martedì 1 novembre 2022

Ema – Pablo Larraín

il film è ambientato a Valparaiso, ed è una storia cilena di Pablo Larraín diversa dalle precedenti.

è una storia di amore/non amore, di danza, di sesso, di famiglie e di bambini adottati.

protagonista assoluta è  la straordinaria Mariana Di Girolamo, debole e fortissima, con le idee chiare.

al suo confronto tutti gli altri sembrano comparse.

è un film strano, all'inizio, poco lineare, estremo, poi comincia a capirsi tutto e il film cresce e diventa un gran film, da non perdere.

buona (bruciante) visione - Ismaele

 

 

 

 

Pablo Larraín, Alejandro Moreno e Guillermo Calderón. Sono tre uomini gli autori della sceneggiatura di Ema, tre rivoluzionari che, sbalordendo per la loro comprensione a tratti sopraffina, descrivono con la sincerità dell’ascolto il grido di emancipazione della loro protagonista. Sconcertante è infatti scoprire la matrice dietro il diritto alla libertà di Ema. Un orgasmo tutto femminile stimolato in verità dalla mente – e dall’altrettanto messa a nudo – di tre uomini, pronti alla sollevazione non di ciò che rappresenta essere una donna, ma cosa significa essere una donna.

Dal sesso alle confidenze private, allo spirito comune fino al rifiuto di dover abdicare forzatamente dal ruolo di genitore. La Ema di Pablo Larraín è la sfrontatezza che rivendica il proprio stato di persona auto-determinata, una moltitudine di personalità che non devono obbligatoriamente sottostare ai doveri di una società che vuole contenere. La lotta per il riappropriarsi del proprio corpo e per reclamare la propria natura autonoma, passa per lo scontro di genere più aggressivo e provocatorio, per lo spaesamento dell’uomo di oggi che non sa come gestire la propria controparte tanto furiosa, tanto diversa, tanto arrabbiata.

Ema – Sesso, libertà, danza, maternità

La presa di coscienza fisica ed emotiva di cui Ema si fa raggio catalizzatore, irradia la sua essenza per elevarsi a una vivisezione intima e brutalmente schietta del femminino contemporaneo, riflessa nella danza indisciplinata di Mariana Di Girolamo che è non la voglia, nemmeno il bisogno, ma la rivendicazione assodata di una libertà che le appartiene. Che appartiene a tutte le donne. E, nell’orgia carnale e identitaria della protagonista – e di tutte le sue dame di contorno -, la bellezza di Ema è il ritornare a quella fonte di vita che è la madre, con tutti i suoi vezzi, le responsabilità sviate, insieme in quell’unica individualità che non ne esclude la parte torbida, inalienabile, che ne comprende l’amorevolezza, la cattiveria e quella incedibile sensualità.

Nella sua pellicola più sfrontata, Pablo Larraín non dimentica la poesia per un film sfacciatissimo, artefatto all’inverosimile pur inquadrando una situazione radicata nell’attualità. L’eleganza selvaggia del regista cileno che si tramuta in trasgressione e ballo verso la sua opera più contemporanea. Verso le donne di oggi. Perché alla fine si vuole solo ridere, ballare, scopare. E si vuole semplicemente essere delle madri.

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La corporeità di Ema è uno degli aspetti chiave del film del regista cileno. Larraín ribalta le dinamiche rappresentative che veicolano il male gaze attuando un vero e proprio slittamento prospettico: Ema resiste alla sottomissione dello sguardo maschile, piegandolo a suo piacimento. Il ballo, così come il sesso, sono gli strumenti coercitivi che Ema utilizza nei confronti dello spettatore. Il film di Larraín è un manifesto della femminilità, ma è una femminilità che non sottostà alle pulsioni scopofile e voyeuristiche dell’uomo, preferendo muoversi invece sui binari dell’emancipazione e dell’indipendenza, rinunciando ad ormai arcaici diktat della morale.

Di pari passo si muove anche uno dei sottotesti principali presenti nella pellicola di Pablo Larraín, riguardante sempre l’aspetto musicale affrontato però in ottica di metafora generazionale. Ema, di diversi anni più giovane rispetto a Gastón, si autodetermina nei confronti dell’alterità a partire proprio dai suoi gusti musicali. L’appeal per il reggaeton, ad esempio, è figlio delle passioni delle nuove generazioni e ben lontano dall’universo di Gastón e da quello dello stesso regista. La questione in ogni caso non si limita solamente al gusto, ma trascina con sé un retroterra culturale che, tra le altre cose, funge da ente separatore tra la ragazza e l’ex marito. Il reggaeton, infatti, si inserisce a capofitto all’interno del discorso emancipatorio. Spesso tacciato di essere un “ballo misogino” in virtù della grande centralità del corpo femminile, per Ema diventa in realtà una fonte di espressione massima: nessuno può imporre ad una donna come può ballare o meno, chiunque può utilizzare la corporeità senza vincoli per affermare la propria libertà.

