lunedì 30 aprile 2018

The wailing (Goksung - La presenza del diavolo) - Hong-jin Na

brutti tempi quando in un villaggio appare il diavolo, e non si sa come affrontarlo.
intanto entra nelle persone che compiono delitti terribili, oppure soffrono le pene dell'inferno.
due poliziotti abituati a trattare casi di ubriachi, al massimo, si trovano dentro questa spirale di orrore, terrore, dolore.
qualche indizio, non risolutivo, fa pensare che la colpa sia dello straniero, ma poi il diavolo continua a operare.
uno dei due poliziotti ha una figlia, che soffre per via di quel demonio.
si passa allora al professionista massimo, in questi casi, lo sciamano-esorcista, che arriva al villaggio sulla sua macchina sportiva.
impressionanti i suoi riti contro il diavolo, ma anche lui fallisce, sembra.
e non tutto è come sembra, in questo film che ti intrappola e solo alla fine sai che fine non c'è, e non puoi dirlo a nessuno.
cinema altissimo, non perderlo, se ti vuoi bene - Ismaele

 

 

 

visivamente The Wailing è grande cinema. Nelle continue piogge, nelle sopracitate scene del crimine (terribili, inquietanti), negli inserti onirici (?), nelle scene nel bosco, in quelle con il pick-up, in tutte le sequenze che strizzano l'occhio all'horror tout court (la morte in ospedale di quello, "l'uomo zombi", l'incredibile finale nella caverna).
Na è un maestro della messa in scena, pazzesca.
Ma è anche uno che sa scrivere come pochi, che osa, che va oltre, che personalizza, che non ha paura di aggiungere e aggiungere, uno ambizioso che mette su un baraccone quasi impossibile da tenere in piedi.
Eppure lui ci riesce, e alla grande.
Più il film va avanti più si fa piede l'ipotesi che sì, in tutte queste faccende ci sia dietro qualcosa di più grande dell'uomo.
Ma si fa fatica a capire chi rappresenti veramente il Male, se il giapponese o quella giovane ragazza vestita di bainco che più volte aveva fatto capolino.
Chi sta cercando chi?
Chi vuole distruggere chi?
Chi sta provando a difendere gli abitanti?
E poi, alla fine, la verità, o almeno parte di essa, si scopre…

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The Wailing è film cupo, duro, cattivo che non risparmia nulla come dovrebbe essere ogni qualvolta una storia va a sguazzare nel magma dell’oscurità che ristagna in fondo all’animo umano: la colpa da espiare, la paura e l’avversità che evoca il diverso, il dubbio che rende sempre la realtà nebulosa, il confine tra il Bene e il Male sono i temi che Na utilizza per creare la sua storia. Inoltre essendo oltre che un bravo e talentuoso regista anche un fine sceneggiatore, il film avviluppa lo spettatore in spire sempre più strette nelle quali le carte in tavola sembrano cambiare in continuazione creando sconcerto, e forse anche qualche confusione.
Citando il Vangelo, richiamando episodi che fanno parte della tradizione cattolica (il gallo che canta tre volte), mostrando una Chiesa incapace di far fronte ai dubbi e alle paure dell’uomo e riti sciamanici tanto potenti quanto inefficaci, 
Na ci dice a chiare lettere che sconfiggere il Male è impresa improba, perché il diavolo altri non è che la proiezione delle nostre colpe e delle nostre paure.
Sebbene la prima parte si configuri più come un lungo prologo, è proprio in quei frangenti che il regista mostra tutto il suo talento: l’ambientazione agreste-montana è magistralmente resa, la pioggia battente e le ambientazioni buie concorrono a creare un clima opprimente e inquietante. Quando poi 
The Wailing vira verso l’horror, non mancano le immagini dure e gli effetti speciali ben confezionati oltre che un paio di scene da antologia, su tutte quella del rito sciamanico.
Ma è soprattutto nel beffardo modo di dipanare la storia che 
Na raggiunge i livelli più alti di qualità: la capacità di tenere saldamente in mano la storia, di tracciare false piste e di creare delle flebili certezze che ben presto si ribaltano, riesce a costruire un labirinto demoniaco e angosciante sul quale aleggia la beffa.

Il finale, carico di dramma e che lacera profondamente, è la firma in calce ad un'opera che per originalità, profondità delle tematiche, suspense e atmosfere va sicuramente considerata tra le migliori del genere degli ultimi anni.
Il cast è di quelli che lasciano il segno grazie ad interpretazioni eccellenti, soprattutto quella di 
Kwak Do-won, nella parte del poliziotto, che vediamo all’opera nel suo primo ruolo da protagonista; accanto a lui, nei panni di uno sciamano dai tratti grotteschi, Hwang Jung-min che mostra tutta la sua versatilità e l’attore giapponese Jun Kunimura, altro vecchio leone sempre verde nella parte del misterioso abitante della foresta.

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El refugio en lo irracional no es sino una respuesta consecuente a un horror también irracional, por desconocido e indeterminado. El extraño indaga en los mecanismos del miedo como respuesta a un estatus ilusorio, ficticio. Aquello que nos rodea y nos comprende como seres no deja de ser una farsa, y así lo dibuja Na Hong-jin en un cuadro inestable. Una farsa de la que se alimentan no sólo ese temor y sus propias leyendas, también una sociedad inclemente. Una farsa que comprendida desde la distancia, y relevada de los dispositivos de género que provee el coreano, continúa siendo igual de terrorífica y reveladora. Una farsa de la que se apodera, algo ya habitual en el cine del autor de The Yellow Sea, un desgarrador y sobrecogedor drama liberado entre instantes, desoladores gemidos y gestos anquilosados. Una farsa cuya única esperanza se atisba en un halo de humanidad que rasga la superficie y nos devuelve de nuevo a esa mentira, nuestra mentira.

