martedì 28 aprile 2015

Il Pane Nudo - Rachid Benhadj

tratto dall'omonimo romanzo di Mohamed Choukri, racconta la storia di un ragazzino che da bambino conosce fame e violenza e sfruttamento, lo salvano l'amore delle donne e la cultura, inizia a scrivere e a leggere da grande, in prigione.
il film percorre per episodi la vita di Mohamed, da quando era bambino fino a quando diventa adulto, nella Tangeri e nel Marocco della liberazione e della decolonizzazione.
film duro, come la vita del protagonista, da non perdere, un film che merita - Ismaele



qui 
un'intervista con il regista
 


qui un'intervista con lo scrittore Mohamed Choukri

qui riflessioni degli alunni delle classi terze A e B di Monte San Savino (Arezzo)

È la storia di Mohamed Choukri, nato nel Rif e trasferitosi a Tangeri con la famiglia per sfuggire alla povertà, ritrovandosi a patire ogni stento con un padre violento e alcolizzato - che ucciderà il fratello - e una madre troppo devota alla religione e al marito. Fino a vent'anni, Choukri vive di sotterfugi, conosce solo la fame e l'unico calore che riceve è l'amore comprato in una casa chiusa; poi, nella prigione dov'era finito per una retata, conosce un rivoluzionario che gli insegna a scrivere, tirandolo fuori dal buio dell'analfabetismo. Il suo primo romanzo autobiografico, Il pane nudo, esce nel 1960 e diventa un caso letterario, un classico apprezzato nel resto del mondo ma censurato nei paesi arabi a causa della sua crudezza.
Per anni molti sceneggiatori avrebbero voluto adattare per il grande schermo la vicenda, ma Choukri non ha voluto altri che Rachid Benhadj…

Miseria e infanzia negata nella Tangeri del '42. Il film di Rachid Benhadj emoziona come il romanzo omonimo di Choukri “Un testo nudo nella verità del vissuto, nella semplicità delle prime emozioni” ha scritto Tahar Ben Jelloun del libro Il pane nudo di Mohammed Choukri. Analogamente si può dire del film di Rachid Benhadj, a cui ha collaborato lo stesso scrittore marocchino, morto nel 2003. Lo stile scarno, crudo, emozionante del best–seller autobiografico di Choukri (fu candidato al Nobel per la letteratura) rivive nel film. Sullo schermo scorre impietosa la terribile infanzia del piccolo Mohamed, vittima della miseria e di un padre violento, che ne picchia la madre indifesa e gli uccide il fratellino perché piange troppo. Mohamed è come i suoi coetanei della Tangeri del ’42, un monello che si ciba dai cassonetti dei quartieri degli occidentali, dove anche i rifiuti sono migliori. La fuga, da adolescente. Ma Tangeri è fatta di povertà, prostituzione, violenza per i meno fortunati. Quella di Mohammed è anche fuga verso la libertà, una libertà che, ventenne, trova in prigione grazie al potere del sapere…

…Il pane nudo" si affida completamente alla nuda storia senza molto aggiungere, caricandola talvolta eccessivamente alla continua ricerca d'effetto, quasi a voler fare di ogni episodio un exemplum: Benhaadj tende a polarizzare con un certo didascalismo (è stato insegnante), attendendosi saldamente a un preciso sistema di valori, e poiché racconta un percorso iniziatico dei più classici (e frequentati dalla tradizione araba), tale scelta consente di oscillare tra un registro quasi favolistico, la realistica crudezza del romanzo e una tensione disperatamente politica. Said Taghmaoui, ormai consolidato volto arabo all'europea, è bravo ma forse poco adatto alla parte, troppo sicuro e penetrante nello sguardo; le due principali figure femminili, appesantite da un certo schematismo "idealistico" (madre-martire/amante-folle), sono interpretate da Soraya Arterse e Marzia Tedeschi con intensità talvolta lacerante. Sono loro, in fondo, l'arteria pulsante del film, come specchio e contrappunto per Mohamed e per l'intero mondo arabo; l'occidente con cui fare i conti è in realtà sepolto tra le mura domestiche, irrequieto e silenziosamente indomabile. Soltanto chi, come Mohamed,  ha conosciuto due prigioni (la casa e la galera propriamente detta) può parlare due lingue e liberare il suo sguardo oltre qualsiasi muro.

"Il capolavoro di Benhadj per la trasposizione del romanzo omonimo. Un lungometraggio intensamente drammatico e messo in scena con una certa abilità. Le immagini raccontano la rivolta personale del giovane Mohamed contro un padre oppressivo e violento che tormenta giorno dopo giorno il giovane ragazzo. Bellissima l'ambientazione a cavallo tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, ma sono le immagini crude quelle che restano più impresse dalla visione mentre quelle sottointese stuzzicano la fantasia dello spettatore." (Il Davinotti)

lunedì 27 aprile 2015

Mikey e Nicky - Elaine May

Peter Falk e John Cassavetes sono straordinari, in questa storia di amicizia e tradimento.
molte scene sono indimenticabili, l'ultima più di tutte.
il film è stato girato nel 1973, ma è apparso in sala solo tre anni dopo.
accade tutto in una notte, i due amici ricordano tante cose di quando erano d'accordo, e no, si leggono reciprocamente la vita.
il film non sarà perfetto, ma chi se ne importa, è bellissimo - Ismaele




… Falk and Cassavetes are both fantastic, but again I may be stating the obvious.  There’s a lot of subtle facial work going on here, and at times it’s fascinating just to watch Falk study Cassavetes.  The two have a well-seasoned give and take, and the dialogue pops without ever coming off as forced.  One nitpick, though.  The engaging realism of the film is momentarily dashed when a very obvious boom mike appears and is suddenly yanked out of frame.  Yeah, I know it’s a silly thing to even comment on, but it is one of those things that “takes you out of the film”.
Still, it’s a terrific dual character study, two morally gray personalities at odds with each other more than they realize, with a very sober ending.
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Nick (Cassavetes), braccato dalla mafia e in stato di paranoia, chiede aiuto al suo amico Mikey (Falk): i due trascorreranno insieme una movimentata notte, fino all'alba. Travagliatissimo film - quasi tutto improvvisato sul set - che costò a Elaine May un'assenza dalle scene di molti anni per divergenze con la produzione. Ottima prova dei due grandi attori (Falk è immenso, Cassavetes un po' autoindulgente). Un film interessante e originale che restituisce il sapore unico degli Anni '70.


