lunedì 24 ottobre 2022

Il colibrì - Francesca Archibugi

un film proprio favinocentrico, il colibrì Marco Carrera è sempre al centro della scena, da quando è bambino fino alla fine.

Marco ha dei rapporti complicati con le donne, e quasi tutto il film gira intorno a quei rapporti difficili (l’unico rapporto virtuoso è con la nipote).

la storia molto frammentata, ci vuole attenzione per non perdersi, con i salti arditi avanti e indietro nel tempo.

gli attori sono bravi, il film si tiene, e però, con tutto quello che c’è, una serie sarebbe stata meglio.

buona (favicocentrica) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

 

la frammentazione continua della linea temporale, che sulla pagina scritta era meno frenetica e più esemplificativa della visione incompleta del mondo di Marco, nel film crea confusione e ostacola la possibilità di provare empatia verso i singoli personaggi, che appaiono e scompaiono dalla vita di Marco mantenendo lo spettatore in superficie, come se stesse osservando una saga con troppe fuggevoli comparse: in questo senso la metafora del plastico costruito dal padre di Marco, che imbalsama ogni componente della famiglia in una figurina da diorama, è emblematico, non (come era probabilmente nelle intenzioni) della fissità (e falsità) di certi ruoli domestici borghesi, ma della impossibilità del pubblico di vedere in loro creature di carne, ossa e reali sentimenti.

Il cast fa del suo meglio per ottenere l'effetto opposto, e laddove alcuni attori di razza - Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista, ma anche Laura Morante in quello di sua madre, Berenice Bejo nei panni (fortemente sacrificati) di Luisa e Alessandro Tedeschi in quelli (ridotti veramente all'osso) di Giacomo adulto - riescono a iniettare vita e vibrazione nei loro personaggi, altri oscillano fra esagerazioni interpretative e rigidità espressiva.

La presenza di Nanni Moretti è addirittura straniante, a tratti quasi parodistica, e porta lo spettatore fuori dal racconto ad ogni apparizione. Per contro tutti i bambini in scena riescono ad essere naturali e credibili, e questo è sempre stato un grande talento di Archibugi: scegliere, e poi lasciare cinematograficamente liberi, i minori in scena.

Il pubblico probabilmente risponderà comunque a questo cast stellare e all'abilità filmica della regista, sempre più brava dal punto di vista tecnico e sempre più capace di interpretare l'estetica di un benessere che ormai, per molti, fa parte solo dell'immaginario cinematografico. Ma l'essenza dolente del romanzo di 
Veronesi, il suo implicito elogio del rimpianto, lasciano nella trasposizione filmica il posto ad una costruzione forzatamente ricompattata in una struttura da romanzo d'appendice: un plastico altoborghese cui manca un respiro autentico di vita, un brivido di emozione non irrigidito dall'artificio della messinscena.

da qui

 

Resta, come si è già avuto modo di scrivere, solo Marco Carrera (e quell’incipit al telefono, con la risposta “Sì, sono io Marco Carrera” che viene riproposto più volte e da diverse angolazioni nel corso del film sembra quasi una rivendicazione di onnipotenza del personaggio), senza però che se ne percepisca davvero il senso se non quello, di per sé poco ammaliante, del racconto di una vita che si è quotidianamente accusata delle proprie debolezze e per questo, in maniera immancabile, quotidianamente assolta. Poi ci sono gli incontri che quest’uomo fa, in scene di dialogo a due che restano volatili nell’aria, passando in rassegna traumi e conflitti che il film sceglie deliberatamente di non affrontare in modo netto, come se in fin dei conti la vita levigasse tutto, e nulla avesse davvero più un ruolo così fondativo. Quel che ne viene fuori è però un film decorativo, che porta in scena il “male” del cinema italiano contemporaneo, la sua incapacità – o mancanza di volontà – di incidere la carne che si sta mettendo in scena per farla davvero sanguinare, senza dover sempre tamponare le ferite e fingere che non esistano. In questo racconto di una vita a mancare è paradossalmente proprio la vita, i suoi umori, le sue scorie..

da qui

 

Il problema principale di Il colibrì infatti è la maniera in cui a fronte di una struttura che mira a sparigliare le carte, stupire e in un certo senso innovare (cioè appiattire tutti i tempi e raccontare gli anni ‘70 della vita del protagonista attaccati ai ‘90 e poi collegati ad una scena nei 2000 e di nuovo poi ai ‘70) si rivela con uno scheletro e uno stile molto vetusti, per non dire proprio convenzionali per il nostro cinema. È il dramma borghese come è stato fondato negli anni ‘60 e si è sviluppato nei ‘70, da lì diventando un punto fermo del film d’autore italiano. Famiglie che si sfasciano, emozioni represse, strati di ipocrisia, incapacità a vivere le proprie passioni a pieno e con sincerità sentimentale sono gli ingredienti, sguardi nel vuoto sono le modalità espressive, affiancamento di personaggi di grande ira e passionalità ad altri più gelidi la soluzione preferita. Su tutto incombe un’aria di biasimo per queste tipologie umane e quel mondo.

Grandi scenari, grandi case, perbenismo un po’ provinciale e il personaggio che non manca mai, quello più sensibile di altri che quasi riconoscendo questo inferno dei sentimenti non resiste e tenta il suicidio. A tutti gli effetti Il colibrì, anche per le caratterizzazioni in certi casi grossolane e pleonastiche, è un film uscito dal nostro passato. E non da quello migliore. Visto oggi suona totalmente fuori dal tempo, esso stesso immobile come il personaggio che racconta e per definire il quale non potrà evitare di far pronunciare a qualcuno ad alta voce la frase: “Metti tutta la tua energia per restare dove sei. Proprio come un colibrì”, in modo che sia ben chiaro a tutti quale sia il tema del film, qualora non si capisse…

da qui

 

Non è il caso di ricostruire qui i fili di una storia che di fili ne usa tanti per tessere un articolato feuilleton (e usiamo il termine con l ‘ammirazione che è dovuta a un grande genere popolare…) fatto di amori, tradimenti, disamori, coincidenze, tragedie, abbandoni, gelosie. Diciamo solo che se c’è un personaggio – la figlia del protagonista – che è convinta di avere un filo legato dietro la schiena, e di non potersene liberare, un filo che li lega ce l’hanno un po’ anche tutti gli altri personaggi, legati come sono a un progetto (il padre di Marco che costruisce il plastico di una ferrovia o di casa sua), a una relazione (“sono legata a te”), a una follia (Marina, la moglie di Marco), a un segreto (la madre di Marco e l’amante francese), a un pregiudizio (l’amico porta-jella), a un destino (lo stesso Marco, e la sua ossessiva ricerca delle coincidenze).
Esmeralda Calabria salta dall’uno all’altro, tira i fili e li allenta, tesse e poi scioglie, come una sorta di Penelope del montaggio. Anche lei, come il colibrì, si muove tanto per farci restare fermi dove il film vuole che ci fermiamo: lì dove la storia intercetta affabula e suggerisce il vuoto e al tempo stesso il pieno della vita…

da qui

  


Nessun commento:

Posta un commento