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domenica 29 aprile 2018

Accident - Pou-Soi Cheang

ricorda un po' Francis Ford Coppola (La conversazione), per gli aspetti paranoici delle intercettazioni e David Mamet (La casa dei giochi) per gli automatismi perfetti degli incidenti, e i colpi di scena.
sembra esserci un deus ex machina sopra tutto e tutti (solo il caso?).
Cervello, Ciccio, la Donna, lo Zio sono una squadra collaudata e perfetta, finché dura.
il dubbio è una forza potente e Cervello ne resta vittima.
un gran film da non perdere e godere nella precisione geometrica degli incidenti.
buona visione - Ismaele





 Accident, prodotto dalla Milkyway di Johnnie To, è uno di quei rari, magici film che sfruttano il genere per poi superarlo e integrarlo con qualcosa di nuovo, di più. In questo caso la simpatica e fantasiosa trovata della banda di assassini prezzolati che crea e performa complicate coreografie per ammazzare la gente senza lasciare tracce è uno spettacolare pretesto per giustificare la figura di Cervello (interpretato molto bene dal bravo Louis Koo) e il divenire irrimediabile e tragico del suo costante discendere nell’inferno della paranoia e dell’ossessione. Sin dall’inizio questo interessante personaggio ci viene mostrato come un intelligente amministratore del gruppo, un freddo e apatico leader, ossessionato, ma non in maniera compulsiva o distruttiva, da una serie di tic igienici o relativi alla sicurezza sua e del suo appartamento. L’incidente di cui è quasi vittima risveglia in lui la bestia della paranoia ossessiva, la stessa bestia che l’aveva divorato tempo prima quando si convinse che l’amata moglie, morta in un terribile incidente stradale, fosse stata vittima di un assassino che avesse voluto mascherare il suo omicidio sotto forma di incidente. L’ossessione di Cervello si rivolge quasi casualmente sulla prima persona abbastanza plausibile su cui poter costruire il castello di nuvole necessario a nutrire la paranoia; Cervello segue questa persona, affitta un appartamento nello stesso condominio e lo spia notte e giorno, appuntandosi le sue conversazioni e le sue telefonate, tappezzando i muri del suo appartamento di note e ipotesi. Tutto questo finchè il caso non vuole che il pedinato pronunci le parole sbagliate al momento sbagliato, tali da convincere Cervello di avere effettivamente ragione.
Il film è stato diretto da Soi Cheang, in passato aiuto regista di Ringo Lam e forte dei consigli del suo produttore Johnnie To, in maniera peculiare che non ricorda nessuna delle sue precedenti pellicole che da buon allievo di Lam hanno sempre contribuito a riscrivere i limiti della brutale violenza mostrata su uno schermo cinematografico. In questo caso la violenza della carne da sempre esposta senza pudori da Cheang si trasforma in violenza mentale; violenza che si concentra nel personaggio di Cervello, umiliato e reso perdente fra i perdenti. Cheang gira in maniera rigorosa, sfruttando abilmente le competenze produttive della Milkyway e dando un alto valore estetico alla sua pellicola. Cheang gira con estrema asciuttezza, dando vita a un film quasi privo di colonna sonora, un lavoro secco e immediato, dai toni soffocati e poco enfatici, come non se ne vedevano da anni a Honk Hong. Chapeaux.

Un film incentrato sulla cospirazione e sul sospetto, che instilla il dubbio ad ogni inquadratura, un thriller non convenzionale che esula dal solito killer movie orientale, senza armi, senza arti marziali, senza inseguimenti, senza troppo spargimento di sangue. Un noir raffinato e godibile che agisce a livello psicologico, visualmente impeccabile, che gioca con lo spettatore e lo cattura in una fitta rete di sospetto e di inquietudine per poi immergerlo delicatamente e completamente nell'invasiva personalità di un autore sofisticato e in continua sfida con se stesso. Qualche caduta di ritmo che si poteva evitare nella parte centrale ma resta tutto sommato un film più che godibile e di sicuro intrattenimento…


Le cerveau du groupe, constructeur de projet, est notre héros. Il doit démêler les mailles du filet qui s'est tissé autour de ses collègues – après la mort de l'un d'eux -. La figure du solitaire vacille. Il a besoin de son espace, de ses instants pensifs mais demeure en perpétuelle observations. La frontière entre vie privée et vie professionnelle est suffisamment floue ce qui donne lieu à des errances et des frustrations un peu longuettes. Toutefois, la variation autour de sa personnalité est suffisamment bien construite pour éveiller la curiosité.
Ceci étant, entre les méfaits et leurs préambules et l'approfondissement dramatique, il ne reste que peu de temps morts ce qui suffit amplement pour ce métrage assez court. Si le personnage féminin est dispensable, le vieil homme est plus intéressant et le doute qui plane autour de son comportement vient compléter la quête de Ho Kwok-Fai. 
La seconde partie, elle, dérive vers de nouveaux personnages dont l'intérêt n'intervient qu'en dernier recours avec une chute assez convenue mais parfaitement maîtrisée.
Un retour gagnant au thriller pour Cheang qui arrive à trouver sa place nimbé de l'aura de Johnnie To, producteur pour l'occasion. Un film ingénieux qui toussote quand Ho Kwok-Fai est enfermé dans sa quête de vérité.

