martedì 28 febbraio 2023

Il Naso o la cospirazione degli anticonformisti - Andrey Khrzhanovsky

difficile classificare un film così, meno male.

è un omaggio alla cultura, la coraggio, alla bellezza, alla musica, a grandi personaggi della cultura russa, da ricordare e frequentare.

tanti momenti del film, diviso in tre parti, sono divertenti, satirici, commoventi.

e tutto a partire dal naso di Nikolaj Gogol e dalla musica di Dmitrij Šostakovic, senza dimenticare Michail Bulgakov e Stalin (e tanti altri).

un film da vedere e rivedere, un film di serie A, senza alcun dubbio.

buona (anticonformista) visione - Ismaele

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

"Il naso" di Gogol non è solo un racconto in cui, partendo dal fatto che un mattino l'assessore collegiale Kovaliòv si ritrova senza più il naso, si innescano vicende surreali. È anche un piccolo ma profondo trattato sulla ricerca della propria identità da parte dell'essere umano. Dmitrij Šostakovic ne colse l'importanza e, nel 1927 iniziò a lavorare ad un'opera lirica ispirata al racconto. Il suo lavoro venne stroncato come formalista dal partito sovietico dei musicisti ed è da qui che prende le mosse il film per descrivere, con grande ironia ma anche con profondo rispetto per le vittime, il terrore staliniano.
Lo fa mettendo in gioco una varietà di tecniche di animazione e di grafiche che lo trasformano in un caleidoscopio di invenzioni che sostengono sia la messa in scena dell'opera sia la presenza di uno Stalin costantemente teso a chiedere 'democraticamente' il parere dei suoi sottoposti. I quali ovviamente debbono uniformarlo al suo.

Khrzhanovskiy, che aveva 14 anni quando il dittatore morì, ha fatto in tempo a respirare quel clima di sottomissione culturale e ha quindi lo spirito giusto per rievocarlo (non dimenticando una frecciata a chi ora detiene da lungo tempo il potere in Russia). Quando un pamphlet per immagini riesce a provocare ad ogni cambio di scena lo stupore misto al ricordo di un testo, di un film, di un quadro significa che si è andati oltre al semplice assunto mostrando e dimostrando quanto sia ancora forte l'impatto che un cinema di animazione, liberato dagli stereotipi correnti, può avere su un pubblico adulto e colto.

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Il patchwork di Khrzhanovsky fonde opera e musical con un collage dal ritmo febbrile. La cultura è attenzione all’altro diverso da noi. Il presupposto fondamentale è la pace. In maniera colta e visionaria è ciò che sussurra questo film. Si citano Rossini, Verdi e il suo Rigoletto nella melodia che tanto ricordano gli esperti di Amici Miei. Una pioggia di riferimenti all’arte sovietica dalle parti di cinema, letteratura e pittura bagna tanto la vicenda del Naso come illusione identitaria e sibillina al centro dei totalitarismi, quanto il secondo atto, che vira su Stalin, la sua trojka e lo scrittore Bulgakov. Si percorre allora la via impervia della censura culturale attraverso una curiosa corrispondenza tra il dittatore e l’autore. Potere e burocrazia come simboli di una dittatura, Stalin cartoon diventa satira corrosiva. “Non mi piace fare pressione sulle opinioni altrui”, dirà il dittatore ai suoi sottoposti. L’allegoria musicale su deliri burocratici e totalitari sfocia nella documentazione sui gulag, i campi di detenzione voluti dalla trojka del regime sovietico.
Il terzo atto inizia invece spingendo sulla posterità poiché due dame ottocentesche, dalla balconata di un teatro fanno ironia pungente sul musicista Šostakovič commentandone le foto goffe da uno smartphone…

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Il film parte dalla trasposizione di uno dei racconti più famosi della letteratura di ogni tempo, Il naso di Nikolaj Vasil’evič Gogol, portato a teatro come opera buffa in tre atti da Dmitri Shostakovich nel 1930, ed è diviso in “tre sogni” che vogliono dare contezza audiovisuale di “una combinazione di eventi storici, biografie e capolavori di artisti, compositori e scrittori dell’avanguardia russa e del totalitarismo”. In questi tre segmenti dalla struttura variabile Khrzhanovsky utilizza senza nessuna forzatura autoriale svariate tecniche di ripresa che vanno appunto dall’animazione tradizionale, alla CGI, alla messa in scena di ritagli di modellini di carta, dal collage digitale ai colori a pastello e quelli a carboncino fino alle riprese dal vivo che con la loro intromissione servono a destabilizzare ulteriormente un impianto che non vuol cadere vittima della retorica. Perché il rischio, in un film che racconta eventi segnanti come la riproposizione in chiave metateatrale del capolavoro gogoliano in cui un uomo perde il suo naso e lo vede ascendere ad una carriera burocratica, la famosa lettera spedita a Stalin dal drammaturgo Michail Afanas’evič Bulgakov che lamentava l’impossibile circolazione delle sue opere e la parentesi del 1936 vissuta dallo stesso Shostakovich riguardo la stroncatura e censura da parte della Pravda del suo Lady Macbeth nel Distretto di Mcensk, era quello di cadere in una trita apologia della libertà di pensiero…

