La crisi!", di Coline Serreau), Gustave Kervern (non ha bisogno di presentazioni), Isabelle Huppert (nel ruolo di una diva al tramonto), tutti guadagnano qualcosa dal rapporto con gli altri solitari.
bellissime le telefonate con la Nasa, e cercate "La donna senza braccia", per vedere l'effetto che fa.
insomma niente di straordinario, ma merita di sicuro la visione - Ismaele









Tutto fa sorridere, allarga un po’ il cuore, ci fa sentire più buoni e in alcuni momenti può anche far scorrere una qualche lacrimuccia. Ma finisce qui. Certo, non si chiede a Il condominio dei cuori infranti di cambiare il mondo o quantomeno il mondo del cinema, però ci si trova ancora una volta a dover riflettere su un film “carino”, educato, sussurrato, mai fuori posto e fuori tono, come se ne vedono tanti per l’appunto nel cinema europeo. Troppi.

La regia, distaccata e silenziosa, è fondamentale nel film, perché genera spesso le risate del pubblico, costruisce stati d’animo e coscienze. I silenzi sono la parte più importante del film: è proprio attraverso questi che i personaggi permettono allo spettatore di entrargli dentro e di comprenderli…

è un film, questo di Benchetrit, che fa riscoprire la gioia per l’osservazione, il gusto per la sorpresa, che rischia molto (con l’arrivo dell’astronauta) ma che, proprio per questo, riesce a portare a casa il risultato. Con semplicità e poesia (anche grazie al contrappunto musicale di Raphaël), silenzi e irresistibili momenti di commedia dell’assurdo, tenendo costantemente separati i tre duetti (le varie coppie non si incontrano mai, sfiorandosi solamente nella “condivisione” di qualche rumore o evento esterno), ma saldando in chi guarda la convinzione di assistere, passo dopo passo, ad un piccolo, grande film.

Asphalte ci parla di quegli improvvisi slanci di umanità che la vita ci offre.
Lo fa in maniera divertente, mai pesante, mai retorica.
C'è tanto amore in questi personaggi, tante cose belle e tanta voglia di manifestarle.
E' come se ci trovassimo davanti a un Roy Andersson a cui qualcuno ha "acceso" la voglia di far vivere i propri personaggi.
Il brano di colonna sonora è bellissimo e porta a due scene emotivamente coinvolgenti, ma sempre in un'atmosfera di leggerezza unica.
Ed è buffo come in due vicende su tre il momento di maggiore vicinanza tra le "coppie" avvenga attraverso un mezzo "cinematografico", la telecamera del provino in una, la macchina fotografica che non fa foto nel finale dell'altra.
Ironia, tenerezza, originalità…

lunedì 28 marzo 2016

Il ritorno del figliol prodigo (Awdat al ibn al dal) - Youssef Chahine

ci sono così tante cose dentro che altri ne avrebbero fatti diversi, Youssef Chahine riesce a portare all'unità le tante vie che diventano un film solo, un gran bel film.
siamo nel 1976, Nasser non c'è più, ma una sua foto appare nel film, Ali esce di galera (ecco il figliol prodogo), Fatma l'ha aspettato per 12 anni, due giovani di diplomano, Tafida e Ibrahim, si vogliono bene, il futuro è dietro l'angolo, bisogna scegliere.
tutti i personaggi sono ben caratterizzati e profondi, da non credere prima di aver visto il film.
un film ricco, popolare e politico, duro e musical, d'amore e di tradimenti, di un regista cresciuto anche vedendo i film del neorealismo italiano.
da non perdere, promesso - Ismaele



 

 

…Awdat al-Ibn ad-Dal è un film angosciante, nonostante le sue parentesi di ironia e di musica, pervaso da un senso costante di tragedia e di disorientamento che non fa che aumentare fino all’esplosione di violenza finale: non è un caso che Malek Khouri abbia identificato questa cupa atmosfera - espressa a livello di immagine da un’illuminazione a tratti espressionista, piena di chiaroscuri, da un montaggio rapido e incalzante, senza momenti di pausa tra un cambio di scena e l’altro, nonché dal clown di brechtiana memoria che materializza il disprezzo di Chahine per la borghesia e la famiglia patriarcale che ne deriva – con la situazione di caos e perdita di punti di riferimento che, in quel periodo, caratterizzava il mondo arabo.
In questo contesto opprimente, è risultata curiosa a molti critici la scelta di Chahine di inserire all’interno della storia scene cantate e ballate molto dissonanti con il tono generale del film. L’autore ha affermato, non senza suscitare perplessità, che la sua scelta è stata dettata dalla volontà di instaurare un dialogo più semplice con il pubblico (è noto, d’altra parte, la doppia faccia popolare e d’autore del cinema egiziano, ma a noi sembra che l’effetto più evidente (anche se apparentemente non voluto) sia stato quello di aumentare ulteriormente, attraverso il forte contrasto di generi e stile, il senso di straniamento e angoscia che pervade l’intero film.