Lo scontro tra passato e presente è totale. Il lavoro di Gastón in qualità di ballerino moderno non riflette ciò che accade nella realtà: ormai si danza in strada e non più su un palco, «perché è sulla strada dove le cose accadono», e saranno le stesse strade a bruciare – metaforicamente ma anche letteralmente – perché le nuove generazioni vogliono lasciare una traccia sensibile ed evidente del loro passaggio (cfr.). Ema è un film straordinario, capace di passare dall’analisi sociale al mondo soggettivo della sua protagonista da un momento all’altro e senza soluzione di continuità, muovendosi dall’introspezione di alcuni passaggi sino ad arrivare a splendide sequenze simil-videoclip, rendendo l’esperienza cinematografica complessiva dell’opera di Larraín un unicum originale ed esemplare.

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Ema è davvero un personaggio di illogica e purissima sensorialità. Desidera genuinamente gli altri, ma non se ne innamora. Li usa come pedine per ottenere i suoi scopi, ma anche per sovvertire un ordine sociale che non basta più.

Certo non è semplice empatizzare con i personaggi di un film in cui sembrano tutti vivere, muoversi e parlare come fossero nel bel mezzo di un processo di ipnosi e di assuefazione. Un film ambiguo, quindi. Innegabilmente “brutto”. Come lo vedi o scomponi non sembra funzionare mai. Eppure non possiamo non riconoscergli un fascino malato. Larraìn si infila in un percorso espressivo privo di “precauzioni”, che a modo suo mette in crisi i seguaci del cineasta sudamericano. È infatti un’opera dolente, fragilissima, in cui per la prima volta il regista sembra ammettere una percezione di inadeguatezza, uno scarto profondo nei confronti delle nuove generazioni millennials – nel monologo di Bernàl sul reggaeton si nasconde forse lo smarrito punto di vista dello stesso autore. Se fino a oggi la sua opera rifletteva la rabbia dei figli verso la dittatura dei padri, in Ema gli equilibri si ribaltano e viene fuori il film di un adulto che prova a fatica a intercettare questi figli alienanti, poligami e sordi, che vogliono ottenere tutto e bruciare ogni cosa. Ma è proprio questo il punto: se solo una rivoluzione potrà salvarci… proviamo almeno a capire chi riuscirà a farla!

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Dal punto di vista formale il film acquisisce un’ulteriore serie di punti deboli che vanno da una scrittura farraginosa, con dialoghi eccessivamente sbandierati nel dover significare tanto, troppo e in continuazione, fino a un virtuosismo registico che, in un film già tanto debordante, fa da inutile o addirittura dannoso raddoppio di senso. Ema vuole con tutte le proprie forze essere sorprendente e vitale, con un inizio su di un semaforo che brucia e le prime scene drammatiche che sfociano in un montaggio alternato con momenti di danza selvaggia. Che proseguono sempre più, col reggaeton in luoghi fatiscenti, incendi appiccati, tute fluorescenti in bar squallidi, inquadrature di specchietti retrovisori da cui si vedono accoppiamenti, fino al montaggione dei coiti e a un vago senso di esagerazione (a un certo punto il film fa pensare a Harmony Korine) architettata. Ema vuole essere frammentato, spezzettato, rapido, cool. Rifugge linearità e racconto piano per consegnarci a una messa in scena calcolata e ricercatissima e a una narrazione ellittica in cui dobbiamo capire le cose lentamente, poco a poco. Forse perché non possiamo e non dobbiamo mai penetrare nella vera natura della protagonista, che deve restare un po’ un mistero altrimenti crollerebbe tutto. Forse perché il regista è onnisciente più che mai e più che mai delibera circa lo sguardo del suo spettatore. La visione di Ema lascia abbastanza sconcertati, ma non è una sensazione positiva perché, per la prima volta in Larraín, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un’opera volutamente stravagante e trendy, reticente nel mettere a fuoco le ragioni psichiche dei disagi e dei dolori. Dunque a un film che, per la prima volta in Larraín, non affonda lo sguardo nell’umano ma prende una strada più furba, meccanica, insincera.

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…Sulla posizione di Larraín nella storia del cinema è troppo presto per esprimersi. Sicura è invece la capacità di questo personaggio – chiamiamolo Ema – di incarnare, in modo estremamente astratto e concreto, una serie di contraddizioni psicologiche e sociali che riguardano il tempo presente: ciò che ci tiene insieme e ciò che separa, ciò che fa “individuo” e ciò che è possibile chiamare “famiglia” o altro ancora.

Ema: di che cosa è, dunque, il nome? Per quanto riconoscibile sia la sua silhouette, mentre si agita nel lungomare di Valparaiso imbracciando il lanciafiamme, il senso della sua figura resta ancora in buona parte oscuro. Che cosa ci dicono i suoi ripetuti sguardi in macchina? E che cosa annunciano, di già presente o di imminente, le sue posture, i suoi comportamenti tremendamente in bilico tra cinismo e ingenuità assoluta. Uscendo dalla sala, ci sentiamo un po’ come suo marito Gastón, in una delle ultime inquadrature del film, all’interno della nuova casa, insieme alla nuova comunità affettiva e genitoriale: l’espressione è quella di chi ha assistito a qualcosa di straordinario eppure resta ancora, giusto il tempo di guardare il film ancora una volta, un poco confuso.