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Ad ogni modo Andrey Khrzhanovskiy non si limita a ripercorrere la vita culturale e politica dell’URSS anni ’20, ’30 e ’40 seguendo il tracciato di un’oscura, spaventosa fiaba, ma vi infila di continuo notazioni ironiche, allusioni colte rivolte ad esempio all’estetica cinematografica di Ėjzenštejn, parentesi non meno rivelatrici come quella dedicata a Bulgakov e al suo controverso rapporto con Stalin. Quest’ultima è senz’altro la miccia dalla cui accensione derivano le conseguenze più rilevanti, graffianti, a livello satirico, allorché a scaturirne è un ritratto del dittatore sovietico e dei suoi meschini tirapiedi, da Ždanov a Vorošilov, da Jagoda a Molotov, così impietoso e sulfureo da stare al passo di un cult movie come Morto Stalin, se ne fa un altro. Altro titolo divenuto a nostro avviso imprescindibile. Similmente ne Il Naso o la Cospirazione degli Anticonformisti farsa e tragedia si mescolano di continuo. Ciò avviene attraverso una ricchezza di riferimenti iconografici difficile da riassumere in poche righe. Facendo cioè volare sia l’immaginazione che le stesse note musicali dell’ardita, complessa fantasmagoria verso vette inusuali; fino a comporre un Requiem per l’Unione Sovietica e per i tanti artisti che ne vennero brutalmente traditi, tale da lasciare un brivido profondo sotto la pelle.

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Il Naso o la cospirazione degli anticonformisti di Andrey Khrzhanovskiy è un film che colpisce nel profondo, considerando anche il periodo che stiamo vivendo. Il regista riesce, mescolando abilmente dramma e commedia, a raccontare un periodo non facile per il popolo russo. La prima parte del ‘900 è stata caratterizzata dallo stalinismo e, oltre a tutto quello che può derivare da un regime totalitario, in questo film Khrzhanovskiy mostra, soprattutto, quello che hanno dovuto subire gli artisti dell’epoca. La libertà di espressione (in ogni sua forma) non esisteva e, infatti, numerosi artisti persero la vita. Questo lungometraggio oltre che a far luce su una pagina poco conosciuta e oscura della storia – e che non si dovrebbe ripetere – vuole rendere omaggio alle vittime, in maniera commovente ed originale come si vede nel finale.

La scelta di unire in questo prodotto di animazione foto e video d’epoca, scene di oggi e maestranze che hanno lavorato al dietro le quinte si è rivelata vincente. In alcuni momenti, però, i passaggi mostrati non sono di facile ed immediata comprensione per lo spettatore. Nonostante tutto, per la maggior parte della storia il pubblico riesce a immergersi completamente nel racconto e recepire il messaggio, che arriva in maniera diretta, come un pugno dritto nello stomaco. Doloroso, ma necessario.

Le musiche – tratte anche dall’omonima opera buffa di Dmitrij Šostakovič – sono curatissime e, insieme al ritmo sostenuto, contribuiscono in gran parte alla riuscita dell’opera che si rivela più attuale che mai. Il Naso o la cospirazione degli anticonformisti rivela ancora una volta come l’arte sia sempre un valido strumento per veicolare messaggi importanti e denunciare soprusi e violenze.

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domenica 26 febbraio 2023

All or Nothing – Mike Leigh

Timothy Spall e Sally Hawkins sono fra i protagonisti di questo gran (come tutti) film di Mike Leigh.

non ci sono famiglie reali, agenti di borsa, dirigenti di multinazionali, solo proletari, povera gente che cerca di sopravvivere nel modo meno peggio possibile, riuscendovi a stento, per problemi economici, e non solo.

Mike Leigh è una sicurezza, i suoi film sono o capolavori o grandi film.

guardatelo e soffritene tutti.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele


 

Dove non ci sono i buoni e i cattivi, non ci sono macchiette e stereotipi e dove la coscienza politica è scossa senza dover parlare di politica : non c’è ideologia e il richiamo ad una società che non emargini e che non distrugga i sogni dei più deboli scaturisce da vicende private raccontate con essenzialità e sobrietà e con quella partecipazione che fa nascere spontanea la solidarietà per personaggi ( persone) dotate di un’umanità sconosciuta a chi non ha imparato a soffrire.
E la solidarietà del regista non è per nulla falsa : non seziona, non indugia ma ci conduce all’”interno di una storia” con l’aiuto della grande interpretazione di attori convincenti se non di emozionante bravura…

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…The closing scenes of the movie are just about perfect. Rory is the center of attention, and notice when, and how, he suddenly speaks in the middle of a conversation about him. When a director gets a laugh of recognition from the audience, showing that it knows his characters and recognizes typical behavior, he has done his job. These people are real as few movie characters ever are. At the end, it looks as if they will be able to admit a little sunshine into their lives and talk to each other a little more. We are relieved.

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Un film di una crudezza disarmante, non lascia spazio a sorrisi o a speranze, prevale un senso di sconfitta che a tratti fa cadere le braccia, ma in maniera positiva, rendendo talmente l'idea che lo spettatore ne rimane sopraffatto. Gli attori sono tutti all'altezza di un cinema realista, che da' un idea quasi malsana, ma veritiera, della vita contemporanea, dove per scovare un momento di pace e serenita', qui si devono fare salti mortali.

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sabato 25 febbraio 2023

The Whale - Darren Aronofsky

il film è girato (quasi) tutto in una stanza, nessuno può nascondersi.

Charlie vive solo, malato, superbulimico, e sopravvive facendo (inutili) lezioni online.

ha avuto due grandi amori nella vita, gli è rimasta una figlia, che lo odia per averla abbandonata quando aveva otto anni (anche in The Wrestler Mickey Rourke cercava di riavvicinarsi a una figlia ormai lontana).

solo una persona gli è affezionata, Liz (Hong Chau), e lo cura in tanti modi, dalla salute al cibo, lui non può più.

alla fine, come gli eroi, anche Charlie non se la caverà, ma alla fine qualcuno lo ama, come Ellie (Sadie Sink), la figlia.

in realtà è un film d'amore, sull'amore, sulla sincerità, sui rapporti umani, nient'altro.

e poi c'è Moby Dick, la vittima predestinata, in un misterioso commento su un foglio, in una cartellina preziosa per Charlie.