S’il y a un cinéma pluriel et multiforme, c’est bien celui de Youssef Chahine : dans Le retour de l’enfant prodigue, le spectateur rencontre tour à tour des personnages au destin digne d’une tragédie grecque, une esquisse de fresque sociale ou encore des fragments de « drame musical », dont la mise en scène et le sentiment de vie n’ont rien à envier à Jacques Demy. Nous sommes en 1976, et les idées comme les formes cinématographiques sont foisonnantes dans le cinéma de Chahine. Après la mort du héros Nasser, et au milieu des (apparemment) éternels conflits du Moyen-Orient, le cinéaste égyptien parvient à distiller l’esprit de l’époque dans une sorte de fable du désenchantement : si l’espoir réside peut-être dans les plus jeunes âmes, au moins deux générations de voyageurs, d’entrepreneurs et d’idéalistes sont condamnés à l’échec, la haine mutuelle et - c’est là le pire... - à la désillusion. Difficile de nommer « ce que » le film accuse ; le flou est volontaire, car plus le film avance, multipliant les points de vue des personnages, et moins il devient démonstratif. Ce sera au spectateur de trancher : rester dans l’indécision ou désigner un coupable. Il n’est pas impossible que la position de Chahine se réfugie elle-même dans l’excuse de l’absurdité, comme semble le montrer la fin du film. En cela, Le retour de l’enfant prodigue pourrait bien être l’une des œuvres les plus pessimistes du réalisateur, puisqu’au bilan, rien - sauf peut-être le rire de deux clowns sur fond de coucher de soleil - n’a réellement de sens…

da qui


...Tornato in patria impara il mestiere grazie a due italiani, Alvise Orfanelli (uno dei pionieri del cinema egiziano) e Gianni Vernuccio (in seguito regista del notevole Un amore da Buzzati)...

 

domenica 27 marzo 2016

La fossa dei disperati (La tête contre les murs) – George Franju

tratto da un romanzo di Hervé Bazin, potrebbe essere un romanzo di Simenon, quelle sono le atmosfere.
la storia è quella di un giovane che il padre fa internare in un manicomio, da cui uscire è quasi impossibile, almeno da vivi, gli attori sono bravissimi, spiccano Charles Aznavour (già cantante famoso), Anouk Aimée, Jean-Pierre Mocky, fra gli altri.
è primo lungometraggio di George Franju (prima aveva già fatto 14 cortometraggi  secondo IMDB), per molti sarebbe stato il capolavoro della carriera, per lui il primo di una lunga serie.
magari non è perfetto, ma è da non perdere - Ismaele




Uno splendido film ottimamente scritto dal suo attore protagonista e altrettanto ben diretto, si avvale di una storia che avvince dal primo all'ultimo minuto, personaggi ben delineati e di una regia che dona un ritmo esemplare al tutto. Completa il tutto un cast strepitoso, a partire da un gigantesco Charles Aznavour, per passare a due straordinari interpreti quali Brasseur e Meurisse. Da riscoprire...

Tratto dal romanzo di Hervé Bazin. François, figlio dell'avv. Geràne e giovane ribelle, vien sorpreso dal padre a rubare nel suo studio e a bruciare un importantissimo dossier. Dopo la morte per annegamento della madre, i rapporti tra padre e figlio sono diventati impossibili, e l'avvocato approfitta dell'occasione per fare internare François in un manicomio criminale diretto da un medico autoritario in conflitto con uno psichiatra di mente aperta. Dietro il pauroso muro dell'ospedale e nello stato di disperazione in cui vivono questi relitti umani in preda alla follia François tenta invano la fuga e finisce in cella di punizione. Il secondo tentativo riesce e François si nasconde in casa di Stefania, l'unica persona che si era ricordata di lui dopo l'internamento. Sarà finalmente libero?

…The performances are strong, especially the radiant Aimee and the sorrowful turn by Aznavour (who would take center stage the following year in Shoot the Piano Player).  The thematic content points to a rising youth movement against old authority and outmoded ideas.  François is seen as ill because he rejects the hypocrisy of his father and his father’s generation.
Not a great movie, but one with some tension and fine cinematography.

il film è condotto molto bene, con una narrazione spoglia ed essenziale. Se non fosse per la disumanità della vicenda e dei personaggi, oltre che per la nera disperazione che comunica, sarebbe molto piacevole da vedere. Invece fa un po' stringere lo stomaco... Più che un atto di accusa verso certi manicomi e certi metodi di "cura" mentale, che pure è almeno in parte, a me sembra un'amara rappresentazione di una certa Francia di quegli anni, e di certi tipi umani che la popolavano. In una parte troviamo il giovane cantante Charles Aznavour.

con un commento musicale strepitoso di maurice jarre, il film di franju è un onesto inno alla libertà contro un' arcaica quanto cieca istituzione come la psichiatria. pierre brasseur interpreta magistralmente un barone dei metodi repressivi della psichiatria, utilizzati come mero metodo per liberare la società dei suoi esemplari pericolosi e/o indesiderati. come dice alla perfezione e in maniera agghiacciante il signor gerane (jean galland), poche pose ma sublime): "la società è un gioco che bisogna imparare a giocare", e lo dice attraverso la bocca e il pensiero filmico di un avvocato, cioè di una di quelle persone che muovono il mondo…

