sabato 11 febbraio 2023

E ora dove andiamo? - Nadine Labaki

con un realismo magico alla Kusturica, Nadine Labaki riesce a far ridere e a far pensare.

in una nazione in guerra c'è un villaggio dove musulmani e cristiani riescono a convivere senza troppi problemi.

e quando un incendio sta per scoppiare tocca alla fantasia e alla determinazione delle donne riuscire a non far saltare il tappo dell'odio etnico.

non è un capolavoro, ma si vede davvero bene.

buona (allucinata) visione - Ismaele

 

 

 

…Labaki dirige ed interpreta con la leggerezza delle parole e il macigno del loro significato. Infatti, è un film dai forti contrasti, capace di raccontare il dramma dell’intolleranza religiosa e le sue conseguenze, non discordando con il sorriso di chi non perde la speranza ed ha una profonda fede nelle capacità dell'arte e quindi anche del cinema di farsi portento di pace. E ora dove andiamo?é un monito al mondo Occidentale, rispetto a quell’altro; ai credenti cristiani, come a quelli mussulmani, ecc. E’ un noi che ci contiene tutti, a prescindere dalla fede.
La bellezza della gente di fronte alla meraviglia delle immagini, a cinema o sul piccolo schermo, ricordano tanto cinema italiano di Desichiana memoria, al modo della moschea invasa dalle bestie, che ricorda i tanti tentativi di scoperchiare, scardinare, aprire e abbattere i cancelli e i muri che dividono (come non pensare all’ultimo Olmi?).
Intensa e tuttavia molto essenziale la colonna sonora (Khaled Mouzannar), che insieme alla bella fotografia (Christophe Offenstein) rendono il film un’opera di notevole attenzione. Peccano soltanto la compiacenza della bellissima attrice/regista, che si pone eccessivamente troppo in prima posa e l’eccessiva lunghezza del film. 
Pur tuttavia, la Labaki è capace di riportare tutti dalla parte di chi, mettendosi in discussione, si chiede chi siamo noi per pronunciare “perdona loro perché non sanno quel che fanno”, prima di chiederci quel che combiniamo. Tutto questo, per mezzo del Cinema. Mica poco!

da qui

 

Un film tutto al femminile. I soli due uomini al loro fianco sono l’imam ed il prete. La religione diventa al femminea, ed un alleato reale per combattere la pace. Donne e religioni sono l’ultimo baluardo della concordia. L’imam ed il prete accetteranno la sedizione umana proposta da madri e sorelle disperate, perché, anche se contrario alle loro finalità, capiscono la loro prostrazione. La pellicola punta tutto sulle muliebri interpreti. La loro recitazione è un livello sopra le righe rispetto a quella maschile. A volte si trasformano in maschere o di dolore o comiche. Le loro danze, i canti sono il linguaggio, la cifra stilistica della regista. L’ammantata terra solare libanese, riflette una luce profonda e viva. Pure il cimitero, ultima destinazione finale, diviene una separazione netta. La rivoluzione dei ruoli comporta un’inquietante domanda sul posizionamento in una terra bellissima ma burrascosa. Nel villaggio c’è un matto, la classica persona il cui lume della ragione è svanito. È la persona che con la sua bizzarra pazzia: “non sa più se è cristiano o musulmano.” E questa frase, collocata all’interno della narrazione, si collega con la domanda finale, riportando alla luce tutta una discussione sul ruolo delle donne. La traccia del film è tutta su una separazione dicotomica. Paese, cimitero, persone, natura si spaccano in due, trovano una loro comune posizione per poi dividersi. Così per i rapporti umani: donne e uomini si uniscono e si separano. Come nel sogno di Amale (procace cristiana) e Rabih (avvenente uomo musulmano). La loro passione è forte, ma permane questa divisione incolmabile. Il cinema la descrive unendo nella stessa scena, i loro sguardi, scambiati con finta indifferenza, con il loro sogno ad occhi aperti di un ballo carnale e lussurioso fra i due. Il ripudio religioso e la passione di congiungersi coesistono nella stessa sequenza.