The film takes place over the course of a night as the two friends go over old ground together, notably visiting Nick's mother's grave. The film has no obvious character arc, and only the dialogue leads us specifically and irrevocably to a foregone conclusion. Very carefully scripted, it sounds improvised and messy, like the thought process of real human beings…
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"Mikey e Nicky" è un noir ingiustamente poco conosciuto e soprattutto abbastanza irreperibile. Eppure è un gran bel film. Un film soprattutto di attori, due grandissimi interpreti come Peter Falk e John Cassavetes che nella vita erano anche grandi amici. La regista, Elaine May (suo il divertente "E' ricca, la sposo e l'ammazzo") si adegua a questi due grandi interpreti, lasciando loro piena libertà di improvvisare e di rendere in libertà la descrizione dei loro personaggi. Da un lato c'è Nicky (Cassavetes), un uomo allo stremo, paranoico, nevrotico, sempre sull'attenti perchè sa che da un momento all'altro lo uccideranno. Dall'altra Mikey (Falk), vecchio ed unico amico di Nicky, con il quale ha un rapporto conflittuale e che vorrebbe tradire. Tutta la storia è ambientata nell'arco di una notte, una notte in cui verranno al pettine le ruggini del passato e le paure del presente. Il finale è di quelli che non si scordano, perchè "ti lascia il freddo addosso" (Morandini). Gran film, da riscoprire e assolutamente da vedere per chi è fan di Cassavetes.
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While the almost two hour running time and lack of any real action set pieces may place the film in the realm of unaccessibility for some crime film fans, Mikey And Nicky is an underrated and often overlooked film that will appeal to anyone impressed by solid direction and great acting…

giovedì 23 aprile 2015

Ararat – Atom Egoyan

nel 2002 Atom Egoyan, canadese di origini armene, dirige “Ararat”, un film ad incastri su un film diretto da un regista di nome Edward Saroyan, interpretato da Charles Aznavour.
è un film che non convince del tutto, e che allo stesso tempo merita di essere visto.
c’è l’urgenza di raccontare una pagina non pacificata, di ricordare, di testimoniare.
e all’inizio del film il regista Saroyan taglia un melograno, sarà una citazione del film di Parajanov? - Ismaele




 La force du film consiste à donner à voir sur l’écran les effets du génocide des Arméniens et de son absence de reconnaissance. Le " film dans le film ", cetArarat dont des mouvements de caméra soulignent toujours qu’il n’est qu’un film en s’arrêtant, après chaque prise, sur les techniciens et la caméra qui la filment – est ici le catalyseur de ces multiples effets. Ce qui en est fait, ce qui se dit autour de ce film imaginaire, représente, dans le film d’Egoyan, la difficulté politique qu’a ce film réel à se faire, à se dire, et à être perçu.

Egoyan is one of Canada's best and most respected directors. He and his wife, the actress Arsinee Khanjian, are Canadians of Armenian descent. When he told his children of the massacre, he has said in interviews, they wanted to know if Turkey had ever apologized. His answer is contained in "Ararat." Unfortunately, it is couched in such a needlessly confusing film that most people will leave the theater impressed, not by the crime, but by the film's difficulty. Egoyan's work often elegantly considers various levels of reality and uses shifting points of view, but here he has constructed a film so labyrinthine that it defeats his larger purpose….

Ararat non è un film riuscito, è un film importante, per molti motivi, ma vederlo significa assistere alla messa in scena di un fallimento.
Eppure…
Eppure ciò che colpisce in quest’opera a tratti ridondante è la profonda, la commovente autocoscienza del suo autore, l’onestà della sua resa di fronte a ciò che non può esprimere.
Onestà nell’esporre senza compiacimenti la propria malinconica perplessità sotto il peso della Storia, di fronte al dolore: quello privato e quello condiviso che si confondono l’uno nell’altro.
Del resto tutto il cinema di Egoyan si regge sul paradosso di raccontare, attraverso le (belle) immagini, l’impotenza delle immagini stesse a farsi portatrici di verità.
Il regista sa che non potrà rappresentare l’irrappresentabile, che non potrà produrre le prove dello sterminio, le evidenze del dolore, e risolverle in una liberatoria quanto artificiosa commozione.
Alla fine del film il pittore Arshile Gorky, esule armeno morto suicida nel 1948, è di fronte al dipinto che lo ritrae bambino accanto alla madre, ricordo di una foto scattata pochi giorni prima della strage. L’opera è compiuta, ma l’ultimo gesto di Gorky cancella le mani materne. In questa incompiutezza voluta come necessaria sta forse il senso ultimo di un film che non convince e che non si riesce a dimenticare.


