domenica 30 dicembre 2018

Cold War - Pawel Pawlikowski

uno splendido bianco e nero, nel dopoguerra quando ancora i colori al cinema mancavano.
una storia politica, musicale, d'amore.
Wiktor e Zula si inseguono per molti anni, non si dimenticano mai.
riescono a viaggiare, privilegiati per quei tempi, fino a Parigi, e lì si incontrano ancora.
Pawel Pawlikowski è il regista di Ida, i due film hanno qualche somiglianza, si vede che sono girati dalla stessa mano, io preferisco Ida.
ma parliamo di super film, se Ida è da 10, Cold War è comunque da 9. 
non perdetevelo - Ismaele







Cold War non è una fabbrica delle lacrime, non è ricattatorio, mai. Una sobrietà rara in una materia tanto scivolosa, che è di regia e sceneggiatura. Storytelling ellittico, ha sentenziato una signora inglese di non so quale medium mentre eravamo tutti e due in fila un giorno a Cannes. Meglio non si potrebbe dire. Pawlikowski, in un’operazione di esemplare economia espressiva, elimina ogni traccia di superfluo, salta ogni raccordo, va dritto agli eventi lasciando che sia lo spettatore a colmare gli spazi vuoti e il non detto. A connettere i punti. Riuscendo a trasformare la storia dei suoi Wiktor e Zula in una storia breve dell’Europa divisa tra Est e Ovest. O viceversa. E quanto riesce a dirci senza sprecare inquadrature, come con quel viaggio in Jugoslavia…

La passione di Wiktor e Zula è segnata (letteralmente descritta) dalla musica, protagonista assoluta del film. La ricerca dell’animo polacco nella musica folk – quella che «ogni ubriaco che conosco sa cantare», come dice sprezzante Kaczmarek, il responsabile del Mazowsze ligio ai dettami del partito – vive subito, nel suo contrasto, con i vocalizzi che Wiktor chiede a Zula sulle note di I Loves You, Porgy, traccia gershwiniana che suggerisce l’immanenza di un mondo e di una “musica” altra, oltre il confine. La messa in scena prima minimale e popolare della musica contadina trova subito una sponda nel regime, che la trasforma in enfasi ideologica chiedendo di inserire inni omaggianti la riforma agraria e la figura del Grande Capo Stalin…

…la película se limita a seguir los pasos de una pareja que se ama pero no sabe cómo, a través de una historia de encuentros y desencuentros. Es una pareja que no puede vivir el uno sin el otro pero que no saben estar juntos.
Los personajes de Zula y Wiktor están bien definidos; los dos son supervivientes que tratan de buscar un hueco en los tiempos difíciles que vive su país, ambos destacados en sus interpretaciones, en especial Joanna Kulig como Zula.
La narración se extiende desde finales de los años 40 hasta poco antes de los 60, con la pareja recorriendo una geografía devastada, un mundo que se rompe y recompone como sus idas y venidas, recreando de forma maravillosa los ambientes pasados, las diferentes ciudades, los pueblos, desde la represiva Polonia al ambiente musical parisino, pasando por un Berlín fronterizo… con gran capacidad para expresar sensaciones con imágenes.
La fotografía es muy poética, melancólica. Saca el mejor partido a los primeros planos y exhibe imágenes con una espectacular profundidad de campo, encuadres perfectos, desarrollándose la narración más por imágenes que por palabras, por gestos, miradas.
La música también tiene mucho protagonismo, desde las canciones populares de la Polonia profunda o las escenas de baile hasta la música clásica, el jazz y los inicios del rock and roll.
El problema principal es que es una historia con saltos temporales un tanto abruptos, excesivamente fragmentada en el relato, de forma que se acaba viendo en la parte final un tanto deslavazada, pareciendo en ocasiones más preocupada por la forma que por el fondo.
Su desenlace. además de muy adecuado a la historia, es romántico, trágico, ambiguo y hermoso…

