domenica 30 aprile 2017

La tenerezza – Gianni Amelio

nel film si ascoltano due frasi che possono spiegare un po' di quello che succede nel film e nella vita:
Dice un poeta arabo, che la felicità non è una meta da raggiungere, ma una casa a cui tornare…..tornare non andare
Nella vita tutto quello che facciamo è una scusa per farci voler bene
Amelio mette insieme dei grandi interpreti, tutte persone sole, che cercano solo un po' di tenerezza, senza riuscirci, per orgoglio, per egoismo, per incapacità, per pregiudizio.
nessuno è perfetto, ma non si riesce a fare il primo passo, verso la tenerezza, e spesso dopo è troppo tardi.
Lorenzo si attacca a quella ragazza che potrebbe essere sua figlia, una persona alla quale raccontare tutto quello che non è mai riuscito a dire.
e poi Elena lo trova, si trovano finalmente.
cercate questo film, vedrete un Renato Carpentieri straordinario, fra le altre cose, e non sperate di ridere, che non c'è niente da ridere, solo guardare e capire quelle due frasi - Ismaele





qui un’intervista con Gianni Amelio


…Amelio ricostruisce con sensibilità ed eleganza uno spaccato di umanità che cerca di uscire dalle sabbie mobili dell'ipocrisia e del rancore, dimostrando quanto l'infelicità e l'aridità affettiva non dipendano dall'età e dalle epoche bensì esclusivamente dagli uomini: tutti i personaggi del film infatti, giovani e vecchi, introversi e spigliati, non riescono a parlarsi ed affrontarsi fino a quando la vita stessa non li costringe a farlo. I padri non sono migliori dei figli, gli amanti si amano ma non si cercano, nessuno muove il primo passo, tutti immobilizzati dalla paura di provare affetto...
La famiglia, tradizionale baluardo di un' Italia ipocrita e democristiana, qui viene fatta a pezzi e umiliata da una società arcaica e benpensante che soffoca i sogni e gli ideali, non permettendo a nessuno di essere ciò che vorrebbe essere. A venirci incontro, sembra dirci il regista. è la natura stessa dell'uomo, incapace di trovare felicità nella solitudine e nella povertà di affetti. Siamo e restiamo "animali sociali", fatti per stare insieme, malgrado e nonostante tutto. Perchè forse è proprio vero che, nella vita, "tutto quello che facciamo è una scusa per volerci bene".

… La fotografia, curata da Luca Bigazzi, presenta una Napoli meravigliosa, in parte quella che già conosciamo, in parte quella dei nostri sogni: la luce del mattino illumina l’ultima brina notturna, lasciando spazio a vicoli brulicanti e al vociare dei bambini che riempie le piazze. Un’atmosfera serena, di paradossale quiete, dietro la quale però si nasconde tanta amarezza. Il film di Gianni Amelio, dal cast eccezionale, disvela infatti una crisi ben più profonda di quella circostanziata dal plot: la crisi dei processi comunicativi e dei sentimenti contemporanei, veicolati sempre più spesso da fraintendimenti e cose non dette o capite troppo tardi, come nel caso del rapporto tra Lorenzo e sua figlia Elena. La paura dell’autenticità e l'orgoglio perenne lacera le relazioni umane e rischia di trasformarsi nel più grande dei rimpianti.
Il film, estremamente drammatico, trascina il pubblico in circostanze di un’intensità tale da destabilizzarlo. L’intero intreccio narrativo deve molta della sua disarmante carica emotiva all'interpretazione di Renato Carpentieri, il cui personaggio, con la sua indole ribelle, conduce lo spettatore in un viaggio che, nonostante tutto, cattura e strappa di tanto in tanto anche qualche sorriso.

Nell’abusata e ovattata ricerca di formule magiche e perbenismi manieristi che ha investito il panorama medio della nostra industria narrativa, la scelta di Amelio, disposto persino ad appropriarsi e a stravolgere una storia altrui pur di continuare a raccontare i suoi sentimenti e le sue emozioni, raggiunge livelli di un atto “rivoluzionario”. Cosciente di essersi accomodato nella comoda dimensione autoriale del maestro venerato (non deve sorprendere che il suo nome sia citato dai migliori giovani autori del nostro cinema) il regista calabrese con La tenerezza realizza, dunque, un’opera lenta, pesante, fuori tempo e fuori spazio, costruita da uno spirito, allo stesso tempo, ingenuamente nostalgico e fieramente anti-moderno, che, addirittura, raggiunge vertici di luddismo. Non potremmo definire altrimenti il casting del meraviglioso Renato Carpentieri, per la prima volta protagonista assoluto di una pellicola…

La tenerezza è cercata, a volte ostentata, ma incredibilmente efficace solo quando è davvero negata, quando una quotidianità apparentemente scontata squarcia il velo delle ipocrisie che l’autore tiene strette a sé, come una coperta di Linus. E allora sono un nonno bambino e un bambino adulto (“voglio tornare a scuola” dice il secondo, “rapito” durante l’orario scolastico) a darci qualcos’altro, una Maria Nazionale delusa a emozionarci, un Carpentieri che da grande interprete lo spazio per qualche finezza se lo prende da solo.
E, alla fine, inevitabilmente, senti che è proprio il timoniere di questo film inespresso a essere il punto debole. Incapace di aprire tutte le sue vele e allo stesso tempo senza il coraggio di navigare controvento. La sua velocità di crociera mal si concilia con il naufragio emotivo, antropologico e parentale che vuole raccontare. E anche lo spettatore, alla fine, annega nel torpore di questo racconto sbagliato.
da qui

sabato 29 aprile 2017

Pod mocnym aniolem (The Mighty Angel) - Wojciech Smarzowski

già il grande Wojciech Has, con Petla, aveva messo al centro un uomo alcolista come pochi, Wojciech Smarzowski fa lo stesso, in un film che fa soffrire come pochi altri film, senza scorciatoie e sorrisi.
Robert Wieckiewicz, attore bravissimo (come tutti, d'altronde), già Walesa nel film di Andrzej Wajda, è il protagonista del film, intellettuale di successo col vizio del bere.
sta in un ospedale per alcolizzati, e di ciascuno dei colleghi d'ospedale conosceremo la storia.
di Wojciech Smarzowski non si sa praticamente niente in Italia, come del cinema polacco, uno dei più vivi d'Europa.
meno male che c'è internet (e i sottotitoli, sempre siano lodati quei pazzi che li fanno).
cercate questo film, soffrirete, ma ne vale la pena.
Wojciech Smarzowski fa Cinema, segnatevi il nome, se vi volete bene.
buone visioni - Ismaele




The films from Polish filmmaker Wojciech Smarzowski are always interesting to follow, no matter what theme he chooses – whether the dark crime thriller of “The Dark House”, the humorous drama of “The Wedding”, the coldness of war in “Rose”, or the severe accusations of corruption and power abuse made by Polish police in “Traffic Department” – each of them had something valuable to say in its harshness and objective rawness. “Pod Mocnym Aniolem” (translated “The Mighty Angel”) is another powerful drama focused on alcoholism and based on Jerzy Pilch’s successful fourth novel with the same title. The film follows Jerzy (Robert Wieckiewicz), an intelligent and talented writer who can’t keep off from the bottles of vodka, even doing frequent treatments in a rehabilitation house and attending group sessions. Evincing a corrosive sense of humor, his denial takes him to a cynicism and to a spiral of degradation that not even the woman of his life is capable to bear. He wanders and writes in a sort of limbo state where reality and imagination interweave. We are taken through the stories told by other alcoholics, but also to Jerzy’s memories of his drunken father. Horrible images haunt us, depicting embarrassing situations, deliriums, vomiting, and crazy hangovers. It’s a sad film, about suffering, about loss, about fate… Its finale is simply devastating, even cruel. I was touched in two ways – one given the last hope sought by Jerzy, and the other through the creepy loneliness that can ruin everything again. Although with a slow-burning start, “Pod Mocnym Aniolem” won me over.

