lunedì 31 ottobre 2022

Gli orsi non esistono - Jafar Panahi

"O siamo capaci di sconfiggere le opinioni contrarie con la discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le opinioni con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell'intelligenza.", dice Ernesto Che Guevara.

mutatis mutandis la frase del Che è sempre vera.

mettere in galera dei registi perche il Potere non è d'accordo con quello che fanno e dicono nei loro film è una schifezza universale.

e vale anche per Jafar Panahi, che deve inventarsi modi sempre nuovi per raccontare storie, sempre più condizionate dalla censura, e però sempre libere, la libertà è lo sfondo e il tema del film.

è un piccolo grande film, dove finzione e realtà si alternano e si sovrappongono.

cercatelo e soffritene tutti, nelle poche sale dove si può ancora vedere.

buona (galeotta) visione - Ismaele

 

 

 

Ne Gli orsi non esistono, Panahi si rifugia, con una cinepresa amatoriale e un pc portatile, in un paesino sperduto al confine fra Iran e Turchia, convinto, o quanto meno speranzoso, di poter fornire le direttive registiche del film che ha in mente, da remoto, ai suoi collaboratori che girano in una città turca (le targhe delle auto sono quelle dell’area di Istanbul…).

Ma le cose non fileranno lisce: nel ‘bunker’ (più che una casa è una grotta) in cui si trova, non c’è campo e, per trovarlo, Panahi deve arrampicarsi su una scala; il suo ospite, che lo chiama con apparente rispetto «caro signore» è in realtà terrorizzato dai paesani (e dallo sceriffo che li comanda) e finisce per incasinare la vita del regista che, non l’avesse mai fatto, ha fotografato, casualmente e senza alcun intento specifico, una ragazza già promessa, al momento in cui nacque, quando le fu tagliato il cordone ombelicale, a un uomo che non è quello che sta accanto a lei nell’immagine colta da Panahi. Il Municipio si coalizza: vuole a tutti i costi quella foto (che opportunamente Panahi cancella dalla scheda della sua macchina fotografica) e i paesani per ottenerla (e poi distruggerla) rompono le palle al regista fino allo stremo, costringendolo a giurare sul Corano di non aver mai immortalato i due ragazzi...

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In libertà condizionata dal 2010, l’iraniano Jafar Panahi ha fatto dei film girati da remoto un’arte, nonché un metodo geniale per beffare la censura, apparendovi spesso in prima persona (vedi “Taxi Teheran”). In questo “Gli orsi non esistono”, laureato a Venezia con un prudente Premio speciale della Giuria, va anche oltre. Integrando in un’unica, spietata, commovente riflessione i due spazi in cui si articola il film. Ovvero il paesino di frontiera in cui Panahi si è stabilito per dirigere le riprese a distanza, via computer; e il set del docu-fiction che è invece oltre confine, in Turchia.

La realtà prenderà infatti il sopravvento tanto sul set, in Turchia, che in quel paesino miserabile e sonnacchioso ma dominato da regole arcaiche e brutali (come tutto l’Iran). Destinate a esplodere proprio per la presenza di quell’intruso armato di telecamere e macchine fotografiche.

La realtà si è imposta una terza volta l’11 luglio, quando Panahi è stato tradotto nel carcere di Evin, dove è tuttora detenuto, per aver protestato contro l’arresto dei colleghi Mohamad Rasoulof (il regista di “Il male non esiste”) e Mostafa Al-Hamad. Evento non imprevedibile che rende ancora più urgente “Gli orsi non esistono”, amara riflessione sulle immagini, la Legge e l’esilio, ovvero sulla scelta di restare nel proprio paese perfino quando tutto invita alla fuga (ma si può sempre tirare il freno a mano, come farà appunto Panahi)…

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…Non sono più i tempi in cui il regime consegnava e controllava la quantità di pellicola utilizzata per girare un film 'autorizzato' preceduto dall'immancabile "In nome di Dio". Oggi si procede diversamente e, se necessario, per interposte persone. Ecco allora una storia d'amore così forte da chiedere di essere raccontata ma che, al contempo, finisce con il reclamare una 'verità' che anche il cinema più indipendente può faticare a cogliere nella sua essenza. 
Ma c'è un'altra vicenda che avviene nel villaggio e che coinvolge Panahi al punto da costringerlo ad andarsene. Muovendosi su questo doppio registro riesce non solo a raccontarci due situazioni definite nel tempo e nello spazio ma anche a ricordarci come il potere espanda i suoi tentacoli anche nei luoghi più remoti approfittando dei pregiudizi e dell'ignoranza.

Resta comunque il bisogno irrefrenabile dell'artista di esprimersi con il mezzo a lui più congeniale, giocando anche sulla sospensione dell'incredulità. Lo spettatore deve pensare ad un Panahi in solitudine nel villaggio mentre invece viene ripreso con camera in movimento da qualcuno che è lì con lui. Questa però non è finzione nel senso deteriore del termine. È fare cinema di testimonianza esponendosi in prima persona ponendosi dietro e davanti alla macchina da presa non avendo il timore di firmare così la propria condanna pur di raccontare senza costrizioni servili.