da qui

 

Una splendida amalgama di donne nero vestite che inscenano una danza nel contempo simbolica e sensuale, tra le strade polverose di una campagna solare ed arida, paradisiaca solo in apparenza ma in realta' insediata di mine dagli effetti devastanti su pascoli ed esseri umani, da' avvio ad una vicenda in cui si sorride di cose serie, ma senza mai vergognarsi e si riflette sulla inguaribile intolleranza e pochezza della razza umana.

da qui

 

…E se le motivazioni per cui combattere sono ridicole, perché non possono essere altrettanto anche i rimedi? Questo sembra chiedersi la bella e talentuosa regista (anche interprete) ed è così che lascia le armi e la violenza agli uomini, e fa lavorare d'ingegno le sole donne che le provano proprio tutte (dall'inventarsi di sana pianta un miracolo, all'assoldare un manipolo di spogliarelliste ucraine) pur di distogliere gli uomini dai loro intenti bellicosi. Non sono certo idee brillanti, anche se spassosissime, ma ciò che importa è che le donne sembrano essere tutte concordi (al di là anche delle diverse fedi religiose) nell'interrompere la follia di un conflitto fratricida che ha già fatto troppi morti, mentre gli uomini non sembrano saper guardare oltre i propri pugni, o peggio ancora fucili, ma si ammansiscono soltanto davanti all'alcool, al cibo e alle belle donne.

Un atto di denuncia che, nonostante il tono lieve, si eleva deciso e che riecheggia con forza nel divertente ma amarissimo finale; un finale che, in contrapposizione a quello che di norma richiederebbe una commedia o un musical, non può essere né lieto né risolutivo, perché in certe situazioni e in certi paesi è davvero difficile mettere la parola fine, semmai si è sempre destinati a ricominciare.

da qui

 

Here's a notion: Peace in the Middle East would come about more easily if the region were governed by women. After relegating women to inferior or invisible roles in society, many of the region's nations are governed by men who want to prove how macho they are. Even religious strife is largely fueled by testosterone, not theology. Although women are also flawed, by their natures they lean toward compromise and accommodation. They don't see everything as a test.

Nadine Labaki's "Where Do We Go Now?" is an intriguing comedy in which the women of a tiny, isolated Lebanese village conspire to bring about peace. The local Christians and Muslims have co-existed since time immemorial. Recently the men, inflamed by the introduction of TV and its outside news, have decided the two groups are enemies. When two crowds get into a shoving match, it's always the insecure hotheads who take the lead. Members of the two religious groups are virtually identical in culture. They do the same jobs, eat the same food, like the same music, speak the same language…

da qui

 

…Numerosi sono i momenti di scollamento dalla realtà, come all'inizio del film, quando tutte le donne del villaggio si dirigono a pregare verso la tomba dei loro cari, e questo carosello in divisa da lutto, sulle note di una musica etnica, si trasforma in un singolare e ancheggiante balletto; la Labaki, però, non realizza una commedia musicale, come una scena del genere potrebbe far supporre, bensì inserisce alcune sequenze da musical a macchia di leopardo nel tessuto filmico, oltrepassando abbondantemente la soglia del videoclip (di cui è stata regista a inizio carriera). Vista la loro natura accessoria, non si possono  definire altrimenti le scene della canzone d'amore "pensata" da Amale (Labaki) e Rabih (Farhat), la triste fuga nei boschi della donna interpretata dalla regista e la sequenza del folle esperimento gastronomico (la più divertente del film). Lo sguardo della Labaki non riesce a dare personalità a una regia attenta solo a inquadrare le azioni e a non farne risaltare le motivazioni emotive, sottolineate poi dagli sfoghi dei personaggi di Amale e Takla in momenti ad alto tasso isterico-drammatico: la regia rimane patinata e appiattita su una fotografia dai colori stereotipati, che sembra ambientare fin troppo spesso le scene all'alba o al tramonto…

da qui

 


Nessun commento:

Posta un commento