La película es un prodigio de prestidigitación cinematográfica: un equipo de asesinos a sueldo especializados en fabricar “accidentes” mortales cae víctima de sus propios métodos. Así, la secuencia de los dos “accidentes” (el ejecutado por los protagonistas y aquel que los tiene por víctimas) se transforma en el núcleo gravitacional de una trama que invoca las escuchas de La conversación (1974), de Francis Ford Coppola, los estoicos personajes del cine de Jean-Pierre Melville, los giros argumentales de Misión: Imposible (1996) y los retos narrativos de Mad Detective (2007) del propio To. Un cóctel noir agitado con virtuosismo y fatalismo por un director al que, a partir de este mismo momento, no cabe otra opción que seguirle la pista con devotas ansias de entretenimiento.

Se la mano della casa si vede in alcuni passaggi e nel meccanismo perfetto della sceneggiatura (d’altra parte “la perfezione del caso” è il tema principale del film), nonché in una certa indulgenza verso le riprese dall’alto, Soi Cheang riesce comunque a conservare il suo stile visionario: prima orchestra una danza di corpi ed automezzi che si sfiorano millimetricamente fino ad arrivare al fatale impatto finale, poi ci fa entrare nella spirale paranoica del delirio di onnipotenza che si fa ossessione nella mente di “The Brain” con l’imprevisto che, da variabile impazzita, si fa causa stessa della pazzia.
Accident non è certo di quei film che accendono il cuore delle giurie, ma comunque regala novanta minuti di buon cinema, ben confezionato, ben recitato e soprattutto mai banale, è davvero un peccato che questi film in Italia non trovino una distribuzione nelle sale e si debba sempre ricorrere al mercato dei DVD o al peer-to-peer per tentare di recuperarli. Fin dall’inizio del film viene più volte inquadrato un insolito cartello stradale, che solo nell’incidente finale troverà la sua spiegazione. Si tratta di un segnale di pericolo con all’interno una palla nera: che cosa vorrà dire? Un piccolo aiuto: ad Hong-Kong ci sono molti palazzi di vetro.

sabato 28 aprile 2018

Loro (prima parte) - Paolo Sorrentino

pare che gli avvocati di Berlusconi aspettassero il film con il dito sul grilletto.
dopo aver visto la prima parte si può dire che non c'è lavoro per gli avvocati, Berlusconi (Toni Servillo) sembra una macchietta di se stesso o anche un po' deficiente.
il lavoro di Sorrentino sembra quello di un pittore, alla Hieronymus Bosch, che dipinge un mondo, un tempo, un ambiente, zoomando su un particolare e poi un altro e così via.
sembra che tutti siano parte di un grande disegno, e la seconda parte mostrerà quanto l'interpretazione esposta sia corretta o meno.
per quanto sembri la prima parte di una serie, un film di tre ore l'avremmo visto con piacere, solo un trucchetto per farci pagare due biglietti?
ricordo La meglio gioventù al cinema, era in due parti, ma durava quattro ore.
comunque sia Loro è un film che non si dimentica, bravi gli interpreti, amareggiati tutti quelli (noi) che hanno subito quegli anni, da quella gente, ma questo è un altro discorso.
buona visione, intanto - Ismaele




Loro 1 corre tantissimo e dura un attimo ma davvero non è un film, è l’introduzione ad un film. La divisione in due capitoli non è funzionale e non funziona, somiglia più a quella in due puntate di una miniserie, manca tutto l’intreccio e la sua soluzione, manca l’essenza della storia e ci sono solo le presentazioni dei personaggi, dinamiche come in un film inglese degli anni ‘90 oppure sornione come in una commedia ben scritta. Quello che è chiaro semmai è il tono: il massimo della vita (il sesso, il denaro, la bellezza sconfinata di persone, luoghi e possibilità) si accompagna necessariamente allo squallore, alla piccineria, all’ignoranza e alla decadenza. Filo conduttore di tantissimo cinema di Sorrentino e qui (coerentemente) applicato ad un contesto indubbiamente appropriato.
È insomma molto bello Loro 1, ma è solo un inizio. Anche tutto quello che di stimolante si può intuire è più in potenza che in atto.

C'è un po' tutto quello che ci si aspetta. Inevitabile conoscendo l'estetica del regista e i suoi precedenti, che pesano moltissimo e che in fondo minano l'originalità di alcune trovate in assoluto anche divertenti, geniali, del film. Resta un retrogusto come di 'riscaldato'. Un senso di già visto, che comunque funziona, perché il personaggio ha una capacità di penetrazione unica, per quanto il Divo e l'Andreotti di Toni Servillo fossero di altra pasta. In compenso qui c'è più margine per spostarsi sul terreno del grottesco piuttosto che della critica sociale (come in La Grande Bellezza), che tutto sommato dovremmo aver già ricavato dalle cronache reali…

Per Paolo Sorrentino il potere, in qualsiasi forma esista, è inestricabilmente legato al ridicolo. Nella sua filmografia fatta solo di potenti (in diverse forme, diverse ricchezze e diverse tipologie) sempre questi sono legati al grottesco, al comico e al risibile. Come se non ci potesse essere vessazione e possibilità di fare il proprio volere senza finire ad essere macchiette, i potenti come si muovono fanno ridere. E così Berlusconi vive in un mondo in cui tutto fa ridere, anche una gita con la moglie in moto d’acqua è un momento grottesco. Ma non è il grottesco maligno, notturno e ombroso de Il divo, è un grottesco simpatico e buffonesco, così bambinesco da ispirare tenerezza. Il Silvio Berlusconi di Servillo è impermeabile, non capiamo cosa pensa, si aggira irrequieto e non somiglia al reale Silvio, ma più ai pupazzi di gomma con la sua effige. Non è lui, è una sua presa in giro moderata, che riesce a non stonare in un film che non è comico.
Scevro da particolari volontà politiche, Sorrentino pare onestamente affascinato da quest’uomo che tutto può in un momento della sua vita in cui l’apice è passato e sente la decadenza, gestisce una squadra di calcio non più grandissima e detiene un ruolo nella politica non più granitico. Con questo mood, Silvio si aggira nei suoi possedimenti, con una moglie da riconquistare stancamente e una corte di miracoli che gli ruota intorno, fatta di chitarristi, ex ministri e servitori. Sappiamo tutti come andrà a finire, cosa accadrà tra questo plotone di donne nude in festa e l’ex premier annoiato, Sorrentino e Contarello (che con lui ha co-sceneggiato) creano un’attesa che è l’essenza stessa dell’arte di raccontare.
Purtroppo Loro 1 è un film incompleto, che finisce nel momento in cui presentati i personaggi sta per partire la storia. Non ha un suo arco, è un solo un abbocco, pieno di momenti fenomenali al pari di metafore di inusitata banalità e tristezza, momenti di cinema altissimo, capaci di trovare l’immagine e lo scenario che condensano mille riflessioni (scatenate nella testa dello spettatore), al pari di altri sconfortanti per puerilità.