Sayat Nova (Il colore del melograno) - Sergei Parajanov

Sayat Nova è un poeta armeno del settecento.
Sergei Parajanov (o Paradzanov) è un regista russo del novecento, che ha fatto un film su Sayat Nova, uno di quei film che non si possono raccontare.
e questa colpa, fare un film di poesia e bellezza, Sergei Parajanov l'ha pagata a caro prezzo.
è un film unico, guardatelo, aprite quella porta, come dice Martin Scorsese  - Ismaele








ecco le parole di Scorsese: “Guardare Il colore del melograno, o Sayat Nova, di Sergej Paradžanov è come aprire una porta ed entrare in un’altra dimensione dove il tempo si è fermato e la bellezza si manifesta senza costrizioni. A un primo livello di lettura, il film narra la vita del poeta armeno Sayat Nova. Ma è soprattutto un’esperienza cinematografica dalla quale si esce recando con sé immagini, reiterate movenze espressive, costumi, oggetti, composizioni, colori. Sayat Nova visse nel Settecento, ma le immagini e i movimenti del film sembrano venire dal medioevo o da tempi ancora più antichi: i tableaux cinematografici di Paradžanov sembrano intagliati nel legno o nella pietra e i colori paiono essersi materializzati naturalmente dalle immagini nel corso dei secoli. È un film assolutamente unico. Sognavamo da molti anni di vedere Sayat Nova nella forma originariamente voluta da Paradžanov”.

Il film è incentrato sulla vita di Sayat-Nova, grande poeta armeno del Settecento. Parajanov, nella concezione stessa del film, esprime una riflessione teorica sulla biografia di un’artista al cinema, scegliendo una via inedita, non una storia romanzata, drammatizzata della vita o un’agiografia, non un film che rilegge la biografia di un autore attraverso la sua opera, almeno non direttamente. Parajanov ha composto l’illustrazione di un mondo pittorico che scaturisce dalla poesia di Sayat-Nova, la sua visualizzazione in immagini. La fattura pittorica si esprime in una tavolozza cromatica dove i colori spesso strasbordano, sconfinano e si diffondono. Il rosso del succo delle melagrane che imbibisce un telo, il sangue che sgorga dei montoni sacrificati, il succo dell’uva pigiata, le tinture dei tessuti, il diffondersi dei fluidi spremuti e aspersi. Ma sono strizzati anche i libri antichi, pressati e poi aperti, disseminati sui tetti, sfogliati dal vento: la poesia viene estratta dalle pagine ingiallite, fatta sgorgare e diffusa nell’aria….

Il ritmo è lento, difficile ormai per le nostre abitudini, ma la scrittura è dedicata non agli addetti ai lavori, bensì all’umanità intera. Nascita, morte, passione, scelte, poesia, spiritualità, paura, vengono raccontate senza soluzione di continuità attraverso una narrazione intuitiva per nulla didascalica che non illumina tutto lasciando nella lettura delle zone d’ombra inintelligibili o ambigue ma che, alla fine, risulta essere di una semplicità disarmante. Il regista dimostra un profondo rispetto per lo spettatore e la sua intelligenza, considerandolo in grado, ma soprattutto lasciandolo libero, di leggere le immagini secondo la sua personale sensibilità e intuito. Forse, per lasciarci trasportare nel dominio della poesia e dei misteri dell’umanità, Paradžanov ci invita a sospendere per un attimo l’azione chiarificatrice e prepotente della ragione: come a voler dire che in queste remote regioni dell’essere gli occhi che servono per orientarsi, sono bendati…

Se i funzionari della critica cinematografica sovietica bollavano di calligrafismo ed estetismo i filmTarkovskij, ci possiamo immaginare come nei giudizi sul cinema di Paradzanov abbondassero termini quali «ermetismo ed estetismo decadente». In effetti, è evidente la vicinanza tra il cinema tarkovskiano e quello di Paradzanov, quamto meno nel periodo in cui uscì questo Il colore del melograno, successivo al capolavoro del regista russo Andrej Rubl­ëv (1966), ma anche al proprio precedente Le ombre degli avi dimenticati (1964). Come Tarkovskij, anche Paradzanov predilige - in maniera perfino più radicale - un cinema il cui fulcro sia il montaggio "interno" all'inquadratura, nel quale ogni sequenza si traduce in una composizione pittorica, dai risvolti simbolici, che fuoriescono dalle posizioni, dai movimenti, dai colori, dalle musiche, dai rumori e dalle parole, che raramente sono recitate dai personaggi e più spesso piovono declamate dal cielo….

È stato William Morris a dire che sarà la bellezza a salvarci. Chi volesse incominciare a salvarsi attraverso la bellezza può guardare Sayat Nova-Il colore del melograno, girato nel 1968 da Sergej Paradžanov. Dire guardare è impreciso e riduttivo, ma per Sayat Nova ogni termine è impreciso e riduttivo. Ne parliamo come di un film ma in realtà è puramente incidentale che quest’opera usi come supporto la pellicola. Ne parliamo come di un’opera cinematografica quando in realtà si tratta di una sacra rappresentazione, di un poema visivo, di una finestra spalancata sull’abisso dell’immaginazione: l’immaginazione che ci connette ai livelli più alti e sconosciuti della coscienza e della conoscenza…

Non stupisce che un film del genere, in cui domina una componente spirituale e un approccio surreale alle tradizioni culturali del popolo armeno, sia dispiaciuto, alla sua uscita, ai burocrati e ai potenti di quella che allora (1968) si chiamava URSS. Il governo sovietico (che obbligò tra l’altro il regista a modificare il titolo originario “Sayat Nova” in “Il colore del melograno”) esercitò infatti notevoli pressioni sull’artista Paradjanov, accusandolo di aver deviato enormemente dai canoni del realismo socialista, per poi condannare anche l’uomo a cinque anni in un campo di riabilitazione con l’accusa di omosessualità e furto. Contro la condanna si mossero alcuni artisti e colleghi registi, e Paradjanov fu liberato, ma gli fu negato, per alcuni anni, di dirigere altri film…