Cold War es un cúmulo de sensaciones durante sus escasa hora y media, un prodigio visual donde la fotografía, la filmación y diversos planos hacen que estemos ante una verdadera obra maestra en lo artístico ,cada escena, cada plano parece ser una obra de arte sacada de un museo, no hay lugar para dar tregua ante la belleza que nos muestra el director. En lo narrativo es otro cantar la historia, el querer desarrollar una larga etapa en la vida de los protagonistas hace que veamos muchas elipsis que no siempre están bien explicadas y algunas fallan, otras no son coherentes y en línea general estamos ante un guión un poquito caótico y sin mucho sentido en algunas ocasiones. Todo esto hace que salir del cine uno tenga contradicciones ante lo que ha visto,  una historia que flojea en muchas ocasiones se contrarresta con una puesta en escena sublime y que deja sin aliento. Una historia muy superior a su anterior trabajo Ida, engrandece a un gran director y solamente por su puesta en escena merezca la pena pagar la entrada para ver este soberbio film. Una historia tan triste como romántica a la vez.

sabato 29 dicembre 2018

Boro in the Box - Bertrand Mandico

un omaggio a Walerian Borowczyk, e molto di più.
il regista Bertrand Mandico riesce in 40 minuti a interpretare la vita e la poetica del regista polacco.
un film che non ti stanchi di vedere, grazie a Bertrand Mandico.
cercatelo e guardatelo, e riguardatelo, non sarà tempo sprecato - Ismaele






… Costituito da un abbecedario che quasi ironicamente istituisce uno schizzato compendio della vita di Borowczyk, il film tenta, credo riuscendoci, di rappresentare, ovviamente in modo non letterale, l’origine delle ossessioni erotiche di Boro. C’è della sporcizia (la madre che copula con un cavallo, antipasto de La bestia), della velata perversione (la giovane mamma “gioca” a morire, il padre una bestia tutt’uno con la natura: il concepimento è allora uno stupro), ma anche della solitudine esacerbata da quel recinto ad personam che separa il protagonista dall’alterità. Non credo sia un caso che l’unico punto di sfogo rintracciabile nella gabbia/scatola sia un foro circolare perfetto per accogliere il mirino della cinepresa, tanto che la compenetrazione tra i due corpi (anche la mdp è giustamente corpo per Mandico, la vediamo organica, pelosa… mostruosa?) dà vita ad unico essere: che è il Regista, che è Borowczyk. Di tutto il resto che risulta incomprensibile non importa poi molto, quando è un cinema così singolare a richiedere la nostra attenzione è da sconsiderati voltargli le spalle.

Dopo la magnifica e fortunata visione di Living Still Life ci si poteva aspettare solo il meglio da Bertrand Mandico, e Boro in the Box, finalmente emerso dopo lunghissima attesa, non può che confermarsi per quello che già da tempo si fiutava: un Capolavoro.
Certo, dovendo ancora fruire dell'altra serie di cortometraggi realizzati dall'eccentrico artista francese, è forse azzardato stabilire se lo sia anche rispetto al suo operato complessivo. Ma se invece guardiamo alla sensibilità con cui è concepita la singola opera in questione, ecco che la qualifica assume un significato inoppugnabile. Perchè ci vuole una grande sensibilità, e Mandico la dimostra tutta, nell'incasellare (o inscatolare, riferendosi più appropriatamente al titolo) strutturalmente dalla A, alla Z, la vita e le ossessioni di un regista dalla poetica travagliata come Walerian Borowczyk (più conosciuto dagli affezionati come "Boro") suddivise in ventiquattro frammenti

The Pizza Miracle - Tony Grisoni

venerdì 28 dicembre 2018

Neds - Peter Mullan

Peter Mullan fa pochi film, e buoni.
Neds è la storia di John McGill, uno che in un altro ambiente sarebbe stato il primo della classe.
e, nella Glasgow dove ha in sorte di crescere, il primo della classe lo diventa, ma dei delinquenti.
un film che inquieta, un buon film - Ismaele




Glasgow, primi anni Settanta. John McGill è un ragazzino sveglio, sensibile, desideroso di imparare ma costretto a lottare contro un ambiente scolastico che gli è ostile e una famiglia vittima dell’alcolismo del padre. John prende allora una decisione e si affilia a una gang di Neds (Non Educated Delinquents). Forte del prestigio del fratello, John entra in una spirale crescente di crimini, droga e violenza. Quando deciderà però di affrancarsi, dovrà trovare il modo di uscire da una situazione divenuta sempre più incontrollabile…