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Gli orsi non esistono si apre con un piano sequenza: la macchina da presa, attraverso una panoramica, segue una donna, Zara, uscire da un bar in cui lavora e incontrarsi con un uomo, Bakhtiyar. Quello che scopriremo essere il suo compagno le dà un passaporto falsificato, necessario per scappare dal paese e andare a Parigi. L’uomo però non è riuscito a far preparare in tempo il proprio documento, quindi Zara dovrà andare da sola. Ne segue una breve discussione, la donna rientra nel locale. “Taglia”, sentiamo fuori campo. Uno zoom all’indietro rivela uno schermo del computer, attraverso il quale lo spettatore stava vedendo la scena. Viene mostrato Panahi, davanti allo schermo, che parla in videochiamata con il proprio assistente, dandogli indicazioni sulle direttive da dare agli attori. Il regista, infatti, non è a Teheran con la propria troupe a girare il film, dal momento che il governo gli ha proibito di realizzare film e di lasciare il paese per i prossimi vent’anni. Panahi si trova in un villaggio di confine e segue la lavorazione a distanza. Parallelamente, alla storia di “fiction” che il regista sta realizzando, nel villaggio in cui è ospitato si consuma una storia d’amore “proibita” tra due giovani ragazzi, che vorrebbero scappare oltre il confine lasciandosi alle spalle le restrizioni imposte dalle proprie famiglie e da tradizioni centenarie che limitano la libertà di scelta dell’individuo…

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Gli orsi non esistono è pieno di momenti simili, in cui una storia finta racconta veri problemi, desideri e pulsioni. In cui filmare è un atto pericoloso e da sovversivi (ma in quanti posti al mondo una cosa simile è ancora vera? Quante persone nel pianeta sono pronte a combattere filmando?), in cui un mondo molto tradizionale, quello dei paesini montani lontani da tutto, si scontra con la mentalità cosmopolita e moderna di Panahi. Tradizione contro cinema, addirittura nel momento più alto quando dovrà rendere una testimonianza davanti a tutti Panahi chiederà di potersi filmare mentre lo fa e quindi sostituirà il corano (su cui giurare) con una videocamera. Niente di più simbolico e potente. C’è da commuoversi sia per la fiducia nelle immagini di quest’uomo (e per come è in grado di trasmetterla e farla capire) che per la sua tenacia, il desiderio di continuare ad opporsi addirittura mettendo in un suo film i metodi che usa per girare clandestinamente e la straordinaria umanità dei suoi personaggi. Lo stato lo vessa e perseguita in ogni modo e lui continua a ritrarre le persone con la mentalità più ostile e arretrata con il massimo dell’affetto.

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Il metacinema di Panahi non è altezzoso, elitario o estetizzante. È un’idea di metacinema, anzi, schiettamente popolare, molto chiara e diretta nei suoi messaggi, decisamente lontana da ellissi e perifrasi. Anche Gli orsi non esistono non riflette tout court sui mezzi della rappresentazione, non cerca in alcun modo di astrarsi dal dato bruto del reale verso la teoria del linguaggio. È cinema che anzi vuole sporcarsi totalmente con la realtà, affondare in essa, riflettere sul cinema stesso come puro prodotto del fare. Cinema come frutto di un’attività umana che momento dopo momento deve scontrarsi con i limiti imposti dal contingente. Si può cedere anche la macchina da presa a qualcun altro, ad esempio. Purché il cinema sia ancora possibile, e possano ancora conservarsi margini di espressione, si può affidare il mezzo anche a un conoscente inesperto.È un cinema che finisce per delinearsi come inevitabilmente politico. Un autore costretto a operare nelle condizioni di Panahi non può che trasformare in atto politico qualsiasi presa di parola, qualsiasi esternazione, qualsiasi frutto della sua coscienza, che sia cinema o quant’altro. È molto probabile che in altre condizioni il percorso artistico di Panahi avrebbe seguito strade diverse. Proprio per questo Gli orsi non esistono è un ulteriore tassello di cinema della necessità. Non può essere altro che questo. Non può parlare che di questo. L’atto creativo è già di per sé affermazione dell’individuo. Affermazione della sua esistenza. E il cinema si tramuta in veicolo per ripetere ancora, finché si può, «Io sono qui». L’individuo è il primo oltraggio al regime. In tal senso, che sia scelta o necessità, è comunque perfettamente coerente anche l’onnipresenza in scena dello stesso Panahi. Io sono qui. 

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La scrittura del film è complessa e in continua evoluzione, con personaggi che entrano ed escono dalla meta storia del film che Panahi sta girando durante il film. La storia viene poi postulata come vera (una sorta di documentario che testimonia il tentativo di fuga di due perseguitati dal regime), ma sappiamo che in realtà sono degli attori a fingere di interpretare dissidenti che si fingono attori per sfuggire dal paese. La regia, anche se con limiti evidenti, è capace persino di un paio di virtuosismi e ci immerge in un approccio naturalista in cui talvolta dimentichiamo che quando Panahi finge di fare riprese amatoriali, non assistiamo a una scena reale, ma a una messa in scena con un cameraman che sta girando.

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