…Think Holy Mountain as directed by Pasolini and you may be getting close. The result, in theory, is boring in an ultimately artsy way, offering no conventional insight into this poet's life and work, but the images are so striking and poetic that they nevertheless result in a unique and astonishing cinematic experience. It's like walking through a museum of paintings that move.
da qui



mercoledì 22 aprile 2015

Election – Alexander Payne

Alexander Payne (il cui vero nome è Alexander Constantine Papadopoulos) è qui al suo secondo lungometraggio, dopo Citizen Ruth.
una sceneggiatura a orologeria, che non fa mai calare la tensione.
potrebbe sembrare un filmetto leggero, poi ti accorgi che è un film denso, con ottime interpretazioni e che si può leggere come una satira del sistema, dalla scuola in su, o magari solo un gran bel film.
da non perdere, non ve ne pentirete - Ismaele




Now here is a movie that is not simply about an obnoxious student, but also about an imperfect teacher, a lockstep administration, and a student body that is mostly just marking time until it can go out into the world and occupy valuable space. The movie is not mean-spirited about any of its characters; I kind of liked Tracy Flick some of the time, and even felt a little sorry for her. Payne doesn't enjoy easy targets and cheap shots. What he's aiming for, I think, is a parable for elections in general--in which the voters have to choose from among the kinds of people who have been running for office ever since high school.
da qui


All'epoca dell'uscita questo gioiellino di black comedy fu poco apprezzato dal grande pubblico (sia in Italia che negli Stati Uniti, fatte le debite proporzioni, passò in un numero ristretto di sale), ma riscosse al contrario un ottimo successo di critica, sia in patria che qui da noi. L'allora sconosciuto Alexander Payne, futuro regista di A proposito di Schmidt (2002) e soprattutto dell'ultimo brillante Sideways (2004), si fece infatti notare per la prima volta proprio con Election, commedia nera e satira pungente incentrata sull'oceano che c'è nel mezzo, quando si parla di esseri umani, tra il dire e il fare…

Election potrebbe sembrare un cupo dramma adolescenziale, ma si tratta di una commedia acida e spesso esilarante, un film più innovativo di quanto possa sembrare ad una visione distratta, grazie al realismo che lo permea e al ritmo sostenuto. Alexander Payne e lo sceneggiatore Jim Taylor hanno una visione precisa di ciò che vogliono raccontare, ed il messaggio arriva forte e chiaro, non compromesso da altre voci.

Election 's ironic approach is uncommon in American cinema today. The ability of audiences to appreciate its subtleties may be weakened by too many over-the-top gags and lapses into facetiousness. But the film's value lies in its relatively clear-eyed and perceptive glance at the conformity, banality and mediocrity that lies like a foul cloud over so much of American life. What are the choices offered the film's characters? Either submit to this conformity, or challenge authority and become an outcast. “Destiny” is a recurring theme in the film. (Tammy and Lisa: We were “destined to be together.” Tracy Flick: “Don't mess with destiny.”) Perhaps the best thing this film has to say is that we should be a bit less willing to accept this "destiny," and somewhat more critical of what life has to offer.

"Election" è la dimostrazione di come si possano fare film originali, spiazzanti, divertenti, sottilmente eversivi, anche partendo dalle situazioni più trite: un classico dei classici, per il cinema e la TV statunitense degli ultimi 20 anni, foriero di impresentabili fetecchie, è il "teen-movie". Ambientazione: high-school. Personaggi: maestri sfigati e/o allupati; alunna secchiona/odiosa/sexy; alunna pacioccona/problematica dal piglio "tranchant"; alunno stupido/buono/atletico. E il solito meltin-pop di comprimari. Aggiungiamoci soundtrack da mainstream 90's alla Chris Columbus e una messinscena dove ogni artificio (dai frequenti fermo-immagine al dolly che si eleva all'interno di una cameretta) è votato alla costante ricerca di un risvolto ironico. C'erano tutti i presupposti per un'insopportabile commediola yankee leziosa, esibizionista e, in fin della fiera, insincera. E invece no. Payne riesce laddove pochi altri sono riusciti…


Inizia così:




martedì 21 aprile 2015

Figlio di nessuno - Vuk Ršumovic

una straordinaria opera prima, una parabola sull'umanità, senza salvarla.
la storia di un bambino selvaggio che incontra di tutto, un compagno che lo protegge, un educatore che gli vuole bene davvero, dei compagni che lo maltrattano, l'amicizia di una bambina, la guerra.
era meglio coi lupi, senza dubbio.
l'attore bambino è bravissimo, e tutti sono convincenti.
il film non ha bisogno di tante parole, il regista non fa prediche, solo mostra.
un po' Truffaut, un po' Herzog, ma anche Algernon, in qualche modo, Haris sopratutto.
è presente solo in una decina di sale,  non perdetevelo, non ve ne pentirete - Ismaele







…Una volta tanto che un film così, fuori dalle grandi correnti del mercato, ce la fa ad arrivare nei cinema italiani, è il caso di non perderselo…