…Terza opera di Peter Mullan dopo “Orphans” e “Magdalene”“NEDS” recupera nel titolo l’acronimo “Non-Educated Delinquents”, usato per indicare quei ragazzi che esprimono il loro disagio in bande giovanili spesso violentemente in lotta l’una all’altra (per approfondimenti, consulta i link in calce all’articolo).
Ad una prima parte in cui, quasi come in un trattato sociologico, si assiste alle paure e ai cambiamenti del giovane protagonista, segue una seconda parte più violenta, più aspra, più sanguigna, in cui l’ansia di rivalsa, di vendetta, la frustrazione, il desiderio di accettazione sociale, tutto viene superato da una rabbia aggressiva contro tutto e tutti che non ha più un nome e un motivo. Significativa è la scena in cui a scuola John picchietta svogliatamente un foglio di rame durante le attività laboratoriali, mentre appena fuori dalla scuola brandisce con ben altra energia martelli e coltelli da cucina.
Mullan evita nel film riferimenti storici e sociali – le famiglie e il loro lavoro sono di fatto assenti, e non se ne parla quasi nella pellicola – ma la scelta di ambientare la vicenda nel 1972, anni di contestazioni sindacali seguiti a ben più felici anni produttivi, è significativa. Per sé, il regista riserva il ruolo di mr. McGill, personaggio piccolo e meschino che nella sua frustrazione sfogata sulla moglie si mostra essenzialmente un fallito. Né sono presenti adulti in grado di sottrarsi ad un giudizio fallimentare, tra genitori deboli o superficiali, insegnanti inascoltati o violenti, e una zia inizialmente foriera di cambiamento e libertà (il puzzle che regala a John ad inizio del film), e poi impotente testimone della distruzione della famiglia.
Collante dell’intero film è una lieve ironia che attraversa la pellicola dileguandosi solo laddove il richiamo della violenza ottenebra qualunque altra cosa.
Film imperfetto, che a volte cade nel cliché del genere e non tenta nemmeno di sfuggirgli, ma assolutamente da vedere.

mercoledì 26 dicembre 2018

La influencia – Pedro Aguilera

Genna è piena di debiti, senza soldi, depressa e ha due bambini.
nel film non ci sono supereroi, solo una vita difficile, mostrata senza trucchi.
anche i soldi per la scuola stanno finendo, la scuola privata pretende i suoi crediti.
tutti cercano Genna, ma solo per soldi, lei prova a evitarli, ma fino a quando?
un'opera prima che vale molto - Ismale







Una donna fragile e disorientata, schiacciata dai problemi della vita quotidiana. Privata dei suoi beni, deve chiudere il suo negozio, e l'avvenire dei suoi figli diviene incerto. La vitalità dei ragazzi contrasta con l'apatia della madre che poco a poco cade in una profonda depressione. I ragazzi si rendono conto che la madre non ha né la maturità né la forza per affrontare tutti i suoi problemi, e dovranno essere loro a prendere in mano la situazione...

Svegliarsi, uscire di casa, accompagnare i figli a scuola, andare a lavoro, aspettare la sera, preparare la cena, mangiare, dormire, ricominciare. Finché il meccanismo della monotonia delle azioni quotidiane si inceppa per il sopraggiungere di un evento temuto e atteso da respingere come una lontana certezza: la perdita di una sicurezza apparente che consisteva nell'occupazione di uno spazio, un posto invisibile, estraneo e inespugnabile come una fortezza nel deserto. 
Le abitudini si sgretolano sotto il peso di giornate che non possono cominciare, i gesti si succedono nell'evidenza del progressivo e inarrestabile svuotamento di senso che non alleggerisce e inchioda gli arti a un'immobilità senza scampo. La Madre abdica al suo ruolo, l’affezione degenera in morbo incurabile, in infezione contagiosa che necessita l’isolamento assoluto e brutale dal mondo. Lei è il melanconico pianeta in attesa della collisione con la terra, il residuo di un corpo (in-)curato, arreso all’entropia, teso verso una linea di massima pendenza che annulla tutti gli spazi possibili fuori da quel tetro locale soffocato da accessori per l’estetica. I trucchi non bastano a rifarsi una maschera convincente per affrontare la desolazione di un reale non più gestibile, solo l’apparizione di un raro cliente lascia sperare che la svolta sia finalmente vicina; ma l’immobilismo resta totale e terrificante e costringe ad aspettare nient’altro che la sera. Nessuna disposizione d’animo affettuosa la lega ai suoi due bambini, l'affezione è semmai il sintomo di un organismo oppresso dalla malattia, infezione appunto, che presagisce l’assorbimento entropico, la morte termica dell'universo stesso…

