lunedì 31 ottobre 2022

Gli orsi non esistono - Jafar Panahi

"O siamo capaci di sconfiggere le opinioni contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza.", dice Ernesto Che Guevara.

mutatis mutandis la frase del Che è sempre vera.

mettere in galera dei registi perche il Potere non è d'accordo con quello che fanno e dicono nei loro film è una schifezza universale.

e vale anche per Jafar Panahi, che deve inventarsi modi sempre nuovi per raccontare storie, sempre più condizionate dalla censura, e però sempre libere, la libertà è lo sfondo e il tema del film.

è un piccolo grande film, dove finzione e realtà si alternano e si sovrappongono.

cercatelo e soffritene tutti, nelle poche sale dove si può ancora vedere.

buona (galeotta) visione - Ismaele

 

 

 

Ne Gli orsi non esistono, Panahi si rifugia, con una cinepresa amatoriale e un pc portatile, in un paesino sperduto al confine fra Iran e Turchia, convinto, o quanto meno speranzoso, di poter fornire le direttive registiche del film che ha in mente, da remoto, ai suoi collaboratori che girano in una città turca (le targhe delle auto sono quelle dell’area di Istanbul…).

Ma le cose non fileranno lisce: nel ‘bunker’ (più che una casa è una grotta) in cui si trova, non c’è campo e, per trovarlo, Panahi deve arrampicarsi su una scala; il suo ospite, che lo chiama con apparente rispetto «caro signore» è in realtà terrorizzato dai paesani (e dallo sceriffo che li comanda) e finisce per incasinare la vita del regista che, non l’avesse mai fatto, ha fotografato, casualmente e senza alcun intento specifico, una ragazza già promessa, al momento in cui nacque, quando le fu tagliato il cordone ombelicale, a un uomo che non è quello che sta accanto a lei nell’immagine colta da Panahi. Il Municipio si coalizza: vuole a tutti i costi quella foto (che opportunamente Panahi cancella dalla scheda della sua macchina fotografica) e i paesani per ottenerla (e poi distruggerla) rompono le palle al regista fino allo stremo, costringendolo a giurare sul Corano di non aver mai immortalato i due ragazzi...

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In libertà condizionata dal 2010, l’iraniano Jafar Panahi ha fatto dei film girati da remoto un’arte, nonché un metodo geniale per beffare la censura, apparendovi spesso in prima persona (vedi “Taxi Teheran”). In questo “Gli orsi non esistono”, laureato a Venezia con un prudente Premio speciale della Giuria, va anche oltre. Integrando in un’unica, spietata, commovente riflessione i due spazi in cui si articola il film. Ovvero il paesino di frontiera in cui Panahi si è stabilito per dirigere le riprese a distanza, via computer; e il set del docu-fiction che è invece oltre confine, in Turchia.

La realtà prenderà infatti il sopravvento tanto sul set, in Turchia, che in quel paesino miserabile e sonnacchioso ma dominato da regole arcaiche e brutali (come tutto l’Iran). Destinate a esplodere proprio per la presenza di quell’intruso armato di telecamere e macchine fotografiche.

La realtà si è imposta una terza volta l’11 luglio, quando Panahi è stato tradotto nel carcere di Evin, dove è tuttora detenuto, per aver protestato contro l’arresto dei colleghi Mohamad Rasoulof (il regista di “Il male non esiste”) e Mostafa Al-Hamad. Evento non imprevedibile che rende ancora più urgente “Gli orsi non esistono”, amara riflessione sulle immagini, la Legge e l’esilio, ovvero sulla scelta di restare nel proprio paese perfino quando tutto invita alla fuga (ma si può sempre tirare il freno a mano, come farà appunto Panahi)…

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…Non sono più i tempi in cui il regime consegnava e controllava la quantità di pellicola utilizzata per girare un film 'autorizzato' preceduto dall'immancabile "In nome di Dio". Oggi si procede diversamente e, se necessario, per interposte persone. Ecco allora una storia d'amore così forte da chiedere di essere raccontata ma che, al contempo, finisce con il reclamare una 'verità' che anche il cinema più indipendente può faticare a cogliere nella sua essenza. 
Ma c'è un'altra vicenda che avviene nel villaggio e che coinvolge Panahi al punto da costringerlo ad andarsene. Muovendosi su questo doppio registro riesce non solo a raccontarci due situazioni definite nel tempo e nello spazio ma anche a ricordarci come il potere espanda i suoi tentacoli anche nei luoghi più remoti approfittando dei pregiudizi e dell'ignoranza.

Resta comunque il bisogno irrefrenabile dell'artista di esprimersi con il mezzo a lui più congeniale, giocando anche sulla sospensione dell'incredulità. Lo spettatore deve pensare ad un Panahi in solitudine nel villaggio mentre invece viene ripreso con camera in movimento da qualcuno che è lì con lui. Questa però non è finzione nel senso deteriore del termine. È fare cinema di testimonianza esponendosi in prima persona ponendosi dietro e davanti alla macchina da presa non avendo il timore di firmare così la propria condanna pur di raccontare senza costrizioni servili.

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Gli orsi non esistono si apre con un piano sequenza: la macchina da presa, attraverso una panoramica, segue una donna, Zara, uscire da un bar in cui lavora e incontrarsi con un uomo, Bakhtiyar. Quello che scopriremo essere il suo compagno le dà un passaporto falsificato, necessario per scappare dal paese e andare a Parigi. L’uomo però non è riuscito a far preparare in tempo il proprio documento, quindi Zara dovrà andare da sola. Ne segue una breve discussione, la donna rientra nel locale. “Taglia”, sentiamo fuori campo. Uno zoom all’indietro rivela uno schermo del computer, attraverso il quale lo spettatore stava vedendo la scena. Viene mostrato Panahi, davanti allo schermo, che parla in videochiamata con il proprio assistente, dandogli indicazioni sulle direttive da dare agli attori. Il regista, infatti, non è a Teheran con la propria troupe a girare il film, dal momento che il governo gli ha proibito di realizzare film e di lasciare il paese per i prossimi vent’anni. Panahi si trova in un villaggio di confine e segue la lavorazione a distanza. Parallelamente, alla storia di “fiction” che il regista sta realizzando, nel villaggio in cui è ospitato si consuma una storia d’amore “proibita” tra due giovani ragazzi, che vorrebbero scappare oltre il confine lasciandosi alle spalle le restrizioni imposte dalle proprie famiglie e da tradizioni centenarie che limitano la libertà di scelta dell’individuo…

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Gli orsi non esistono è pieno di momenti simili, in cui una storia finta racconta veri problemi, desideri e pulsioni. In cui filmare è un atto pericoloso e da sovversivi (ma in quanti posti al mondo una cosa simile è ancora vera? Quante persone nel pianeta sono pronte a combattere filmando?), in cui un mondo molto tradizionale, quello dei paesini montani lontani da tutto, si scontra con la mentalità cosmopolita e moderna di Panahi. Tradizione contro cinema, addirittura nel momento più alto quando dovrà rendere una testimonianza davanti a tutti Panahi chiederà di potersi filmare mentre lo fa e quindi sostituirà il corano (su cui giurare) con una videocamera. Niente di più simbolico e potente. C’è da commuoversi sia per la fiducia nelle immagini di quest’uomo (e per come è in grado di trasmetterla e farla capire) che per la sua tenacia, il desiderio di continuare ad opporsi addirittura mettendo in un suo film i metodi che usa per girare clandestinamente e la straordinaria umanità dei suoi personaggi. Lo stato lo vessa e perseguita in ogni modo e lui continua a ritrarre le persone con la mentalità più ostile e arretrata con il massimo dell’affetto.