giovedì 24 marzo 2016

Ave Cesare! (Hail, Caesar!) – Fratelli Coen

un atto d'amore al cinema con cui i due fratelli e noi siamo cresciuti, non ha la linearità dei loro film migliori, dove c'è una trama forte e alcune digressioni.
qui la trama è debole e quello che ci sta intorno o lateralmente si impone sulla trama, come in uno di quei romanzi moderni dove non c'è un centro, apparentemente.
il personaggio di Mannix è quello che tiene il pallino della storia, tante cose accadono, ma poi per una forza magnetica tutto ritorna a lui, e grazie a lui conosciamo un sacco di storie laterali, spesso altri film in nuce, che restano tali.
e quando Mannix sceglie cosa fare con la Lockheed tutti gioiamo con lui.
e poi si parla a Cristo e di Cristo, in modo naturalmente laterale, per giocare con le religioni o le scene madri (George Clooney insegna).
se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con un film dei fratelli Coen, se ha perso consolatevi con un film dei fratelli Coen (come si diceva, mutatis mutandis, a Tutto il calcio minuto per minuto).
un film dei fratelli Coen merita sempre, buona visione - Ismaele





…Si assiste perfino con imbarazzo alla visione di questo fiacco film, perfino con un pizzico di vergogna per essere stati a suo tempo anche noi, i più vecchi, prigionieri di quelle mitologie, ormai fuori corso da anni.
Si ritrovano i Coen in tante piccole cose marginali, e nella scena formidabile della discussione tra i rappresentati delle varie religioni consultati da Mannix affinché il film biblico della sua casa non ne offenda nessuna, alla quale fa però da contrappeso quella solo idiota della riunione degli sceneggiatori comunisti. Ma abbiamo assistito ad altri passi falsi dei Coen, e ci auguriamo che anche in futuro possano tornare a stupirci e a rallegrarci con la loro verve e la loro intelligenza.

È vero che in quest’ultimo film dei Coen c’è un senso del mestiere del cinema, del produrre finzione con cinismo per soldi, del trasformare idioti in stelle, del realizzare oro dallo schifo, cioè da uomini e donne pessime, e tutto attraverso la tecnica, l’industria, la catena di montaggio: in una parola “il sistema” superiore agli uomini, anche ai comunisti che complottano contro di esso. Eppure, per quanto suoni strano e contraddittorio scriverlo solo qui nel rintano delle ultime righe, questo è anche uno dei film più sciapi dei fratelli Coen. Una commedia che non diverte, un film sofisticato che lo è molto di più nelle sue premesse e implicazioni che nella realtà dello svolgimento, per giunta montato a ritmo blando…

Ave, Cesare! segna il ritorno dei fratelli Coen alla commedia flippatissima, completamente fuori di cozza, surreale, sopra le righe, fondamentalmente scema. E, per quanto ci siano lampi improvvisi di quell'approccio anche in A Serious Man e A proposito di Davis, era da Burn After Reading, quindi da quasi un decennio, che non la buttavano così brutalmente sul ridere. È anche un film che, per la sua stessa natura tutta bizzarra e che si fa gli affari suoi, è forse destinato a dividere tanto quanto un po' tutto quello che i due fratelli hanno diretto dopo il trionfo di Non è un paese per vecchi, perché, non è che ci si possa girare attorno, un'opera con questa personalità così assurda la puoi apprezzare solo se per qualche strano motivo ti ci trovi fortemente in sintonia, mentre chi la odia ti accuserà di essere un fan acritico. Insomma, è la solita storia…

…Ma in mezzo a tutte queste grandi scene, in mezzo a quest'atmosfera di ricostruzione praticamente perfetta, ecco che abbiamo tante magagne.
La storia principale è debolissima, così debole che forse la si poteva anche togliere a quel punto preferendo una sceneggiatura pazza senza tante basi d'appoggio.
Alcune storie laterali, come quella della Johansson, sono così inutili, scollegate e poco interessanti da rimanerne sbalorditi.
Questo sembra il film manifesto del McGuffin.
Non penso solo alla valigetta, a ben pensarci inutile ai fini della trama (forse proprio per questo viene fatta inabissare) ma a vere e proprie vicende che paiono importanti, smuovono la narrazione, ma alla fine si rivelano o inutili, o false piste, o non completate…

Al termine divertissement è costume della critica accostare alcune opere più disimpegnate o meno riuscite di autori importanti, il che significa inserirli in una categoria ben specifica, che è quella delle "opere minori". Ma un'opera più leggera o, volendo restare vicini al significato del termine, realizzata per divertimento dall'autore , è necessariamente "minore"? Qui si entra nel vivo di una questione assai dibattuta e che non avrà termine, che ha visto nel cinema postmoderno alcuni beniamini dei cinefili realizzare opere spartiacque che per una frangia della critica erano meri divertissement, giochetti meta e citazionisti. Adesso che gli alfieri di quel cinema, quali sono stati a tutti gli effetti Joel e Ethan Coen, sono considerati dei maestri, dei classici contemporanei, tutto ciò è stato riqualificato, scoprendo nuove profondità che prima non esistevano (o non si coglievano). E cosa dire, allora, di "Ave, Cesare!", lungometraggio numero 17 degli impareggiabili registi di Minneapolis? "Ave, Cesare!" è, checché se ne dica, un divertissement e visto che dietro a questo  ludico gioco di prestigio cinematografico vi stanno le menti creative dei Coen, non avrebbe bisogno di altre giustificazioni per essere nobilitato…