The Mighty Angel is not an extended sermon, it’s far more subtle and human than that. Director Wojtek Smarzowski has a keen eye for detail, for the subtle shifts in tone that mark human conversations when the subjects are trying to resist cynicism and cling to hope and compassion. This is alcoholism set within the much broader and more complex issue of heavy social drinking, which is a problem many are unwilling to discuss, not just in Europe, but in countries around the world.
The Mighty Angel is also a visually impressive film. Hand-held GoPro (point of view) shots and closed circuit video feeds are mixed with more conventional cinematic techniques to create a shifting range of perspectives. The timeline of the film often shifts, so we are often not sure at what point in the story we are, or whether the conversation is real, imagined, or reconstrucated from the drunk’s fragmented memories.
The Mighty Angel is a stark, harrowing and thoroughly intelligent look at both alcoholism and the all-pervasive place of alcohol in society. Brilliantly directed and anchored by a remarkable lead performance, The Mighty Angel is essential viewing – highly recommended.

Polish cinephiles await Wojtek Smarzowski’s every film as impatiently as cinephiles in the USA wait for, let’s say, Quentin Tarantino’s pictures. Smarzowski is now a trademark of Polish quality cinema that can proudly be exported. He is an auteur. Surprisingly enough, after his latest success with Traffic Department (2013), his newest film The Mighty Angel (2014), an adaptation of a Jerzy Pilch novel, has been met with cold indifference and at times strong revulsion. But while Smarzowski’s newest production is yet another brilliant (yes, brilliant) piece of cinema, the reasons why it is criticised shed some light both on society’s attitude towards alcoholism and on the way in which we idealize the role of director in the collective art of filmmaking.
Between Wojciech Jerzy Has’ The Noose (1957) and The Mighty Angel, there was no remarkable film produced in Poland that tackled alcoholism in a comprehensive way. Smarzowski in his trademark sensory way reveals the worst about the disease: numerous alcoholics flood each scene with rivers of cheap spirits, vomit, urine and desperation. Rare glimpses of “normal life” – where love triumphs and people are pretty and kind – are continuously overpowered by the dark ugliness of poor living conditions and the even poorer shape of human morale. Despite being a famous writer who supposedly finds the love of his life, protagonist Jerzy is repeatedly hospitalised due to excessive drinking. Each of Jerzy’s detoxifying visits is yet another visit that should – one day – cure him completely. Certainly, refined aesthetes will shy away from almost every scene exposing the interiors of alcoholics’ stomachs. And that seems to be the problem…

I just watched this move today. Like all movies directed by Smarzowski this is not Hollywood-like story. A story about real problem in our life - alcohol. If you ever get wasted, if you ever had hangover and if you ever had black out or hunger for drinking another shot - you would not be satisfied after watching it. It is not a romantic story about drinking problems like "When a Man Loves a Woman". It is funny at first but then you realize that you might behave the same when you drunk - then it's not funny any more. No-one laughed at the end of this movie. My wife even wanted to leave cinema without watching it till the end. But don't get me wrong- it's a great movie. It's comparable to "Requiem For A Dream" but without such great music. That's why I gave it a nine.



venerdì 28 aprile 2017

Ma Loute – Bruno Dumont

in Ma loute appaiono i grandi attori, che impersonano dei dementi, le bambine diventeranno come loro, chissà.
qui non c'è speranza per nessuno, tutti sono dannati, non ci sarà mai un incontro e una comprensione fra los de arriba e los de abajo, la mobilità sociale è impensabile, i servi saranno sempre servi, come i loro figli, non si discute, i ricchi fanno schifo, classisti fino al midollo.
questo il film lo fa capire benissimo, ma è un film esagerato, grottesco, sopra le righe.
tutti sono caricature, macchiette, i poliziotti per primi, sembra di vedere le comiche (che erano mute, ma qui si parla una lingua a noi incomprensibile, per cui l'effetto è quasi lo stesso).
i ricconi sono dei parassiti, chissà se lo capiscono, la religione è un collante fra le classi, anche il prete è un demente.
il regista è tecnicamente bravissimo, ma il film non mi ha convinto,
Ma Loute sembra una variante di P'tit Quinquin, che era davvero bello, Paganini non ripete, Bruno Dumont invece si ripete, riuscendo anche un po' ad annoiare, alla lunga.
(i Cahiers de Cinema lo mettono al quinto posto rispetto alla prima posizione del precedente)
comunque buona visione, giudicate voi - Ismaele








 Si contrappongono personaggi di due diverse classi sociali. I poveri, la famiglia Brufort a cui appartiene Ma Loute, interpretati da attori non professionisti, sono pescatori, raccoglitori di mitili e trasportatori a braccia di turisti tra una riva e l`altra della baia durante la bassa marea. Dall`aspetto ricordano i mangiatori di patate di Van Gogh. Sono antropofagi, divorano carne umana (borghese) ed emettono grugniti bestiali. I ricchi, la famiglia Van Peteghem, interpretati da attori famosi: Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, vengono a trascorrere le vacanze in una villa di stile egizio sopra il villaggio. Borghesi in decadenza, atteggiati e inebetiti, per i quali è tutto meraviglioso e fantastico, che nascondono un passato incestuoso e perverso. Si sono sposati tra cugini per favorire la fusione dei loro capitali.
Alto e basso, ricchi e miseri, si cade e si vola, da un lato si mostra un perbenismo di facciata, dall`altro una primitività bestiale.
Un film dalle immagini forti, tra il reale e il surreale, tra il comico e il crudele (alla Tarantino) che non è altro che la trasposizione della commedia umana con tutte le sue sfaccettature e le sue contraddizioni.

da un lato la derisione è universale, e colpisce tutti. C'è però una differenza cruciale, ed è una differenza di classe (sociale): i viziatissimi altoborghesi, al limite dell'idiozia, sono derisi in quanto caricaturali; i poveri lo sono perché sono grotteschi. Pur con una certa approssimazione, è possibile affermare che mentre il grottesco sta per una deformità naturalizzata, considerata come inerente all'ordine delle cose, il caricaturale è una questione di stile. È  una deformazione deliberata e intenzionale di un oggetto la cui originaria non-deformità è fuori questione, e data tanto implicitamente quanto inequivocabilmente. Per questo i ricchi personaggi violentemente caricaturati sono interpretati da attori famosi; non così i poveri, non di rado interpretati addirittura da non professionisti.

Certo, dietro l'individuazione di questa stessa differenza c'è ancora la classe: sono i ricchi a pensare, ipocritamente, che la turpitudine dei poveri non abbia origini sociali, ma sia nell'ordine naturale delle cose. Il gioco a cui gioca il film è in effetti, proprio questo: costringe lo spettatore a spostare una mal riposta illusione ideologica per poi sbattergli in faccia l'evidenza di quanto torto abbia. Lungo più di metà del film, infatti, Dumont sembra suggerirci che una mediazione pacifica tra i due mondi sia tutto sommato possibile (l'eponimo Ma Loute, primogenito dei miserevoli Brufort, si innamora ricambiato della figlia dei ricchi). Poi però lungo tutta la seconda nega recisamente la percorribilità di qualsiasi conciliazione, schiaffeggiandoci con un “no” dietro l'altro, vale a dire con altrettanti ribaltamenti e U-turn narrativi che, per pura virtù di accumulo, finiscono per fare esplodere qualsiasi forma di integrità del racconto. Opportunamente, uno dei personaggi a un certo punto non la smette di confondere il termine dénouement (scioglimento narrativo) con débordement (l'eccesso, lo straripare fuori dai margini)…