…Vero protagonista della prima parte è Sergio Morra, una reincarnazione di Giampaolo Tarantini interpretata (benissimo) da Riccardo Scamarcio; invero, il film raramente offre nomi e cognomi dei personaggi reali, ma libere e fantasiose reinterpretazioni. Morra è un faccendiere che vorrebbe fare il salto di qualità, abbandonare quel "cesso di Taranto" trasferendosi a Roma. L'illuminazione giunge mentre, facendo sesso e pippando cocaina, scorge sul fondoschiena di una escort un tatuaggio: è il volto di Silvio Berlusconi, ma già trasformato nella maschera di Toni Servillo. 
"Loro 1" potrebbe essere quello che "La grande bellezza" non riusciva a essere fino in fondo, almeno per chi scrive: la fotografia della decadenza italiana (e per sineddoche il tramonto dell'Occidente?), dalla prospettiva di chi ha scelto deliberatamente di farne parte; nel film premio Oscar e vero spartiacque della carriera del regista, il commento fuori campo e gli aforismi di Jep Gambardella rivelavano un eccesso di autocoscienza che lo poneva comunque al di sopra della fauna attraverso cui si muoveva. Scomparsa questa consapevolezza, in "Loro 1" resta l'ebbrezza, la rappresentazione realista (e quindi grottesca) non soltanto di una fenomenologia sociale ma anche di un immaginario collettivo. Ed è per questo che Sorrentino, descrivendo non l'apogeo dell'età berlusconiana ma il tardo impero, inizia dalla base del prodotto (e dall'indotto) di quest'epoca. Una prima ora che è un'allucinata e sfrenata festa con la musica a fare da catalizzatore per movimenti di macchina ingiustificati e jump-cut, realizzando non l'orgia del potere ma il potere dell'orgia. Morra si ricicla spericolato entrepreneur e agente di molte ragazze ma, in fin dei conti, va avanti a fare il pappone: il corpo femminile è la merce di scambio, la strategia per una scalata gerarchica…

Schietto, ironico, ma anche cattivo, il Silvio di Paolo Sorrentino (non sentiamo mai pronunciare il suo nome completo) è un uomo a un bivio, così come lo sono gli spettatori che per completare la visione e il quadro che il regista ha dipinto dovranno aspettare fino all’uscita di Loro 2.
Nel suo essere un racconto incompleto di un’idea precisissima che il regista vuole raccontare, Loro 1 è comunque un’operazione intrigante, che unisce l’impronta del regista, che non rinuncia al suo stile e al suo bagaglio visivo (per fortuna), a una biografia impegnativa che ha scelto di inquadrare in un periodo storico preciso ma con una tecnica poco discorsiva, preferendo l’impressionismo alla successione dei fatti, associando all’uomo privato, l’idea che “lui” proietta intorno a quel marcio vortice di ambizioni e speranze, quello stile di vita che la sua icona ha contribuito a far nascere.

Rozzo, squilibrato, volgare: con Loro 1 Sorrentino dimostra definitivamente di non avere le doti artistiche necessarie per trasformare corruzione e vizio in un affresco potente e sperimentale (si confronti con lo scorsesiano The Wolf of Wall Street). Eppure, Loro 1 ha un’indubbia forza cinematografica che si nutre anche dei propri errori: il regista ha un’ambizione ed una sfacciataggine tali da conferire fascino ad un sistema linguisticamente limitato, ma forte di un innato senso di grandezza.
Loro 1 è simile all’Italia: paraculo, sbruffone, improvvisato, con lampi di raro ma indiscutibile genio. Nel film di Sorrentino troviamo innervato l’atteggiamento italiano di fronte alle cose: un parassitismo dichiarato (le “influenze” di tanto cinema precedente sono chiaramente riconoscibili ed enumerabili), un’attenzione quasi esclusiva alla superficie (evidente nel tratteggio di situazioni e personaggi), la volgarità cafona, esibita ed esagerata come misura stilistica…

20 Fingers - Mania Akbari

un film parlato, una coppia negli anni, in diversi momenti, discute di come si vive e convive, lui è il prodotto di una società maschilista, nella quale le donne contano poco, e devono stare al loro posto, lei è una che non cede, testarda e convinta.
i due attori sono così bravi che il film può sembrare un documentario, di sicuro un documento prezioso.
un film da non perdere - Ismaele




Un film in cui la discussione è l'apparente movimento in una realtà ferma, il sofferto sfogo di un'evoluzione culturale destinata a rimanere una teoria imprigionata nella mente. L'emancipazione femminile nell'Iran post-khomeinista è come il desiderio di un ritorno ad una libertà intravista nel passato, e soffocata dalla restaurazione dei dogmi fondamentalisti. La verginità, l'aborto, la fedeltà coniugale ed il divorzio sono i capisaldi tematici entro cui si misura la condizione della donna che, al di là delle sfumature e dei cenni di apertura verso la modernità, appare così definita unicamente sulla base del suo rapporto con l'uomo. La "trasgressione" è, nelle parole della protagonista Mania, un'ipotesi provocatoria lanciata contro gli ottusi schematismi della tradizione; un'indagine sperimentale per sondare i limiti del suo territorio, ed un affondo intelligente e raffinato per rivendicare il suo diritto a "poter essere".