La influencia precipita nella storia di solitudine e depressione di Genna, madre indolente di due ragazzini, schiacciata dal fallimento economico del negozio di cosmetici che gestisce, rassegnata all’impossibilità di un qualsiasi riscatto. La parabola di disfacimento psico-fisico è ormai a picco, Genna è colta nel suo accanimento terapeutico alla vita, la dipendenza da farmaci, che le diano almeno una parvenza ambulante, presenza riconoscibile, anche se muta e apatica. Messo in scena è infatti il lentissimo sbiadire dell’esistenza nel darsi quotidiano, nelle azioni di routine, nell’automatismo dei piccoli gesti, quanto basta a non infierire bruscamente sulla normalità familiare, fatta di cene insipide e laconiche tra mura desolate, stracolme di giocattoli e assordate dalla Tv. Genna s’aggrappa alla meccanicità casalinga come mimesi del suo perdersi, scolorire per sparire tono su tono. Metafora affatto astratta, che improvvisamente si concreta nella lunga carrellata laterale che segue Genna camminare per strada costeggiando una parete dall'intonaco slavato del medesimo colore dei suoi abiti anonimi e scialbi: un grigio ghiaccio sporco, che dissimula il corpo in movimento, di contrasto al procedere del volto pallido e scarno…

La ópera primera de Pedro Aguilera es un duro cuento acerca del proceso depresivo de una madre soltera, que va cayendo en la pobreza a paso veloz hasta terminar en una situación insostenible, arrastrando con ella a sus dos hijos.
Aguilera parece querer detenerse en el contraste de la vitalidad de ambos niños frente a la apatía incorregible de su madre, y fortalecer el optimismo mostrando esas diferencias en gestos cotidianos que se hacen poderosos vistas a través de la lente del director. Su estilo de rodaje, de imagen limpia y cristalina y de significado críptico, se enclava en el corazón mismo del cine moderno, atesorando mil virtudes en su pequeña y humilde proporción…

martedì 25 dicembre 2018

Sleuth (Gli insospettabili) – Kenneth Branagh

solo due (bravissimi) attori, Michael Caine e Jude Law e un testo di Harold Pinter, regia di Kenneth Branagh.
e una terza persona, che non vediamo, la donna di entrambi, che sta arrivando.
lei è l'oggetto del contendere dei due, e alla fine ne farebbero a meno entrambi.
dialoghi straordinari e tante sorprese.
due ore ben spese, promesso -Ismaele


Qui il film completo, in italiano



Perché un simile gioco di specchi, temi e allusioni “reggesse” senza risultare prolisso era necessaria una squadra di prim’ordine. Cosa questa che l’opera di Branagh ha decisamente avuto. Basato su una magnifica piéce di Anthony Shaffer divenuta un film diretto da Mankiewicz nel ’72 con Laurence Olivier e Michael Caine (nel ruolo che oggi è di Jude Law), lo script di Sleuth ha subito la riscrittura del Premio Nobel Harold Pinter. Con uno sceneggiatore simile è evidente che parlare di remake diventa riduttivo. Si pensi inoltre all’ottima regia di Kenneth Branagh che ha giocato di semplicità e minimalismo, nonché alle eccelenti interpretazioni dei due attori protagonisti. Se del talento di Michael Caine si è ormai detto tutto ed è conclamato, non si può fare a meno di restare colpiti invece dalla bravura di Jude Law. Con la sua interpretazione di Milo Tindle fatta di fascino sessualmente ambiguo ibridato di fragilità e arrogante opportunismo (del tutto diversa da quella di Caine nel film del ’72), il giovane attore inglese è decisamente arrivato alla sua consacrazione attoriale.

La grossa novità del suo "Sleuth - Gli insospettabili" sta nel testo teatrale riadattato per l'occasione dal Premio Nobel per la Letteratura Harold Pinter. Nell'adattamento troviamo tutto il teatro del drammaturgo inglese, visto che la storia di partenza viene sintetizzata e asciugata in un dialogo a due tutto giocato nell'abitazione di Wyke, un dialogo che è un baratro di parole ed un vortice di retorica distruttiva, di frasi assassine e di intensa e cerebrale manipolazione psicologica, un gioco a due sottile e raffinato.
Se il testo di Pinter è quanto di più teatrale ci abbia regalato il cinema degli ultimi anni, dal canto suo Kenneth Branagh regala respiro cinematografico alla storia, cercando in ogni modo di trovare una regia stimolante che sappia al contempo raccontare e stupire per le sue trovate. Non sempre il gioco di Branagh funziona, ma il suo è un lavoro fatto con grande impegno, e questo si nota: basti guardare le inquadrature dell'incipit oppure tutto il gioco metacinematografico con le telecamere di sicurezza.