Nella seconda parte alcune dinamiche si fanno ripetitive e il gioco mostra leggermente la corda, ma le trovate surreali e la caratterizzazione dei personaggi sono divertenti fino all'ultimo e non mancano sequenze visivamente geniali…

Osserviamo il poster: all’interno dell’ovale si nota una variegata umanità dalla quale emerge almeno un tratto comune: ognuno dei soggetti ivi riportati ha una posa da perfetto imbecille, poi leggiamo sotto al titolo la paternità dell’opera e un pochino di dubbi si materializzano: ma come? È proprio quel Dumont lì? Quello che faceva quei film là e a cui difficilmente si sarebbe pensato di accostare una locandina del genere? Perché comunque le locandine sono importanti nei circuiti di vendita, presentano il prodotto, lo identificano, attraggono, ed è per tale motivo che, ad esempio, le opere sperimentali non hanno bisogno di poster poiché non necessitano di pubblico ma di persone, di esseri umani, ed è sempre per questo che Dumont ha piazzato già nel primo strato di Ma Loute (2016) con cui dobbiamo rapportarci la quintessenza del film stesso, ovvero un prodotto di marcata attorialità, di focus caricaturale, di commedia esacerbata e a volte anche un po’ scema…

Va bene tutto però dopo un po’ uno si annoia, si infastidisce. Ma Loute parte anche bene, per mezz’ora il film è piacevole e divertente in tutte le sue eccentricità; c’è la critica sociale, c’è uno sfondo politico (ma anche Grease è politico!), ci sono le solite derive umane di Bruno Dumont. Però poi hai la sensazione che il regista ti molli per strada, che si dimentichi che tu sei lì, come un fesso, seduto in sala a fissare uno schermo enorme in una sala semideserta con qualche altro poverino che ha provato il brivido del film francese pazzariello proveniente da Cannes. E finisce che con il sopracciglio alzato osservi un grande obeso volare nel cielo con un effetto visivo che nemmeno Méliès, che nemmeno alle prime dieci ore di un corso serale di After Effects faresti così male – ma male male!...

 Estremizzando i due mondi, il regista francese chiede alle sue star di non trattenersi in un alcun modo, cercando anzi una recitazione sempre sopra le righe, oltre il teatrale, per rimarcare l’ipocrisia di una nobiltà già all’epoca antistorica e decaduta. Di contro, alla famiglia di pescatori, suggerisce di non dimenticare mai la natura ferina che ne contraddistingue anche i tratti somatici, costringendoli a fagocitare (letteralmente) le carcasse di una specie destinata all’estinzione.
Il tutto, naturalmente, incastonato nella cornice struggente e mozzafiato di un luogo selvaggio che, a quanto pare, neanche la forza del vento è capace di trasformare. Saranno le persone, piuttosto, a volare via, vuoi per miracolose ascese verso il divino, vuoi per trasformarsi in veri e propri palloni aerostatici con cui adornare una festa in giardino. Ed è anche nell’insistenza di questo nonsense esasperato che Dumont, trascorsa la prima mezz’ora del film, finisce per annoiare. Quasi incapace di arrestarsi, come accade con gli innumerevoli ruzzoloni dell’irresistibile Machin, personaggio che sembra uscito dalle comiche in bianco e nero dei primordi della storia del cinema. Ma anche quello è un giochino che dopo un po’ stanca.
Chissà, forse è ancora presto per dirlo con certezza, ma ancora tendiamo a preferire il Dumont vecchie maniere. Si rideva meno (anzi, per nulla), ma i suoi film erano capaci di durare ben al di là dei titoli di coda. Un cinema cannibale, quello sì capace di mangiare anche lo spettatore, che non faceva prigionieri.

 Il digitale può - in altri film - aver appiattito alcuni elementi visivi, ma fornisce molti aiuti a un film come questo. Rende possibile inquadrare campi larghissimi su cui far irrompere nettamente un volto stravolto in primo piano. Rende a portata di mano semplici effetti speciali digitali molto utili per le scene slapstick, con i personaggi che letteralmente volano di qua e di là. Il dominio della post-produzione infine consente scene spettacolari come la tempesta a un passo dalla spiaggia assolata, forse l'apice visivo e  drammatico del film, dal sapore quasi verghiano. D'altro canto un film del genere vive sul fisico dei propri attori in particolare quelli non protagonisti (i già citati Billie e Machin, ma anche Eternel, il padre di Ma Loute) che comunicano potentemente con la loro sola presenza - ma anche sull'autodeformazione di Luchini.
Dumont sostiene che nessun registro richieda la stessa attenzione formale del comico. Nei tempi, ovviamente, si veda l'estenuante taglio della cacciagione, ma anche nella fotografia, con la selezione ad ogni caduta di Machin della prospettiva in cui risulti maggiore la ridicolaggine.  Seguendo questo principio il regista mantiene un estremo controllo formale - si veda ad esempio il lavoro sul suono - ma allo stesso tempo si sente libero di strabordare con i temi e le svolte narrative. L'unico vero difetto del (bel) film sta in questa simpatica ingordigia che a volte taglia fuori lo spettatore a forza di accumulare gag, brevi sottostorie e temi assurdi. Come in cucina, mescolare sempre tutto - ad esempio il dramma e il grottesco nel dialogo tra Luchini e la Binoche - conduce a pasti che vengono ricordati di più per la loro stranezza che per la loro bontà.  "La trasgressione mi interessa, che sia l'ambiguità sessuale, il cannibalismo, l'incesto, etc. - sostiene Dumont - Posso trattare la mostruosità, il proibito, attraverso il comico." Il film è pregevole visivamente e regala risate sincere, ma alla fine piacerà anche nella misura in cui si accetta questo punto di vista.

A very different film from Dumont. This absurdist film takes place in the 1910s at a beach site where local poor fishermen literally live off tourists and the inbred bourgeois rich family that keep a mansion on the beach. I say literally, because they not only make money by being their ferrymen, they also eat them when they get too hungry. The rich family of inbreds are all acted over-the-top, from the bumbling incompetent hunchback, to the hysteric women, and they have a girl that frequently changes her sex and clothing on a whim. A Laurel & Hardy police-man duo are investigating the missing people, the fat one frequently rolling down hills or falling down, and trying not to be distracted by the cross-gender teenager, a budding romance between the two families, and a nudist beach. This leads to a surreal, fantasy climax that doesn't seem to go with the rest of the movie. Although this may bring up comparisons to Delicatessen thanks to the cannibal comedy, the slapstick is awkward, and the over-the-top treatment is also annoying and also doesn't allow the satire to be anything other than silly. But it's odd enough to keep one entertained, and it's visually beautiful to look at.
da qui

lunedì 24 aprile 2017

Escobar (Escobar : Paradise Lost) - Andrea Di Stefano

Pablo Escobar poteva farlo solo Benicio Del Toro, alla fine credi che sia stato davvero così, quel delinquente assassino, amico del popolo.
il film non sarà perfetto, è un'opera prima, ma Andrea Di Stefano ha stoffa, se gli faranno fare film e se glieli distribuiranno vedremo belle cose.

non ha grandi giudizi positivi, leggendo qua e là, ma a me è piaciuto abbastanza, Benicio Del Toro che recita è proprio un bel vedere - Ismaele