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Il metacinema di Panahi non è altezzoso, elitario o estetizzante. È un’idea di metacinema, anzi, schiettamente popolare, molto chiara e diretta nei suoi messaggi, decisamente lontana da ellissi e perifrasi. Anche Gli orsi non esistono non riflette tout court sui mezzi della rappresentazione, non cerca in alcun modo di astrarsi dal dato bruto del reale verso la teoria del linguaggio. È cinema che anzi vuole sporcarsi totalmente con la realtà, affondare in essa, riflettere sul cinema stesso come puro prodotto del fare. Cinema come frutto di un’attività umana che momento dopo momento deve scontrarsi con i limiti imposti dal contingente. Si può cedere anche la macchina da presa a qualcun altro, ad esempio. Purché il cinema sia ancora possibile, e possano ancora conservarsi margini di espressione, si può affidare il mezzo anche a un conoscente inesperto.È un cinema che finisce per delinearsi come inevitabilmente politico. Un autore costretto a operare nelle condizioni di Panahi non può che trasformare in atto politico qualsiasi presa di parola, qualsiasi esternazione, qualsiasi frutto della sua coscienza, che sia cinema o quant’altro. È molto probabile che in altre condizioni il percorso artistico di Panahi avrebbe seguito strade diverse. Proprio per questo Gli orsi non esistono è un ulteriore tassello di cinema della necessità. Non può essere altro che questo. Non può parlare che di questo. L’atto creativo è già di per sé affermazione dell’individuo. Affermazione della sua esistenza. E il cinema si tramuta in veicolo per ripetere ancora, finché si può, «Io sono qui». L’individuo è il primo oltraggio al regime. In tal senso, che sia scelta o necessità, è comunque perfettamente coerente anche l’onnipresenza in scena dello stesso Panahi. Io sono qui. 

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La scrittura del film è complessa e in continua evoluzione, con personaggi che entrano ed escono dalla meta storia del film che Panahi sta girando durante il film. La storia viene poi postulata come vera (una sorta di documentario che testimonia il tentativo di fuga di due perseguitati dal regime), ma sappiamo che in realtà sono degli attori a fingere di interpretare dissidenti che si fingono attori per sfuggire dal paese. La regia, anche se con limiti evidenti, è capace persino di un paio di virtuosismi e ci immerge in un approccio naturalista in cui talvolta dimentichiamo che quando Panahi finge di fare riprese amatoriali, non assistiamo a una scena reale, ma a una messa in scena con un cameraman che sta girando.

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domenica 30 ottobre 2022

Bolivia - Israel Adrián Caetano

Freddy, un migrante boliviano irregolare a Buenos Aires, trova un lavoro in un bar/bisteccheria.

la famiglia è a La Paz, intanto conosce una collega di lavoro, Rosa, e una notte hanno una storia.

Freddy è gentile, onesto e il suo padrone non sembra una cattiva persona.

cattivi e razzisti sono i clienti del bar e per Freddy non c'è scampo.

piccolo triste film da non perdere.

buona (clandestina) visione - Ismaele

 

 

 

Dueño del bar es Don Enrique, muy bien compuesto por el veterano actor Enrique Liporace (el resto de los personajes también lleva el nombre de pila de sus respectivos intérpretes). Este hombre dista de ser un gran explotador, o cualquier cosa que se le parezca, y sin embargo aparece sobre la cúspide de la pirámide social que, al modo de un microcosmos, ocupa el centro del largometraje. Un escalón más abajo se ubican los taxistas, y más abajo el personal, que integran el boliviano Freddy –indocumentado, recientemente conchavado como parrillero– y la paraguaya Rosa, ya mesera de hace rato en el lugar. Entre los actores, mayormente no-profesionales, brilla Rosa con su pudor, que no es recato sino más bien política laboral, y Freddy con sus silencios, su actitud serena, seria, virtualmente a reglamento (no desplanta al dueño, pero jamás le lame las botas). La sutileza de estos trabajos es verdaderamente inusual.

Varios cúmulos de tensiones recorren al microcosmos. Los maltratos que por $15 diarios soportan camarera y parrillero, especialmente del patrón pero también de los clientes, son algunas de ellas. Otras tensiones, igualmente relacionadas con el dinero (y con su falta), colocan a alguno de los taxistas bajo el yugo del bolichero, al que adeuda una abultada cuenta impaga, aunque la paga, de algún modo, soportando otros maltratos. El asunto es más complejo, empero, ya que un segundo sistema de tensiones, relacionadas más directamente con la propiedad, llega a oponer a clientes y empleados, colocando a estos últimos del lado de la patronal cuando –por ejemplo– echan a dormilones y borrachos del local por cuenta y orden del propietario.

Es un planteo rico, fuerte... y peligroso. Detrás de todas las tensiones está la escasez, la expropiación, la malaria, y por delante las pequeñas y medianas ruindades cotidianas que la misma puede y suele generar. Este estado de las cosas no tiene ningún tipo de solución dentro de sí (tampoco la postula la película), pero todo microcosmos se perfila como expresión condensada de un cosmos. En otras palabras: el boliche como reflejo de otro boliche, mucho más grande, llamado República Argentina. Ahora bien: mientras los avatares del laboratorio de Bolivia se asemejan a los escenarios de "guerra de pobres contra pobres" que agitan muy interesadamente ciertos medios, los acontecimientos mencionados al comienzo de estas líneas enseñan poderosamente que otras guerras, más precisamente dos, se anteponen a ésta en calibre, en determinaciones y en consecuencias: la que libra una pequeña fracción de los ricos contra el resto de la sociedad; y la de ricos contra ricos (es decir, entre facciones de aquella misma fracción). Por supuesto que estas guerras también involucran nacionalidades, pero muy otras que las de quienes frecuentan esta clase de bares. La referida desactualización tiene que ver con esto y, en menor medida, con el hecho de que ya no hay peruanos, paraguayos o bolivianos como Freddy, que hagan "cabeza de playa" en Buenos Aires para traer luego a sus familias, sino que abundan los que dejan este infierno para regresar a sus castigadas patrias…

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Con bajo presupuesto, filmada en blanco y negro y en su mayoría en una misma locación, Bolivia cuenta la historia de Freddy, un inmigrante boliviano que trabaja en una cafetería en Buenos Aires, con la firme intención de ganar suficiente dinero para traer a su esposa y a sus tres hijas a Argentina y establecerse. La presencia de Freddy, sin embargo, no es bien vista por los habituales parroquianos del lugar, que, enfrentados al desempleo y la desesperanza causados por la crisis económica, no ven con buenos ojos el que un extranjero venga a tomar los pocos trabajos que quedan.

