domenica 1 aprile 2018

Petit Paysan - Un eroe singolare - Hubert Charuel

un thriller dove i morti sono delle mucche, per mano del loro allevatore, che le ha cresciute come persone di casa.
è l'avventura di un allevatore la cui vita viene sconvolta dalla sofferenza e dalla morte dei propri animali, delle speranze inutili di fronte alla peste che avanza.
alla fine si ferma davanti a una mucca e va via, come Charlie Chaplin in Tempi moderni, ma, a differenza di Charlot, Pierre è solo e il futuro è nero.
i tempi moderni dell'allevamento sono tempi bui.
un piccolo film che merita - Ismaele





…L'introversione e la solitudine di Pierre diventano i connotati inquietanti della psicologia di un serial killer, la sua innocenza lascia presto il posto a un fare minaccioso e sinistro. Forse troppo artificiosamente, Charuel gioca sul cambiamento caratteriale del protagonista, che nasconde i propri misfatti sia alle autorità che agli amici più intimi. E nemmeno così naturali appaiono i personaggi secondari, dalla madre apprensiva alla panettiera innamorata, o alcune scene un po' pretestuose (il ricatto della polizia) e programmatiche (l'uomo che vuole solo sfruttare le vacche malate per visibilità).
"Petit paysan" ha però il grandissimo pregio di essere un film perfettamente attuale, sul mondo del lavoro nel ventunesimo secolo e sulla paranoia che caratterizza l'uomo moderno. Nonostante infatti l'argomento al centro del lungometraggio, Charuel non si sottrae alla descrizione delle nuove tecnologie, ma anzi mostra come esse abbiano influenzato lo stile di vita dei fattori; non si limita a una semplice dichiarazione d'amore verso un mestiere sempre meno praticato, ma riprende - senza facili condanne o prese di posizione - anche il suo rapporto con YouTube, Internet, cellulari.
Ed è per questo che il protagonista di "Petit paysan" si scopre, esattamente come l'uomo contemporaneo, tormentato dalla paranoia. Pierre ha paura di perdere ogni cosa, frequenta siti creati da gente con il timore degli illuminati dell'Unione Europea, si gratta ossessivamente dietro la spalla destra (anche lui sembra aver contratto una malattia, forse la stessa che affligge i suoi animali). L'epidemia che colpisce le vacche del fattore diventa, allora, allegoria della società dei consumi, la quale sta progressivamente sopprimendo le campagne francesi. Il mondo del protagonista è destinato a scomparire, proprio come le bestie che lo circondano: basti vedere quanta malinconia possiede l'immagine della vacca che, sul finale, viene posta da un braccio meccanico all'interno di un container. E nella figura di Pierre che, camminando, si allontana dalle mucche, dirigendosi verso un luogo a lui sconosciuto, c'è tutto il dramma della contemporaneità.
Più che scrivere di questo bel film bisognerebbe descrivere.
Descrivere lo sguardo, tra l’attonito, lo spaventato e il pensieroso, del protagonista Pierre.
Nei suoi occhi, occhi strani, che sporgono appena fuori da quel viso (ir)regolare e triangolare, sotto ad una capigliatura che da biondo sta passando troppo precocemente all’argento, occhi che raccontano l’incubo che sta vivendo nella sua tanto amata fattoria di allevamento di pregiate mucche da latte. Anzi, lui in verità non le alleva, ci vive assieme come capita a quegli allevatori che amano non solo il proprio lavoro ma lo ritengono una vera missione di vita, dando l’intera vita non solo in senso temporale ma anche come impegno e dedizione. E che amano le loro bestie fino a conviverci come una famiglia numerosa, anche se un po’ ingombrante. Basti osservare attentamente la sequenza iniziale quando Pierre si sveglia una mattina, una delle tante della sua vita, tutte uguali l’una all’altra, perché quel faticoso lavoro in fondo è sempre uguale, sempre ripetitivo, gli stessi gesti, gli stessi lavori, gli stessi orari, altrimenti le mucche soffrono. Lui si sveglia e ha la casa invasa dalle sue bestie, bellissime e grosse bestie nere pezzate di bianco, che vagano non solo per la grande fattoria ma anche per la casa, quando capita. Tant’è che quella mattina ce n’è una che lo osserva alzarsi proprio così come fa un cane che aspetta che il padrone si svegli, pazientemente, come sanno fare solo le mucche, sempre elogiate dai poeti per la loro mansuetudine…

