è l'avventura di un allevatore la cui vita viene sconvolta dalla sofferenza e dalla morte dei propri animali, delle speranze inutili di fronte alla peste che avanza.
alla fine si ferma davanti a una mucca e va via, come Charlie Chaplin in Tempi moderni, ma, a differenza di Charlot, Pierre è solo e il futuro è nero.
i tempi moderni dell'allevamento sono tempi bui.
un piccolo film che merita - Ismaele
…L'introversione e la solitudine di Pierre diventano i
connotati inquietanti della psicologia di un serial killer, la sua
innocenza lascia presto il posto a un fare minaccioso e sinistro. Forse troppo
artificiosamente, Charuel gioca sul cambiamento caratteriale del protagonista,
che nasconde i propri misfatti sia alle autorità che agli amici più intimi. E
nemmeno così naturali appaiono i personaggi secondari, dalla madre apprensiva
alla panettiera innamorata, o alcune scene un po' pretestuose (il ricatto della
polizia) e programmatiche (l'uomo che vuole solo sfruttare le vacche malate per
visibilità).
"Petit paysan" ha però il grandissimo pregio
di essere un film perfettamente attuale, sul mondo del lavoro nel ventunesimo
secolo e sulla paranoia che caratterizza l'uomo moderno. Nonostante infatti l'argomento
al centro del lungometraggio, Charuel non si sottrae alla descrizione delle
nuove tecnologie, ma anzi mostra come esse abbiano influenzato lo stile di vita
dei fattori; non si limita a una semplice dichiarazione d'amore verso un
mestiere sempre meno praticato, ma riprende - senza facili condanne o prese di
posizione - anche il suo rapporto con YouTube, Internet, cellulari.
Ed è per questo che il protagonista di "Petit
paysan" si scopre, esattamente come l'uomo contemporaneo, tormentato dalla
paranoia. Pierre ha paura di perdere ogni cosa, frequenta siti creati da gente
con il timore degli illuminati dell'Unione Europea, si gratta ossessivamente
dietro la spalla destra (anche lui sembra aver contratto una malattia, forse la
stessa che affligge i suoi animali). L'epidemia che colpisce le vacche del
fattore diventa, allora, allegoria della società dei consumi, la quale sta
progressivamente sopprimendo le campagne francesi. Il mondo del protagonista è
destinato a scomparire, proprio come le bestie che lo circondano: basti vedere
quanta malinconia possiede l'immagine della vacca che, sul finale, viene posta
da un braccio meccanico all'interno di un container. E nella figura di Pierre
che, camminando, si allontana dalle mucche, dirigendosi verso un luogo a lui
sconosciuto, c'è tutto il dramma della contemporaneità.
Più che scrivere di questo bel film bisognerebbe
descrivere.
Descrivere lo sguardo, tra l’attonito, lo spaventato e
il pensieroso, del protagonista Pierre.
Nei suoi occhi, occhi strani, che sporgono appena
fuori da quel viso (ir)regolare e triangolare, sotto ad una capigliatura che da
biondo sta passando troppo precocemente all’argento, occhi che raccontano
l’incubo che sta vivendo nella sua tanto amata fattoria di allevamento di
pregiate mucche da latte. Anzi, lui in verità non le alleva, ci vive assieme
come capita a quegli allevatori che amano non solo il proprio lavoro ma lo
ritengono una vera missione di vita, dando l’intera vita non solo in senso
temporale ma anche come impegno e dedizione. E che amano le loro bestie fino a
conviverci come una famiglia numerosa, anche se un po’ ingombrante. Basti
osservare attentamente la sequenza iniziale quando Pierre si sveglia una mattina, una delle tante
della sua vita, tutte uguali l’una all’altra, perché quel faticoso lavoro in
fondo è sempre uguale, sempre ripetitivo, gli stessi gesti, gli stessi lavori,
gli stessi orari, altrimenti le mucche soffrono. Lui si sveglia e ha la casa
invasa dalle sue bestie, bellissime e grosse bestie nere pezzate di bianco, che
vagano non solo per la grande fattoria ma anche per la casa, quando capita.