Michael Caine regge con grande professionalità i ritmi forsennati della pellicola, ma Jude Law (forse penalizzato da un look decisamente ridicolo) non riesce a tenere il passo con il vecchio leone e, spesso e volentieri, pur regalandoci un'interpretazione intensa e diversa dal solito, non riesce a tenergli testa.

E' un film a due, un palcoscenico per le istrioniche prove di Caine e Law. Sir Michael è come sempre sublime, e gareggia abilmente nel confronto a distanza con Laurence Olivier, decretando un sostanziale pareggio, per quanto lo stile dei due personaggi sia radicalmente cambiato: più sormione e apparentemente divertito l'originale, più silente e macchiavellico quello di Caine. Le smorfie di Andrew, o anche solo i penetranti sguardi nei momenti di silenzio, sono un vero piacere per lo spettatore. La più grande scommessa di tutto il progetto era forse la presenza di Jude Law, attore fino ad oggi interprete di prove incostanti. Pienamente vinta, visto che, pur dimostrandosi a tratti fin troppo eccessivo e sopra le righe, il buon Jude propone una prova potente, donando al suo personaggio i giusti aliti di schizzata follia, dimostrando come fino ad oggi le sue qualità d'attore non siano state pienamente sfruttate. Il tutto si trasforma in una lotta titanica e primordiale tra due uomini per il possesso e l'amore di una donna, ma non basata sulla mera violenza fisica o la classica scazzottata di paese, bensì sul puro intelletto, in un gioco perverso e matematico di cervelli che deve a tutti i costi avere un vincitore. Come dice Milo a un certo punto "Tu hai vinto il primo set 6 a 0, ora tocca a me". Una sfida mortale senza esclusione di colpi, corporei o emotivi. E' un film che manipola lo spettatore, gli fa credere A, quanto la realtà poi si traduce in Z. E le sorprese non mancheranno, poichè si susseguono incalzanti una dietro l'altra senza nemmeno un minimo calare di tensione. Ottanta minuti (a dispetto dei 130 dell'originale, ed è un peccato molte scene cult dell'originale siano state tagliate) da vivere mozzafiato, senza esclusione di colpi. A chi lamenta una certa mancanza d'azione, se non in pochi disparati istanti, va fatto notare che la vera tensione è tutta nei dialoghi e nei volti dei due protagonisti, capaci di inquietare e spaventare più di qualsiasi violenza. Un gioco al massacro perpetrato tutto all'interno (e per breve tempo anche all'esterno) della tecnologica villa di Andrew, che diventa la terza protagonista del film, con i suoi ambienti cupi tendenti al blu, e scarni nel mobilio come si fosse in un deserto di corpi e anime. Per questo grande merito alla fotografia, capace di incutere quel giusto senso di oppressione che una storia del genere meritava. Lo stesso si può dire per la colonna sonora, ottenebrante e mefistofelica, capace di donare una forte inquietudine tra gli accesi scontri verbali dei due uomini. La regia di Branagh, e non è una novità, è sobria ed elegante, con grande attenzione ai dettagli e alle inquadrature, che si ripetono a tratti per far scorgere indizi sulla trama, e di grande impatto scenico, dal sapore tipicamente teatrale ma che ben si adatta al grande schermo. Rispetto alla pellicola di Mankiewicz vi sono molti più silenzi, a discapito di dialoghi sparatissimi al fulmicotone, e il finale con riferimenti a una presunta omosessualità dei due contendenti forse stona un po', ma, pur trovando svariate differenze, il senso dell'originale è rimasto intatto. Non era facile aggiornare e reinterpretare un classico del cinema, e pur non raggiungendone i livelli, questo remake del nuovo millennio ne esce in maniera più che degna, e forse permetterà a nuovi spettatore di riscoprire anche la pellicola del '72. Perchè i remake, se fatti bene, servono anche a questo.