Gender relations is in centre of this Iranian episode film. Director Mania Akbari and producer Bijan Daneshmand play the leading roles themselves in the film's seven different episodes, all in which gender roles, abortion, infidelity and jealousy are central subjects. Through these, fundamental struggles emerge _ such as those between modernity and tradition, liberalism and conservatism. 20 Fingers is shot with digital camera and most of the scenes are filmed from only one angle. The lack of subordinate characters and the frequent use of close-ups make the dialogue and the play of the characters' features central. Through precise ,dialogue, the viewer gets to know the people in the film. The story is naturalistic in design, with a poetic touch, and gives an insight into daily Iranian life. The action mainly takes place in or on moving vehicles, which captures the characters' physical, but foremost psychological, journey. ERIK LAQUIST

Writer/director Mania Akbari dedicates this film to Abbas Kiarostami, and with good reason.  Her first gig was as an actress in Ten a couple years prior, and you can see the influence.  Seven one-shot conversations between a man (Bijan Daneshmand) and a woman (Akbari).  As in many Kiarostami films (especially Ten), most of the discussions occur in moving vehicles: cars, a ski lift, a boat.  And although it would have been chronologically impossible for it to have been an influence, it reminded of Certified Copy in that we don’t know if these seven couples are the same couple every time.
I should think not, or rather that it doesn’t really matter, because Akbari is commenting on universal problems for women in Iran.  The discussions largely center around the gap in freedoms between men and women, not necessarily in their laws but in how they perceive gender roles.  The man is sometimes boorish to the level of horror (as in the first segment when he tests the woman’s virginity) but even when he appears pleasant, there are undertones in his demeanor that suggest there are different rules for different sexes.  Around every corner, he sees threats to his dominance over the woman.  Her attempts to assert her freedoms fall on deaf, resistant ears.
The motion seems to be proportional to the emotional content of the conversation.  The only stationary scene is a relatively sedate talk in a restaurant and how each would behave if they could change their genders.  But while riding on a motorcycle, they discuss abortion (surprisingly frank for an Iranian film, lesbianism is covered as well), and in the penultimate scene, a train is the setting for a confrontation that becomes explosive.
The digital video is a bit rough, but contributes to the immediate, natural documentary feel of the movie.  The two performances are generally excellent but once in a while feel a bit stagey, which might be mostly due to dialogue that’s occasionally a bit too pointed.  But the film is really very interesting, a revealing viewpoint on contemporary Iranian feminist issues.  Rating: Very Good (83)
da qui



giovedì 26 aprile 2018

The Third Page (Üçüncü Sayfa) - Zeki Demirkubuz

Isa, una comparsa del cinema, che lavora a giornata, vive come uno scarafaggio, nel sottoscala, cercando di evitare tutti, prendendo colpi da tutti.
fino a che incontra una vicina, che è l'unica che lo considera.
il film sembra di quelli girati a New York negli anni '60-'70, film poveri, fatti con due soldi, ma che valgono molto di più di quanto sono costati.
c'è anche una pistola, e si sa che è fatta per sparare.
film drammatico, e anche comico, quasi alla Woody Allen, quando due scagnozzi del boss devono trovare i tassi di cambio fra lira turca e dollaro Usa.
divertente anche come si fa il cinema, mica tanti anni fa, Istanbul come NY, 30 anni dopo.
film strano, che merita attenzione, pare che Zeki Demirkubuz sia uno che ne sa, e qui lo dimostra.
buona visione - Ismaele





Demirkubuz dichiara quanto l’opera di Dostoevskij abbia influenzato il suo cinema. E qui siamo in pieno Delitto e castigo, con Isa novello Rodion Romanovich Raskolnikov (il cui ruolo dovrebbe interpretare grazie a un provino sostenuto).  L’indigenza dei due personaggi è la stessa così come sono simili i dilemmi, Isa ha la possibilità di dare un senso alla sua esistenza riscattandola attraverso l’omicidio. Il primo appare casuale, dettato da uno scatto incontrollabile, il secondo potrebbe essere premeditato (esattamente all’opposto di quanto accadeva nel romanzo), se non perfetto almeno ideale, ma anche qui l’uomo verrà superato in corsa dagli eventi, con inoltre l’umiliazione di un più futile movente.
«Se Dio non esiste, tutto è permesso», affermava Ivan Karamazov ne “I fratelli Karamazov” e qui di un qualsiasi Dio non si vede l’ombra. Tutti i personaggi appaiono abbandonati a sé. Tutti, compresi quelli che appaiono come negativi o mossi da intenti ambigui, alla fine vengono riscattati dall’affiorare della verità in una storia dove della netta separazione tra buoni e cattivi non si vede manco l’ombra. Già, nessuno qui è buono o cattivo. Nessuno è e basta. È ciò che serve a sopravvivere a imporlo.
Il titolo del film è traducibile letteralmente come “terza pagina”, quella dei quotidiani turchi dove vengono relegate le storie di cronaca nera di cui si rendono protagonisti gli appartenenti alla classe media. Interessanti si, per i più curiosi o morbosi, ma popolati di personaggi di scarso interesse, pronti ad assere dimenticati il giorno dopo. Come Isa, la cui storia si dipana infine essenzialmente tra due tentativi di suicidio, unici atti di autentica ribellione.
Demirkubuz costruisce per lui una storia oscura, dai contorni sfumati e dagli echi da cinema noir, in cui il forte realismo della messa in scena si confonde con le storie che provengono dai televisori e che sembrano muoversi parallele a quelle dei suoi personaggi. E nulla è mai come appare inizialmente.
Dal mondo della terza pagina sembra trarre ispirazione per due scene al limite del comico: il primo pestaggio di cui Isa è vittima (che potrebbe essere parte della soap per cui lavora) e il dialogo tra i due criminali di mezza tacca recatisi a casa sua per la definitiva riscossione e che sul pianerottolo si mettono a discutere del tasso di cambio valutario mentre la luce delle scale si spegne ogni 30 secondi.
The Third Page è un film complesso nella costruzione della storia e ancora di più dei suoi personaggi. Lascia sbalorditi per la complessità dei suoi contenuti e per come questi si svelino anche dopo la visione, con i personaggi ad assumere una definizione più precisa – ma paradossalmente nel contempo meno netta, più sfumata – tempo dopo…