…Il dissidio al centro di Figlio di nessuno infatti, non è tra natura e cultura, bensì tra identità naturale e identità etnica, tra la wilderness lussureggiante e quella di un focolaio di conflitti etnico-religiosi pronti a deflagrare. Paradossalmente (ma non troppo) dunque, il percorso di crescita di Pućke verso le regole e il linguaggio della così detta civiltà, assume il valore di una “mala educazione”, guadagnata attraverso l’abbandono delle regole del vivere secondo natura per abbracciare le ben più spietate e ingiuste leggi umane.
Vuk Ršumović ci immerge nel percorso del protagonista facendone una sorta di esperienza sensoriale, galvanizzata da una macchina da presa spesso ondeggiante e da numerosi dettagli per nulla casuali, illuminati da una notevole plasticità estetica. Si tratta di scelte registiche che accompagnano perfettamente la graduale de-formazione di Pucke, contribuendo a creare una forte tensione emotiva e amplificando l’imprevedibilità delle azioni del personaggio, il cui mistero pare sempre sul punto di scardinare le maglie di una narrazione apparentemente classica.
Figlio di nessuno infatti, pur sposando nell’insieme lo schema classico del bildungsroman, si muove proprio sul confine tra classicità e singolarità della propria metafora sulla guerra, le cui ragioni non sono affatto “naturali” e persino ad un branco di lupi apparirebbero del tutto incomprensibili.

A rendere particolarmente efficace la storia di questo ragazzo selvaggio contribuisce lo stile con cui il regista alla sua opera prima sceglie di raccontarla e che rivela un narratore maturo, al tempo stesso crudo e raffinato, capace di concentrare l’attenzione su un personaggio altamente simbolico e universale in un contesto molto realistico e localizzato: la morte dell’infanzia, delle illusioni e del concetto stesso di umanità in un vortice di odio e insensata sopraffazione, racchiusa tra due spari che spezzano l’armonia e il silenzio della natura, matrigna benevola in un mondo crudele. E’ un modo intelligente e coinvolgente di raccontare un conflitto devastante e ancora troppo assente dal cinema, attraverso gli occhi e il volto del suo straordinario protagonista, il quindicenne debuttante Denis Murić, che sembra a tratti uscito da America di Franz Kafka, il cui innocente Karl Rossman ricorda molto da vicino.

No One's Child è un debutto cinematografico di grande maturità e purezza etica ed estetica, un racconto in tre atti quasi muto che utilizza la luce e l'ombra come potenti strumenti narrativi, una struttura perfettamente circolare che inizia e finisce con uno sparo e si articola intorno a un paio di scarpe: quelle che Haris rifiuta, accetta, scambia e di nuovo rifiuta, come maschere sempre inadeguate a definire il suo ruolo nel mondo.

La memoria va a Il ragazzo selvaggio di François Truffaut e L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog. E, nel finale, quando la guerra nell’ex Jugoslavia infuria e Haris, musulmano, è costretto a rientrare in Bosnia, ad arruolarsi, a imparare a sparare, ritrovandosi immerso nel fango e nella neve, rotolando in essi verso una destinazione quasi sicuramente tragica, il fantasma di Mouchette di Robert Bresson riappare in tutta la sua concretezza. Tutto sembra ricominciare nel cuore di una foresta abitata da uomini e lupi, e da un dolore che cancella la speranza.

Mare chiuso - Stefano Liberti e Andrea Segre

domenica 19 aprile 2015

Citizenfour - Laura Poitras

Uno di quei casi nei quali la realtà supera la fantasia, un ragazzo di 29 anni contro il paese più potente del mondo.
E ancora non l'hanno beccato.
Intanto, grazie all'aiuto di Laura Poitras e di giornalisti coraggiosi (uno è Glenn Greenwald, che vedrete nel documentario), Edward Snowden racconta al mondo il più grande strumento di oppressione nella storia dell'umanità esistente.
Come il bambino della fiaba di Andersen, Edward Snowden mostra i vestiti dell'imperatore, quelle strutture che sono delle cinture di forza sempre più strette per ciascuno di noi.
Il film è come un giallo ad altissima tensione, un documentario che non ti farà stancare o distrarre neanche un minuto. 
Bertolt Brecht forse pensava a uno come Snowden, quando scriveva:
"Generale, l’uomo fa di tutto. 
Può volare e può uccidere. 
Ma ha un difetto: 
può pensare."
Ci sono solo una ventina di copie in circolazione, per il documentario che ha vinto l'Oscar.
Dovrebbe essere proiettato nelle scuole, è una perfetta lezione di educazione civica universale, oltre che ottimo cinema.
Non perdetevelo - Ismaele








La forza di Citizenfour, al netto di un bombardamento di informazioni che spesso lascia lo spettatore frastornato (almeno laddove questi non sia – già – dettagliatamente informato sul tema) sta proprio nel suo fondere impatto emotivo e rigore documentaristico, la resa filmica ed estetica del miglior cinema di finzione (quello che vuole dire, oltre che mostrare) e l’attenzione alla correttezza dei concetti riportati. Documentarismo che non vuole essere “obiettivo” (e non può esserlo) ma che al contempo non declama come quello di Michael Moore: anzi, in una modernità in cui la denuncia delle storture del potere va spesso d’accordo col complottismo (tomba di ogni capacità di ragionamento autonomo) va fatto un plauso a Laura Poitras per il rigore, e la stretta attinenza ai fatti, che informa per intero il suo film. Un risultato senza dubbio prezioso.