non è il finale che conta, è lo script di Pinter che importa perché è di rara bellezza, di sofisticato acume e velenosa ironia. Il sarcasmo che i due gentiluomini si scaricano addosso con la fredda gentilezza delle persone perbene è di magistrale efficacia drammatica, dialoghi secchi come mazzate, umorismo di grande raffinatezza e sottigliezza. Tenuti a distanza dall’overacting, Caine e Law si rendono quasi consci della macchina da presa di Branagh, traslata dalla realtà alla finzione dalle decine di telecamere che costantemente riprendono la scena, registrandola, diventando così occhio partecipe e fredde testimoni degli eventi che si svolgono nel teatro del massacro della lotta di classe, nel costante vilipendio delle reciproche virilità, esondando nell’omosessualità (ab)usata anch’essa come arma nei confronti del rivale, sfora nell’umiliazione sado-masochistica che prende la mano e muta il tutto in una commedia nera del grottesco, storia frammentata nei suoi stilemi e reimpastata follemente come sono reinventate continuamente le identità dei due prim’attori. 
Una sorpresa, forse il film dell’anno, tecnicamente e formalmente ineccepibile, asciutto e dotato di uno stile di grande impatto, si esce divertiti e sorpresi e di questi tempi non è affatto poco.

La storia: il ricco e maturo scrittore di gialli Andrew Wyke (Michael Caine) chiama nella sua villa settecentesca, ma con interni che sembrano uno showroom di design e arte contemporanea, il giovane attore Milo (Jude Law), l’amante di sua moglie, colui che gliel’ha portata via per sempre. Milo gli chiede di divorziare, Andrew contrattacca con una proposta: ruba i gioielli di mia moglie, io potrò intascare i soldi dell’assicurazione e tu, rivendendoli, potrai ricavare quanto serve a te e a lei per vivere da ricchi. Non è che la prima mossa di una complicata partita a due di inganni e controinganni, con continui rovesciamenti e colpi di scena, con identità che si mascherano e si rivelano a sorpresa. Chiaro che è un gioco al massacro, ma chi lo conduce? E chi è il carnefice e chi la vittima? Il testo, già tesissimo in origine, viene reso ancora più inquietante da Pinter. Michael Caine, che nel film di Mankiewicz era il giovane amante, qui si cala nell’altro ruolo, in un ulteriore ribaltamento e slittamento. Film presentato a Venezia e snobbato dai critici e accolto malamente anche dal pubblico. Peccato. Merita di più, molto di più.

lunedì 24 dicembre 2018

L'incidente – Joseph Losey

Anna fa perdere la testa a due amici, Stephen (Dirk Bogarde) e Charley.
è la fidanzata di un ex studente che va a salutare il vecchio professore.
Stephen e Charley sono due insoddisfatti, Charley si è separato, Stephen ha un amante (Delphine Seyrig).
Anna fa impazzire tutti.
la sceneggiature è di Harold Pinter, futuro premio Nobel  per la Letteratura.
il film è un gioiellino, con la forza di un thriller.
non trascuratelo - Ismaele







Il prorompere delle pulsioni e dei sensi di colpa, segnalati dalla flessuosità dei suoni del sassofono sulle carni di Anna (per altro senza davvero scadere nello stereotipo), è faticosamente incastrato nei riti sociali, scaricato in giochi (il rugby nella hall di Robert Adam a Syon House) e dialoghi dai nervi a fior di pelle, squarciato dalle lamiere di un incidente perversamente liberatorio (anzi, più di uno).

The film is put together as carefully as a Hitchcock. The plot depends on coincidences, timing and the resources available in the limited Oxford world. But it is also recognizably a work of Pinter in the way the story is revealed backwards, in scenes that are jigsawed together to make an emotional continuity instead of a straightforward story line.

The drama is painstakingly underplayed, brilliantly acted (except for Sassard's wooden performance), its stylistic realism is smashing and its dialogue is spitefully provocative. The humor is in its morbid satirical view of how snobbish and pretentious academia can be and how foolish older men can get over a younger pretty woman. It's a dark film, with a jaundiced view of love that might not appeal to everyone. But its unbridled view of the stifling world of academia is brilliantly realized and shot, and it holds one's interest throughout because of its wit, its multilayered complexity and how absorbing it all is…

sabato 22 dicembre 2018

Old Man & the Gun - David Lowery

Robert Redford, nel suo film d'addio, interpreta un fuorilegge gentile.
Robert Redford, Casey Affleck, Sissy Spacek, Danny Glover, Tom Waits insieme sono una gioia per chi guarda, e la banda dei rapinatori vecchietti si ricompone per questo film.
niente violenza e intolleranza a banche e polizia sono le regole della banda, non sempre tutto va bene, ma è sempre uno spettacolo.
anche il poliziotto è stupito e affascinato dal modus operandi della banda,un'americanata, fatta come si deve, non perdetevela - Ismaele