In Istanbul Isa tries to earn a living as novice extra and stuntman. Things are not going his way. He has just been beaten up by a gangster who demands fifty dollars back from him and threatens more violence if the money isn't produced within a day. Instead of money, Isa finds a gun. He decides that death is the only way out. Just as he is about to pull the trigger, his landlord turns up to demand his rent. Even more reason to end it all, but in a fit, he walks into the landlord's flat. Before he realises what he is doing, he shoots him in the chest and faints beside the dying man. Next morning, Isa wakes up, amazed to find himself back in his own scruffy room. The police is investigating, but does not suspect him. Then the gangsters turn up demanding their money. The woman next door, Meryem, pays the money and saves him from a second beating. Isa is fascinated by this beautiful and idiosyncratic woman who has problems of her own. The Third Page is as controlled, exciting and oppressive as a thriller, but Demirkubuz' is primarily interested in the influence of the economic and social situation on human behaviour. The driving force is the great psychological insight with which Demirkubuz sketches the looming demise of Isa. The result is a moving parable in no uncertain terms.

mercoledì 25 aprile 2018

The Square – Ruben Östlund

film luminoso e geometrico, poi si entra in una storia di spionaggio e investigazione, tutto con mezzi propri.
il mondo alto e il mondo basso non sono così separati come sembra.
come in Happy end, e in Niente da nascondere, entrambi di Michael Heneke, il rimosso e il nascosto si prendono la rivincita.
qualche conto bisogna farlo, fermarsi a pensare e ripensare alle cose come sono, e non come vorremmo che fossero.
alcune scene sono straordinarie, altre solo molto belle, il risultato è un film da non perdere.
buona visione - Ismaele





The Square ci interroga su tante tematiche differenti. I fondamenti dell’arte contemporanea e il suo significato, le sue sfaccettature grottesche – il ragazzo delle pulizie che “spazza” una parte di un’opera d’arte – e il suo statuto elitario – la società bene che viene alla presentazione e si lancia sul buffet, la festa alto borghese nelle stanze vuote del Palazzo Reale. Il confine labile tra uomo e animale – la performance di Oleg, il sesso senza sentimento tra Anne e Christian, la scimmia che si trucca nell’appartamento – e soprattutto il contrasto tra la realtà dorata del mondo benestante e quella sporca e compromessa della povertà, con i mendicanti presi a simbolo di un innegabile rifiuto sociale. Per quanto la società promuova certi valori, gli stessi valori che irrisi nel video della campagna promozionale provocano le dimissioni del protagonista, nei fatti questi vengono quotidianamente negati, respinti come il bambino che cerca soltanto giustizia e trova invece un muro, una barriera mentale e fisica da parte di Christian, che finisce per buttarlo (pur non volontariamente) di sotto dalle scale. Quei bambini, che nella loro innocenza sanno tracciare confini chiari, sono il futuro frustrato di questa parte della società che spinge per essere riconosciuta, inutilmente e senza reale possibilità di riscatto. L’unica vera punizione sono le loro parole e il loro sguardo giudicante, gli occhi delle proprie figlie che Christian sente puntati addosso nel finale, mentre si allontana in auto dal palazzo dove abitava la famiglia di quel bambino ingiustamente respinto che se n’è andato lasciando dietro di sé nient’altro che una scia d’acqua, e forse di sangue.

The Square è un film apparentemente sconclusionato ma per niente superficiale che ci parla, tenendo assieme provocazione e intrattenimento, delle responsabilità individuali e civili che possono essere implicate dagli spazi pubblici. L’opera di Östlund sa far vedere come il risentimento, l’insofferenza del prossimo (in quanto incapacità di gestire tutto ciò che ci vive accanto ma è altro) agiscano spesso come tic incontrollabili, come condizioni non più reattive, ma sempre più autonome e capaci di esistere a parte: non in tensione con il mondo, ma come mondi paralleli. Mentre lo spazio simbolico della piazza si è trasformato, di conseguenza, nel campo d’azione e di espressione di tante singole paranoie. Un po’ come quei mucchi di cenere allineati in una sala espositiva del Museo e sormontati dal titolo “You Have Nothing”.