 Con Escobar: Paradise lost nasce un regista. Andrea Di Stefano, attore italiano dalla carriera internazionale, dimostra con il primo film di possedere tutte le qualità del buon regista, compresa l'ambizione, quando è ben riposta come in questo caso. Si confronta con una materia complessa, potentemente schizofrenica, e con un altro regista, uno dei più grandi e dei più folli. Escobar, dio della povera gente e demonio incarnato, si curava moltissimo dell'immagine di sé che voleva restituire, sapeva confondere, illudere, e non sono poche le sequenze in cui Di Stefano lo mette dietro un obiettivo fotografico, a dirigere un matrimonio o una folla ("porta via Maria da qui" arriverà ad ordinare ad un certo punto a un suo scagnozzo, in un attimo di delirio, in un campo di calcio gremito di gente accalcata). 
Benicio Del Toro, già Che Guevara, indossa un'altra icona latinoamericana, di segno diametralmente opposto. La forza della sua interpretazione è la stessa del suo personaggio e ha a che vedere con le sfumature profonde e insondabili dell'autoinganno. Quell'uomo che parlava con Dio prima di ordinare i più atroci massacri, che cantava struggenti canzoni d'amore alla moglie, leggeva le fiabe ai figli, ma non si fidava nemmeno dei collaboratori più stretti, s'ingannava lui stesso rispetto alle proprie azioni ("tutto quello che facciamo lo facciamo per la nostra famiglia") o covava un'anima più nera del nero? Senza che in alcun modo questo dubbio passi mai per una sfumatura di giustificazione, Del Toro ne fa la pasta della propria performance, ipnotizzante…

…El film tiene sin duda un aire padrinesco, la cinta de Coppola es una influencia casi inevitable para cualquier película sobre el crimen organizado cuando sus protagonistas dicen preocuparse de su familia, y son dados a una extraña piedad religiosa, mientras matan sin compasión. Aquí se suma la idea de que el pueblo humilde está contento con Escobar, que les ofrece un modo de vida, de modo que el gángster se puede permitir darse algunos baños de multitudes.
Si toda la narración se sigue con interés, todo cobra un ritmo vertiginoso y desasosegante cuando se cierra el flash-back con que se inicia el film, y nos toca seguir a Nick, al que se le ha hecho un impresentable encargo mientras Pablo Escobar debe entregarse a las autoridades, según el acuerdo al que ha llegado con el gobierno. Realmente Di Stefano y Hutcherson logran meternos en la piel del pobre Nick, empujado a cometer acciones inmorales que sabe que no debe ejecutar. El film se prestaba a la violencia, pero el director opta casi siempre por el fuera de campo sin que la fuerza de lo narrado se resienta lo más mínimo.


… Probabilmente il film soffre di quei difetti che emergono da molte opere prime, ma c’è da dire che ad Escobar non manca certo l’ambizione. Il dualismo tra i due protagonisti (Pablo Escobar e Nick, interpretato da Josh Hutcherson) è il filo rosso principale che, però, non si esaurisce con il confronto tra i due. Attorno al contrasto tra le due personalità ruota tutta una serie di argomentazioni che in un certo senso caratterizzano il pragmatismo con cui agisce una person(alit)à come Escobar. Religioso benefattore per il popolo, padre amorevolissimo per i figli, spietato e cinico uomo della malavita per chiunque altro, amici compresi.
È proprio con l’intento di farci perdere l’orientamento su qualsiasi definizione di “bene/male” che il regista gioca le proprie carte scrivendo una sceneggiatura interessante e originale, uscendo dagli schemi del biopic e prendendo in considerazione quel breve periodo della carriera politica di Escobar. In questo modo rappresenta il più grande criminale di sempre nel momento di maggiore popolarità tra la propria gente, mettendo in moto un meccanismo dove viene assolutamente annullato il rischio di creare una situazione di stallo.


No Borders - Haider Rashid



Dopo aver vinto il Premio MigrArti come Miglior Documentario alla 73esima Mostra del Cinema di Venezia, No Borders porta a casa anche una menzione speciale ai Nastri d’argento per la particolare attenzione all’attualità. Il cortometraggio di Haider Rashid è stato uno dei prodotti più importanti del 2016 per il cinema italiano, in quanto è riuscito a usare le nuove tecnologie per raccontare come mai prima la crisi dei migranti.
Il regista fiorentino, nato da padre iracheno e madre italiana, è stato il primo in Italia a realizzare un esperimento di realtà virtuale: il suo documentario, girato a 360 gradi, permette allo spettatore di esplorare in prima persona il centro Baobab di Roma e il presidio No Borders di Ventimiglia. Sul web, basta utilizzare il mouse per guardarsi intorno, mentre, durante alcune speciali proiezioni, come quella organizzata alle Giornate degli Autori di Venezia, sono stati forniti degli schermi-maschera per fare immergere gli spettatori nella quotidianità degli emigrati. Un’esperienza visiva che crea empatia utilizzando l’obiettività anziché il pietismo: Rashid ha scelto di mostrare situazioni di estremo disagio senza mai dare voce a storie personali…

domenica 23 aprile 2017

Lasciati andare - Francesco Amato

il film per tutta la prima parte è un film bello, ma normale, del genere screwball_comedy, piena di battute sempre più a fuoco.
Toni Servillo fa Toni Servillo al meglio, come sempre, e gli altri sono tutti bravi.
poi appare Ettore (Luca Marinelli) e il film spicca il volo.
Ettore sembra uscire da qualche miracoloso film degli anni sessanta, di quelli della commedia italiana di Monicelli e Comencini, un po' Gassman e un po' Mario Adorf.
un film che non lascia delusi, merito di una sceneggiatura con gli incastri giusti.
non aspettate che lo tolgano dalle sale, non fate come Napalm 51, avrebbe voluto vedere quel film, ma poi non c'era più al cinema.
buon film a tutti! - Ismaele





Toni Servillo movie, che è ancora un genere a parte, dove tutto è costruito per il buon funzionamento del protagonista, anche se Luca Marinelli come coatto vendicativo finirà per rubare la scena a tutti come faceva Diego Abatantuono nei primi film dove non era ancora protagonista. Ma questo Lasciati andare, grazie anche alle forze che mette in campo, è di fatto uno dei film più riusciti e divertenti della stagione e va quindi trattato con un certo riguardo…

Esclusa qualche sporadica battuta e un paio di gag fisiche molto blande non è al suo psichiatra Elia Venezia che sta il compito di portare avanti la leggerezza del film, anzi sembra fare di tutto per professarsi fuori dal campo del risibile. È semmai l’incredibile Veronica Echegui il motore del film, presenza elettrica ed esaltante, personal trainer che si impone nella vita del pigro intellettuale quando viene obbligato dal medico a fare del moto. Non c’è scena che quest’attrice spagnola (che per il film sfoggia un fenomenale romano-spagnolo da antologia) non illumini e non animi di pura forza filmica, una vera scoperta. Ogni battuta e ogni incomprensione da lei sbandierate si animano di quell’irresistibile patina esilarante che hanno le vere imprevedibili incomprensioni, ogni guaio in cui trascina il professore tirandolo fuori dalla sua vita tranquilla sembra un aneddoto più che un invenzione. Un po’ caotico, un po’ assurdo.
Sta un po’ qui la stranezza affascinante (e divertente) di Lasciati Andare, da questo movimento dell’austero psichiatra, quasi reticente ad entrare in una commedia, e dell’elettrica personal trainer, che nemmeno si rende conto di non poter fare a meno di viverci dentro da sempre (il suo video di esercizi che viene mostrato ad un certo punto è gioiello). Nasce così un film in cui sembra che Toni Servillo, così a suo agio quando c’è da esagerare con il grottesco ma molto meno con la commedia sottile, sia la spalla di tutti, della sveglia ex moglie Carla Signoris che gli abita accanto e ancora gli fa il bucato o del criminale di Luca Marinelli, dotato di alcuni dei piani di ascolto più divertenti dell’anno, capace di far ridere anche solo ritraendosi un po’ spaventato all’avvicinarsi dello sguardo dello psichiatra…

