sabato 7 aprile 2018

The way back – Peter Weir

un film per camminatori, dalla Siberia all'India, in fuga dal gulag.
in mezzo succede di tutto, qualcuno muore, di fame e di sete, c'è anche una ragazza, coccolata e rispettata da tutti.
poi tutto finisce bene, per chi finisce bene.
grandi paesaggi (National Geographic insegna), non è il miglior film che ha fatto Peter Weir, ma un viaggio così non lo farai mai in vita tua, in due ore ti fai un idea.
buona visione - Ismaele





Il film è tratto dal libro di Slavomir Rawicz “The Long Walk” (La lunga marcia è scritto nei titoli di coda ma ripubblicato nel 2011 col titolo italiano ‘Tra noi e la libertà’): l’autore è stato ufficiale dell’esercito polacco prima dell’arresto dai russi per spionaggio (il libro uscì nel 1956). La sceneggiatura è dello stesso regista.
   Si deve dire che la peculiarità principe di Peter Weir è di rappresentare il vero (non certa un destino finto e volutamente ‘pompato’) e di alimentare nello spettatore la curiosità dei vivi che non demordono e della libertà come sogno sentito e non inerme. La natura compiace il regista nel disincanto totale delle immagini dove il filtro è solo dei luoghi (molti ambienti sono stati girati in altri paesi dell’est europeo) e nell’avvolgente rispetto che di essa si deve avere (quando tutto sembra sollievo e quando tutto sembra fatica). Il set non è porsi contro l’inferno da attraversare ma è addomesticare (per quanto possibile) il senso di battaglia dell’uomo anzi lasciare la spada per ‘accumulare’ forzatamente la tempesta e andare oltre per un destino (da conquistare). Libertà e vita, avversione e morte: nel cinema vero del regista australiano gli opposti paiono toccarsi e interagire in un mondo sperduto, lontano e senza vera luce. Sembra che il circolo (‘vizioso’) del film come rappresentazione sia in Weir una fuga che ritorna: dal falso che diventa vero (“Picnic ad Hanging Rock”), al vero che è finto (“The Truman Show”) fino al vero che vuole la verità (“Gallipoli”, “Master and Commander…” fino a quest’ultima pellicola). Il cinema ha delle scappatoie più o meno finte ma il reale (o di quello che di esso si può raccontare) è pur sempre una buona idea e ciò che se ne estranea è solamente un gioco per togliersi il peso di una metafora troppo pesante (il destino si chiude e si schiude a suo piacimento). In un susseguirsi di paesaggi, avversità, disastri, saturazioni ed orizzonti, il set pare un accumulo di vuoti atti a riempirsi non una  somma giacente e piacente (allo spettatore). Una ripresa in stile sempre ad altezza uomo-natura mai a domare il duo e a soverchiare il reale col finto. Una fuga  dagli eventi, una fuga con gli eventi, una fuga dal set (Truman) e una lunga fuga (Janusz).
   Il cast dà una prova di carattere e di immersione nei personaggi: un bravo Colin Farrell riesce a appropriarsi dei panni di un criminale, un grande Ed Harris che dà al personaggio di Mr. Smith vigore e giusta stranezza e tutti riescono a dare una valenza veritiera e convincente (nei nomi di Janusz e Irena). La fotografia di Russell Boyd non diventa mai un effetto turistico e sdolcinato ma ci consegna un pieno di colori scambiali con gli umori (e gli umorali) della natura ben riposta e nascosta; le musiche (di Burckhard von Dallwitz) sono carezzevoli al momento giusto e con lunghe pause dove il silenzio è pieno di segni dei luoghi e dei loro segreti. La regia di Peter Weir si insinua e fa sua la vitalità di una natura che sembra a riposo: come sempre la tecnica giacente e rarefatta dell’australiano riesce a coinvolgere e a scandire i tempi delle immagini.