A impressionare nel film è infatti una diffusa indifferenza nei confronti dei più deboli (al limite della ferocia), segno, secondo lo stesso regista, di una perversa diffidenza e insicurezza che, soprattutto a causa della crisi economica mondiale, si fanno sempre più strada persino in un paese avanzato come la Svezia. Una disumanità che Östlund evoca abilmente anche attraverso alcune opere del museo, come unʼinstallazione che consiste in una sala scura, sul fondo della quale si impone un grande schermo acceso in cui un uomo, con sguardo animalesco, lancia minacciose occhiate in direzione dei visitatori: una visione che rimanda, appunto, allʼ“umana bestialità” che caratterizza numerose sequenze della pellicola.
Il film perde invece forza quando il regista  si sofferma eccessivamente sulle inaspettate disavventure del protagonista al di fuori del museo, tralasciando quasi del tutto lo stimolante dialogo fra le opere in esposizione e lʼemergere degli istinti meno nobili, compresi quelli di Christian.
Nonostante ciò, The Square lascia comunque il segno per la feroce leggerezza con cui affronta il lato oscuro del business di certa arte contemporanea (che, poi, come abbiamo visto, proprio arte sempre non è) e della fauna umana che le gravita attorno.
The Square non si può dire un film equilibrato: sfora nella lunghezza, sembra aprire sentieri e argomenti che non porta in fondo, però lo squilibrio è anche l'oggetto del discorso. Come l'arte che diviene arte anche in virtù della sua collocazione (si pensi al ready-made, l'oggetto comune traslato rispetto al suo contesto funzionale), così la vicenda di Christian è fatta di interruzioni imprevedibili del fuori contesto dentro il perimetro (che credeva chiuso e quadrato) della sua vita. Tic da sindrome di Tourette, che portano dentro l'inquadratura cinematografica di un film volutamente patinato, e di un mondo che fa della bellezza il suo credo, le immagini di mendicanti e povera gente, e mandano in cortocircuito eccesso e difetto, idealismo e cinismo, polpa e scheletro del film stesso. 
Come l'oggetto dell'arte contemporanea, The Square è anche un film aperto all'interpretazione che il pubblico vorrà dare di lui, e questa, forse, è la sua caratteristica più preziosa.

martedì 24 aprile 2018

POILUS -



Court métrage d'Animation 3D Projet de fin d'études Ecole : ISART DIGITAL, l'école du jeu vidéo et de l'animation 3D-FX

3D Animation : Guillaume AUBERVAL, Léa DOZOUL, Simon GOMEZ, Timothé HEK, Hugo LAGRANGE, Antoine LAROYE and David LASHCARI Music & Sound Design : Aina ANDRIAN, Paul BARRET, Gabriel DALMASSO, Auriane FATON, Elio GERMANI and Lesly VERDEROSA

lunedì 23 aprile 2018

L'Amore secondo Isabelle (Un beau soleil intérieur) - Claire Denis

i dolori e i turbamenti della matura Isabelle, ancora alla ricerca dell'innamoramento e dell'amore.
ispirato ai Frammenti di un discorso amoroso, di Roland Barthes, Claire Denis (una grande regista) gira un film diverso dai suoi precedenti, inseguendo Isabelle in ogni momento, nelle gioie e nei dubbi e nelle delusioni.
alla fine Isabelle cerca i consigli di un indovino, uGérard Depardieu che vive delle debolezze e delle illusioni delle clienti, elencando tutte le banalità che gli speranzosi prendono per oro colato.
se siete uomini potete intuire qualcosa del film, le donne possono riuscire a capirlo.
comunque sia, buona visione a tutti - Ismaele

ps: se vi capita di avere dietro qualche gruppetto di donne maschiliste, dispensatrici di commenti osceni, cambiate posto, per non farvi rovinare il film.







…La celebre regista, nell'adattare l'opera di Roland Barthes del 1977 "Fragments d'un discours amoureux", regala a Juliette Binoche un ruolo vibrante che ce la restituisce vulnerabile ma agguerrita e motivata a giocarsi bene le sue ultime preziose carte sentimentali. 
Trascorsi i titoli di coda, la ascoltiamo ancora, ammirati ed inteneriti, interpretare le parole amorevoli, ma inevitabilmente evasive, dell'affettuoso medium che la soccorre, non potendo fare a meno di apprezzarne i tratti graziosi, l'espressione potente e determinata che la anima di una speranza che non ha intenzione alcuna di cedere: è il suo "sole interiore", che Claire Denis riesce a rappresentare e a far rendere palpabile ed evidente, oltre che straripante.


…Claire Denis è partita da una voce dei frammenti di Barthes, "Agonia", per inscenare il discorso amoroso di Isabelle.
Doveva esser parte di un progetto di adattamento completo del testo, ad opera di diversi autori, ma il suo contributo si è allontanato dalla fonte, si è liberato, senza rinunciare però alla formula del frammento. Esitante, incompleto, timoroso, l'innamorato non è capace di parlare dell'amato in maniera compiuta, non sa quanto l'esperienza del desiderio sia soltanto sua o condivisa. La Denis porta sullo schermo questo torturarsi mentalmente, alle soglie del sentimento che promette maggior felicità, dentro l'azione quotidiana, piccola, scomposta in parti, ridotta, appunto, a frammento. Deve scendere dall'auto o restare? Cosa vuole l'altro? Quello che vuole lei? Perché non parla, l'altro? O perché non tace, non agisce? Come la vede? In questo quadro, di volute ripetizioni, il personaggio dell'attore è quello che porta la nevrosi d'amore al livello più esplicito: è angosciato dall'idea della fine, la riscontra all'indomani dell'inizio, la anticipa parlando di morte, impedendo che il sentimento sperimenti una vita. 

Juliette Binoche offre pezzi di sé (è una delle poche grandi attrici della sua età che non si è mai sposata) e del suo corpo all'obiettivo della regista e dà il meglio di sé (il meglio di sempre?) nei panni di questa donna che si sente sola e invece è tutte le donne, e non solo le donne. I suoi cambi recitativi di registro non sono mai stati così rapidi ed estremi e servono a dovere un film che è tutto scritto, quasi una pièce teatrale, nel quale nemmeno una passeggiata nel verde offre una boccata d'aria.