Esta película ha sido comparada con Haz lo Correcto, de Spike Lee y en efecto, es como una mini-versión de aquel recordado drama, haciendo un válido y crudo comentario sobre el racismo. La tensión por la presencia de Freddy en la cafetería – representada por el Oso, uno de los tantos desdichados golpeados por la crisis, desempleado, sin dinero, lleno de deudas y con un juicio a cuestas que amenaza con quitarle hasta la camisa – va en constante aumento hasta desembocar, al igual que la destrucción masiva en la pizzería de Sal, en un chocante y brutal suceso (que, dadas las circunstancias, igual se ve venir, pero no por eso es menos efectivo), pero en menor escala…

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The 33-year-old Uruguayan-born but now living in Argentina director, Israel Adrián Caetano, dazzles us with his debut feature. It’s a compelling parable told in a realistic manner about a gentle illegal immigrant from Bolivia, Freddy Flores (Freddy Flores), who lands a job as a cook in a Buenos Aires greasy spoon to support his wife and three daughters back home. He can’t find work in his impoverished country when Yankee drug enforcement officers burn down the fields where he worked picking fruit and cocoa.

It’s filmed in a grainy black-and-white, and shot almost entirely in the dumpy café that caters to taxi drivers, antagonistic complainers, and low end of the scale working-class people. The wary boss, Enrique Galmes (Enrique Liporace), overbearingly rules over his staff of two, both immigrants he’s hired for peanuts. The newly hired Freddy works the grill, while Rosa Sánchez (Rosa Sánchez) is the sexy waitress for the last year. She’s half-Paraguayan, and has an expertise in handling passes made at her from the customers (the boss is both protective and exploitative of her). The café patrons express their fervent nationalism and prejudices against all foreigners, and treat Freddy with disrespect. The customers vary from druggies, racists (referring to Paraguayans, Uruguayans, and Bolivians as “niggers”), homosexuals, hostile drunks, or those in debt. There’s turmoil in their lives that’s heightened because of the poor Argentina economy causing vast unemployment and a severe recession. It seems odd that the Bolivian is coming to this poverty-stricken country to make a living, a country where its natives are having difficulty surviving and are in no mood to accept foreigners taking away the few jobs left.

Romina Lafranchini’s plotless and sparse script adequately captures the gritty everyday struggles that lead to both the police hassling Freddy because he doesn’t have a work permit and the customers because they resent him as a dark skinned foreigner. It’s a frightening and hard-hitting look at the marginalized (an old story that brings out nothing new, but tells its tale with conviction and force), who are caught in a dark urban setting as they try to make human contact and maintain some kind of civility until they reach their boiling point and explode with violence. The film is handled like a ticking time-bomb.

It’s a powerful neo-realistic look at the faceless masses, that takes Freddy’s sad face as the human face for the disenfranchised all over the world. His face is the one the world rarely sees, even in movies, the one who’s ill-prepared and powerless to deal with the invisible forces that control his life and bring about such human tragedy.

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sabato 29 ottobre 2022

Brado – Kim Rossi Stuart

il film parte lento, c'è da mettere a fuoco i personaggi e i loro caratteri, poi pian piano acquista spessore e profondità. 

gli attori sono bravi, naturalmente anche merito del regista, che racconta una storia che riesce a coinvolgere chi guarda, la storia di un amore difficile fra padre e figlio, e della loro complicata e commovente (ri)conciliazione.

il cavallo Trevor è uno dei protagonisti del film, forse il suo centro di gravità.

un film che merita di essere visto, e ricompensa il tempo dedicato a Renato e a Tommaso.

buona (western) visione - Ismaele 

 

 

... Personaggio terribile dall’atteggiamento insostenibile, pieno di sé, arrogante e convinto di poter domare l’indomabile, Renato ha preso un cavallo che tutti ritengono ingestibile e lo vuole far saltare, vuole fargli fare le gare ma nemmeno riesce a montarlo. È un’impresa stupida e Impossibile per chiunque ma non per la coppia Renato/Tommaso, almeno se superano la convivenza. Era facilissimo raccontare questo rapporto procedendo per scene-cliché e del resto il cinema l’ha fatto mille volte, Brado invece sceglie di usare il cavallo come mediatore, i due relazionandosi al cavallo si relazionano a vicenda, hanno qualcosa a cui voler bene e curare che non è direttamente l’altro e così, di rimbalzo, si parlano con i gesti e le azioni. Momenti secchi, mai sentimentali, sempre onesti. Cinema di cui c’è bisogno come l’acqua, scritto, girato e soprattutto interpretato benissimo.

Ci vuole un vero uomo di cinema per fare un film come questo, uno che conosca profondamente quest’arte, le sue possibilità e come raggiungerle, così acuto da riuscire anche a capire la propria economia all’interno dell’impresa. Kim Rossi Stuart è infatti anche attore, di nuovo e nonostante abbia il personaggio più carismatico non è il protagonista. Sa farsi da parte in modo magistrale quando serve, riservandosi il lavoro più complicato: incidere sul film e aiutare il racconto di questo figlio solo con pochissimi elementi, sguardi e gesti. È la spalla di lusso che tutti vorrebbero. Sembra recitare esagerando ma è vero l'esatto contrario, fa contare ogni mossa, ogni gesto e addirittura anche la stasi. Lo dimostra il fatto che sia sempre nervoso e arrabbiato il suo Renato ma poi quando lascia uscire il livore vero, in una notte di rinfacci terribili, è un altro passo, apre proprio un’altra scatola da cui escono mostri dallo sguardo luciferino,  i demoni che lo affliggono da anni gli deformano il volto…