È anche cinema verità, per l'incertezza delle conseguenze della piega che prenderanno gli eventi e tanto di imprevisti sul set (l'allarme antincendio che fa sobbalzare tutti), ma al contempo non rinuncia a tocchi di drammaturgia, come nel caso della scena finale con la comunicazione "cartacea" tra Greenwald e uno strabiliato Snowden, che riecheggia un'intimità virile alla Tutti gli uomini del presidente.
Ancora prima di questa strabiliante mescolanza di elementi, sta la rilevante inversione di un processo abituale del genere documentario: il protagonista, privato cittadino e iper competente in materia informatica, non è oggetto passivo di detection da parte del filmmaker ma è lui stesso l'artefice del "casting" di regista e sceneggiatori (i giornalisti). Decide le modalità di rivelazione di segreti e prove a lui noti, guida il racconto, anche a seconda dell'intensità della caccia che gli si stringe attorno ("vorrei che disegnassi un bersaglio sulla mia schiena", chiede alla regista). Insomma, pur essendo la preda, non chiede protezione ma esposizione…

Citizenfour brilliantly captures the tensions and anxieties of all concerned in the hours and days that followed the material being made public, and as Snowden’s fate hung in the balance with the imminent threat of his seizure and incarceration by US security/intelligence forces. Moving scenes show Snowden’s great concern as to the impact his actions are having on his family and his girlfriend in the US, as he learns she is undergoing interrogation at the hands of the American government.
Snowden says at one point, “We are building the biggest weapon for oppression in the history of mankind.”…

Laura Poitras, posta di fronte alle immagini più cercate e desiderate del mondo è riuscita nell’impossibile impresa di montarle in maniera da contaminare il racconto dei fatti con la tensione e il giudizio politico su un nemico invisibile e potentissimo, è riuscita a portare l’aura di paranoia e follia della fantascienza indipendente a budget minuscolo nella più concreta e reale delle storie.

Ansie che "Citizenfour" intende suggerire e provocare oltre quello che è il grande schermo e non solo per via della materia che racconta (e non risolve), ma per restituire gli stessi timori e le stesse paure che in quei giorni, chiunque stesse lavorando alla sua progettazione, deve aver provato e tenuto, senza mai tirarsi indietro o tradendo. Un esempio di coraggio e di giornalismo di cui si sentiva davvero mancanza e bisogno e che la Poitras ci insegna con perseveranza, specie nell'ultima scena mozzafiato. Quella molto simile a quei film di finzione che spesso ci capita di vedere al cinema, ma dove il senso di verità e di realtà onnipresente viene conservato e tenuto rigorosamente acceso.



ecco un'intervista con Edward Snowden:




sabato 18 aprile 2015

Les Combattants (The Fighters - Addestramento di vita) - Thomas Cailley

ne avevo letto qui e quiqui e qui e qui.

a me è sembrato così - Ismaele

Izgnanie (The Banishment) - Andrey Zvyagintsev

in italiano, se fosse mai passato in sala, si sarebbe potuto chiamare "L'esilio".
si tratta del secondo film di Andrey Zvyagintsev e, come "Il ritorno", è un film misterioso.
è girato fra Belgio, Francia e Moldavia, nel film non esistono luoghi riconoscibili, non ha tempo e allo stesso tempo universale.
non si sa niente di quello che è successo prima, si può ipotizzare che l'esilio sia dovuto all'esigenza di "cambiare aria".
non succede molto, e però ci sono storie che non riesci ad abbandonare.
il punto chiave è quello che succede a Vera, mistero nel mistero, e quello che lei dice. 
non adatto a chi ha fretta e a chi non ha tempo di ragionare.
per gli occhi è una gioia, una perfezione formale rara e accurata, come solo i grandi registi sanno e sanno fare.
cercatelo, potrebbe piacervi molto - Ismaele







…The Banishmentis a slow film, one that demands patience, consideration, and your time. If you can’t meet these demands, the film won’t meet yours.

With so much drama at its heart, The Banishment is at times a painfully slow film. It's par for the course for great Russian fiction but will nevertheless frustrate some Western viewers. What saves it during these stretches is magnificent technical work. It's lovingly shot in deceptively muted shades, the colours one scarcely sees like the fragments of other people's souls which we overlook when we perceive them only in relevance to our own lives. Its sound design is the best I've encountered for years and brings the whole thing to life in a very visceral way, really creating the sensation of being there. This is sound and vision crafted not simply for the sake of beauty (though it certainly works on that level), but for the solid contribution it can make to this deceptively complex moral fable…

The Banishment sound like a conventional dramatic thriller – and in many respects it is – but the difference is in the way that Zvyagintsev approaches the film and depicts it on the screen, and there it’s anything but conventional. Despite the initially slow pace, the economy of words spoken and the suppression of deep emotions, the significance of these two key moments and how they drive the subsequent events is fully explored and expressed in other ways, in the weather, the rain, the heat and the dust, but most notably in the desolation of the countryside, where the house that once belonged to Alex and Mark’s father sits perched on the edge of a ravine…

The Banishment may initially require more patience than its predecessor, but the character detail, the imagery, the subtle performances and the precise use of sound all texture even the smallest moments. Every element is given new meaning by the direction the film takes in its final hour, culminating in a multi-layered reverse of the opening car journey and a final shot that literally sings to the strength and suffering of women. It's a boldly confident ending to a haunting, impeccably handled second feature, and one that should have all eyes on just what Zvyagintsev will do for an encore.

