domenica 27 novembre 2022

Quai des Orfèvres (Legittima difesa) - Henri-Georges Clouzot

primo film, dopo la guerra, di Henri-Georges Clouzot, ancora da un romanzo di Stanislas-André Steeman, al solito un film difficile da dimenticare.

l'omicidio di un riccastro odiato da tutti, una bella artista con un marito ipergeloso, un commissario d'altri tempi, un ambiente buio, un'atmosfera pesante e scura, praticamente un noir, dove tutto sembra marcio.

e però quando il commissario è col figlio ci sono momenti che non ti aspetti e bellissimi.

attori perfetti, nella direzione di un maestro.

un gran bel film, promesso.

buona (gelosa) visione - Ismaele

 

 

 

 

QUI  il film completo sottotitolato in inglese

 

 

 

Tratto dal romanzo omonimo di Stanislas André Steeman, Legittima difesa (in originale Quai des orfèvres) scende nel profondo degli abissi del cinema di Clouzot. In un universo oscuro, popolato da personaggi solitari, inappagati nei loro sogni di una vita migliore. E Clouzot ha la grande capacità di mettere subito le carte in gioco sin dall’inizio. Con pochi ma risolutivi dettagli. Come quello di Maurice che suona distrattamente il piano mentre guarda la moglie che sta ridendo e si fa toccare sulle gambe. Ma è ancora oggi, a più di sessant’anni dalla sua realizzazione, un cinema estremamente innovativo per alcune scelte stilistiche come lo zoom sul cadavere. Ed è sempre più popolato di ombre. Tutta la sequenza notturna di Maurice che va allo spettacolo, semina indizi della sua presenza (il cappotto al guardaroba) e poi sparisce perché ha in mente di far fuori Brignon è da antologia. Come la figura di Lamour, con Louis Jouvet sospeso tra realismo poetico e noir, che mette in gioco tutta la malinconia e il disincanto del cinema di Clouzot. Che però si apre anche a degli squarci profondamente umanisti. Come nel rapporto tra l’ispettore e il figlio.

Legittima difesa è anche una resa dei conti personale. Forse nella figura di Maurice, accusato ingiustamente di un delitto che non ha commesso, c’è proprio la storia dello stesso regista. Che già non fa sconti a nessuno. E dove il principio di colpevolezza, come anche nel suo cinema successivo, diventa arbitrario. Nella scena dell’interrogatorio dell’ultima notte dell’anno, è racchiuso uno dei frammenti più significativi del suo cinema. Premio internazionale per la regia al Festival di Venezia del 1947.

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In tutta questa congèrie di figure vivaci e abbozzate affettuosamente da Clouzot si intromette ad un certo punto – perché c’è un’indagine da portare avanti – il poliziotto Antoine, interpretato da un Louis Jouvet tanto strabordante da finire per mangiarsi letteralmente la scena. L’uomo, ormai anziano, abita in una casa modesta, tutto quello che sa l’ha imparato dai criminali e dalla loro competenza nelle più disparate materie, e forse non vede l’ora di andarsene in pensione, anche perché ha adottato un bambino africano (evidentemente sulla scorta di un suo passato in Algeria, informazione che però viene prudentemente lasciata all’intuizione dello spettatore). Ma allo stesso tempo Antoine svolge il suo lavoro con una meticolosità mefistotelica, attento a ogni dettaglio e a ogni contraddizione che possa emergere dalle dichiarazioni dei vari sospettati. E quel suo essere preciso e chirurgico sembra fare il paio con il film stesso che, a fronte di una prima parte giocosa e ‘selvaggia’, si ‘arrotola’ sinuosamente e vertiginosamente in una seconda parte in cui nulla viene lasciato al caso e ogni particolare, apparentemente insignificante, è potenzialmente decisivo. Certo, non si esce più dal rovello indagatorio e si ha a tratti la sensazione di una opprimente claustrofobia, ma per l’appunto è proprio l’esuberanza attoriale, di regia e di scrittura a rilanciare la posta ad ogni momento…

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Henri-Georges Clouzot in this very satisfying early film from his opus, before he became noted for his darker 1953 “The Wages of Fear” and his 1954 “Diabolique,” directed this more traditional police thriller. Known as the French Hitchcock, it must be said that this work stands second to no one else’s and shows Clouzot to be capable of mastering the lighter touches of a thriller. The ordinary crime story could have sunk with far too many coincidences and an unlikely last minute confession if it weren’t for all the emotions generated by the main characters that were more interesting than the whodunit story. All the main characters had strong points and vulnerabilities. The viewer couldn’t help but to be drawn into their problematic situations.

Clouzot had a reputation as a very demanding director, who bullied his actors and was filled with hubris. But he was a truly remarkable filmmaker, whose distinct films manifested subtleties and life’s quirkiness and a voice for the human condition.

Quai des Orfevres returns after over 50 years on the shelf restored in 35 millimeter by France’s StudioCanal, and the DVD version has been given new readable subtitles and crystal clear B/W visuals. It is something the people at Criterion should be proud of putting out. Clouzot has re-created the nostalgia from the shaded atmosphere of post-war Paris and its long gone smoke-filled French music halls, food shortages, menacing darkly lit streets, squalid apartments, and cramped police stations. The title refers to Paris police’s Criminal Investigations Division, a police station that is the key one in Paris for handling homicides (a pale imitation of Scotland Yard). Jean Ferry co-wrote the script with Clouzot, and was inspired by Belgian pulp novelist Stanislas-André Steeman’s 1942 “Legitime Defense.” It was originally released in America as “Jenny Lamour.”..

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Clouzot fue un luchador porfiado tanto en la vida como en el arte que pagó con fuego cada decisión y cada película que logró finiquitar en medio de múltiples dificultades que entorpecieron un periplo profesional que de seguro podría haber sido más prolífico bajo otras condiciones, unas más favorables y menos enrevesadas desde todo punto de vista. Más que sólo ser uno de los maestros innegables del suspenso de toda la historia del cine y uno de sus artífices primigenios en términos ya modernos y posmodernos, el entrañable genio francés ha edificado una obra coherente en la que la perversidad de los hombres y las mujeres se da la mano con un matiz mucho menos envilecido y más cercano a su humilde contraparte, una cordialidad que en tantas ocasiones termina perdiendo la batalla del equilibrio inestable entre ambas facetas del mismo modo en que la dureza del vivir cotidiano eventualmente es eclipsada por la muerte, sinónimo de ausencia ya definitiva de inconvenientes pero también de cansancio, desesperación y una nulidad total empardada al vacío de índole tragicómica.

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Es un filme rico en sentimientos y en acciones, por igual, otorgándose una belleza muy clásica, con la inteligencia de un Clouzot que sabe manejar muy bien lo escabroso y ser sutil. Marca de la casa, mostrar elegancia, pero tratar todos los temas –no tergiversar la realidad-, como los propios del crimen pasional, maestría que vemos profundamente en La vérité (1960). Quai des Orfèvres tiene gran ritmo y cada pieza es espectacular, tiene su toque duro, del mejor noir, y una fragilidad secreta, una entrega por sobre lo racional.

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