Brendan Fraser è immenso in tutti i sensi, un'interpretazione da Oscar.

un film che fa soffrire, da non perdere, sarete d'accordo.

Darren Aronofsky è esagerato, non conosce mezze misure, i suoi film si amano o si odiano, comunque non lasciano indifferenti.

se non si è capito, dall'opera prima (vista grazie a FuoriOrario) fino a oggi Darren Aronofsky ha fatto solo cose buone o eccezionali), il dio del cinema lo conservi).

buona (esagerata) visione - Ismaele

 

 

 

 

Chi è Moby Dick, the whale? Non l’uomo-balena, ma l’America ribelle contro Achab il conquistatore, la furia contro la “normalità” che ha giudicato Charlie e l’ha ridotto a vivere immobile, spalmato sui cuscini, pieno di rimorsi per la sua scelta di vita. Inutilmente Thomas con i suoi opuscoli religiosi cerca di “salvarlo”. La Bibbia sbandierata, il peccato e il castigo. È Charlie, invece, che dovrà salvare gli altri, innanzitutto sua figlia, convinta di essere eccentrica, anticonformista e cattiva al punto giusto per farsi accogliere dalla società. Ascesa verso il cielo, Charlie è un angelo, e Brendan Fraser è magnifico dentro le sue protesi gonfie, il ventre molle, e quello sforzo di alzarsi in piedi. Candidato come miglior attore a Venezia, ai Golden Globe, agli Oscar, è rimasto - per ora - fuori dai palmarès.

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Tratto da una pièce teatrale, ma trasformato forzatamente in cinema tramite queste continue panoramiche “interne” al salotto di Charlie, come se la camera fosse un pianeta intorno al sole-Fraser, i drammi di questi uomini e donne schiacciati dall’amore e dalla morte si stendono - loro sì, molto teatralmente - attraverso ogni possibile pretesto, con un “cattivo gusto” nelle scelte delle battute e delle frasi che in fondo è Aronofsky allo stato puro. Perché il melodramma è sempre stato uno spettacolo di marionette, e a Aronofsky interessa più mostrarle e spostarle nel campo visivo che non realmente indagarne l’interiorità. Quando lo fa, vengono fuori personaggi contraddittori, folli, pieni di bene ingenuo o di male cieco, professori che invitano i loro studenti a scrivere frasi oneste (stile insegreto, per chi bazzica) piuttosto che a fare saggi analitici; ragazzine crudeli che fanno uso smodato e immorale dei social; donne frustrate, lacrimevoli, dipendenti…

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…Nel complesso, The whale è una spugna intrisa di dolore, un film di autentica sincerità e dall’elevato coefficiente empatico. Un collage stratificato di sensazioni/venature  interconnesse e indipendenti, con un tratteggio che fa (s)correre brividi lungo la schiena mentre sfoglia i vari paragrafi che decostruisce addentrandosi in un tappeto ricco di agonie.

Tra deformazioni e assenze, sfoghi e chiarimenti, rinunce e scelte, sospiri e singhiozzi, smarrimenti e rancori, relitti alla deriva e influssi speranzosi, un’accettazione affranta e un disagio straripante, corazze protettive e debolezze scoperte, tentativi di riscatto e viali del tramonto che non contemplano vie d’uscita, squarci di luce e scatti rabbiosi, carezze negate e scelte trancianti, questioni in sospeso e anime in pena, lunghi addii e sfide quotidiane.

Struggente e intenso, di disturbante integrità.

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Questo lungometraggio, al contrario del precedente e bistrattato “Madre!” (titolo che noi però abbiamo amato), farà molto parlare di sé, anche perché stavolta Darren Aronofsky punta in parte a far impietosire lo spettatore, grazie ad alcuni passaggi da lacrima facile che emergono soprattutto durante la seconda metà dell’opera. Ciò non vuol dire che “The Whale” rappresenti un prodotto da proporre alle masse, sia chiaro, ma siamo comunque convinti che le dinamiche familiari messe in scena dal regista possano attirare l’attenzione di un pubblico non necessariamente selezionato. Un po’ come era accaduto per “The Wrester”, pellicola tuttavia molto più accattivante e riuscita rispetto a questa.
In definitiva, “The Whale” si rivela un valido e mai noioso dramma esistenziale, al di là delle forzature emozionali che ne segnano il percorso: il consiglio è quello di dargli una chance a prescindere, anche solo per l’incredibile performance di Brendan Fraser, qui nel ruolo della sua vita. Il suo Charlie non si dimentica: le citazioni per “Moby Dick” possono solo accompagnare.

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Il regista americano Darren Aronofsky ama i perdenti. E non deve necessariamente trasformarli in vincenti: gli è sufficiente offrire loro una possibilità di redenzione. Il paragone più immediato in questo senso è quello fra due suoi film, The Wrestler, Leone d’oro alla 65esima Mostra del cinema di Venezia nel 2008, e The Whale, in Concorso alla 75esima edizione della Mostra nel 2022.

Il primo era la storia di un wrestler professionista, Randy “The Ram” Robinson, molto malridotto, che dopo il successo anni Ottanta si è ritrovato ai margini dello sport e a vivacchiare prestandosi a spettacolini di provincia e raduni di nostalgici. Randy si è separato dalla moglie e ha interrotto i rapporti con la figlia Stephanie, e ora, dopo un infarto, non può più neanche combattere e fa il commesso nel reparto salumi di un supermercato.

The Whale è la storia di un professore universitario, Charlie, che interagisce con i suoi studenti solo online e a telecamera spenta perché non vuole che vedano la sua situazione deprimente: è infatti un grande obeso che riesce a stento ad alzarsi dal divano e ingurgita quantità enormi di cibo spazzatura, in preda ad un furore autodistruttivo che ha le sue radici nella scelta passata di abbandonare la moglie per un nuovo amore.