Il film nonostante la sua lunga durata di 128’ non annoia mai, concentrando l’attenzione degli spettatori sia sulla vicenda narrata, e quindi sullo sviluppo della caratterizzazione dei personaggi, sia sulle immagini  docu-estetiche e naturali proprie del National Geographic. Per quanto riguarda la colonna sonora resta tutta un po’ nascosta, infatti in molte scene il regista preferisce i suoni della natura alla musica. La lotta per la sopravvivenza e le privazioni a cui sono sottoposti i protagonisti rendono il film una grande storia di coraggio e solidarietà umana nella quale un posto centrale lo svolgono le capacità e il coraggio individuali. Non tutti arriveranno in India, molti moriranno prima, ma con la consapevolezza di essere finalmente liberi. La ricerca della libertà è ciò che muove i personaggi ad avanzare senza fermarsi fino in India, dove rimarranno aspettando la fine del regime comunista nel loro paese. Il  film proietta velocemente  i frammenti storici in sequenza dal 1942 al 1989 con i passi in dissolvenza a indicarci che la marcia non si è mai conclusa:  poiché la libertà è un dono prezioso e una volta persa è molto difficile da riconquistare. È uno dei pochi film che,  decentrando il punto di vista dal campo di sterminio tedesco a quello russo, ribadisce il concetto della Storia subita dalle  singole persone, ma anche la convinzione che le stesse possano e sappiano affrontare anche i momenti difficili restituendoci una narrazione a posteriori che può essere il punto di partenza e non di arrivo su cui riflettere. Come diceva Baudelaire  "I veri viaggiatori sono soltanto quelli che partono per partire non si allontano mai dal proprio destino e senza sapere perché, dicono ogni volta: "Andiamo"!

Impreziosito dalla fotografia di Russell Boyd, da sempre occhio fedele di Weir, che da il meglio di sé nel riprendere la grandiosità dei paesaggi (non stupisce affatto che la National Geographic figuri tra i produttori del film) e commentato dalle musiche suggestive di Burkhard von Dallwitz, il film probabilmente avrebbe richiesto una sceneggiatura meno didascalica e meno parlata ma resta uno spettacolo di tutto rispetto, forse un po' troppo lungo e un po' troppo "vecchio stile" per generare grandi entusiasmi ma il tocco di Weir si nota, specie quando riprende gli scorci naturali, gli animali e la morte, con economia ammirevole e senza fronzoli. 
Alla fine il problema di "The Way Back" è stato perfettamente sintetizzato dal David Hughes che su Empire ha scritto: "è un buon film da un regista che ci ha abituato a grandi film".
da qui

Sono in sette, dal buon polacco al feroce harki (l’unico dotato di un utile coltello, e dunque subito accettato dalla compagnia nonostante la sua pericolosità) al bravo disegnatore che anche nei momenti peggiori riusciva ad allietare i prigionieri con le sue caricature, e magari con donne nude. C’è il prete, e via via gli altri, a comporre il solito campionario di tipi umani pronti a entrare in conflitto per le loro diversità caratteriali e dunque a creare drammaturgia e necessario spettacolo. Strada facendo si aggiungerà poi una strana ragazza fuggita da una fattoria collettivizzata. Naturalmente ne capiteranno di ogni, tutto sarà ancora più complicato del previsto, si troveranno a fronteggiare situazioni estreme, prima il grande freddo poi il grande caldo del deserto, l’acqua che non c’è, e se c’è manca il cibo, e allora si rimedia con quel che si trova, insetti schifosi, cortecce d’albero, perfino sassi da succhiare. Nulla ci viene risparmiato, in un repertorio da film di sopravvivenza che attraversa tutti i possibili luoghi comuni e il già visto senza un barlume di originalità, senza uno scarto rispetto alla medietà. Sfiorando anche pericolosamente e senza volerlo qua e là l’effetto Survivor e Isola dei famosi. La mano d’autore di Weir non la si sente mai, nè nelle interazioni tra i personaggi, sempre alquanto elementari, né nelle parti di azione, che si trascinano lentissimamente come in un ieratico film giapponese anni Cinquanta. Senza che peraltro la lentezza diventi leva stilistica, senza che il film produca attraverso la dilatazione del tempo contemplazione, rarefazione, ipnosi, trance. Solo noia…
da qui

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