…Hubert Charuel, 32 anni, dimostra di conoscere bene la materia in quanto figlio di allevatori della Haute-Marne. Nell’azienda di famiglia ha lavorato per qualche tempo prima di intraprendere gli studi di cinematografia. Questa sua opera prima mostra con un taglio quasi documentaristico una vita grama, fatta di amore per le bestie ma soprattutto di sacrificio e di frustrazione nel tentativo di superare gli ostacoli che madre natura frappone all’attività. In questo senso va inteso l’appellativo di ‘eroe singolare’, eroe involontario si direbbe, che il regista aggiunge al Petit Paysan. E’ un film duro, che non ammicca per nulla allo spettatore. Dopo averlo visto penso che in molti guarderemo con occhi diversi chi fa l’allevatore, per lo meno a questi livelli.

Questo è un film materico e carnale. La possanza e anche la bellezza delle mucche domina la scena, occupa i giorni e anche le notti, tornando nei sogni e incubi di Pierre, i loro corpi si impossessano dello spazio schermico soggiogandoci. E in tempi di non-mestieri fighetti e fuffeschi come gli attuali – dove trionfa l’immaterialità digitale, dove le nuove figure di riferimento per legioni di giovani e giovanesse sono gli influencer – che bello vedere un trentenne che si sporca letteralmente la mani, che spala il letame, che accudisce e pulisce le sue mucche e, se occorre, le aiuta a partorire tra sangue e ogni genere di umori. Non per contrapporre la sana campagna ai vizi della smidollata metropoli  – ché il rischio è di cadere nel fanatismo della banda dei quattro che mandava gli intellettuali a morire di fatica nelle campagne -, ma insomma verrebbe voglia di vedere qualche inflencer e fashion blogger spalare il letame, e non in un reality tipo La fattoria et similia, e senza Instagram a immortalare il sacrificio a uso dei follower. L’altro lato assai interessante di Petit Paysan sta nel come intercetta, credo del tutto involontariamente e senza la minima pretesa di fotografare l’attualità, la rabbia di tanta Francia profonda – ma si potrebbe dire di tanta Europa profonda – contro le élite. La rabbia di Pierre contro chi gli impone di abbattere i suoi animali in base a regole astratte e imperscrutabili è simile a quella che tanti, oggi, rivolgono contro poteri percepiti come lontani e che ha alimentato la carica dei nuovi populismi. Dal film traspaiono chiari lo smarrimento e il senso di impotenza verso regole rigidissime varate dall’Europa in tema di politica agricola e sicurezza alimentare, sovraccaricando chi il lavoro agricolo e di allevamento ancora lo fa di un pulviscolo soffocante di lacci e lacciuoli burocratici. Pierre come inconsapevole, e sottolineo inconsapevole, incarnazione della Francia contadina che per protesta ha votato Marine Le Pen? All’incontro di Milano con stampa e pubblico i regista ha risposto con decisione: “Il mio protagonista non vota Le Pen, ve lo assicuro”, e però la sensazione di una certa consonanza tra Petit Paysan e lo Zeitgeist populista resta, nonostante e al di là delle stesse intenzioni dell’autore…

C’è chi ha elogiato il documentarismo delle scene con gli animali, e invece anche qui Petit paysan dà l’impressione di barare in maniera apparentemente molto astuta: non c’è sporcizia, non c’è fatica, non c’è sacrificio nel mondo del giovane Pierre, tutto anzi è pulito e lindo finché non arriva la malattia. E, in tal senso, basti pensare a un film – con anche qualche limite – come Lorello e Brunello di Jacopo Quadri, per certificare come il realismo nella descrizione della vita di campagna sia ben percepibile nel film di Quadri, mentre viene tenuto a debita distanza da Charuel. E allora costa resta? Resta il flebile afflato di dolore di un protagonista cui è impossibile affezionarsi e resta anche, in sottofondo, la sgradevole sensazione dello sfruttamento a uso drammaturgico delle povere mucche, come nella sequenza – inutilmente indugiante – della sofferta venuta al mondo di un agnellino da latte. Se questo è il nuovo cinema europeo, di quest’Europa sempre più in confusione, non c’è da stare troppo allegri.

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