Il meccanismo è semplice, e ruota attorno all’incontro casuale tra due figure a loro modo antitetiche: da un lato Venezia, razionale e ben poco interessato agli istinti primari dell’uomo, e dall’altro Claudia, spagnola trapiantata a Roma che invece ragiona ben poco preferendo lasciarsi guidare dalla natura, e dal corpo. Nel gioco sugli opposti, ovviamente, a vincere è l’irruenza di Claudia, che trascina il bolso psicanalista in un vortice di disavventure di ogni tipo, rimediandogli emozioni (e infortuni) mai patiti nel corso dell’intera vita. Uno schema basico, forse, ma che permette a Lasciati andare di mantenere un ritmo indiavolato, sradicando i personaggi da quegli appartamenti e da quelle stanze in cui solitamente vengono reclusi, e cercando di sposare alla verve dialettica anche un sano gusto per la corporeità in scena. Tra ruzzoloni, incidenti, minacce di morte e scazzottate al ristorante, Amato confezione una commedia brillante, che viene naturale sostenere nonostante alcuni passaggi a vuoto: dispiace veder utilizzato così per esempio il personaggio di Yuri, compagno di cella di Marinelli che irrompe in scena senza preavviso e si muove di sequenza in sequenza in maniera ondivaga, senza troppa attenzione al suo sviluppo.
Eppure a vincere è soprattutto l’alchimia che si crea nella coppia Servillo/Echegui, destinata a diventare triangolo scaleno con l’apparizione di Marinelli. Lì, e nella rilettura di un personaggio borghese costretto a fronteggiare il mondo che lo circonda e a uscire dal suo guscio/cella/utero, la sfida di Lasciati andare può considerarsi vinta.

Il punto di forza di Lasciati andare sta nella sceneggiatura composta da dialoghi freschi e per nulla banali, dove a farla da padrone è l’ironia delle battute affidate al protagonista Toni Servillo. Quest’ultimo si è dimostrato in grado di interpretare un ruolo da commedia, nonostante noi siamo abituato a vederlo in parti drammatiche. Per l’attore, infatti, è il primo ruolo in una commedia. Tutti gli interpreti (anche gli attori secondari) - Luca Marinelli, Carla Signoris e Veronica Echegui - sono perfettamente in parte. Quest'ultima ha dato grande prova delle sue capacità espressive in Lasciati andare, che si avvale anche di riferimenti letterari degni di nota e che gioca sulla presunta ignoranza delle giovani d’oggi. Parliamo di quelle ragazze che per molte persone, essendo belle e dinamiche, hanno un basso quoziente intellettivo. Insomma, non manca l’uso degli stereotipi nel film di Francesco Amato. La pellicola gode di un ritmo incalzante adatto al suo genere di appartenenza e in grado dimettere in risalto la sua grande verve umoristica, grazie alla quale difficilmente il pubblico in sala riuscirà ad annoiarsi. Infine, oltre al confronto generazionale dato dai due attori principali (Servillo e Echegui), emerge una profonda caratterizzazione psicologica dei diversi personaggi coinvolti, ognuno con i suoi problemi e con il suo modo di affrontare la vita di ogni giorno.

venerdì 21 aprile 2017

Re:legalized – un viaggio nella cannabis rilegalizzata - Francesco Bussalai

ecco un film che racconta un tema tabù, ma come dice il regista l'importante è parlarne, poi si vedrà.
il documentario rimbalza fra l'Oregon, dove la marijuana (o ganja, come la chiamano in India) è ri-legalizzata, solo per i maggiorenni (il ri- significa che è stata vietata per 60-70 anni, ma non lo è stata per milioni di anni) e lo studio del dottor Gian Luigi Gessa, neuroscienziato, a Cagliari.
il film è fatto davvero bene, difficile annoiarsi.
sarà interessante farlo vedere nelle scuole, e finalmente discuterne.
c'è una demonizzazione enorme sulle droghe, e anche sulle droghe leggere, che si chiamano così perché non danno dipendenza (si legge qui).
la tolleranza zero viene declamata dai rappresentanti della Guardia di Finanza, che spesso fanno incontri nelle scuole.
poi provi a dire che il tabacco uccide, l'alcool uccide, le auto uccidono, l'inquinamento uccide, le droghe leggere no, l'obiezione è sempre si inizia con le droghe leggere e poi si sa come finisce.
nel film si capisce anche perché esiste la tolleranza zero, motivi economici e politici, ma non si dice mai, se non nei documentari.
guardatelo se potete, se cercate il regista credo sarà ben felice di organizzare qualche proiezione dove volete voi, Perugia, Padova, Palermo, mi vengono in mente, ma se vivete in città che non iniziano con la lettera P, non preoccupatevi, il regista ama tutte le lettere.
buona visione - Ismaele








qui il sito del film, dove si possono trovare le informazioni sul film e su come fare per organizzare proiezioni per far vedere il film (è per questo che si fanno i film, no?)


qui un’intervista con Francesco Bussalai





dice il giudice Raffaele Cantone:

"Mi pongo una domanda, anche se non sono in grado di dare una risposta: una legalizzazione di una droga controllata, anche nelle modalità di vendita, non potrebbe avere effetti migliori rispetto allo spaccio che avviene alla luce del giorno nella totale e assoluta impunità e che riguarda amplissime fasce della popolazione giovane?".
"È un po' un'ipocrisia all'italiana ci nascondiamo dietro il proibizionismo sapendo che quelle norme sul proibizionismo servono a riempire le carceri, di extracomunitari in gran parte, e nessuno si preoccupa del perché il fenomeno cresce".


“Credo soprattutto che una legalizzazione intelligente possa evitare il danno peggiore per i ragazzi, cioè entrare in contatto con ambienti della criminalità. Inoltre, il controllo delle droghe leggere evita interventi chimici che stanno portando anche alla tendenza all'assuefazione o al vizio.

giovedì 20 aprile 2017

Dreiviertelmond - Christian Zübert

l'incontro di Hartmut, noioso e preoccupato tassista di Norimberga, con Hayat, una bambina turca che non sa il tedesco, accompagnata dalla mamma a casa della nonna, e ha solo sorriso e curiosità e simpatia.
Hayat riuscirà a conquistare, almeno un po', quel vecchietto "nazi".
difficile da trovare, ma se vi capita a portata di mano non trascuratela, è una commedia che non vi dispiacerà, e finirà con una liberazione - Ismaele







La vita del sessantacinquenne Hartmut, tassista di Norimberga, sta letteralmente cadendo a pezzi. Dopo trent'anni di matrimonio, la moglie ha deciso inaspettatamente di lasciarlo e lui è caduto in uno stato di depressione che lo ha reso un uomo diverso. Introverso, burbero e diffidente nei confronti di tutto ciò che è nuovo e degli stranieri che in Germania son sempre più numerosi, Hartmut si ritrova di fronte a un imprevisto che rivoluzionerà il corso dei suoi giorni quando una donna di origini turche dimentica sul suo taxi la figlia di sei anni e in lui nasce il desiderio di aiutarla.