Il fuoriclasse nello sport lo riconosci in modo semplice: è quello che se ne sta in disparte o finge di farlo, che ti disorienta con un atteggiamento a basso profilo e poi quando stai per rilassarti ti trafigge con un colpo inatteso e magistrale.
A ben vedere, il ragionamento calza perfettamente anche per la questione cinematografica e per i suoi “top players”. Una di essi è, senza dubbio, la regista parigina Claire Denis.
L’Amore Secondo Isabelle è la sua tredicesima regia, passata dalla “Quinzaine” di Cannes 2017, un progetto che trae libera ispirazione da Frammenti Di Un Discorso Amoroso dello scrittore francese Roland Barthes e da un suo singolo concetto, quello di Agonia.
La Denis parte dalla parola e la trasforma in chiave, evocandone un significato strettamente correlato alla sopraffazione causa pene d’amore. E’ questo lo stato in cui versa la cinquantenne Isabelle (Juliette Binochee il siero dell’eterna giovinezza), col suo cuore irrisolto e il carosello di uomini schizofrenici della sua vita.
La conquista dell’amore vero – o qualcosa di simile – è eclissata da una serie interminabile di rapporti sentimentali made in 2018, incerti e idiosincratici, pavidi e facili da smentire.
Qui, nel crocevia del dramma sentimentale, la fuoriclasse Denis trasforma una sinossi piuttosto prevedibile e schematica in un film profondo, magnetico ed ironico, che sale progressivamente di giri e sfocia in un atto finale che irradia tanto di speranza quanto del suo esatto contrario.
L’Amore Secondo Isabelle è un film nobile e raffinatissimo, un gioiello capace di rimanere sobrio e persino mascherato, che incastona le gemme maschili del cinema francese (Xavier Beauvois, Gérard Depardieu, Philippe Katerine, Nicolas Duvauchelle) sulla mai banale sofferenza di Isabelle-Binoche…

L’amore secondo Isabelle è uno di quei film che fanno la felicità dell’attrice che ne è protagonista: presente dalla prima all’ultima scena e con la macchina da presa a valorizzarne la voluttuosa e sensuale figura, Binoche è una donna alle prese con la mancanza d’amore che, in un vortice di pathos e sofferenza, è indirizzata a crescere ogni volta che la ritroviamo sola ma imperterrita al cospetto di una nuova possibilità. La sceneggiatura è ispirata ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthesi vari segmenti dedicati agli incontri di Isabelle sono allo stesso tempo parte di un unico racconto ma anche singoli tasselli destinati a diventare il modello di una femminilità universale, capace di rispecchiare, nelle variazioni offerte dalle diverse storie in cui è coinvolta Isabelle, l’intera categoria.
Un’ambizione, quella della Denis, alla quale non poteva non corrispondere la presenza di un’attrice iconografica come Binoche, la quale, come sempre, si dimostra capace di disfarsi della sua fama, anteponendo l’autenticità dei sentimenti espressi attraverso Isabelle ai tic e alle maniere che derivano dalla padronanza dei propri mezzi. Al contrario, Binoche sembra consegnarsi allo sguardo dello spettatore, accettando di filmare uno smarrimento che sembra appartenerle in prima persona. Non si può non innamorarsene.

venerdì 20 aprile 2018

Il tuttofare - Valerio Attanasio

Valerio Attanasio è stato sceneggiatore di Smetto quando voglio, il suo esordio alla regia sembra una costola di quel film, una variazione sul tema.
si ride, ma non troppo, sempre meno, alla fine ti resta poco o niente.
secondo me è esagerato scomodare i grandi della commedia italiana degli anni sessanta e settanta.
diceva Marx che "la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la secondo come farsa"; parafrasando quella citazione per i film, la prima volta sono freschi, originali e straordinari, la seconda volta sono un deja vu, abbastanza ordinari..
vedete voi, buona visione - Ismaele



Debutta con una storia che parte dall'amara esperienza della sua generazione (classe 1978): quella di confrontarsi con un mondo del lavoro che concede ai giovani (non raccomandati) unicamente la possibilità di essere sfruttati dalla generazione ex sessantottina che si è presa tutto e ha lasciato ai posteri solo le briciole. Ad incarnare quella generazione è Sergio Castellitto, che nei panni di Toti Bellastella regala la prova d'attore che da sola vale il prezzo del biglietto. Castellitto costruisce un personaggio (molto ben scritto da Attanasio) spassoso ma che non concede nulla all'empatia del pubblico: un cattivo carismatico che non strizza l'occhio agli spettatori e non li invita subliminalmente all'emulazione.
Il problema è che Castellitto giganteggia non solo sul volonteroso ma attorialmente più fragile Guglielmo Poggi, già visto in Smetto quando voglio, ma anche su una trama ben costruita nelle premesse ma più incerta nello svolgimento e soprattutto nella conclusione. Quando Bellastella scompare dalla scena anche la narrazione svapora, e Attanasio procede ad affastellare freneticamente accadimenti per compensare il vuoto lasciato da un mattatore che non fa prigionieri usando il latino(rum) come una spada laser.

All’interno della storia i personaggi ci sono presentati con schieramenti evidenti: i buoni e i cattivi. Tuttavia nel corso della storia lo sguardo che il film ha su di loro muta e spesso i ruoli si ribaltano. Attanasio ha la forza non comune di puntare il dito con fermezza, di saper indicare chiaramente cosa non vada, ma anche quella di comprendere e compatire la piccineria umana che guarda (e anche in questo sta molto del suo tono fantozziano). Così il povero praticante al pari dell’insolente e pretenziosa “studentessa” che gli viene imposta, lungo il film si svincolano dal loro personaggio e diventano persone. Addirittura anche il grande villain di Castellitto avrà un momento di misera compassione, uno in cui il mostro degli incubi di ogni precario diventa un essere umano.