un film proprio favinocentrico, il colibrì Marco Carrera è sempre al centro della scena, da quando è bambino fino alla fine.
Marco ha dei rapporti complicati con
le donne, e quasi tutto il film gira intorno a quei rapporti difficili (l’unico
rapporto virtuoso è con la nipote).
la storia molto frammentata, ci
vuole attenzione per non perdersi, con i salti arditi avanti e indietro nel
tempo.
gli attori sono bravi, il film si
tiene, e però, con tutto quello che c’è, una serie sarebbe stata meglio.
buona (favicocentrica) visione -
Ismaele
…la
frammentazione continua della linea temporale, che sulla pagina scritta era
meno frenetica e più esemplificativa della visione incompleta del mondo di
Marco, nel film crea confusione e ostacola la possibilità di provare empatia
verso i singoli personaggi, che appaiono e scompaiono dalla vita di Marco
mantenendo lo spettatore in superficie, come se stesse osservando una saga con
troppe fuggevoli comparse: in questo senso la metafora del plastico costruito
dal padre di Marco, che imbalsama ogni componente della famiglia in una
figurina da diorama, è emblematico, non (come era probabilmente nelle
intenzioni) della fissità (e falsità) di certi ruoli domestici borghesi, ma
della impossibilità del pubblico di vedere in loro creature di carne, ossa e
reali sentimenti.
Il cast fa del suo meglio per ottenere l'effetto opposto, e laddove alcuni
attori di razza - Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista, ma anche
Laura Morante in quello di sua madre, Berenice Bejo nei panni (fortemente
sacrificati) di Luisa e Alessandro Tedeschi in quelli (ridotti veramente
all'osso) di Giacomo adulto - riescono a iniettare vita e vibrazione nei loro
personaggi, altri oscillano fra esagerazioni interpretative e rigidità
espressiva.
La presenza di Nanni Moretti è addirittura
straniante, a tratti quasi parodistica, e porta lo spettatore fuori dal
racconto ad ogni apparizione. Per contro tutti i bambini in scena riescono ad
essere naturali e credibili, e questo è sempre stato un grande talento di
Archibugi: scegliere, e poi lasciare cinematograficamente liberi, i minori in
scena.
Il pubblico probabilmente risponderà comunque a questo cast stellare e
all'abilità filmica della regista, sempre più brava dal punto di vista tecnico
e sempre più capace di interpretare l'estetica di un benessere che ormai, per
molti, fa parte solo dell'immaginario cinematografico. Ma l'essenza dolente del
romanzo di Veronesi, il suo implicito elogio del
rimpianto, lasciano nella trasposizione filmica il posto ad una costruzione
forzatamente ricompattata in una struttura da romanzo d'appendice: un plastico
altoborghese cui manca un respiro autentico di vita, un brivido di emozione non
irrigidito dall'artificio della messinscena.
…Resta, come si è già avuto modo di scrivere, solo
Marco Carrera (e quell’incipit al telefono, con la risposta “Sì, sono io Marco
Carrera” che viene riproposto più volte e da diverse angolazioni nel corso del
film sembra quasi una rivendicazione di onnipotenza del personaggio), senza
però che se ne percepisca davvero il senso se non quello, di per sé poco
ammaliante, del racconto di una vita che si è quotidianamente accusata delle
proprie debolezze e per questo, in maniera immancabile, quotidianamente assolta.
Poi ci sono gli incontri che quest’uomo fa, in scene di dialogo a due che
restano volatili nell’aria, passando in rassegna traumi e conflitti che il film
sceglie deliberatamente di non affrontare in modo netto, come se in fin dei
conti la vita levigasse tutto, e nulla avesse davvero più un ruolo così
fondativo. Quel che ne viene fuori è però un film decorativo, che porta in
scena il “male” del cinema italiano contemporaneo, la sua incapacità – o
mancanza di volontà – di incidere la carne che si sta mettendo in scena per
farla davvero sanguinare, senza dover sempre tamponare le ferite e fingere che
non esistano. In questo racconto di una vita a mancare è paradossalmente
proprio la vita, i suoi umori, le sue scorie..
… Il problema principale di Il
colibrì infatti è la maniera in cui a fronte di una struttura
che mira a sparigliare le carte, stupire e in un certo senso
innovare (cioè appiattire tutti i tempi e raccontare gli anni ‘70
della vita del protagonista attaccati ai ‘90 e poi collegati ad una scena nei
2000 e di nuovo poi ai ‘70) si rivela con uno scheletro e uno
stile molto vetusti, per non dire proprio convenzionali per il nostro
cinema. È il dramma borghese come è stato fondato
negli anni ‘60 e si è sviluppato nei ‘70, da lì diventando un punto fermo del
film d’autore italiano. Famiglie che si sfasciano, emozioni represse, strati di
ipocrisia, incapacità a vivere le proprie passioni a pieno e con sincerità
sentimentale sono gli ingredienti, sguardi nel vuoto sono le modalità
espressive, affiancamento di personaggi di grande ira e passionalità ad altri
più gelidi la soluzione preferita. Su tutto incombe un’aria di
biasimo per queste tipologie umane e quel mondo.
Grandi scenari, grandi case,
perbenismo un po’ provinciale e il personaggio che non manca mai, quello più
sensibile di altri che quasi riconoscendo questo inferno dei sentimenti non
resiste e tenta il suicidio. A tutti gli effetti Il colibrì,
anche per le caratterizzazioni in certi casi grossolane e pleonastiche, è
un film uscito dal nostro passato. E non da quello migliore. Visto
oggi suona totalmente fuori dal tempo, esso stesso immobile come il personaggio
che racconta e per definire il quale non potrà evitare di far pronunciare a
qualcuno ad alta voce la frase: “Metti tutta la tua energia per restare
dove sei. Proprio come un colibrì”, in modo che sia ben chiaro a tutti
quale sia il tema del film, qualora non si capisse…
…Non è il caso di
ricostruire qui i fili di una storia che di fili ne usa tanti per tessere un
articolato feuilleton (e usiamo il termine con l ‘ammirazione che è dovuta a un
grande genere popolare…) fatto di amori, tradimenti, disamori, coincidenze,
tragedie, abbandoni, gelosie. Diciamo solo che se c’è un personaggio – la
figlia del protagonista – che è convinta di avere un filo legato dietro la
schiena, e di non potersene liberare, un filo che li lega ce l’hanno un po’
anche tutti gli altri personaggi, legati come sono a un progetto (il padre di
Marco che costruisce il plastico di una ferrovia o di casa sua), a una
relazione (“sono legata a te”), a una follia (Marina, la moglie di Marco), a un
segreto (la madre di Marco e l’amante francese), a un pregiudizio (l’amico
porta-jella), a un destino (lo stesso Marco, e la sua ossessiva ricerca delle
coincidenze).
Esmeralda Calabria salta dall’uno all’altro, tira
i fili e li allenta, tesse e poi scioglie, come una sorta di Penelope del
montaggio. Anche lei, come il colibrì, si muove tanto per farci restare fermi
dove il film vuole che ci fermiamo: lì dove la storia intercetta affabula e
suggerisce il vuoto e al tempo stesso il pieno della vita…
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