domenica 20 marzo 2016

Suffragette – Sarah Gavron

strano, in questi giorni in cui c'è chi fa la campagna perché al referendum del 17 aprile non si vada a votare (per far mancare il quorum), che appaia un film che ricorda come le donne hanno lottato per avere il diritto al voto, anche a costo della vita, provando la galera e i manganelli, tra le altre cose.
la sceneggiatura è di Abi Morgan, già sceneggiatrice di Shame con Steve McQueen, dove appariva Carey Mulligan, che qui è la protagonista.
il film è abbastanza documentaristico, forse un po' freddo, interessante la ricostruzione della lotta delle suffragette.
altrettanto interessante è la descrizione del dispositivo poliziesco repressivo (guidato da Brendan Gleeson), antenato di quelli odierni, sorvegliare e punire (come qui, o non punire, come qui).
un film da vedere, anche per ricordare come può avere successo una rivoluzione (quando i cervelli non sono spenti) - Ismaele







Poderoso sul piano scenografico (riflesso del desiderio d’autenticità della Gavron), piacevole sul piano narrativo. Nonostante Suffragette sia un film storico, non appare in nessun modo polveroso o stantio, vantando una piacevolezza sospesa fra lo struggente e il liberatorio. Sarah Gavron “accarezzava” da molto tempo il sogno di realizzare un film sul movimento delle “Suffragette”.
La rappresentazione della donna così tormentata, “stuprata” coscienzialmente da un indomabile potere maschilista, funziona sotto tutti i punti di vista. Far trasparire questa crudezza, datata (ma anche no), è una scelta ponderata all’unanimità dalla stessa regista bretone e da ambedue le produttrici…

Suffragette è il classico film sospinto da nobilissime intenzioni – persino urgente e necessario nonostante il trapassato remoto – e sostenuto da un cast superbo, ma destinato a storcere gli occhi dei critici e degli spettatori: s’intende, quelli devoti al mezzo cinematografico, e non al mero megafono contenutistico.
Per farla breve, la regia non c’è: le Suffragette erano organizzate, Suffragette è spontaneistico.
da qui

Mélange di tutte le suffragette britanniche, Maud Watts è interpretata da un'attrice capace di esprimere le sue evoluzione sottili, le emozioni di un'eroina dentro primi piani instabili in cui emerge la presa di coscienza e da cui sembra pronta a fuggire verso un impegno che le farà perdere impiego e famiglia. L'epifania toccante di Carey Mulligan si accompagna alla solidarietà militante dell'operaia tribolata e magnifica di Anne-Marie Duff e alla determinazione della farmacista di Helena Bonham Carter, che rende omaggio, non solo nel nome, a Edith Garrud e alle sue jiu-jit suffragettes. Professionista delle arti marziali, Edith Garrud organizzò dal 1913 dei corsi riservati esclusivamente alle donne incoraggiandole a difendersi dai poliziotti durante le manifestazioni duramente represse. Icona, fuori e dentro lo schermo, è Meryl Streep a incarnare Emmeline Pankhurst in una breve ma vigorosa apparizione perché Sarah Gravon al biopic su una donna straordinaria dentro una causa straordinaria, preferisce la vicenda di donne ordinarie, operaie che hanno incarnato l'avanguardia del cambiamento in grembiule o gonne lunghe. Morte sotto i colpi della polizia, arrestate, alimentate con forza a causa dello sciopero della fame, dopo quarant'anni di campagne pacifiche, che ottengono soltanto promesse infrante, le suffragette abbandonano la compostezza indulgente e decidono per la disubbidienza civile, senza esitare a ricorrere ad azioni radicali e violente. Ma sono donne e non lo fanno con leggerezza, diversamente dai terroristi che uccidono innocenti, colpiranno soltanto sedi vuote ma distinte per attirare l'attenzione sul movimento e la causa…

Raccontare il passato utilizzando il linguaggio del documentario (o il presupposto tale), simulando una “presa diretta” sugli eventi storici utile, almeno sulla carta, a ricusare ogni sbavatura retorica. Non è certo questa una scelta di per sé errata, tutt’altro, la regista Sarah Gavron (Brick Lane) vi si attiene però con un rigore quasi auto-castrante, pur di fornire al suo Suffragette uno stile ruvido, privo di ogni prosopopea, in grado di rappresentare una Londra di inizio ‘900 bigia e gretta, ma nella quale serpeggia un impeto di rivolta.
Proiettato in apertura della 33esima edizione del Torino Film Festival, il film della Gavron resta dunque sin troppo fedele alle proprie scelte stilistiche e narrative e finisce per risultare, paradossalmente, piuttosto affettato, ed eccessivamente programmatico. La macchina da presa a mano ondeggia vanamente intorno ai personaggi, sia che questi siano inerti nel loro talamo o intenti in qualche azione sediziosa. Nell’unica scena di protesta poi, una sassaiola contro le lussuose vetrine di Oxford Street, la regista decentra continuamente il nucleo della nostra attenzione, gioca con il montaggio rapido e sul movimento, ma non ci mostra né la rabbia delle autrici di questo gesto dimostrativo, né le vetrine infrante…