Con l’allontanamento dalla casa coniugale, Charlie ha perso anche il rapporto con la figlia adolescente Ellie, e ora che sente di essere vicino alla fine a causa dei suoi problemi di cuore legati al sovrappeso vorrebbe riavvicinarsi a lei, ma incontra solo ostilità da parte della ragazza.

Randy e Charlie sono due perdenti, due uomini fabbri della propria sfortuna e infelicità, ma che non hanno abbandonato una natura profonda empatica e gentile, e manifestano un enorme bisogno di amore, da dare e da ricevere. Aronofsky non prepara per loro una rinascita gioiosa e un futuro da vincenti, modello 
Rocky per capirci, e tuttavia presenta loro un modo per riscattarsi, soprattutto agli occhi di quelle figlie abbandonate e ora rancorose che non si fidano più dei propri padri.

La redenzione di Randy e Charlie avviene proprio attraverso il loro amore paterno, che non cambia le circostanze fallimentari delle rispettive vite, ma apre la porta ad una possibilità di riscatto, e forse ad una dignitosa uscita di scena.

La tenerezza con cui 
Aronofsky racconta questi perdenti, che fanno tornare alla mente il Terry Malloy di Fronte del porto, è la stessa con cui Mickey Rourke, ex pugile (oltre che attore) suonato dalla vita e quasi scomparso dalle scene cinematografiche, e Brendan Fraser, realmente sovrappeso (anche se ben lontano dal gigantismo con cui appare in The Whale grazie a protesi e trucco) e altrettanto reduce da un progressivo declino di popolarità e presenza cinematografica, interpretano i ruoli di Randy e di Charlie, consentendoci di immedesimarci nel loro smarrimento esistenziale e nella loro straziante ricerca di perdono.

Ed entrambi i film appaiono come un antidoto all’ottimismo yankee e alla regola dell’happy ending, conservando il coraggio di raccontare la vita come è, non come la vorrebbero i suoi antieroi.

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giovedì 23 febbraio 2023

Aftersun - Charlotte Wells

un babbo e una figlia inglesi, in una vacanza che sarà l'ultima insieme, in un villaggio turistico sgarrupato in Spagna.

li vediamo insieme, e anche soli, in quei giorni. 

il babbo, Calum, non ha qualcosa che non sapremo mai, e la figlia, Sophie, 11 anni con tutta la vita davanti, non sa che non si vedranno più.

a lei resteranno piccoli filmati che non si stancherà mai di guardare, e interrogare, di quella settimana felice della sua vita.

Calum fa tai chi, sembrava strano in quei tempi, Sophie ci prova a imitarlo, in quella settimana memorabile.

sappiamo che Calum non sta bene, qualche problema nel corpo o nella mente, si sforza, in quei giorni, di costruire un bel ricordo per il futuro di Sophie.

un'opera prima che spiega poco e allo stesso tempo dice moltissimo, da non perdere.

buona visione - Ismaele

 

 

…Non è un film di parole, Aftersun. Le parole, che pure ci sono, sono sempre inadeguate, banali, imbarazzate, incerte o perfino sbagliate. Quello che conta, in Aftersun, che conta per Sophie e Calum, e per noi che li stiamo a guardare, sono i gesti, i silenzi, gli spazi, le traiettorie dello sguardo. Aftersun, non solo per questo, ma anche per questo, è un film di immagini. Di immagini forti, potenti, fatte di cinema e con grande consapevolezza: quella per cui l’immagine, al cinema, è estetica e racconto assieme.

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Aftersun è un film veramente bello: è lineare, semplice, ed esplode soprattutto alla fine, quando vediamo Calum in quello che sembra essere un rave (che intravediamo anche al di là delle porte in aeroporto, che varca dopo aver salutato per sempre sua figlia). Inizialmente la scena è confusa, le luci stroboscopiche permettono a malapena di intravedere Calum, poi le immagini si fanno più chiare non appena vediamo la Sophie adulta raggiungerlo, sembra urlargli contro ma le voci sono sovrastate dalla musica di Under Pressure. La Sophie adulta e il Calum del passato sono adesso coetanei: lui sembra abbandonarsi a lei perché sta male, lei sembra aggrapparsi a lui. Annullata la distanza anagrafica, resta la tristezza di un’occasione sprecata ma di un affetto che non è mai mancato.

Mentre Paul Mescal conferma di essere uno degli attori più interessanti degli ultimi anni, Charlotte Wells firma un esordio davvero promettente. Aftersun, come lei stessa ha raccontato, è una storia dai contorni autobiografici: il tentativo di Sophie adulta di riscoprire i ricordi di suo padre sotto una nuova luce è, molto probabilmente, il riflesso di ciò che lei ha tentato di fare con la sua storia personale, proprio tramite questo film. Del resto, ci ha restituito benissimo quelle sensazioni di nostalgia e amore che scorrono tra genitore e figlia. Un film perfetto da vedere se vi sentite malinconici (se siete lontani da casa e sentite la mancanza della vostra famiglia, vi farà venir voglia di fare quella telefonata che state rimandando da tanto tempo).

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Ciò che lascia senza fiato, in Aftersun, è la sua straordinaria natura di opera così profondamente personale per la regista (che ha lasciato intendere, in una lettera, che i fatti narrati, riprendono in parte la sua stessa vita) eppure così potenzialmente vicina a tutti.

Difficile non ritrovare un po’ di se stessi nel racconto del vuoto che lentamente divora Calum, difficile non comprendere il suo enorme tentativo di non far percepire tale vuoto a Sophie. Forse impossibile non restare senza fiato, col cuore in gola, davanti al loro rapporto che non esplode mai nella pura gioia ma è continuamente immerso in una sensazione dolce-amara, che sa di nostalgia, che sembra presagire la fine di un’estate.