…Zvyagintsev creates a dreary mood piece, sustained with tension and a deeply burdening excavation of secrets and silence. There’s an exploration of miscommunication here, not lies. The unspoken becomes just as virulent as falsities; the emotional estrangement between people becomes a source of dehumanising decay. The story of family is timeless in its essence, but intermittent, it’s intrinsic morality however, is everything…

mercoledì 15 aprile 2015

Cenere e diamanti - Andrzej Wajda

uno dei primi film di Andrzej Wajda, tutto ambientato in poche ore, un'esecuzione, un innamoramento, un'altra esecuzione.
è appena finita la guerra, i sovietici sono i nuovi dominatori della Polonia, la Resistenza è ancora attiva contro i sovietici, ma viene sterminata.
Maciek deve fare ancora una missione, ma i dubbi lo turbano, se sarà un assassino per sempre o se dovrà iniziare una nuova vita. 
Christine, la barista del bar dell'albergo, lo turba, lo rende dubbioso, come lui Christine è sola nel mondo, un vita "normale" sarebbe bellissima, ricominciare.
non perdetevelo, è del 1958, ma, come i grandissimi film, è per sempre - Ismaele






Cenere e diamanti è un’opera visionaria e premonitrice nata, alla fine degli anni cinquanta, dalla collaborazione fra un solido romanziere, Jerzy Andrejewski, e un uomo di cinema di sicuro talento, Andrzej Wajda. Essa esprime in forma drammaturgica una lucida ed angosciata visione della situazione politica e sociale della Polonia del dopoguerra e mette a nudo i fattori di una crisi morale che, ancora oggi, stanno condizionando la vita di questo martoriato Paese.
Sia  Jerzy Andrejewski  che Andrzej Wajda firmano la sceneggiatura di questo film ma, a parte la comune visione lucidamente critica della realtà, il ruolo svolto da ciascuno di loro rimane ben distinguibile nel film. Al romanziere è facilmente attribuibile la linearità della trama e l’essenzialità dei dialoghi, cui viene affidato il compito di definire i personaggi e di manifestare una iniziale presa di coscienza nei confronti dei fatti, all’uomo di cinema quella di costruire visivamente la dimensione del dramma ed i suoi contenuti più significativi…

This great film by Andrzej Wajda is considered the greatest Polish film ever made, and I'm surethat's not too far off the mark. Taking place just after the liberationof Poland at the end of WWII, several private factions still feel theneed to fight. But the young James Dean-like Zbigniew Cybulski wonderswhy, especially after he meets and falls in love with a beautifulbarmaid. The story takes place over the course of one day and depictsthe failed assassination attempt of a new Communist district leader andthe subsequent second try. The achingly charismatic Cybulski virtuallymakes this film work all by himself; after the film's release, legionsof young Polish men rushed out to buy copies of his trademark darkglasses.

The conflict is one between the claims of brotherhood in arms and an individual desire that includes the sexual (Krystyna’s naked back is quite daring for both period and place). But the rift seems also to run through Wajda himself, who echoes the Communist authorities’ derision of the prewar order of the older generation (“the democratic press” is represented by the drunken Pieniazek) but also sees the new era in the same terms as Pieniazek: as one in which the scum comes to the top. By the end, the most positive figure in the new order is dead, and—as if the embrace in death had pulled him deathward, too—Maciek loses both his chance at a new life and then life itself. The possibility of national rebirth is mocked by the fetal kicking of his death spasm on the rubbish dump and by the parallel scene of the hotel revellers’ hypnotic drift at dawn, a restaging of the paralysis besetting would-be rebels at the end of Stanislaw Wyspianski’s fin-de-siècle play The Wedding. There are only ashes, no diamonds.

Maciek, combattente nazionalista dell’Armata dell’Interno, ormai clandestino (come la sua organizzazione) con la fine delle ostilità e l’imminente nascita della nuova Polonia comunista, ha il compito di assassinare Szczuka (il segretario comunista del partito dei lavoratori di ritorno dall’URSS), ma dopo un primo tentativo fallito è costretto a portare a termine il suo ingaggio all’Hotel Monopol, la sera stessa in cui tutti festeggiano per la tanto sospirata fine della guerra. Durante la notte (e durante la mattina che le seguirà) Maciek per la prima volta nella sua vita scopre di poter scegliere, e che scegliere significa vivere. Ma non riesce ugualmente a smettere di essere l’uomo che è sempre stato: sia lui che la vittima prescelta Szczuka sono uomini soli che hanno poco a cui spartire con la vita di compromessi che li aspetterebbe, circondati come sarebbero di doppiogiochisti, di mediocri, e di freddi calcolatori. La loro vita è (stata) fulgida, intensa, e senza mezze misure: messi all’angolo dalla Storia, vittima e carnefice, si ritrovano uniti durante il loro ultimo atto…

.."Ashes" is set on the last day of World War II, on May 8, 1945. A two-man Polish Resistance hit team, the youngest member of the group, a twentysomething named Maciek (Zbigniew Cybulski) and his superior Andrzej (Adam Pawlikowski), are ordered by their major to kill the newly appointed Communist Party district secretary Szczuka (Waclaw Zastrzezynski) while he's visiting a small provincial Polish town to celebrate the war victory and the mayor's appointment as a Minister of Health. The hit men bungle the mission by killing two innocent cement workers and are further ordered to hang around town and complete their assignment. While waiting in his hotel, lodged in the room right next to Szczuka, the sunglasses wearing Maciek falls for the attractive world-weary blonde barmaid Christine (Eva Krzyzewski). She's afraid to get too close to him when she learns he's leaving in the morning. Falling in love with her makes him question his mission, of all the lives that have been taken in the war, if the killing will ever stop, and if the struggle is really worth it. There are some deliriously wonderful scenes such as the lighting of the drinks at the bar for the dead resistance fighters from their outfit, the upside down Christ in a bombed-out church shelter as the lovers talk about how crazy the world has become, and the execution by the conflicted Maciek of the target and then while fleeing his agonizing death on a rubbish heap that's filmed in a slow motion polonaise…

lunedì 13 aprile 2015

White God - Sinfonia per Hagen - Kornél Mundruczó

uno di quei film che miracolosamente riescono ad arrivare in sala, in poche sale, una ventina.
non è targato Usa, non è italiano, non è francese, è un film ungherese di Kornél Mundruczó (di cui avevo già visto Delta, un gran bel film).
la storia è un'apologo, ha (secondo me) dei riferimenti al clima ungherese, dove sanno cosa è un governo di destra e xenofobo, è una fiaba, è un film animalista, è un film sulla crudeltà umana, su figli e genitori, sulla libertà, sulla violenza, e altro ancora..
per molti troppa carne al fuoco, per me tutto si tiene benissimo, Kornél Mundruczó è bravissimo e ottima è la sceneggiatura.
molti criticano le violenze sugli animali che si vedono nel film, se aspettassero i titoli di coda saprebbero che sono tutte finte.
molte scene sono bellissime, le altre straordinarie (sopratutto le prime e le ultime).