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È un film segnato dal tempo. Quello che trascorre e quello passato che si cerca disperatamente di recuperare. Non fa niente per farsi piacere e si ama proprio per come riesce ad essere spigoloso, per come disegna un protagonista apparentemente respingente che sembra a metà tra Kevin Costner e Robert Duvall. Il cinema di Kim Rossi Stuart regista è una terra di confine, che si prende i suoi tempi per liberare gli affetti e sa raccontare la paura (della morte, della sfida, di essere felici) come nessuno oggi in Italia. Per questo diventano esaltanti le pause (il cielo stellato), gli abbracci della figlia Viola e la gara. La scena in cui Tommaso e Trevor iniziano a trovare la giusta sintonia è quella in cu Brado cambia direzione, apre migliaia di possibili scenari narrativi e l’ingresso di Anna, l’addestratrice di cavalli, diventa un ulteriore elemento di una famiglia che si allarga. Non c’è bisogno di essere per forza parenti per farne parte. E qui, dentro Brado, attraverso una famiglia, anzi famiglie itineranti che vanno e vengono, si costruiscono le storie di tutta una vita. È emozionante proprio perché non fa nulla per emozionare, ha un cuore grande così proprio perché nasconde agli altri quello che prova. Kim Rossi Stuart neanche ci avrà pensato, ma qui dentro c’è anche il fantasma di Robert Redford…

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Sognando a occhi aperti dunque si può sperare che il pubblico italiano ritrovi un contatto con quegli autori e quelle produzioni che rifuggono dalla rappresentazione stantia e preordinata del mondo. Il cinema italiano, al di là della sua florida produzione sotterranea – non è nell’indipendenza tout court che si annida il male per quel che concerne lo scenario nazionale, anche se perfino lì si respira spesso un’aria troppo standardizzata –, deve rintracciare il germe dell’anarchia, della libertà espressiva come atto di rivendicazione dello sguardo, e della sua non accettazione dello standard. Questo desiderio spinge a “difendere” sorvolando su alcune debolezze opere come War – La guerra desiderata di Gianni Zanasi, o Il maledetto di Giulio Base. Rientra in questa schiatta anche Brado, il terzo lungometraggio diretto da Kim Rossi Stuart in sedici anni di carriera. Fin dai tempi di Anche libero va bene, tra i migliori esordi italiani del nuovo millennio, si era compreso come lo sguardo di Rossi Stuart non fosse prono, né si adagiasse lasciandosi trascinare dalla marea montante: una sensazione resa ancora più vivida dallo squilibratissimo, ma ancor più libero, Tommaso, che venne accolto con un po’ di freddezza alla Mostra del Cinema di Venezia (dov’era selezionato fuori concorso) e invece è la testimonianza di un approccio mai canonico, disperato e furibondo, lontano dagli schemi consunti del cinema italiano. Era il 2016, e nei sei anni che intercorrono tra quella proiezione lidense e la distribuzione nelle sale di Brado Rossi Stuart si è tenuto in disparte, “concedendosi” solo per due operazioni cinematografiche (Gli anni più belli di Gabriele Muccino e Cosa sarà di Francesco Bruni) e un’apparizione televisiva nella serie Maltese – Il romanzo del Commissario diretta da Gianluca Maria Tavarelli e trasmessa in prima serata da RaiUno. Ama tenersi in disparte, Kim Rossi Stuart, esattamente come il personaggio che interpreta in Brado, scorbutico allevatore di cavalli nella piana emiliana – almeno quello è l’accento diffuso tra le persone che incontra – che ha mandato alla malora tutto, dalla famiglia alla sua stessa professione, ma continua a incaponirsi sui cavalli più riottosi, quelli meno propensi a farsi domare, quelli che vorrebbero restare liberi

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Se Brado di Kim Rossi Stuart fosse una canzone sarebbe sicuramente Father & Son di Cat Stevens. Contenuta nell’album “Tea for the Tillerman” del 1970, la canzone parla di un padre e un figlio che si confrontano in un momento difficile per entrambi, quello del cambiamento. Il film, che uscirà in sala dal 20 ottobre, è il terzo film da regista per Kim Rossi Stuart e segna anche un passaggio di testimone con i precedenti. I protagonisti, infatti, hanno nomi che ritornano nelle sue pellicole quelli di Renato e Tommaso, questa volta padre e figlio. Kim Rossi Stuart è Renato, un padre scontroso che, come i personaggi dei film di Clint Eastwood, non si lascia andare facilmente alle emozioni e tiene tutto dentro. E Saul Nanni che interpreta Tommaso, un ragazzo cresciuto troppo in fretta che, a differenza del padre, farà di tutto per esternare i suoi sentimenti…

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Giacconi di velluto e jeans con la lana che trabocca alla Brockeback Mountain, campi lunghi contemplativi che si fermano un attimo prima che scatti il registro romantico, mai ingombranti ma atipici accordi country di chitarra all’americana (bravo Andrea Guerra), Brado è cinema robusto, rude, volutamente villico, dove il luciferino cinismo di Renato sbatte ciclicamente contro il sofferto rispetto e l’edipico odio viscerale del figlio. E in questa surplace familiare, il cavallo e la gara finiscono per fare quasi da sfondo, elevando (qui c’è tanto Eastwood) il filo generazionale che tende a spezzarsi a cuore pulsante dell’intero film. Kim si ritaglia una battuta caustica sulla fede, fa sentire in sottofondo un tg con la politica conquistata dalla finanza, e lascia briglia sciolta a una libido maschile etero (“quella è un bel bocconcino”, “sento sta cosa dura dietro”) oggi paradossalmente diventata merce rara, finanche rivoluzionaria…

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venerdì 28 ottobre 2022

Whisky Romeo Zulu - Enrique Piñeyro

il protagonista, che è il regista, e anche il pilota vero della storia vera raccontata nel film ci fa entrare in una storia del low cost, prezzi bassi grazie ai costi bassi e alla scarsa manutenzione e sicurezza, il volo è lasciato nelle mani di dio (che non era un pilota, si sa).

il film è teso e inquietante, un thriller che non lascia scampo, quando capisci che il film è anche un documentario e i morti non sono (stati) attori che poi si rialzano.

un film che merita, adatto anche ai viaggiatori seriali (che meditino...)

buona (volante) visione - Ismaele

 

 

 

si può vedere QUI o QUI

 

 

el director pone de manifiesto en “Whisky Romeo Zulu” una compleja trama de complicidades entre la Fuerza Aérea Argentina y la compañía privada para dejar de lado y soslayar los controles básicos operacionales de vuelo y obtener mayor rentabilidad de los mismos.

Los problemas que se le presentan al comandante en pleno proceso de reestructuración personal se comienzan a convertir en irresolubles o hacer reglamentar la lógica de seguridad o subirse al carro demencial de lo “atado con alambre” (hecho tan tradicional en nuestra cultura).

Las escenas, algunas de ellas de carácter documental, forman parte de un conjunto de obscenidades sociales (presten suma atención al diálogo que mantiene el piloto con una psiquiatra, de antología…) que avasallan cualquier horizonte superador en materia de lógica empresarial y la responsabilidad que la misma conlleva…

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…Whisky Romeo Zulu es un filme fuerte, impactante, poderosa, que hará repensar a todos aquellos que suben a un avión confiando ciegamente en los equipamientos y el control aéreo de quienes son responsables de su suerte.