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forse la verità si può solo sfiorare. Anche le immagini “riattraversate” da Sophie sono intrinsecamente false perché distorte dal ricordo e non possono evitare di caricarsi del trauma di Paul, non possono che ragionare della loro ambiguità. Charlotte Wells, però non fa un passo indietro e le asseconda in tutta la loro complessità

Chiude dunque i due protagonisti in inquadrature strette, li isola come per proteggerli ma è un gesto che non può evitare un sentore di minaccia, come se in quei piani stretti bloccasse anche Callum, prigioniero di un modello genitoriale che non sente suo. Ovvio allora che i momenti migliori sono quelli in cui l’uomo si offre allo spettatore in tutta la sua imperfezione, costantemente indeciso se trattare Sophie come una sorella o come una figlia, insicuro, ma sopratutto incoerente.

Aftersun è un film abissale, l’esordio di una regista straordinariamente consapevole delle spigolosità dello spazio in cui sta operando e pronta a raccontarlo senza filtri, esorbitando addirittura in un finale tanto “impossibile” quanto cinico che mostra, implacabile, tutta la caducità del fotogramma, quasi a rimarcare quanto la verità stia racchiusa in immagini mute e a non rimane che un ricordo condannato a sfiorire.

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Charlotte Wells non ci svela nulla, ci porta fin sulla porta di quella discoteca, la stessa che Calum , nell'apoteosi del trionfo della metafora, attraversa nel momento in cui si separa da Sophie dal ritorno dalla vacanza: verso Londra lui, verso Edimburgo lei, forse per l'ultima volta.

Ed è proprio nella costruzione di uno dei finali più belli che ci è dato di vedere nel Cinema degli ultimi anni, pochi minuti di silenzio, di sguardi , di oggetti che scorrono e di colori che sfumano che si giunge finalmente  al nucleo pulsante del film: la forza del ricordo, la costruzione della memoria attraverso essi, la caduta dei filtri che il tempo  e la nostra esistenza ci hanno messo lungo il percorso per arrivare a capire la forza di un legame, il rimpianto per non essere stati in grado di fermare il tempo nella nostra vacanza in Turchia che abbiamo avuto tutti, gli abbracci carichi di dolore, quelli veri e quelli idealizzati: ecco perchè Aftersun è un film per tutti, per tutti quelli che hanno la voglia ed il coraggio di rivedere il passato e i ricordi con lo sguardo ormai libero.

L'opera prima di Charlotte Wells è uno di quei film che graffia sulla pelle in maniera profonda, senza che te ne accorgi; lo capisci solo in seguito quando anche tu hai attraversato quella porta al termine del corridoio bianco, come fanno , per strade diverse Calum e Sophie; a quel punto i graffi diventano solchi che penetrano nella carne e rimangono impressi per sempre , proprio come i ricordi.

Raramente ci è dato di vedere un'opera così profonda , così difficile e  ariosa nello stesso tempo, priva di difetti, in cui l'immagine, vero focus centrale del film, è costruita con una maestria eccelsa: gli sprazzi sfocati del nastro di Sophie, le immagini piene di sole, di allegria e di lacerazioni che covano nascoste, il montaggio e la scelta delle inquadrature della regista costruiscono un insieme armonico su cui si innesta una colonna sonora specchio dei tardi anni 90 su cui troneggia una magnifica Under Pressure di Bowie con i Queen.

L'esordio della giovane regista scozzese è di quelli memorabili, grazie ad un film da cui trasuda limpida la forza dell'autobiografia, un'opera che pone inevitabilmente Charlotte Wells sotto i riflettori come uno dei talenti cinematografici più splendenti degli ultimi anni.

Le interpretazioni di Paul Mescal e della esordiente Frankie Corio sono strutturalmente fondamentali alla riuscita del lavoro: lui è bravissimo nel mettere in scena un giovane uomo che sente il peso di una vita che gli sfugge di mano creandogli un senso doloroso di inadeguatezza che va a minare la sua sensibilità di padre che vede la figlia che lentamente gli sta lasciando la mano; la giovane esordiente è una di quelle facce che penetrano lo schermo e che fonde la freschezza  della sua età ad una spontaneità folgorante; la coppia funziona benissimo si completa e regge con forza degna di due veterani tutto il peso del film che è sempre centrato sui loro volti.

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lunedì 20 febbraio 2023

The Quiet Girl (An Cailín Ciúin) - Colm Bairéad

un film universale, tutto il mondo lo capisce, anche se non sa la lingua gaelica irlandese.

una bambina povera, in una famiglia numerosa e problematica, viene data in affido, senza troppe formalità, a dei lontani parenti che se ne possono e vogliono prendere cura.

i rapporti sono freddi, all'inizio, poi quell'estate di Cait sarà la più bella della sua vita.

un film di poche parole, per certe cose le parole possono essere addirittura di troppo.

Cait e i suoi genitori adottivi sono davvero convincenti.

buona (gaelica) visione - Ismaele

ps: un paio d'anni fa una storia simile, mutatis mutandis, era lo sfondo di un bel film italiano, L'arminuta.

 

 

 

…Già dal titolo, molto diretto e sincero nella sua rappresentazione di un microcosmo ad altezza bambina, è chiaro l’intento del regista, che costruisce un piccolo universo rurale dove le parole, che siano in gaelico o (talvolta) in inglese, sono perfettamente misurate per non appesantire troppo un equilibrio famigliare che, per forza di cose, è fatto di sottintesi e non detti.