…A pesar de ello, a pesar de sus notorios errores de bulto históricos (de los que la muy criticada ausencia de personajes de color es el más visible, aunque no el único), y de la absurda utilización de Meryl Streep como gancho comercial cuando apenas aparece en un cameo glorificado, Suffragette es una película que se hacía necesaria. En un momento en que las desigualdades de género se han hecho más visibles que nunca, que ha visto el surgimiento de absurdos como los “activistas pro derechos de los hombres” o la demonización absoluta de la palabra feminista hasta el punto de provocar que muchas mujeres no quieran identificarse con ella, no está de más recordar que, por desgracia, nada de eso es nuevo. Que, hace más de un siglo, miles de mujeres tuvieron que enfrentarse a los mismos prejuicios, ataques y desprecios –mucho peores, en realidad—. Que feminista hoy es un término tan satanizado como lo fue sufragistaentonces. Y que, aun con todo, las cosas terminaron cambiando. Porque ni los peores ataques, ni las burlas más crueles, pueden detener el avance de la historia. Mujeres como Maud lo sabían, lo hicieron posible. Ahora, la pelota está en nuestro tejado. 

giovedì 17 marzo 2016

Spotlight (Il caso Spotlight) – Tom McCarthy

è il quinto film di Tom McCarthy (e il quarto suo che vedo, tutti belli o bellissimi, sono riuscito a evitare il peggiore).
qui riesce a fare un gran bel film, un po’ thriller a bassa intensità, degno erede del cinema “civile” degli anni ’70.
ha qualcosa in comune con La grande scommessa, entrambi sono film dove non si vince da soli, ma con un gioco di squadra, l’individualismo non abita da queste parti.
la piccola redazione di Spotlight (il titolo italiano non ha molto senso) riesce nell’impresa più difficile, un po’ come nella lettera rubata di Edgar Allan Poe ( è lì davanti, ma nessuno la vede), o come in un gioco della Settimana Enigmistica, unire i punti che esistono, ma nessuno ci aveva pensato prima.
il disegno che appare è mostruoso e terribile, difficile e doloroso, ma per la verità e la trasparenza si fa questo e altro.
intanto il cardinale Law vive a Roma (qui), non si capisce se punito o promosso, e adesso si gode la sua santa pensione.
a Martin Baron, il direttore del Boston Globe di allora, il film è piaciuto (qui), chissà che ricordi ai giovani e futuri giornalisti cosa può fare in un paese un giornalista in direzione ostinata e contraria, (quelli sotto scorta, e ancora vivi, in Italia lo sanno già).
il film merita molto, attori in ottima forma, non perdetevelo - Ismaele





Un film come Spotlight non è solo cinematograficamente efficace anche perché sorretto da un cast di attori tutti aderenti al ruolo (con in prima fila un Michael Keaton che sembra aver trovato una nuova giovinezza interpretativa) ma anche perché finisce con l’affermare un dato di fatto incontrovertibile. La Chiesa Cattolica, grazie ad alcuni suoi esponenti collocati ai livelli più alti della gerarchia, ha creduto di ‘salvare la fede dei molti’ nascondendo la perversione di pochi. Ha invece ottenuto l’effetto contrario finendo con il far accomunare nel sospetto di un’opinione pubblica, spesso pronta alla semplificazione, un clero che nella sua stragrande maggioranza ha tutt’altra linea di condotta. La forza con cui Papa Francesco ha condannato, anche con la detenzione entro le mura vaticane, i colpevoli di questo tipo di reati è prova di un’acquisita nuova consapevolezza in materia. Quell’inchiesta di poco più di dieci anni fa ne è all’origine e quei giornalisti, anche se non ne erano del tutto consapevoli, finivano con il ricordare a chi regalava loro copie del Catechismo di andare a rileggere e fare proprie le parole di Gesù: “Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino e fosse gettato negli abissi del mare” (Matteo 18, 6)

Cinema e giornalismo adottano lo stesso metodo: all’obiettività tenace ed all’orgogliosa indipendenza del pool del Boston Globe corrispondono l’accuratezza, al limite della pignoleria, e la dedizione di regista e cast del film. L’autore descrive con rigore estremo la scoperta di un verminaio nella cattolicissima Boston, un’inchiesta avversata da autorità sia ecclesiali che civili, e la testardaggine di un gruppo di giornalisti, non eroi, ma uomini spaventati dalle loro stesse scoperte, ciononostante animati da un insopprimibile anelito alla Verità, quella oggettiva, fattuale, dimostrabile. Un giornalismo ormai dimenticato nel nostro paese, dove interessi e tifo dettano i titoli di prima pagina. Un cast strepitoso incarna il pool investigativo con partecipato realismo, dal sempre più eclettico Keaton, all’intenso Ruffalo, fino all’ironico Tucci: tutti credibili, tutti perfettamente accordati ed in parte…

Da questo impianto perfettamente funzionante ma ampiamente prevedibile, abbellito da un cast di validi protagonisti e comprimari e intriso di un ottimismo tipicamente yankee e liberal, emergono alcune non banali riflessioni sul tessuto bostoniano, sulle colpe rimosse, su un’indifferenza complice. Insomma, su un sistema che non è alimentato solo dalla Chiesa, ma che funziona grazie a ingranaggi che si muovono o che non si azionano, restando immobili, inerti. McCarthy non cerca di alleggerire i macigni che gravano sulla coscienza della Chiesa, ma allarga lo sguardo, suggerendo agli spettatori di evitare una facile e isterica caccia alle streghe ma di osservare la complessità della società e della sue dinamiche..