da qui

mercoledì 19 aprile 2017

Der Fuehrer's Face - Jack Kinney



Der Fuehrer's Face è un film del 1943 diretto da Jack Kinney. È un cortometraggio animato propagandistico della serie Donald Duck, prodotto dalla Walt Disney Productions e uscito negli Stati Uniti il 1º gennaio 1943, distribuito dalla RKO Radio Pictures. Il cartone animato, che vede Paperino fare un incubo nel quale lavora in una fabbrica nella Germania nazista, fu prodotto nel tentativo di vendere titoli di guerra ed è un esempio di propaganda statunitense durante la seconda guerra mondiale. Il film, il cui titolo di lavorazione era Donald Duck in Nutzi Land, venne scritto da Joe Grant e Dick Huemer dalla musica originale di Oliver Wallace. Il film è molto noto per la canzone originale di Wallace Der Fuehrer's Face, che era stata effettivamente pubblicata precedentemente da Spike Jones.
da qui

martedì 18 aprile 2017

A cavallo della tigre - Luigi Comencini

un poveraccio per una volta vuole fare il furbo, ma lo beccano subito, qualche anno di galera.
deve sopravvivere in quel mondo di umanità varia e di regole diverse dal quelle di fuori.
ma quello che sembrava un film come tanti poi comincia a volare, e diventa cattivissimo, senza sconti, e c'è poco da ridere.
attori bravissimi, Nino Manfredi e Mario Adorf sopratutto, ma anche Gian Maria Volontè non scherza.
e i sacrifici che si fanno per la famiglia sono inenarrabili, ci si accorgerà alla fine di cosa vuol dire, e anche di cosa significa a cavallo della tigre.
non privatevene, buona visione - Ismaele









Tra le commedie italiane "più avanti" degli anni '60. Comencini (che lo produsse in cooperativa con sceneggiatori e Alfredo Bini) sfrutta l'aggressivo script di Age e Scarpelli non in direzione grottesca (come accadrà poi a Scola), ma nel senso di un apologo malinconicamente (sur)realistico su un umanità sottoproletaria, che il boom non lo vede e semmai ne paga il fio. Manfredi è un infame burino Candide, impossibilitato antropologicamente a trar partito da ogni lezione. Adorf batte Volontè in verità e gigioneria. Brutto sporco e commoventemente cattivo.

Tra le perle perdute della commedia all'italiana, A cavallo della tigre è frutto di una cooperazione tra il regista, Luigi Comencini, gli sceneggiatori, Age, Scarpelli e Monicelli, e il produttore, Alfredo Bini. Pellicola d'ambiente carcerario in cui si mescolano amarezza e ironia, ha una forte valenza metaforica nella descrizione di un manipolo di disgraziati incapaci di comprendere com'è cambiato il Paese in seguito allo scoppio del boom economico. Una volta fuori dalle sbarre, questi sfortunati antieroi non pensano neanche di camuffarsi o di mescolarsi alla folla, ma camminano nel traffico, intanto aumentato a dismisura, con gli abiti lerci, riconoscibili ad occhio nella loro mancanza di integrazione. Siamo dalle parti di una commedia dello sradicamento e dell'inganno in cui persiste uno sbilanciamento irrecuperabile tra soggetto e traguardo, per cui tutto va nel verso sbagliato: gli sviluppi quantomai spietati della sceneggiatura beffano dall'inizio il personaggio di Nino Manfredi, le cui mosse portano al peggiore dei rovesci di fortuna fino alla paradossale accusa di aver architettato un piano di cui, in realtà, è la prima vittima. A differenza di assimilabili titoli in cui la vocazione al raggiro e alla truffa si ritorce, nel finale, contro il protagonista, A cavallo della tigre si sviluppa intorno al ritratto di un uomo naturalmente candido e senza nessuna possibilità di influire sugli eventi. Lo scriverà lui stesso all'avvocato nell'irresistibile memoria che funge da raccordo per tutta la storia: «Come dicono i cinesi? Ormai stavo a cavallo della tigre: cioè è pericoloso starci, ma molto più pericoloso scendere perché la tigre ti si mangia!».
Raccontato con accanita sicurezza, ignizioni grottesche e umorismo acre, è un film che preferisce il distacco critico alla partecipazione emotiva, lasciando lo spettatore libero di entrare in empatia con i vari personaggi. Oltre a Manfredi, in una delle sue interpretazioni più notevoli, ci sono anche un animalesco Mario Adorf, d'ora in poi habitué del cinema italiano, e un tagliente Gian Maria Volonté. Sfortunata commercialmente, è un'opera da riscoprire e da studiare a fondo…

Un capolavoro, c'è poco da dire. Straordinaria prova d'attori (film della vita per Adorf, indimenticabile Tagliabue) ma sopratutto sceneggiatura tra le migliori della commedia all'italiana, con pochissime concessioni alle aspettative dello spettatore. Da vedere e far conoscere.

Di episodio in episodio, prima dentro il carcere e poi in un paesaggio che ha cominciato a perdere d’identità, girovagando intorno a Civitavecchia, i quattro evasi si lasciano e si ritrovano dentro un altro tipo di carcere, da cui davvero non possono evadere. La loro indefinitezza e inadattabilità morale e sociale li porta al peggio e al meglio. E Giacinto, saputo della taglia che sta sulla loro testa di evasi, si fa denunciare dalla moglie ritrovata e dal suo nuovo uomo, per aiutarli nella sopravvivenza loro e dei suoi figli. Probabilmente è stata questa ambiguità ad aver determinato l’insuccesso del film, in un anno in cui l’economia andava forte e il progresso si scatenava. Era un’ambiguità troppo grande rispetto a quella dei Gassman del Sorpasso, dei Sordi di Una vita difficile, “cattivi” simpatici ma che il film giudica e punisce o “buoni” riscattati dai loro cedimenti e viltà da una nuova verginità sociale, “di sinistra”.
Piccola epopea sottoproletaria, e infine, a vederla oggi, quasi una fiaba senza tempo, A cavallo della tigre è un piccolo capolavoro che merita visioni e discussioni. La casa di produzione dei quattro grandi della commedia all’italiana avrebbe dovuto produrre, dopo A cavallo della tigre, L’armata Brancaleone, che potrà vedere la luce solo cinque anni dopo, e che avrà un successo clamoroso. Sia detto infine per inciso: i quattro autori venivano tutti e quattro, a quanto ricordo, da una tradizione socialista un po’ ottocentesca e non si muovevano in area comunista.

venerdì 14 aprile 2017

Sul Globo d’Argento (Na srebrnym globie) – Andrzej Zulawski

ho guardato questo film solo tre volte, nell'ultimo mese, ho saputo della sua esistenza da poco, l'ho trovato in rete (qui i sottotitoli italiani).
proiettato a Cannes nel 1988, in una versione non completa, era stato girato una dozzina di anni prima, poi interrotto e distrutto in alcune parti (anche in Italia in quegli anni i film venivano bruciati dalla censura,  in senso non figurato, si pensi a Ultimo tango a Parigi).
il film di Andrzej Zulawski è un cinema-mondo, siamo all'altezza di capolavori come E' difficile essere un dio, di Aleksej German (con il quale ha dei punti di contatto), o dei film di Andrei Tarkovsky, per rendere l'idea.
dicono che è cinema di fantascienza, io dico che è Cinema dei piani alti, senza bisogno di troppi aggettivi .
non è facile trovarlo, ma lo sforzo per la ricerca è tempo ben speso, promesso.
per avere un'idea di come agisce sugli occhi e nella testa di chi lo guarda, date un'occhiata alle recensioni che ho messo più sotto.
buona visione - Ismaele