El filme se centra en el largo tiempo durante el cual Piñeyro, tras ser ascendido a piloto de LAPA, trató de llamar la atención (primero interna y luego públicamente) sobre los problemas de seguridad de la línea aérea. Pero la respuesta que encontraba a sus quejas era similar a las que ahora salieron a la luz tras el caso Cromañón: "Estamos en Argentina, ¿qué querés?"

Lo que Piñeyro quería era no poner en riesgo vidas humanas y no lo consiguió. En la versión ficcional de la historia, combina tres tiempos distintos para ir acercándose de a poco al final anunciado. Por un lado vemos su evolución (o, más bien, involución) como piloto de LAPA. Por el otro, el presente del juez que lleva la causa del accidente y que recibe amenazas y atentados. Y un tercero, centrado en una historia de amor con una compañera de escuela que reaparece en su vida ya de grande (Mercedes Morán) y que se ubica del otro lado del mostrador en los debates morales del filme.

Como toda opera prima, a Piñeyro le cuesta dosificar sus subtramas y la historia de amor cobra más peso que el necesario. Y si bien se reunió de probados talentos para la fotografía y el montaje, se ve la debilidad en la dirección de actores.

Bien narrada, efectiva, poderosa y capaz de transmitir angustia y adrenalina al espectador como pocas películas argentinas recientes lo han hecho, Whisky Romeo Zulu puede no ser una gran película, pero es una película necesaria, de visión casi obligatoria, larga saga de la decadencia de un país y de sus costumbres, y de las víctimas que esa desaprensión genera.

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Uno de los empleados de LAPA y una de las víctimas de esta cultura de precios bajos en detrimento de la seguridad de los vuelos, los cuales por cierto eran fundamentalmente de cabotaje pero también cubrían destinos en Uruguay y Estados Unidos, fue Enrique Piñeyro, un verdadero Hombre del Renacimiento que nació en Génova, Italia, y vivió casi toda su vida en Argentina al punto de convertirse en médico aeronáutico, piloto de avión, cineasta, filántropo, activista social, cocinero, dueño de un restaurante, monologuista de stand up e investigador de accidentes aéreos, incluso participando -en calidad de representante de la Asociación de Pilotos- de la pesquisa con motivo del Vuelo 2553 de Austral y habiendo sido comandante de aviones en LAPA entre 1988 y aquel 1999, apenas unos meses antes del accidente del Vuelo 3142, un puesto de piloto al que renunció en junio por la presión constante del conglomerado privado para que se retracte de una valiente denuncia que había realizado acerca del calamitoso estado de los aviones, las irregularidades sistemáticas y la gran negligencia tanto de la Fuerza Aérea como de la misma LAPA, segunda empresa en importancia en el país luego de sus homólogas públicas/ estatales de Aerolíneas Argentinas y Austral Líneas Aéreas, estas dos últimas fusionadas en 2020 por la crisis que atravesó el sector a raíz de la pandemia del coronavirus. Después de dejar LAPA Piñeyro, que cuenta con una fortuna familiar, compró un Boeing 787 a Aeroméxico que utiliza para misiones humanitarias, fundó la productora Aquafilms y empezó a trabajar como actor ya que posee además formación teatral, llegando a colaborar con directores como Daniel Burman, Marco Bechis, Emanuele Crialese, Rafael Filippelli, Alejandro Chomski, Lucrecia Martel, Miguel Cohan, Lorena Muñoz y la dupla de Mariano Cohn y Gastón Duprat. Whisky Romeo Zulú (2004) es a la par su debut como realizador y guionista y un lienzo autobiográfico, encarado desde el cine ficcional, sobre su paso por LAPA en la previa al desastre en cuestión, cuando la firma recurre al ABC del ataque contra los “empleados díscolos” que no acatan órdenes, osan pensar o muestran algún margen de autonomía, a los que una y otra vez se margina y demoniza para que no renueven la solidaridad de sus compañeros y todo lleve a una huelga…

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giovedì 27 ottobre 2022

Argentina, 1985 - Santiago Mitre

per caso la giustizia civile deve decidere sui crimini della giunta argentina dal 1976.

una lotta contro il tempo per poter tenere il processo del secolo.

e la squadra scelta dal giudice Strassera (il sempre bravo Ricardo Darín) ci riesce.

un film che insegna che anche i piccoli possono giudicare i giganti del crimine istituzionale, e vincere.

una corsa verso la giustizia, sempre sotto la minaccia dei sicari.

da non perdere, non ve ne pentirete.

buona (entusiasmante) visione - Ismaele

 

 

 

Coadiuvato dalla elegante regia di Santiago Mitre, sul cui talento non vi è dubbio alcuno, Argentina, 1985 è dunque meno film d’autore e più un’opera divulgativa, dai fini nobili ma apertamente popolari, per il grande pubblico, insomma, cosa che porta inevitabilmente a ragionare sulle sue finalità commerciali. Perché se lo spettatore può provare un certo disagio nell’accorgersi di essere di fronte a una commedia grottesca sul post dittatura in Argentina, e di conseguenza di ridere frequentemente, non è da biasimare: Argentina, 1985 è un buon prodotto, certo, ed è un prodotto Amazon. Resta da augurarsi che il grande pubblico intercetti il film nel mare magnum della programmazione di questa piattaforma.

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Argentina, 1985 es, finalmente, una oda a todos aquellos individuos que trabajaron y trabajan incansablemente para traer justicia a un país tremendamente castigado por la dictadura militar. A día de hoy, miles y miles de personas permanecen desaparecidas. Como declara el fiscal Strassera en su alegato final: “Señores jueces: “Nunca más”.”

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Il film è cauto nella sua costruzione, abbracciando il più tradizionale degli approcci nel condurci attraverso le fasi del processo, dalla ricerca delle prove, passando per le intimidazioni volte a intimorire l’accusa, fino al dibattimento in aula. La sua linearità non rende però meno accattivante Argentina, 1985, interessato non tanto a inscenare la battaglia legale fra le due parti a colpi di obiezioni, bensì a rivendicare quell’umanità che sotto il regime fu ripudiata. Un’umanità totalmente assente anche sui volti degli imputati; comandanti perennemente silenti sullo schermo, se non per dichiarare che non riconoscono la legittimità della Corte che li giudicherà. Mescolando finzione e intento documentaristico, il regista lascia che siano le azioni compiute sotto di loro a parlare, dando voce piuttosto alle testimonianze delle vittime di torture e ai familiari dei desaparecidos che troppo a lungo rimasero inascoltati.