È tutto molto semplice, schietto, e tramite quella semplicità la storia di Cáit arriva dritta al cuore con un quantitativo inatteso di tenerezza, perché “semplice” non è sinonimo di “banale”, e l’assenza di fronzoli narrativi o stilistici non fa che sottolineare la sincerità di un’operazione che, adattando una novella della scrittrice Claire Keegan, guarda al passato senza cadere in trappole nostalgiche e affronta il tema della maturazione interiore con onesta asciuttezza. Fino a che, come la giovanissima protagonista, anche noi ci ritroviamo a sperare che questa estate in campagna possa durare in eterno.

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quella narrata da Colm Bairéad è una storia di carattere universale, e lo scenario in cui si svolge l'estate della piccola Cáit risulta privo di riferimenti cronologici precisi, collocandosi piuttosto in un tempo sospeso, interiore. Così come è una prospettiva interiore, del resto, quella assunta dal film stesso, che sposa appieno il punto di vista di Cáit, ruolo affidato all'espressività dell'esordiente Catherine Clinch. Inserendosi nella lunga tradizione dei coming of age sui piccoli terremoti emotivi dell'infanzia, The Quiet Girl ci fa penetrare nella quotidiana solitudine di Cáit, nel senso di inadeguatezza che la opprime tanto a scuola, quanto fra le pareti di casa

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in The Quiet Girl il silenzio diventa l’innesco perfetto per sprigionare l’esplosività delle immagini del cinema più puro, privo di retorica o artifici tecnici ma capace di emozionare nella sua sbalorditiva semplicità. Il formato tre quarti concentra l’attenzione sui primi piani della piccola Cáit che con i suoi grandissimi occhi celesti osserva, quasi stranita, gli inconsueti gesti di amore nei suoi confronti da parte dei suoi nuovi genitori. Il loro rapporto si sviluppa attraverso sguardi, carezze, gesti semplici, caricati del giusto significato, mai eccessivo, mai sopra le righe. Il regista irlandese gestisce con grande perizia il ritmo del suo film che cresce progressivamente fino a sfociare in un bellissimo finale denso di emozioni. Il fitto legame tra perdita e incontro impreziosisce ulteriormente il paradigma narrativo intrapreso da The Quiet Girl, che riflette proprio su questo meccanismo secondo cui ad una mancanza corrisponde la sua rievocazione, il suo controcampo ideale. Da una parte la coppia che ospita la bambina sostituisce l’assenza (fisica ed emotiva) dei suoi genitori, dall’altra, è la stessa Cáit a vestire i panni del passato tragico dei coniugi.

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The Quiet Girl es una película que merece mucha la pena. La historia de una niña, en la Irlanda de 1981, que desconoce el amor. Una niña que sabrá lo que es el afecto gracias a unos familiares lejanos. Un matrimonio que la acogerá durante las semanas previas al nacimiento de un nuevo hermano. Entre naturaleza, silencios y atención. Una atención conmovedora desde el primer instante, que el realizador sabe trasmitir con muy pocos elementos. Eso sí, desde una emoción única y que te alcanza el corazón. Ya sea el primer baño que recibe la niña, una carrera en busca del correo o ese final tan precioso como triste.

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domenica 19 febbraio 2023

Naples '44 - Francesco Patierno

un soldato inglese, Norman Lewis, scrisse nel 1978 Naples '44 raccontando il suo servizio militare fra i "liberatori" in quell'anno disgraziato.

Francesco Patierno riempie quelle pagine di immagini storiche, citazioni di film, sulle parole di Norman Lewis (lette da Adriano Giannini), riuscendo a girare un film convincente, su un popolo che ancora sopravvive ai drammi più grandi, guerra, fame, malattie.

Norman Lewis è affascinato dalla resistenza a ogni disgrazia dei napoletani, e gli dispiacerà partire.

buona (napoletana) visione - Ismaele

 

  

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 


Un'orchestrazione complessa che è il risultato di un lavoro di ricerca e di montaggio (audio e video) piuttosto impressionante; una partitura dai toni evocativi che mira a dare una forma allo sguardo (finora tradotto solo in parola) di uno straniero sulla propria città e insieme a riempire quella forma di sfumature, di piccole note di colore, di ombre e di luci che la sfaccettano e ne moltiplicano le implicazioni. Una sfida tanto più ardita se quel viaggiatore straniero è Norman Lewis, ufficiale britannico al seguito dell'esercito di liberazione nella Napoli del 1944, nonché celeberrimo narratore di viaggi e autore di culto, il cui diario di guerra è un riferimento assoluto per il genere della memorialistica.

Una sfida che Patierno abbraccia con coraggio quasi come se mettesse in bocca a Lewis, in un certo senso, le parole di Augé quando dice "lo spettacolo di quelle rovine recenti costituiva una specie di enigma di cui avvertii immediatamente l’esistenza senza identificarne i termini né coglierne la natura". Napoli infatti è stremata ("sick and tired" la definisce il narratore Benedict Cumberbatch, scelto con intelligenza per dar voce alle parole di Norman Lewis nella versione originale del film), un corpo ferito che agonizza sotto gli occhi di quel viaggiatore curioso e affascinato – senza ancora saperne il perché – dalle tante stranezze di un luogo che, nonostante lo strazio, si lascia percepire come unico…

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Naples ’44 è un film importante per la sua capacità di recupero di un’identità culturale, quella napoletana principalmente, che è formata a partire da quegli stralci di vita del dopoguerra.

Francesco Patierno è stato bravo nel dirigere un film che nonostante racconti atroci tragedie ti lascia con il sorriso, un po’ alla maniera della comicità amara delle commedie eduardiane.