…Si bien es incuestionable el valor que la cinta le da al poder de la prensa, presentando un acontecimiento icónico de esto para la nueva era, ‘Spotlight’ no se detiene sólo en ello y es ahí donde radica el triunfo de McCarthy, al lograr, más allá de lo delicado del tema, un thriller lleno de detalles, sin pausa y con grandes personajes secundarios, quienes finalmente son los que le dan vida al relato, en un guión que se da el tiempo de darle protagonismo tanto al equipo de Spotlight, como también al resto de periodistas del diario, a las víctimas, a las autoridades y a los abogados involucrados, tanto de uno como del otro lado de la vereda. A pesar de este logro muy bien concebido, la cinta es sutil y temerosa a la hora de encarar el secretismo de la Iglesia Católica, dejando casi en segundo plano la crítica dura y condenatoria. Tal como el objetivo del Boston Globe, la película sólo se encarga de testimoniar y entregar didacticamente los antecedentes y hechos históricos por sobre el evidente juicio de valor que cualquiera esperaría. No da el paso siguiente. Si bien esto podría jugar en contra, consigue no sacarnos del foco y se termina degustando igual una cinta de factura impecable en todos sus sentidos…

Il progetto ha una sua inattaccabile rilevanza tematica, e c’è grande rispetto nell’affrontare un argomento facilmente manipolabile e dalle possibili derive sensazionalistiche. Il merito è di una regia rigorosa e di una sceneggiatura che attraverso la coralità cerca di porre l’attenzione più sui fatti che sui personaggi, lasciati in secondo piano, forse per il timore che sprazzi di emotività potessero inquinare la veridicità dei contenuti. La linearità e la semplificazione, però, si rivelano un’arma a doppio taglio. Se, infatti, la fruibilità è ottimale, nel senso che il film scorre e la complessità è sviscerata a dovere, a mancare è principalmente la tensione. Non si hanno mai reali dubbi sull’esito della ricerca, non ci si appassiona mai veramente, o perlomeno non come si vorrebbe, alla progressione, e un eccesso di verbosità rende tutto chiaro ma con poco mordente…

lunedì 14 marzo 2016

Kairo - Kiyoshi Kurosawa

uno di quei film che hanno una piccola fama di essere film di culto (come Donnie Darko, Essi Vivono, PrimerVideodrome, per citarne qualcuno) e solo dopo averlo visto capisci perché.
una storia di fantasmi, si potrebbe dire, ma non solo, dentro c'è Internet, uno schermo, pulsioni di morte, il futuro visto come una minaccia, un mondo in fallimento, e l'unica via è la fuga, se si riesce.
tante scene inquietanti, una paura che esplode in certi momenti, non per particolari violenze o sangue che scorre, niente di questo, solo le atmosfere, quello che non vedi, il mistero,  ti intrappolano.
poi non sarà perfetto, ma non importa, resta un piccolo imperfetto capolavoro - Ismaele





Kiyoshi Kurosawa, regista dotato di un particolarissimo stile ironico e visionario, è uno degli esponenti della nuova generazione dell' horror asiatico.

Pulse (Kairo il titolo originale), il suo lavoro più lungo e travagliato (ha richiesto più di sette anni di lavorazione), è un'apocalittica storia di fantasmi che utilizza l'elemento soprannaturale per trattare un tema molto più attuale e concreto: la solitudine. 

Per tutto il film, infatti, si respira un'atmosfera opprimente che però non deriva tanto dall'alone sinistro degli eventi che funestano i protagonisti, quanto dal costante senso di tristezza e di rassegnazione alla vita che accompagna ogni loro gesto, ogni loro parola, denunciando un senso di avversione generale nei confronti della società.

La morte viene dunque trattata con leggerezza, anzi, come una soluzione facile e una valida alternativa al logorio e alla monotonia della vita moderna. 

I personaggi di Kairo, oltre a vivere in un incubo reale, si trovano, all'improvviso, faccia a faccia con la loro coscienza, disturbata e dilaniata da laceranti pensieri che, come fantasmi, infestano le loro menti. I quesiti esistenziali e soprattutto quelli post-mortem trovano una risposta che preferirebbero non ascoltare mai. 

Partendo da eventi sinistri ma comuni, Kairo degenera ben presto in un caleidoscopio turbinante di angoscia, di sofferenza, di destini ineluttabili e, soprattutto, di profonda tristezza e solitudine. 

È il trionfo del pessimismo, l'elogio della solitudine, uno sguardo al profondo pozzo nero che è la vera e propria tomba dell'esistenza. Un viaggio nei recessi più nascosti dell'animo umano che non può portare a nulla di buono, a nulla di positivo, anzi… può portare solamente al nulla, come manifestato dall'inesorabile finale…