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…Si bien cierto es que el final de Ema resulta un tanto descafeinado en contraste con el nivel de locura en el que se suceden la trama, sirve como broche final a este drama familiar envuelto en libertad y sexualidad y totalmente desprovisto de moralidad.

Por otra parte, cabe destacar la impecable fotografía y estética aunada a una banda sonora parcialmente actualizada que resulta gratificante en multitud de escenas, así como las exquisitas interpretaciones que se suceden durante el filme. Estas brillan por la fuerza con la que los personajes se abren paso en el relato y la manera en que están logrados, que casi que parecen necesarios para que Ema se desenvuelva de una manera u otra.

Una arriesgada y provocadora narrativa audiovisual de toda una generación sobre la liberación que presenta un toque feminista, donde habrá que expandir los propios horizontes para adentrarse de lleno en ella.

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Pablo Larraín si conferma un regista dalla grande sensibilità e sensualità, non solo perché mostra, ma perché trasmette la passione e le pulsioni dei corpi, dei colori, mai così tanti e vivaci in un suo film, della musica al altissimo volume che trascina lo spettatore in quel vortice di cui Ema è il centro.

Il regista ci porta per mano per vicoli e tetti di una città che sembra non esistere nel nostro tempo, lo fa smarrendosi lui stesso nelle pieghe di una storia che non è perfettamente compiuta perché estranea ai canoni sociali universalmente riconosciuti, ma che trova, nel finale, un’ordine insolito, a misura della sua protagonista.

Ema è la donna che porta vita e amore, l’alieno arrivato sulla Terra a mostrarci una via alternativa per la condivisione, un elemento naturale magnifico e terribile, un terremoto di energia e bellezza. Ema è l’istinto allo stato puro, che agisce sempre secondo l’amore.

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A nivel interpretativo la película cuenta con unos buenos trabajos, en especial el de Mariana Di Girolamo, que interpreta a la protagonista de la película, y que está soberbia alternando momentos de intensidad dramática con otros en donde su mirada refleja el dolor y otros en donde es más alegre y divertida. La joven actriz chilena es una desconocida y Larraín la ha dado la oportunidad de estar al frente de su nuevo proyecto, cuando había participado principalmente en series de televisión. Entre los secundarios de lujo destacan Gael García Bernal en el papel de Gastón, el coreógrafo de Ema, con la que tiene un pasado en común y una relación de amor-odio. Las jóvenes actrices que interpretan a las amigas de la protagonista tienen unas actuaciones bastante decentes, y el que no me termina de convencer es Santiago Cabrera, que interpreta al bombero de día y camarero de noche, cuyo personaje será fundamental en el desarrollo de la trama durante la segunda mitad, y que no me transmite como lo hacen el resto de intérpretes. Casi todas las subtramas giran en torno a Polo, un niño al que citan muchas veces, pero que es un desconocido para el espectador, salvo una escena en la parte final, y que es clave en el modo de comportarse y en las inquietudes de Ema y los que la rodean.
Una película que es un soplo de aire fresco y diferente a la cartelera actual y que, sin ser fácil de recomendar porque aborda temas nada sencillos para el espectador y por la manera contar la historia, creo que es una oportunidad perfecta para acercarse a ver una propuesta original de uno de los mejores cineastas del panorama latino actual.
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L’ultima opera di Pablo Larraín è un film talmente seducente nelle sue immagini che la trama può risultare irrilevante agli occhi di chi guarda, e il finale non richiesto. Le scenografie, ipnotiche nella loro seduttività (sono firmate da Estefania Larraín), sono capaci di distogliere lo spettatore dall’urgenza morale della vicenda che dà la nota iniziale a Ema. Con la “non necessarietà” del finale non si intende che esso sia privo di logica o di completezza narrativa, anzi. Negli ultimi fotogrammi della pellicola ogni dubbio trova una sua composizione e il film la sua compiutezza, mentre il comportamento della protagonista non appare più come quello di una ragazzina capricciosa che non sa quel che vuole.

L’assortimento visivo dell’opera è un caleidoscopio di bellezza filmica che evita di essere stucchevolmente estetizzante. Nella sua depurazione dal formalismo estetico, l’impatto cromatico e registico di certe sequenze sembra richiamare la poetica del regista franco argentino Gaspar Noé (IrreversibleClimaxLove), ma in maniera meno scomposta e tragica: qui non c’è spazio per il nichilismo. La guerriera Ema si muove per le strade, i cieli, le camere da letto, le palestre e le scuole della cittadina cilena di Valparaíso come un animale dal fiuto infallibile, al ritmo del reggaeton. Con il procedere delle immagini, il pubblico comprende che la ragazza usa il suo corpo come duttile strumento per sanare lo sbaglio commesso. E quelli che allo spettatore possono sembrare atti di auto stordimento per arrivare a una sorta di oblio degli errori compiuti, sono invece pezzi di una strategia unitaria e lucida…

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