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Lo sguardo alieno e curioso di un uomo catapultato in una città, di per sé enigmatica, nella sua ora più scura, è una testimonianza affascinante, anche per il pubblico italiano. Sorprende, infatti, che un regista napoletano, per raccontare la storia della propria città, scelga il punto di vista straniero di un “invasore-liberatore”. Nelle intenzioni di Patierno, forse, c’era addirittura di fare di Naples ’44 un vero film di finzione, magari con Cumberbatch come protagonista? Non lo sapremo mai. E’ certo che, nella strada scelta dell’ibrido documentario-fiction, i suggerimenti a un legame continuo tra presente e passato (Napoli che non cambia mai) sono elementi che avrebbero meritato ben altro approfondimento. Limitarsi a inserire flash contemporanei del viaggio nella memoria di un anziano protagonista (Lewis redivivo?) appesantisce il racconto, ulteriormente, l’omaggio sincero di un uomo innamorato a una popolazione spossata ma, nonostante tutto, piena di vita.

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Il commento in voce fuori campo di un anglosassone che osserva la realtà devastata con sguardo da entomologo, più ancora che antropologo, suscita nello spettatore un senso profondo di disagio, non dissimile dalla vergogna che molti italiani hanno provato nel confrontare la propria condizione miserabile con il benessere rappresentato (e a volte ostentato) dalle truppe Alleate. Alla gioia della fine della guerra è accostata la mortificazione di un'intera città impegnata a contendersi sigarette e cioccolata lanciate dalle jeep anglosassoni, o a vendere il proprio corpo per una lattina di razione o un paio di calze di seta. Ma nello sguardo di Lewis non c'è condiscendenza o crudeltà, solo una profonda pietas e un genuino affetto per personaggi come lo "zio di Roma", che Patierno genialmente raffigura con le immagini del Totò di Napoli milionaria. Il suo soggiorno nella città ridotta ad un cumulo di macerie, popolata da fantasmi senza scarpe infagottati in abiti ricavati da coperte militari, presa d'assalto dai pidocchi, dal tifo e dal vaiolo, è un viaggio in un girone infernale e nello stesso tempo una lezione di profonda umanità. Soprattutto, è una denuncia accorata ma mai melodrammatica (anche perché raccontata con apparente distacco British) della devastazione provocata dalla guerra, ogni guerra, e dall'attacco alla dignità umana che comporta: gli informatori, le signorine, i bambini con le mani tese, le allucinazioni di massa sono manifestazioni di ciò che l'essere umano si ritrova a diventare per assicurarsi la sopravvivenza. E come sempre il mercato nero e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo trovano nella disperazione altrui il migliore terreno di crescita.

Ma in Naples '44 non c'è spazio per i patetismi: tutta la narrazione, soprattutto grazie all'accostamento sapiente delle immagini scelte da Patierno alle parole di Lewis, è imbevuta di amarissima ironia e insieme di delicata tenerezza per un'umanità allo sbando, che persino sotto quella "sudicia crosta del tempo di guerra" che aveva "riportato i napoletani nel Medioevo" conserva la volontà di resistere. Impossibile non correre col pensiero alla Aleppo dei nostri giorni, e non riflettere su quanto la guerra sia sempre un abominio intollerabile.
Eccezionali il montaggio di Maria Fantastica Valmori, il commento musicale di Andrea Guerra, e soprattutto il lavoro di ricerca iconografica che dissotterra (è il caso di dirlo) una quantità di materiale inedito di straziante potenza documentaria.

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venerdì 17 febbraio 2023

Taxi Teheran - Jafar Panahi

Jafar, persona non grata per il Potere del suo paese, non può girare film, ma lui lo fa lo stesso.

certo, sono piccoli film, fatti in casa, costa solo la benzina e il nastro delle riprese, il resto è buona, anzi ottima, volontà.

il regista filma con la camera (abbastanza) fisse, in auto, persone e pensieri interessanti, come se si potessero dire quelle cose liberamente.

l'effetto è strano, e bellissimo.

non perdetevelo, il biglietto oggi è regalato.

buona (chiacchierata) visione - Ismaele

 

QUI il film completo, sottotitolato in italiano, su Raiplay

 

 

 

Un piccolo film girato con nulla, ma potente e geniale, girato nello stile di “Dieci” del maestro dell'autore e più famoso autore iraniano Abbas Kiarostami, con cui tanto ha collaborato Panhai e dal quale il nostro ha saputo trarre le tecniche e la classe registica con cui, anche in condizioni di fatto impossibili, il cineasta riesce a incantarci e a farci riflettere in modo dirompente e, viste le drammatiche circostanze personali che lo affliggono ormai da anni, dopo reclusioni e l'attuale libertà vigilata, in grado di commuoverci e straziarci il cuore.

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…Pahani è libero di girare come gli pare e piace, nonostante l’arresto domiciliare per via della sua propaganda anti-islamica e l’arresto del 2010, e per questo si offre anche di un fornire un ritratto dell’Iran contemporanea attraverso i vari passeggeri, con varie tematiche che vengono toccate attraverso le conversazioni che si susseguono tra i passeggeri: si passa a parlare del personale concetto di giustizia, della pena di morte, di cui l’Iran detiene il terzo posto per esecuzione di pene capitali, finché non si giunge a parlare di cinema, di cui tutto il lungometraggio ne sembra impregnato. Si citano i film di Panahi stesso, viene denunciata la censura dei film occidentali da parte del governo, il che causa la circolazione di dvd illegali, ormai unica fonte che permette agli studenti di cinema di formarsi. Jafar diventa una sorta di anziano saggio su cui fare affidamento circa la scelta di questi dvd e come zio raccomanda alla nipote alcune dritte su come girare un filmato per un compito affidato dalla scuola.