Argentina, 1985 non è tuttavia consumato dal mero intento di ammonire e commuovere il pubblico, lasciando ampio spazio ai sorrisi. Si ride, nel film, e spesso, grazie a momenti di leggerezza capaci di incrinare la cappa di tensione e peso emotivo che incombe sull’intera vicenda. La risata non come segno di sprezzo, ma come strumento indispensabile per esorcizzare la paura e i dubbi che attendono a ogni angolo i protagonisti, per allontanare questi ultimi da ogni alone idealizzante e ricordarci come a fare la storia furono semplici uomini e donne…

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Argentina, 1985 relata un hecho histórico muy dramático del que no se sale indemne, pero está contado de tal manera que no resulta traumático o insípido. Un metraje de 140 minutos cuyo ritmo no decae en ningún momento, más bien al contrario, aumenta y va tomando fuerza según avanza la trama.

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…Ma come in tutti i trattamenti comici di temi tragici e storicamente veri (il cui modello insuperato rimane Il grande dittatore) non può mancare l’accesso al discorso finale, che deve sciogliere e dirimere ogni potenziale equivocità. In questo caso è l’arringa finale di Strassera, rivolta ai giudici e rivolta anche a noi spettatori.

Questa arringa è limata fin nei dettagli, fatta ascoltare al figlio adolescente, che accompagna da vicino il padre per tutto il processo, per valutarne chiarezza ed impatto emotivo. E lì abbiamo passaggi notevoli, la citazione di Dante e dei violenti contro il prossimo del settimo cerchio dell’Inferno, immersi nel Flegetonte, fiume di sangue bollente, e poi il sadismo come “perversione e non come ideologia politica” e infine l’abisso in cui la dittatura ha portato una intera nazione  e la stessa natura umana. Questo abisso è una possibilità che appartiene all’umano e che solo con un agire politico “democratico” e “giusto” si può allontanare.

E allora l’ultima parola del giudice sarà la parola di tutti: “Signori giudici, vorrei rinunciare all’originalità nel chiudere quest’arringa. Perciò vorrei usare una frase non mia, poiché già appartiene a tutto il popolo argentino: Nunca Más!”.

E su questo “mai più” c’è un finale un po’ retorico, una scena di gioia collettiva in un tribunale accompagnata da una musica trionfante. Scena che non mette in questione la forza e l’originalità di un film, dove il comico diventa la chiave di accesso e di espressione migliore anche della tragicità della storia.

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La película es la posibilidad de construir una memoria colectiva. Y para que eso ocurra, hubo un guion bien elaborado y una escenografía capaz de hacernos viajar a una Capital Federal de 1985, al ritmo de los Abuelos de la Nada y Fito Páez. Cuando ingresamos a los asientos del tribunal, vemos a los personajes de Videla, Massera, Viola; y tenemos esa misma sensación de impotencia y esperanza por aquellos héroes/hombres comunes en forma de fiscales. Y un punto a favor -y gran recurso- fue la combinación con el material de archivo. Estos, lejos de rozar lo excesivo, aparecen en el momento indicado para aportar a la historia.

Como se dijo anteriormente, la familia era funcional al fiscal protagonista. ¿Por qué? Porque fueron un acompañamiento en todo el camino hacia el juicio final. Su esposa -en la piel de Alejandra Flechner– y sus hijos estaban al lado de su padre y marido en esos momentos de duda y temor por el qué pasará: ¿condenarán a los 9 miembros de la junta militar? Y con esto, el director se hizo cargo de que se trata de una ficción y no una biografía de Julio Strassera. Lo exquisito de poder hacer ficción es esa libertad para construir personajes que funcionen a los protagonistas, y así, que la narrativa del filme fluya.

Es muy complejo describir con palabras lo que genera el filme, y mucho más, lo que significa para el pueblo argentino. Esto es por la carga histórica que vemos en cada escena. Esta ficción es esa oportunidad para formar una memoria en conjunto para no cometer los mismos errores del pasado, y también para cuestionarnos qué es lo que pasa hoy y dejar atrás aquellos discursos que generan más violencia. Argentina, 1985 respeta nuestra historia y es poder seguir construyendo una democracia más justa, sin violencia, y en igualdad para toda la sociedad.

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Sia chiaro che le vicende raccontate in Argentina, 1985 mettono i brividi. Non tanto per la storia del processo legale, che dona al film di Santiago Mitre una tensione sempre crescente di chiara matrice thriller, ma per le testimonianze che, nel corso dei 140 minuti, verranno pronunciate nell’aula di tribunale descrivendo com’era la vita dei comuni cittadini durante gli anni più cupi della dittatura. Difficile non provare un brivido in questi racconti di torture, di persone scomparse e mai più ritrovate, di corruzione, di una generale mancanza di libertà e giustizia. E forse proprio per questo, la ricerca di Mitre nel selezionare accuratamente i confini di quanto scendere nei dettagli sottolinea il bisogno, quasi necessario, di ritrovare una luce nella tenebra. Perché nella notte più profonda anche il bagliore più leggero può sembrare un faro.

A questo perfetto equilibrio di scrittura si aggiunge un gustoso e mai fuori luogo leggero umorismo, che contamina i personaggi di sagacia e ironia, mai volgare e fuori luogo nonostante le tematiche affrontate. Ben lontano dal diventare una farsa, Argentina, 1985 umanizza le figure positive del racconto, mostrandone anche difetti e inciampi. Una scelta che esplode definitivamente in un campo e controcampo: da una parte i funerei, cupi e rigidi accusati che sembrano freddi umanoidi, dall’altra Strassera e il giovane avvocato aiutante Moreno Ocampo che si prendono gioco di loro, in tutto il loro spirito argentino.

Il risultato è un film che, nonostante i 140 minuti di durata, presenta un ritmo pressoché perfetto e particolarmente adatto al grande pubblico, anche quello distante dalla dimensione dei film più autoriali. Un elemento di concessione che fa spiccare il volo all’opera risultando, con il passare dei minuti, sempre più emozionante.

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Nel vedere un film come questo, viene innanzitutto spontaneo ammirare come un regista riesca a sfruttare così bene il potere e la forza del racconto cinematografico per far venire a capo, o quantomeno provarci, un intero paese con il suo difficile passato. E altrettanto spontaneamente viene anche da chiedersi come mai in Italia si faccia molta più fatica ad affrontare argomenti altrettanto scottanti con la stessa efficacia. Perché questo Argentina, 1985 è davvero tutto quello che un dramma politico o comunque un racconto di una storia vera dovrebbe fare: informare, far riflettere, emozionare. Il tutto riducendo al minimo la retorica e inserendo un minimo di leggerezza, ove possibile, per renderlo più naturale e godibile anche per il grande pubblico.

Perché storie del genere non solo hanno bisogno di essere raccontate e raccontate bene, ma soprattutto hanno bisogno di essere ascoltate e vissute. Proprio per questo è davvero difficile non immaginare un futuro davvero roseo per questo Argentina, 1985 e per il suo regista Santiago Mitre: è il cinema stesso, anche quello dei festival, ad averne bisogno.