…In Kairo ci propone le allucinanti esperienze di alcuni adolescenti giapponesi che, tramite internet, entrano in contatto con inquietanti visioni, fantasmi che la morte ha relegato in una condizione di estrema solitudine, nella quale ambiscono a far precipitare coloro che sono ancora in vita. Ciò che colpisce è qui la dinamica dell’orrore, che rinuncia a qualsiasi stratagemma sanguinolento preferendogli un tocco straniante, per cui gli stessi personaggi, attratti dalle proprie paure come falene dalla luce, finiscono per lasciarsi andare. Più che altro sembrano abbandonarsi senza particolari resistenze alla muta contemplazione di oscenità spettrali, che prima li terrorizzano, e poi li consegnano all’oblio. Così, coloro che hanno scrutato attentamente le immagini del sito da cui proviene la maledizione (a proposito, nessun timore: è escluso che si tratti di www.spietati.it) sembrano avere il destino segnato. Ma di solito non scompaiono al primo contatto con il soprannaturale. Hanno tutto il tempo di tramutare il panico in una sorta di disgusto esistenziale, che li allontana progressivamente dal mondo dei vivi. Fino a trasformarsi in macchie sulle pareti. Le vittime del maleficio aumentano di continuo, svuotando le città, e creando così i presupposti di un finale decisamente apocalittico.
Kiyoshi Kurosawa conduce il gioco, fino a questa accelerazione finale, con una solenne lentezza, che apre la rappresentazione filmica all’accumulo di segni rivelatori. Questo, anche grazie ad una sapiente fotografia che privilegia i colori smorti, le tonalità grigie e sfumate. Ma grazie soprattutto alla consapevolezza di comunicare un profondo disagio, che attraverso l’esibizione dell’orrore allude ad una solitudine diffusa, generalizzata, senza scampo; una solitudine che spiazza e corrode l’attuale società nipponica così come le altre, ugualmente soggiogate da immagini che scorrono sui monitor sostituendosi, gradualmente, alla vita reale.

La corsa in auto gialla tra strade deserte a zigzagare i fumi nerissimi di altri automezzi bruciati possiede una potenza ed un furore secondi solo ai filmati web dei fantasmi che avanzano. Pulse riesce con la semplicita' disarmante della rappresentazione del terrore dilagante e sottotono a far paura davvero: e tra stanze sigillate di nastro adesivo rosso che racchiudono e isolano poteri malvagi inimmaginabili, e macchie antropomorfe sinistre entro cui si sviliscono e sciolgono destini umani rassegnati alla fine e alla soliudine anche oltre la vita terrena ("pensa se la solitudine e l'abbandono scoprissimo che caratterizza pure e soprattutto cio' che ci spetta dopo la morte", domanda esterrefatta l'esperta di informatica al nostro Kawashima), la fuga rimane l'unica arma ad una minoranza di superstiti che fugge oltre oceano, inseguendo segnali di vita sempre piu' deboli, ma pur sempre presenti.

…La paura serpeggia nel film come in pochi altri e gli elementi orrorifici sono disseminati in tutta la pellicola, evitando così di accatastare tutto il creepy feast negli ultimi fotogrammi: le anime che si mostrano nel film hanno contorni sfumati, movimenti inconsueti e la loro richiesta di aiuto è raggelante. Ci sono almeno due scene in Pulse che vi rimarrano impresse nella memoria per lungo, lungo tempo. Il senso di vuota solitudine che esprime questo film, andando a toccare una delle problematiche sociali del Sol Levante (ma anche nostre), è sicuramente l'elemento più inquietante di tutta la pellicola ed esplode in un finale apocalittico di grande impatto visivo. Poiché alla fine del film non tutte le problematiche sollevate vengono dipanate, questo fa rientrare Pulse fra quelle pellicole che lasciano un senso di sbigottimento nello spettatore, al quale rimane la sgradevole-affascinate sensazione di non aver compreso tutto. In effetti Kairo e Ringu sono fra i film più importanti del rinascimento horror orientale e hanno decretato un nuovo standard della paura che ora anche noi in Occidente stiamo sfruttando. Però una grande differenza fra il film di Kurosawa e quello di Nakata, sta nel fatto che Pulse è arricchito da uno spessore concettuale che è impossibile rintracciare in Ringu, quest'ultimo più facile da comprendere, metabolizzare, meno lento e più breve rispetto a quello di Kurosawa, ma anche molto più scarso di contenuti se non la paura stessa. Nonostante alcuni difetti, neppure così evidenti e marcati, Kairo incarna alla perfezione il nuovo corso dell'horror psicologico d'Oriente ed è una delle pellicole che dovrebbe essere più ambita fra quelle nippo da un attento spettatore occidentale. Da guardare obbligatoriamente al buio e preferibilmente da soli...un vero cardiotonico!