E’ una commedia della terza età sui generis che Lowery gestisce magari non sempre in maniera perfetta, ma sicuramente adeguata: giustamente il film non avrebbe potuto essere senza Redford, l’attore si carica l’opera sulle spalle e ne diventa il fulcro intorno al quale ruotano tutti gli altri personaggi, sempre secondari e accessori alla sua storia. Non ne avrebbe avuto bisogno, ma il fatto che il personaggio di Forrest sia scritto così bene e in modo così convincente di certo lo aiuta a delinearne caratteristiche e vizi, con la rapina, l’adrenalina del brivido e questa vita semi-nomade (ha una casa davanti ad un cimitero, e forse è proprio la sua voglia di vita a tenerlo spesso lontano da quel posto) che sembrano poterlo rendere immortale, tanto quanto le gesta che ha compiuto, o che si dice che abbia compiuto…

…Sospeso tra il sentimentalismo del classico “film per mature signore” e l’omaggio colto al cinema del passato, il film di Lowery eccede forse nei suoi exploit musicali – la colonna sonora à la Lalo Schifrin composta da Daniel Hart non lascia un attimo di tregua – ma in fin dei conti riesce a raggiungere un miracoloso equilibrio che lo allontana dal rischio del patinato e dello strumentale. Perché se è vero che Lowery gioca con la memoria dei nostalgici è altrettanto vero quanto riesca a costruire dei personaggi verosimili, dimostrando inoltre una notevole inventiva nel posizionarli in situazioni quotidiane che però riescono sempre a tenere desta l’attenzione, fino a far credere all’esistenza, sul set, di momenti di reale improvvisazione attoriale.
Oltre al senso della misura e all’accortezza che gli consente di lasciare sempre spazio ai suoi interpreti, Lowery dimostra poi di avere idee numerose e assai brillanti, che raggiungono l’apice in quella sequenza a episodi delle evasioni di Tucker, all’interno della quale il regista inserisce foto d’epoca di Redford e un suo primo piano contenuto in La caccia di Arthur Penn. Distante dunque da un citazionismo gratuito, The Old Man & The Gun è un film “romantico” che esprime costantemente il suo amore per il suo protagonista e per la relativa filmografia, raggiungendo una forma di cinefilia toccante e appagante che ci blandisce e ci rassicura. Perché finché avrà un passato da rispolverare e rimpiangere, il cinema non sarà mai del tutto finito.

Se immaginate The Old Man And A Gun come un sussidiario illustrato, un album di fotografie della carriera di Redford attraverso il Cinema americano: mai impressione fu più vera. Ma non poteva certo essere un polveroso album di famiglia. Al contrario, è un thriller poliziesco costruito come 93 minuti d’improvvisazione Jazz. Un film che, ironia della sorte, più di tutto rimanda al vecchio maestro Robert Altman, regista che cambia la storia delle Serie Tv con MASH, arriva al lungometraggio e al cinema già anziano, ma con Nashville cambia davvero le regole del gioco.
Quando cala il sipario, il risultato è così perfetto che fa quasi male. L’addio all’arte del Cinema è siglato, eppure ci si diverte come pazzi. Magari si versa perfino una lacrima di fronte al romantico incontro di due vecchi, seduti alla tavola di un diner, mentre si corteggiano e s’innamorano, con modalità identiche a quelle degli adolescenti.
Con The Old Man And The Gun, il ragazzo ci saluta, ma resta un ribelle, decisamente vivo e vitale. Un fuorilegge e un precursore, fino all’ultimo spettacolo.

Ben lontano dall’essere un film dell’ormai florido filone “geriatrico”, The Old Man & the Gun è un omaggio a un personaggio complesso, interpretato da un attore che suggella una lunghissima carriera con ruolo sfaccettato in cui solo un grande attore poteva sentirsi a proprio agio. Forrest Tucker amava la vita e amava quello che faceva, ma il suo non è un personaggio completamente positivo: la figlia di un precedente matrimonio (Elisabeth Moss) che di lui non vuole saperne, lo dipinge come un padre assente ed egoista, per esempio, e forse non tutti lo trovavano così affascinante come pare a noi spettatori.
Si potrebbe dire che The Old Man and The Gun intrattiene con una certa raffinata educazione d’altri tempi. Un cast di grandi attori, una sceneggiatura senza sbavature (scritta dallo stesso regista) e una regia classica con qualche trovata originale senza mai essere stucchevole. Aggiungeteci una colonna sonora strepitosa, omaggio agli anni Settanta e capirete perché l’uscita di scena di Robert Redford è un film ben fatto, che magari non fa gridare al capolavoro, ma sa catturare lo spettatore in 93 minuti di gradevole e intelligente intrattenimento.