ps: mi viene in mente White dog, un gran film di Samuel Fuller, tratto da un romanzo di Romain Gary - Ismaele




White God è una meraviglia. Compone emozioni semplici, rievoca l’esigenza di equilibrio e simmetria tra uomo e animale. Il film si chiude con un’ampia panoramica, che dipinge il solidale amore incondizionato del cane verso l’uomo, in cui s’identifica la formazione di un solido rapporto padre/figlio.

Apostando por un camino difícil y pocas veces recorrido en el séptimo arte, el director nos inyecta en vena un drama subversivo mezclado con acción trepidante que funciona en nuestra mente como un cóctel molotov de desamparo, pánico, venganza e instinto de supervivencia. Así, esta White God, impactante y ruda de principio a fin, gira las tornas habituales en términos de elenco para situar a un can sin pureza de raza y sus camaradas callejeros como protagonistas de la historia, cuestionando desde los primeros instantes si es el hombre merecedor de llamarse mejor amigo del perro, y empleando el paso de la trama para (de)mostrar la crueldad tiránica y las relaciones de dominación y autoridad que son el pan de cada día de una sociedad deshumanizada: la nuestra, claro. Las preguntas en torno a la desembocadura de este río de sangre serán muchas, pero sin duda nos sentiremos partícipes de esta particular toma canina de la Bastilla extendida por los barrios aquineos, un ladrido desde el cine en el que caben todas las minorías étnicas, raciales y espirituales del mundo. Porque, a pesar de que las cámaras de Mundruczo apunten hacia la rebelión de los chuchos, en el mordaz punto de mira del húngaro está ese autoencumbrado hombre blanco, como emblema de falsa superioridad moral. Y bajo su subyugación, el resto de seres enjaulados que protagonizan esta película…

Si potrebbero individuare due film distinti in White God, pellicola scritta e diretta dal regista ungherese Kornél Mundruczó e premiata nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2014, oltre ad essere stata selezionata (senza successo) come rappresentante dell’Ungheria nella corsa all’Oscar. Il “primo film”, che occupa la maggior parte delle due ore complessive di durata, afferisce ad un rigoroso realismo e si suddivide a sua volta in due linee narrative parallele: il tormentato viaggio di Hagen, meticcio docile e affettuoso, abbandonato all’improvviso sul ciglio di una strada di Budapest, e gli strenui sforzi della sua padroncina Lili allo scopo di ritrovarlo. Il “secondo film”, invece, separato da una cesura fin troppo brusca rispetto a quanto visto in precedenza, trasforma l’epilogo di White God in un racconto dai contorni quasi horror, in cui Mundruczó abbandona ogni pretesa realistica per intraprendere una strada diamentralmente opposta, che pare rifarsi al classico di Alfred Hitchcock Gli uccelli e all’intero filone di thriller analoghi, in cui una specie animale - in questo caso il cane, per tradizione il miglior amico dell’uomo - rivela un istinto feroce ed assassino, tramutandosi in spauracchio per una civiltà umana colta del tutto alla sprovvista…

Sono molti i fronti che non a caso si aprono via via nellla lunga ricerca della giovane Lili del 'suo' Hagen, un meticcio senza casa e senza padrone. Nemmeno Lili stessa. Destinato al canile e oggetto deldisprezzo e della mala fede di quanti incontra e che vedono nel suo esser 'emarginato' un pericolo a prescindere. L'allegoria è semplice, e senza tempo. Per questo dispiace ancora di più quando - come detto - le ottime premesse si perdono in eccessive sottolineature e in slanci irrealistici che non riusciamo a giustificare come iperboli congenite di una tale figura retorica (dalla forza della musica alla organizzazione del branco o alla sua reazione all'ingiustizia e alla morte).
Ci sono sicuramente forza, anche espressiva, e tensione. Si cerca senza pudore - e con un pizzico di calcolo - la brutalità, anche se la violenza è insostenibile più per le immagini che evoca che per la effettiva realizzazione (spesso a causa di un montaggio abile ma poco convincente). Ma resta il dubbio che se non fosse il 'miglior amico dell'uomo' il protagonista di una tale favola morale - e di molte situazioni da 'pubblicità progresso' (su tutti l'abbandono in autostrada) - quel senso di inquietudine e l'irritazione che in alcune scene è difficile non provare forse non sarebbero così profondi e persistenti…

i cani di White God ci parlano. E corrono. Uno tsunami di zampe galoppanti come un’inondazione che invade le strade destinata a fermarsi, almeno provvisoriamente, solo di fronte ad un'anima gentile che come un moderno pifferaio magico è capace di placarli, quasi ipnotizzarli, con un’esile ma solenne sinfonia suonata alla tromba. E lì, come nel finale del film, ci inchiniamo, quasi prostriamo di fronte a questo esercito di cani, come a chiedere perdono per tutti i mali che nel tempo abbiamo inflitto loro.