…Kiyoshi Kurosawa ha avuto il merito, nel corso degli anni, di lavorare ai fianchi il genere cinematografico senza farvisi mai asservire e senza mai tentare di svilirlo; spogliandolo, c’è da dire, di ogni orpello men che indispensabile e trascinandolo via in una deriva autoriale tra le più affascinanti e indecifrabili degli ultimi decenni.
Di questa scelta poetica Pulse rappresenta senza possibilità di errore uno dei vertici principali, punto di snodo fondamentale per comprendere le sue opere seguenti e azzardare una lettura compiuta su quelle che lo precedettero: il cinema di Kiyoshi Kurosawa è un’arte che si confronta in continuazione, con una caparbietà quasi maniacale, con il mito horror, senza che questo comporti, nello sviluppo narrativo, un’accettazione di dogmi più o meno scritti…
 l’aggettivo lento non va in questo caso interpretato in una chiave negativa, perché basta aguzzare la vista per rendersi conto come l’apparente gratuità di determinati piani sequenza nasconda in realtà una serie infinita di segni da decodificare, particolari in grado di far procedere l’azione ben più di un colpo di scena o di un effetto sonoro creato ad hoc per poter sobbalzare sulla poltrona. Nella sua peculiarità di film “informe”, inadatto alla catalogazione, è racchiuso l’horror di Pulse, che non ha dunque bisogno delle meccaniche del genere, fin troppo spesso arrugginite, perché non saprebbe come gestirle; lasciandole scivolare via, come la tecnologia fallace racchiusa in Pulse (ma diffidate profondamente di chi interpreta il film in questione come una reazionaria critica al modernismo) che annulla l’umanità e la fa (dis)perdere negli angoli più bui delle case. Eppure, al di là di ogni estrema scelta estetica, lo scarto definitivo che ci fa considerare Kairo come una delle più belle esperienze puramente cinematografiche degli ultimi anni sta in quella chiazza di dramma cui accennavamo in precedenza: come e forse anche più di Bright Future, Pulse è una sublime storia d’amore. Anch’essa, come il resto dell’opera del cineasta, inclassificabile, ondivaga, fluttuante e inafferrabile, ma nonostante questo (o forse proprio per questo) di una forza travolgente e dirompente; la progressione emotiva degli ultimi venti minuti, quel crescendo inarrestabile che sembra condurre verso la deflagrazione assoluta, con la grigia metropoli desertica invasa dalla cenere e quell’aereo che crolla, in fiamme, nei pressi del molo, sono il colpo di genio di Kurosawa, la dimostrazione di una coerenza e(ste)tica che non può essere messa in discussione ed è, al momento, uno dei veri e propri polmoni verdi che ci sono concessi…

mercoledì 9 marzo 2016

Alléluia - Fabrice Du Welz

con Fabrice Du Welz il confine fra la follia e la normalità non esiste, racconta storie che non si misurano con i metri usuali.
qui due infelici si trovano e si perdono, per ritrovarsi e stare insieme, non si sa chi con chi.
si conoscono, si amano, Gloria gli dà dei soldi, Michel ne ha bisogno, poi sparisce, è la sua strategia, ma non sapeva quanto è tosta Gloria.
lo ritrova, lascia la figlia, diventa la sua partner in tutte le sue attività, al di là del bene e del male.
ma come si fa a raccontare un film di Fabrice Du Welz?
bisogna entrare nella storia e farsi prendere per mano, mica facile, ma non si dimentica - Ismaele





il belga Fabrice Du Welz conferma con Alleluia di disporre di un tocco ineguagliato per disturbare lo spettatore, trasmettergli inquietudine e trascinarlo poi con sé sui binari del delirio. Un talento di certo consapevole, ma non per questo meno impressionante, che non lascia al caso neanche un'inquadratura: nella scena di seduzione iniziale, ad esempio, i primi piani parziali, in cui la figura di un personaggio copre il viso dell'altro, prefigurano già la simbiosi che si verrà a creare tra i due e la singolarità di questo rapporto. Per Michel (già con Du Welz in Calvaire) sono i traumi dell'infanzia ad averlo portato con la sua dura scorza ad essere ciò che è, un mercante di attenzioni sessuali e sentimenti. Per Gloria sono le radici profonde e insondabili di una solitudine aggravata dalla macabra professione notturna all'obitorio ad aver gettato i semi per la trasformazione…

…Le figure dei protagonisti sono talvolta ridotte a silhouette oscure o frammentate in dettagli anatomici, deformati fino a diventare mostruosi.
E’ il concetto artistico attraverso cui Du Welz sbalza i suoi protagonisti e ce ne restituisce l’interiorità sepolta.
Dialoghi e interazioni avvengono spesso tra occhi, bocche, lingue, denti, dita, inquadrature ravvicinate che contribuiscono ad acuire il senso di irrealtà e angoscia che pervade e incrementa durante tutto il film fino alle sequenze finali, ambientate in una frontiera di catarsi mentale ormai disconnessa da qualunque appiglio visivo alla realtà.
La pellicola è sgranata, materica, sfilacciata, in un contrasto all’inizio destabilizzante, ma infine ben riuscito, fra la ricerca di naturalismo e l’innesto di elementi grotteschi e assurdi (con una coraggiosa disinvoltura nella direzione di una scena sconcertante in cui la rottura della quarta parete si accompagna a un numero musicale che non sfigurerebbe in un film di Ozon, se non fosse per la presenza di un cadavere e di una sega, una rappresentazione della follia amorosa così intrisa di differenti toni e sensazioni che tra qualche anno la riconosceremo come geniale).
La camera a spalla la fa da padrona eppure potreste affermare il contrario…

…La sensazione che si ha, dunque, vedendo Alleluia e quella di una percezione della realtà trasformata in rappresentazione. Una rappresentazione delirante e questo perché Du Welz si cala completamente nello sguardo di Gloria, particolarmente suggestionabile dalla personalità paranoica e fanatica del proprio partner. Da qui si capisce il perché di una regia allucinata, che dà forma ad un paesaggio psichico convulso: questa si plasma sulle spinte pulsionali della protagonista, sui flussi mentali che scaturiscono dalle zone più oscure del suo essere. Per dirla pasolinianamente, Du Welz realizza una soggettiva libera indiretta capace di restituire un'immagine «onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria» (Pasolini 2003, p. 179).