Ci sono dei film.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, che sarebbe impossibile (e sbagliato) riuscire a condensare, a riassumere, a rinchiudere entro determinati schemi.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, per cui ogni parola è ingiusta, perché sfuggono a qualsiasi controllo, perché sono più belli di qualsiasi cosa che si potrebbe esprimere, dire o affermare.
Ci sono dei film rari, giganteschi, inafferrabili, che non richiedono altro se non di lasciarsi vivere, perché conservano una potenza intatta e disarmante, una rabbia devastante, un'idea di cinema che è già pronta a scavalcare tutto il resto.
Idea di cinema che si traduce in un gesto filmico reiterato, in una visuale distorta, eccessiva e grandangolare (se non deforme perfino fastidiosa, insinuosa e sensuale, definitiva, innamorata eppure così dolcemente aurorale). 
Aprire gli occhi.
Guardare.
Tornare a sorprendersi per tutto, proprio tutto e aver paura, immemori di inizi e di finali, dimentichi della direzione del film perché ormai non è più "solo" un film. Lasciarsi trasportare, perdersi forse, e amare fino in fondo quella perdita, quella mancanza, quel disagio che è, è stato, e sarà l'Opera vera, lontana, irraggiungibile.
Guardando "Sul Globo D'Argento" si ha come la percezione di un tempo che scorre diversamente, di un modo di intendere il cinema, l'immagine, la Storia, l'umanità, completamente fragile, umano, devastante. Il film è tutto lì, nella sua stessa incompiutezza, in quelle parole pronunciate da Zulawski mentre vaga per strade polacche: la parte "aggiunta" rappresenta una riflessione gigantesca sul cinema in grado di sconfiggere tutto il resto, su un "atto di resistenza" che va salvaguardato, protetto da qualsiasi fattore esterno, da qualsiasi regime o proibizione.
Ciò che sorprende è il continuo disorientamento operato da Zulawski, il suo imperterrito abissale far sentire fuori posto lo spettatore, che diviene nomade in un altro regno della visione, più oscuro, più ignoto perfino più doloroso. Come un Tarkovskij virato in blu, pregno di rabbia e risentimento, che ha bisogno di urlare, perché crede nel corpo prima di tutto come movimento instabile, come possessione che domina la carne, come continuo, inafferrabile momento della verità. La parola, componente fondamentale del film, assume un aspetto fondamentale, quello di una carnificazione del sentimento, una sorta di protesi stessa del corpo. 
Non è cinema che si racconta perché "Sul Globo D'Argento" è un film che si può solo sentire (e subire e assorbire) sulla propria pelle, che richiede allo spettatore di perdersi in un regno che non può che essere dominato dal caos. Che poi sia l'intera storia umana il manifestarsi animalesco, bestiale di quel caos è la teoria zulawskiana: la nuova civiltà nata da un sogno generoso è condannata a essere un doppione della storia della Terra. Questo è il film sull'inevitabilità della catastrofe, sul fatto che tutto avvenga - e avverrà - allo stesso modo, con le stesse facce, all'interno dell medesimo mito aurorale, della medesima grande dimora.
Si arriva addirittura a esistere e a rivivere all'infinito solo in virtù di una grande storia d'amore e dolore. Ognuno è, è già stato e sarà, poiché ci assomigliamo tutti e non siamo altro che l'ennesima versione di un mito iniziale (ma non era questa la premessa geniale anche de "La terza parte della notte", splendido esordio di Zulawski?): come doppioni infiniti, estreme copie di un "vecchio uomo" primordiale. Ecco dunque l'immagine Cristica di un regno della sofferenza, dove l'avvenire si configura come il nostro stesso passato. Ogni demone, ogni Shern, siamo noi. Ripenso al "Diavolo" e all'inevitabilità del male, alle proiezioni dell'inconscio, alle paure che prendono forma, alla possessione e al mostro ipodermico che è in noi ("Possession" e l'angoscia insostenibile di chi ha scambiato il bene con il male, di chi si è corrotto in un mondo capovolto e scivola nell'equilibrio instabile del caos).
Da spettatori siamo infine chiamati a vedere-non vedere e completare: radiografia dello sguardo o forse indagine del cuore. E ritrovarsi testimoni di ogni domanda, di ogni lamento, di ogni urla e convulsione, mentre si assiste (disorientati) a un video registrato prima del tempo, a una visione per cui non si è mai troppo pronti.
E' meraviglioso pensare che esista tanto cinema così grande da scoprire.

Sul globo d’argento è basato su una trilogia di romanzi del prozio del regista, Jerzy Zulawski, che racconta di una missione terrestre di un gruppo di scienziati in fuga su un altro pianeta, alla ricerca di un’ agognata libertà.
Il film segnò un ritorno per il regista nella sua nativa Polonia, da cui era fuggito dopo la censura da parte delle autorità del film Diavolo. Purtroppo, quando fu nominato un nuovo ministro della cultura, i timori di Zulawski tornarono ad essere una dura una realtà: la trama del film fu infatti subito interpretata come un’allegoria per la lotta della Polonia contro le autorità sovietiche, e fu ordinato di distruggere la pellicola.
Fortunatamente Zulawski aveva già completato l’ottanta per cento del film, e non riuscirono mai a distruggere l’intero filmato. Utilizzando una voce fuori campo per colmare le evidenti lacune, il film fu mostrato ad un pubblico riconoscente al Festival di Cannes del 1988, ma naturalmente non fu e non è tuttora facile da seguire.
Sul globo d’argento è come una rivisitazione futuristica della vita ai primordi sulla terra, con i numerosi tentativi di sopravvivenza degli scienziati che strabordano poi in un clima politico, mistico sacerdotale… culto religioso che se inizialmente sembra avviare la nuova razza verso una ricostruita e pacifica civiltà, alla fine porterà solo e soltanto verso un caos totale di completa devastazione.
La regia è come un tornado, uno tsunami frenetico dove le riprese sembrano provenire direttamente dagli abissi, una fotografia fredda e atonale rende i personaggi come fantasmi di una società altra, perduta e risucchiata nelle viscere della propria sudicia depravazione.

Il lato tecnico dell’opera però è il vero fulgore dell’opera: poche volte nella storia del Cinema si è vista una regia così convincente e straordinariamente attinente a quanto illustrato: Zulawski qui mette in scena, attraverso una direzione a spalla movimentata ed estenuante, il suo vero e proprio istinto delirante che tanto lo ha contraddistinto nelle pellicole precedenti. Ogni ripresa ha come unico scopo quello di destabilizzare ed inquietare lo spettatore, ogni inquadratura è stonata e paurosamente inquietante in tutta la sua follia. I colori sono sempre bui e foschi, passando dal blu scuro dei sempre presenti mare e cielo al nero più pieno delle grotte e del buio dilagante, il che simbolizza e sottolinea quel clima di negatività e di orrore che è lo scopo primo del regista. Ma ancora a rafforzare tutto ciò i dialoghi sono un’altra prova di quanto appena detto: onnipresenti, lunghi ed interminabili, e soprattutto quasi sempre privi di senso o talmente astrusi nella loro eccessiva ridondanza logica, quasi arcaica, da risultare inevitabilmente estenuanti e faticosi da sopportare, il che in fin dei conti contribuisce a mettere la vicenda in secondo piano svalutandone la parte puramente dialogata.
La follia destabilizzante di Zulawski diventa infine il metro di giudizio della stessa follia umana, il contrappasso che l’autore riserva al suo spettatore nonchè la spirale ultima di un mondo in rotta, comandato dall’insanità e, come ci spiega il maestro stesso, succube della stessa, incatenato ad i propri vizi come una bestia al proprio istinto famelico. In questo senso “Sul globo d’argento” può essere considerato come uno dei più grandi film realisti in chiave distopica, un’opera proprio per questo necessaria e fondamentale, arrivataci purtroppo ai giorni nostri vittima di enormi, vistosi tagli di lavorazione e censura.