Tant’è che quella mattina ce n’è una che lo osserva alzarsi proprio così come
fa un cane che aspetta che il padrone si svegli, pazientemente, come sanno fare
solo le mucche, sempre elogiate dai poeti per la loro mansuetudine…
…Hubert Charuel, 32 anni, dimostra di conoscere bene la materia
in quanto figlio di allevatori della Haute-Marne. Nell’azienda di famiglia ha
lavorato per qualche tempo prima di intraprendere gli studi di cinematografia.
Questa sua opera prima mostra con un taglio quasi documentaristico una vita
grama, fatta di amore per le bestie ma soprattutto di sacrificio e di
frustrazione nel tentativo di superare gli ostacoli che madre natura frappone
all’attività. In questo senso va inteso l’appellativo di ‘eroe singolare’, eroe
involontario si direbbe, che il regista aggiunge al Petit Paysan. E’ un film duro, che non ammicca per
nulla allo spettatore. Dopo averlo visto penso che in molti guarderemo con
occhi diversi chi fa l’allevatore, per lo meno a questi livelli.
…Questo è un film materico e carnale. La possanza e
anche la bellezza delle mucche domina la scena, occupa i giorni e anche le
notti, tornando nei sogni e incubi di Pierre, i loro corpi si impossessano
dello spazio schermico soggiogandoci. E in tempi di non-mestieri fighetti e fuffeschi
come gli attuali – dove trionfa l’immaterialità digitale, dove le nuove figure
di riferimento per legioni di giovani e giovanesse sono gli influencer – che
bello vedere un trentenne che si sporca letteralmente la mani, che spala il
letame, che accudisce e pulisce le sue mucche e, se occorre, le aiuta a
partorire tra sangue e ogni genere di umori. Non per contrapporre la sana
campagna ai vizi della smidollata metropoli – ché il rischio è di cadere
nel fanatismo della banda dei quattro che mandava gli intellettuali a morire di
fatica nelle campagne -, ma insomma verrebbe voglia di vedere qualche inflencer
e fashion blogger spalare il letame, e non in un reality tipo La fattoria et similia, e senza Instagram a
immortalare il sacrificio a uso dei follower. L’altro lato assai interessante
di Petit Paysan sta nel come intercetta, credo del
tutto involontariamente e senza la minima pretesa di fotografare l’attualità,
la rabbia di tanta Francia profonda – ma si potrebbe dire di tanta Europa
profonda – contro le élite. La rabbia di Pierre contro chi gli impone di
abbattere i suoi animali in base a regole astratte e imperscrutabili è simile a
quella che tanti, oggi, rivolgono contro poteri percepiti come lontani e che ha
alimentato la carica dei nuovi populismi. Dal film traspaiono chiari lo
smarrimento e il senso di impotenza verso regole rigidissime varate dall’Europa
in tema di politica agricola e sicurezza alimentare, sovraccaricando chi il
lavoro agricolo e di allevamento ancora lo fa di un pulviscolo soffocante di
lacci e lacciuoli burocratici. Pierre come inconsapevole, e sottolineo
inconsapevole, incarnazione della Francia contadina che per protesta ha votato
Marine Le Pen? All’incontro di Milano con stampa e pubblico i regista ha
risposto con decisione: “Il mio protagonista non vota Le Pen, ve lo assicuro”,
e però la sensazione di una certa consonanza tra Petit Paysan e lo Zeitgeist populista resta,
nonostante e al di là delle stesse intenzioni dell’autore…
…C’è chi ha elogiato il documentarismo delle scene con gli
animali, e invece anche qui Petit paysan
dà l’impressione di barare in maniera apparentemente molto astuta: non c’è
sporcizia, non c’è fatica, non c’è sacrificio nel mondo del giovane Pierre,
tutto anzi è pulito e lindo finché non arriva la malattia. E, in tal senso,
basti pensare a un film – con anche qualche limite – come Lorello e Brunello di Jacopo Quadri, per certificare come il realismo
nella descrizione della vita di campagna sia ben percepibile nel film di
Quadri, mentre viene tenuto a debita distanza da Charuel. E allora costa resta?
Resta il flebile afflato di dolore di un protagonista cui è impossibile
affezionarsi e resta anche, in sottofondo, la sgradevole sensazione dello
sfruttamento a uso drammaturgico delle povere mucche, come nella sequenza –
inutilmente indugiante – della sofferta venuta al mondo di un agnellino da
latte. Se questo è il nuovo cinema europeo, di quest’Europa sempre più in
confusione, non c’è da stare troppo allegri.
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