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mercoledì 26 ottobre 2022

El Topo - Alejandro Jodorowsky

Alejandro Jodorowsky sforna un capolavoro dopo l'altro.

El topo è una storia piena di riferimenti, citazioni, visioni, un western metafisico e concretissimo.

una gioia per gli occhi, come sempre, da vedere e rivedere.

buona (western) visione - Ismaele

 

 

El Topo non è certamente un film di facile visione e tantomeno di facile lettura. Da molti considerato un capolavoro assoluto del cinema underground, da altri additato come film pretenzioso ed insensato nel suo cripticismo, resta comunque innegabile il grandissimo lavoro e l’immensa genialità di un regista come Jodorowsky che, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, fu uno dei personaggi più significativi ed estremi del cinema di nicchia. Sicuramente non piacerà a tutti, ma chi lo saprà apprezzare – per citare una frase dello stesso Jodorowsky – potrà vantarsi di essere un “Illuminato”.

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Punto di partenza, assolutamente, è però quello della diversità (di pensiero e rappresentazione, così come di uomini veri e propri). Cinema dei diversi, che ha origine nella deformità umana di Freaks (1932) di Tod Browning, e che prosegue nella passione del regista per il circo: evidente nel terzo Grande Maestro, in uno scenario fatto di chiromanti, leoni ed una carrozza da circo, e negli spettacoli con la nana (da giovane il regista aveva lavorato come clown proprio in un circo). Sacro, devoto ma dissacrante nella scelta di mescolare tutte le influenze religiose (l’assassinio del pistolero nella pozza d’acqua, una specie di battesimo della morte; la morte per mano della donna, che lascia stimmate sui piedi di el topo; l’esperienza mistica con la carne di scarafaggio; la messa suicida; il corpo che prende fuoco nel finale buddista), anche politico (violenze/rapporti omosessuali tra i quattro preti ed i banditi del colonnello) El topo è un insieme di metafore (il passaggio del frutto tra le due donne ed il rapporto con l’uomo) e rimandi simbolici (lo specchio della donna infranto, il mito di Narciso distrutto da el topo; l’occhio di Osiride come marchio a fuoco) che a volte hanno però il carattere di assoluto ed affascinante non sense di natura surrealista e poetica. Il deserto, metafora del percorso interiore del protagonista, è spazio senza tempo. Trattandosi di un genere abbastanza preciso, non pochi sono i riferimenti al western di Sergio Leone, dal quale trae ispirazione per i duelli, ed a quello di Monte Hellman, autore di contaminazioni crepuscolari ed esistenziali: il tema del doppio nella figura del pistolero era stato utilizzato ad esempio in La sparatoria (1966). Il regista, appassionato dello spaghetti western, si è rifatto al Django (1966) di Sergio Corbucci nella scelta degli abiti scuri del personaggio principale. Citazione anche per Ombre rosse (1939) di John Ford (la Lega delle Donne Degne che controlla la morale dei mariti ricorda quella che allontanò la prostituta dal paese nel film con John Wayne). Molto bella la fotografia di Rafael Corkidi, assoluta l’uscita del colonnello dalla torre a cono, seguito da decine di maiali. Le musiche sono state composte dallo stesso regista-attore, assieme alla direzione di Nacho Mendez; interessante l’uso dei suoni off ed il frequente scambio di voci tra i due sessi. La scena sul ponte fu girata senza ausilio di lacci o funi, ad oltre novecento metri d’altezza (commento scritto contenuto negli extra inseriti nella versione edita dalla RaroVideo). Il villaggio utilizzato nel film, una specie di Sodoma e Gomorra del regista, è il set che Glen Ford utilizzò per la pellicola The law of Tombstone (Massimo Monteleone, autore del libro “La talpa e la fenice. Il cinema di Alejandro Jodorowsky”). El topo è, come afferma lo stesso regista, un santo senza Dio, un santo laico come il miglior rivoluzionario possibile, il messia del west (Massimo Monteleone, autore del libro “La talpa e la fenice. Il cinema di Alejandro Jodorowsky”).

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…Shot on a fairly large budget in Mexico, It began its American existence as an underground cult object, playing midnight shows in New York for six months. It surfaced to a normal run last November amid loud controversy. Its director, author and star, Alejandro Jodorowsky, was attacked in some quarters for using the symbols to make the violence digestible, and in other quarters for using the blood to sell the symbols. I don’t think you can take the movie apart that way; “El Topo” is all of a piece, and you’ve got to take the concrete with the fantasy, the spirit with the flesh.

Jodorowsky lifts his symbols and mythologies from everywhere: Christianity, Zen, discount-store black magic, you name it. He makes not the slightest attempt to use them so they sort out into a single logical significance. Instead, they’re employed in a shifting, prismatic way, casting their light on each other instead of on the film’s conclusion. The effect resembles Eliot’s “The Waste Land,” and especially Eliot’s notion of shoring up fragments of mythology against the ruins of the post-Christian era…

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“El Topo” es una película de muchísimo interés a todos los niveles. De gran calidad artística y de un enorme impacto visual, su atmósfera está muy bien lograda. También es muy efectiva la música que acompaña al film, que incluye guturales cantos mántricos tibetanos durante los duelos. La banda sonora resalta el carácter irreal y onírico de la historia. Sería interesante saber si Dalí, Buñuel o Sergio Leone llegaron a ver la película y qué opinión tenían de ella.

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En El Topo (1970) ya se nota el flamante interés de Jodorowsky en la filosofía zen, el tarot, lo esotérico, el cristianismo paradójico de barricada y la cosmología más freak, todos elementos que a su vez se mezclan con el ideario de la contracultura de la década del 60, una parodia implícita al derechoso y caduco western clásico hollywoodense y un ejercicio en el novedoso terreno del acid western, subgénero que había sido patentado años atrás por Monte Hellman en las recordadas El Tiroteo (The Shooting, 1966) y A Través del Huracán (Ride in the Whirlwind, 1966), ambas protagonizadas por el monumental Jack Nicholson. Echando mano a elevadísimas dosis de gore, toques de comedia negra y delirante y una genial banda sonora cortesía del propio cineasta, la película es una de las cumbres del cine experimental internacional y una de las obras más complejas que hayan llegado al ojo semi masivo, en este caso sobre todo gracias al impulso y el cariño inconmensurable de John Lennon, todo un fanático del film y artífice central en su distribución a escala global y en el financiamiento del siguiente proyecto del maestro chileno, La Montaña Sagrada (The Holy Mountain, 1973)…

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lunedì 24 ottobre 2022

Il colibrì - Francesca Archibugi

un film proprio favinocentrico, il colibrì Marco Carrera è sempre al centro della scena, da quando è bambino fino alla fine.