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Un film dedicato al cinema come forma di espressione libera, pieno di humour, poesia ed originalità. «Le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore – ha affermato Darren Aronofsky, presidente della giuria del Festival di Berlino 2015, in occasione della consegna dell’Orso d’Oro alla piccola  Hana Saeidi Panahi, nipote del cineasta ed interprete in erba del film – poiché gli permettono di superare se stesso. Ma a volte le restrizioni possono essere talmente soffocanti da distruggere un progetto ed annientare l’anima dell’artista. Jafar Panahi, invece, ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico». Per evitare di mettere ulteriormente in pericolo i generosi artisti che hanno lavorato con lui, Panahi ha scelto di non inserire credits al film, ma i volti, le idee e le interpretazioni veicolano messaggi che rimangono nello spettatore anche senza nulla di scritto.

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Il tassista Panahi è svagato, divertito, confuso, è buono con tutti, non fa altro che scusarsi date le sue tremende mancanze professionali, i suoi incrontri sono tutti significativi e creno dei piccoli mondi, dei microuniversi all'interno dell'auto. Si comprende subito, già dai primi due passeggeri, che il film non sarà soltanto un semplice esperimento, ma una profonda riflessione sulla libertà, la legge e le condizioni attuali dell'Iran. Infatti, i primi due clienti di Panahi parlano della giustizia, sul fatto che sia giusto o meno condannare a morte per piccoli reati anche solo per dare un segno; Scoprirero che la persona che si batte per la condanna a morte è in realtà un borseggiatore. Dopo di loro abbiamo un nano che dice di svolgere un lavoro molto importante, poiché vende copie di film vietati e tra questi c'è Midnight in Paris di Woody Allen che Panahi ha potuto vedere grazie a lui. L'incontro con la nipote è incredibilmente significativo, poiché è una bambina che cerca di fare il suo primo film con la macchina fotografica e deve rispettare le regole rigidissime imposte dall'insegnante di cinema, straordinario il momento in cui la piccola legge le regole allo zio che a causa delle stesse non può girare per venti anni. Poi abbiamo lo splendido incontro con l'avvocato che difende i diritti dei soppressi e il finale con la telecamera rubata è una denuncia che ci fa capire che solo l'ingiustizia può fermare l'arte e la libertà espressiva. Taxi Teheran è un capolavorio di ironia, di silenzi lancinanti, di dolore e presa di coscienza, è soprattutto un grido di liberazione, una speranza che mette luce per ogni artista soppresso, ma naturalmente non è un capolavoro per la semplice condizione attuale di Panahi ma per la grandezza artistica dello stesso che rende ogni momento profondo, non uscendo mai dalla grazia del cinema per farci cadere in un banale filmato da reality, ma tutto è sempre circoscritto all'arte e alla sua forza espressiva.

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giovedì 16 febbraio 2023

Tepenin ardi (Beyond the Hill) - Emin Alper

dei nemici assediano la terra di un padrone di capre e di un piccolo bosco e quei nemici/nomadi, oltre le colline, pare che a volte  facciano pascolare i loro animali nei terreni di quel padrone.

un figlio, che vive in città, va a trovare il padre/padrone con i due nipoti, un fucile oggetto di desiderio, un'arma che quando appare sai che sparerà, la guerra inizierà.

gran bel film, l'opera prima di Emin Alper, cercatelo.

buona (drammatica) visione - Ismaele


 

 

L'opera prima di Emin Alper (formato in economia e storia moderna) è un thriller anomalo perché intreccia elementi di dramma familiare, black comedy, "western revisionista" e persino horror. La scelta intenzionale del regista è quella di costruire un'intelligente allegoria con un forte significato. In effetti ha dichiarato che una parte sostanziale del tradizionale "senso comune" dei turchi riguarda la paura irrazionale nei confronti dell'altro, del diverso. Il film offre una lucida e agghiacciante rappresentazione di un microcosmo bloccato moralmente dalle proprie contraddizioni e fortemente condizionato dai pregiudizi culturali. La narrazione è ricca di sfaccettature e accumula lentamente motivi e dettagli. Le dinamiche relazionali tra i personaggi sono complesse, ma non artificiose. La tensione cresce progressivamente, mescolando calma angosciante e sorpresa minacciosa, grazie ad un abile gioco di inquadrature e di montaggio.
Alper utilizza efficacemente alcune convenzioni di genere per costruire un'atmosfera di mistero e una sensazione di costante pericolo. Valorizza visivamente anche il non detto e le emozioni che non possono esprimersi liberamente a causa delle dinamiche dell'egemonia e della prevaricazione in una società maschile, patriarcale e autoritaria, i cui membri sono al tempo stesso rei e vittime. La sua solida scrittura e il suo sguardo sono sottilmente critici, senza scadere mai in una deriva pedagogica o in inutili psicologismi. Un ulteriore fattore di qualità del film risiede nella recitazione di tutti gli attori che appare in eccellente sintonia con il clima della storia.

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Beyond the Hill si concentra tutto nello spazio di confine dichiarato fin dal titolo, appunto quell'oltre la collina dove vivono i nomadi, una sorta di territorio liminare che circoscrive ciò che è "altro da sé" e che, dunque, proprio in quanto diverso, è inevitabilmente ostile. Un sedicente "nemico" che è minaccioso quanto più è invisibile, quasi una specie di proiezione mentale in cui si sostanzia tutto il razzismo e la xenofobia dei protagonisti. Alper affronta temi universali - come il rapporto inestricabile tra cultura e natura, l'irriducibile differenza tra il sé e l'altro, e la connaturata violenza insita nell'uomo - ma, attraverso alcune allusioni simboliche, firma anche un vero e proprio pamphlet (venato, soprattutto sul finale, da toni satirici e grotteschi) contro le degenerazioni della politica militarista e l'atteggiamento reazionario della società turca. Il tutto attraverso uno sguardo innovativo, che sopperisce alle limitazioni di budget con l'originalità delle soluzioni stilistiche e con interpreti intensi e autentici (in particolare l'allucinato Berk Hakman nel ruolo di Zafer).

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