…Resumiendo mucho lo narrado, podríamos dividir su argumento en tres parte: la primera, muy breve (actuando casi a modo de prólogo), introduce a unos cosmonautas que conviven con unos seres humanos que actúan y visten de un modo bastante primitivo (al modo de la Edad del hierro), quienes les prometen entregarles unas grabaciones que están en su posesión; la segunda parte sería la visualización de esas cintas, filmaciones en primera persona (al modo de las actuales cámaras GoPro) de los avatares de tres astronautas que arriban a un planeta desértico, comenzando una labor de repoblación que avanza en el tiempo generación tras generación, lográndose implantar una auténtica civilización; la tercer y última parte cuenta la historia del cosmonauta Marek, que llega a ese planeta con la misión de recuperar las cintas, pero que acaba implicándose con la población nativa en su lucha contra unos siniestros seres negros y alados, pero que acaba descubriendo un complot de dominación del pueblo por parte de la curia religiosa.
La propuesta resulta sumamente atractiva, al poder ofrecer un resumen acelerado de la evolución histórica del ser humano, forjando los cimientos sociales desde los orígenes. La disposición expositiva de este relato adquiere proporciones bíblicas, material y meafóricamente hablando: no solo sus dimensiones se acercan a las de la epopeya, sino que su modelo se basa en las escrituras sagradas del cristianismo, pudiéndose identificar en su argumento trasposiciones de personajes propios de la tradición y mitología de la cultura occidental, tales como Adán y Eva (los cosmonautas que procrean por primera vez sobre la superficie de ese planeta), Caín y Abel (los hermanos que se retan a muerte por el control del linaje), Moisés (aquel que cruza las aguas para liberar a su pueblo de una tiranía impuesta), Matusalén (el ancestro que, a ojos de los jóvenes nativos, remite a sus orígenes debido a su extensa longevidad), etc. Pero todas estas referencias también coexisten con otras manifestaciones antropológicas, pudiéndose observar asímismo elementos cercanos al chamanismo, los problemas derivados del incesto, los inicios de la mística y las profecías, etc.
Este discurrir estremece por su paralelismo con el de la propia historia de la humanidad tal y como se produjo en su día, observándose la consecución de acontecimientos como una imperiosa necesidad basada en la relación causa/efecto, donde el poder va derivando poco a poco del líder político y militar a una curia religiosa, cuya función es la del control social a través del miedo. Es el momento en el que aparece en acción el cosmonauta Marek, que adquiere el rol de caudillo unificador en medio de una lucha de poder entre distintos intereses políticos. La suya se acerca a la historia narrada por los hermanos Strugatskiy en su novela Qué difícil es ser Dios pues, por sus mayores conocimientos intelectuales y tecnológicos, el terrícola adquiere una inevitable relevancia en una sociedad con aspectos propios de la Edad Media, definida a través de la imposibilidad de abandonar la barbarie. Su liderzgo se verá reforzado por aquellas profecías que anunciaban su venida, lo que emparenta su figura con la de Cristo. Y, al igual que Jesús de Nazaret, él también sucumbirá a los intereses de aquellos de reforzar su figura y su legado a través del martirio, rematándose su presencia en aquel planeta con su sacrificio en forma de crucifixión…

Imagine a strange, existentialist Tarkovsky sci-fi movie, filmed with the usual babbling histrionic and primal acting by Zulawski, with an endless stream of bizarre Jodorowsky-esque costumes, mysticism and dialogue, and all this presented in fragmented form because the film was shut down before it was completed. The result is as insane as it sounds. This 2.5 hour movie seems to tackle nothing less than civilization and humanity, tracking the progress of some astronauts colonizing another planet with visitors arriving to monitor their progress. At first, the film is like a fragmented film-diary, filming the deterioration of the first astronauts, their children growing up abnormally fast and cultivating a new primitive culture that worships the slowly aging originals. Throughout the film, all characters combine Zulawski's trademark primal acting with endless, pretentious and often impenetrable dialogue, rants and soliloquies, examples include "Ultimately, every reaction to physiology is the fascism of the soul" and this exchange between father and son: "What is Earth?", "Earth is what I feel for you". The film-document then presents a series of scenes and snippets as the new civilization develops, forming new tribes, rituals, very bizarre and constantly changing costumes, very violent behaviour culminating in crucifixions and grotesque impalements on 50-foot poles, new religions, and even strange offshoots of biology with bird-like creatures and other mutations or diseases, the characters moaning existentially and philosophically about what they have done or have learned, all of this giving the feeling that millennia are passing. The missing film fragments are narrated from the screenplay while footage of modern Poland is shown, demanding parallels to be drawn with our society. In short, a mostly impenetrable and tediously pretentious, but unique, atmospheric and sometimes interesting creation.

L'idea che il cinema possa, consciamente, ricreare un tentativo di origine dell'umanità, o forse di origine della società moderna, ecco, sì, meglio, è stupefacente; farlo partendo (con il tramite) da un genere letterario è ancora più ambizioso. Ecco, Zulawski è in grado, con la fluidità (ahaha) di due ore e mezza di grande cinema, di metterci di fronte alla domanda: Come siamo arrivati al punto in cui siamo ora? Come abbiamo fatto a complicare tutto così tanto (e bene e male, insieme)? Il regista polacco tocca quindi i temi più grossi e inspiegabili e propri della natura umana, e quindi religione, potere, paura e controllo, desiderio, verità, felicità, vita in senso stretto e morte. E lo fa con una prima parte, un quasi Interstellar girato come Blair Witch Project vent'anni prima, estrema e originalissima, con questa idea del mockumentary che arriva sulla terra e che gli scienziati decidono di guardare. La storia di Marta e Piotr e Jerzy, in cui la violenza e la religione sono viste come forme imprescindibili della realizzazione umana, è sconnessa (oltre ai limiti di narrazione dovuti alla Storia) e incomprensibile nella sua complessità e chiusura al pubblico; eppure ciò che succede in scena e ciò che i personaggi gridano e provano non sono elementi alieni al nostro inconscio, anzi, al contrario sono particolari che stimolano la nostra memoria emozionale e umana (intesa come propria dell'umanità, sovrapponibile alla Storia). La verità, la Pravda, è forse il tema portante di tutto Sul Globo d'argento; lo è la sua ricerca, ma anche la sua incomprensibilità; Marek e Jerzy, nel tentativo di raggiungerla, sono derisi e sconfitti, e loro stessi provano indicibile pena e sofferenza nella missione di ricostruire e regnare una società che escluda da sè i propri aspetti peggiori. Gli Shern, unici e veri depositari della verità, sono i nemici, e ciò che dicono non deve essere compreso per non impazzire, per non essere segnati col marchio delle divinità cadute e non più sagge. Aza-Ihazel-Marta, la madre, la potenza generatrice, è l'elemento che, venuto a mancare, provoca grandi scossoni e infinite incomprensioni. Finalone, fuori dalla scena, da pelle d'oca.
Certo è che il capolavoro di Zulawski è lontano dal poter essere definito un film completo, ma anche solo connesso e comprensibile; quello che è chiaro è il suo fascino irresistibile, la grandiosità delle immagini e l'ambizione del racconto. Questo è tutto.

…La grande epopea filosofica di Andrzej Zulawski è un'opera di straordinaria potenza visiva. Dai continui movimenti di macchina ai numerosi costumi di scena, dal viraggio blu della pellicola alle esasperate gestualità dei personaggi; tutto, in Na srebrnym globie, è stato pensato per restituire allo spettatore un'esperienza tanto intellettuale quanto fisica. È una provocazione dei sensi diretta e continua, come testimoniano i numerosi camera-look che, superando il piano della diegesi, entrano in contatto con il nostro sguardo. Ed è proprio così che il gesto autoriale del cineasta polacco svela tutta la forza del suo cinema che, attraverso la la chiamata in causa dello spettatore, rende il tutto ancora più doloroso, più vero.
Più vivo.
Nonostante la feroce censura e la materia sovrabbondante ed estrema, Zulawski è riuscito a mettere in scena un'opera di straordinaria potenza e, all'interno di essa, ha potuto dare sfogo alla follia e alla disperazione dell'umanità. 
Sul globo d'argento è un esperimento cinematografico inclassificabile, ai limiti del cinema stesso. Un'esperienza che si trasforma in un grido di disperazione e di violenza.
E, quasi senza accorgersene, ci ritroviamo anche noi su quel pianeta, a contatto con quella civiltà primitiva che non è altro che lo specchio del dramma della nostra vita.
da qui