Marco ha dei rapporti complicati con le donne, e quasi tutto il film gira intorno a quei rapporti difficili (l’unico rapporto virtuoso è con la nipote).

la storia molto frammentata, ci vuole attenzione per non perdersi, con i salti arditi avanti e indietro nel tempo.

gli attori sono bravi, il film si tiene, e però, con tutto quello che c’è, una serie sarebbe stata meglio.

buona (favicocentrica) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

 

la frammentazione continua della linea temporale, che sulla pagina scritta era meno frenetica e più esemplificativa della visione incompleta del mondo di Marco, nel film crea confusione e ostacola la possibilità di provare empatia verso i singoli personaggi, che appaiono e scompaiono dalla vita di Marco mantenendo lo spettatore in superficie, come se stesse osservando una saga con troppe fuggevoli comparse: in questo senso la metafora del plastico costruito dal padre di Marco, che imbalsama ogni componente della famiglia in una figurina da diorama, è emblematico, non (come era probabilmente nelle intenzioni) della fissità (e falsità) di certi ruoli domestici borghesi, ma della impossibilità del pubblico di vedere in loro creature di carne, ossa e reali sentimenti.

Il cast fa del suo meglio per ottenere l'effetto opposto, e laddove alcuni attori di razza - Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista, ma anche Laura Morante in quello di sua madre, Berenice Bejo nei panni (fortemente sacrificati) di Luisa e Alessandro Tedeschi in quelli (ridotti veramente all'osso) di Giacomo adulto - riescono a iniettare vita e vibrazione nei loro personaggi, altri oscillano fra esagerazioni interpretative e rigidità espressiva.

La presenza di Nanni Moretti è addirittura straniante, a tratti quasi parodistica, e porta lo spettatore fuori dal racconto ad ogni apparizione. Per contro tutti i bambini in scena riescono ad essere naturali e credibili, e questo è sempre stato un grande talento di Archibugi: scegliere, e poi lasciare cinematograficamente liberi, i minori in scena.

Il pubblico probabilmente risponderà comunque a questo cast stellare e all'abilità filmica della regista, sempre più brava dal punto di vista tecnico e sempre più capace di interpretare l'estetica di un benessere che ormai, per molti, fa parte solo dell'immaginario cinematografico. Ma l'essenza dolente del romanzo di 
Veronesi, il suo implicito elogio del rimpianto, lasciano nella trasposizione filmica il posto ad una costruzione forzatamente ricompattata in una struttura da romanzo d'appendice: un plastico altoborghese cui manca un respiro autentico di vita, un brivido di emozione non irrigidito dall'artificio della messinscena.

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Resta, come si è già avuto modo di scrivere, solo Marco Carrera (e quell’incipit al telefono, con la risposta “Sì, sono io Marco Carrera” che viene riproposto più volte e da diverse angolazioni nel corso del film sembra quasi una rivendicazione di onnipotenza del personaggio), senza però che se ne percepisca davvero il senso se non quello, di per sé poco ammaliante, del racconto di una vita che si è quotidianamente accusata delle proprie debolezze e per questo, in maniera immancabile, quotidianamente assolta. Poi ci sono gli incontri che quest’uomo fa, in scene di dialogo a due che restano volatili nell’aria, passando in rassegna traumi e conflitti che il film sceglie deliberatamente di non affrontare in modo netto, come se in fin dei conti la vita levigasse tutto, e nulla avesse davvero più un ruolo così fondativo. Quel che ne viene fuori è però un film decorativo, che porta in scena il “male” del cinema italiano contemporaneo, la sua incapacità – o mancanza di volontà – di incidere la carne che si sta mettendo in scena per farla davvero sanguinare, senza dover sempre tamponare le ferite e fingere che non esistano. In questo racconto di una vita a mancare è paradossalmente proprio la vita, i suoi umori, le sue scorie..

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Il problema principale di Il colibrì infatti è la maniera in cui a fronte di una struttura che mira a sparigliare le carte, stupire e in un certo senso innovare (cioè appiattire tutti i tempi e raccontare gli anni ‘70 della vita del protagonista attaccati ai ‘90 e poi collegati ad una scena nei 2000 e di nuovo poi ai ‘70) si rivela con uno scheletro e uno stile molto vetusti, per non dire proprio convenzionali per il nostro cinema. È il dramma borghese come è stato fondato negli anni ‘60 e si è sviluppato nei ‘70, da lì diventando un punto fermo del film d’autore italiano. Famiglie che si sfasciano, emozioni represse, strati di ipocrisia, incapacità a vivere le proprie passioni a pieno e con sincerità sentimentale sono gli ingredienti, sguardi nel vuoto sono le modalità espressive, affiancamento di personaggi di grande ira e passionalità ad altri più gelidi la soluzione preferita. Su tutto incombe un’aria di biasimo per queste tipologie umane e quel mondo.

Grandi scenari, grandi case, perbenismo un po’ provinciale e il personaggio che non manca mai, quello più sensibile di altri che quasi riconoscendo questo inferno dei sentimenti non resiste e tenta il suicidio. A tutti gli effetti Il colibrì, anche per le caratterizzazioni in certi casi grossolane e pleonastiche, è un film uscito dal nostro passato. E non da quello migliore. Visto oggi suona totalmente fuori dal tempo, esso stesso immobile come il personaggio che racconta e per definire il quale non potrà evitare di far pronunciare a qualcuno ad alta voce la frase: “Metti tutta la tua energia per restare dove sei. Proprio come un colibrì”, in modo che sia ben chiaro a tutti quale sia il tema del film, qualora non si capisse…

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Non è il caso di ricostruire qui i fili di una storia che di fili ne usa tanti per tessere un articolato feuilleton (e usiamo il termine con l ‘ammirazione che è dovuta a un grande genere popolare…) fatto di amori, tradimenti, disamori, coincidenze, tragedie, abbandoni, gelosie. Diciamo solo che se c’è un personaggio – la figlia del protagonista – che è convinta di avere un filo legato dietro la schiena, e di non potersene liberare, un filo che li lega ce l’hanno un po’ anche tutti gli altri personaggi, legati come sono a un progetto (il padre di Marco che costruisce il plastico di una ferrovia o di casa sua), a una relazione (“sono legata a te”), a una follia (Marina, la moglie di Marco), a un segreto (la madre di Marco e l’amante francese), a un pregiudizio (l’amico porta-jella), a un destino (lo stesso Marco, e la sua ossessiva ricerca delle coincidenze).
Esmeralda Calabria salta dall’uno all’altro, tira i fili e li allenta, tesse e poi scioglie, come una sorta di Penelope del montaggio. Anche lei, come il colibrì, si muove tanto per farci restare fermi dove il film vuole che ci fermiamo: lì dove la storia intercetta affabula e suggerisce il vuoto e al tempo stesso il pieno della vita…

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