venerdì 21 dicembre 2018

Cockneys vs Zombies (London zombies) - Matthias Hoene

se penso a un'altro film inglese, Shaun of the Dead, o a un film cubano, Juan de los muertosCockneys vs Zombies non regge il confronto, sì, alcune parti si salvano, ma alla fine resterebbe poco, l'umorismo inglese invece abbonda, meno male, e questo non fa male.
buona visione, se vi va - Ismaele




Con motivo de las obras en la villa olímpica londinense un antiguo mal, que convierte a los muertos en seres ávidos de carne humana, sale a la superficie. Mientras tanto, Andy y Terry, dos hermanos que viven en el East End londinense, junto a un estrafalario grupo de amigos, deciden atracar una sucursal bancaria. Con el dinero, intentarán salvar la residencia de unos abuelos del barrio que va a ser demolida por una constructora sin escrúpulos. Al salir del banco descubren la ciudad tomada por hordas de zombies caníbales. Su prioridad ahora es rescatar a esos adorables ancianos lo antes posible.



Entretenida, excéntrica y también muy gamberra. Incluso tiene un trasfondo de crítica social muy ácida, algo poco usual en este tipo de producciones. Recomendable para cualquier aficionado dispuesto a divertirse con las zomedias de la actualidad.

… Di commedie horror se ne trovano a quintali, ma London Zombies, dell’esordiente Matthias Hoene ha quella marcia in più che lo rende una visione nocturniana consigliata. Perché si tratta del classico film caciarone in cui si ride di gusto, grazie a gag dai tempi perfetti, scene splatter ingegnose e un cast di vecchietti irresistibile, su cui spiccano lo sboccatissimo Alan Ford e la rediviva Honor Blackman (la Pussy Galore di Goldfinger). Certo, alcune sequenze action tradiscono il budget ridotto della pellicola e la comprimaria Michelle Ryan ha qualche rotolino di ciccia di troppo per competere con Milla Jovovich come affetta-zombi, ma sono piccole pecche che in fondo ci rendono il film ancora più simpatico. Ideale per una serata di divertimento ruspante e genuino.
Momento grottesco indimenticabile: la scena in cui un nonnetto fugge dagli zombi col deambulatore. Per gustarvelo al meglio, raccomandiamo la visione rigorosamente in lingua originale (le sgangherate rime in cockney sono da sbellicarsi) e con qualche birretta in corpo.   da qui

I cockneys del titolo sono infatti gli abitanti dell'East End londinese, noti, in maniera certamente stereotipata, per il loro dialetto poco comprensibile e per lo smodato uso di parolacce: ovviamente, tutti aspetti che la produzione porta al limite, esacerbandoli. Un meccanismo necessario per la costruzione di un film che punta moltissimo sull'ironia e che ha intenti chiaramente parodistici, e che funziona perfettamente, con lo spettatore che difficilmente riesce a trattenere sguaiate risate nelle fasi più assurde. In particolare tutte le scene che hanno come protagonisti i vecchietti della casa di riposo, minacciati anche loro dagli zombi, vanno dal divertente all'esilarante, con il personaggio icona del film, il nonno interpretato da Alan Ford, che ruba la scena, sboccato, arrabbiato, risoluto, vero massacratore di zombi…

Magari “miracolo divino” è un po’ un parolone; ci sono stati altri film più degni di questo titolo, quelle cose tipo Tucker & Dale vs Evil che ti fanno davvero aprire gli occhi e credere che il mondo potrà finalmente essere migliore d’ora in poi, però, però, Cockneys vs Zombies fa quella cosa lì che oggi pare essere diventata una rarità: si approccia al genere con modestia, senza alcuna pretesa di essere il film con gli zombi più divertente del pianeta e senza cercare di fare la storia del cinema spacciandosi per chissà quale innovazione di genere. Non fa nulla di veramente nuovo ma spinge sui cliché del caso con dell’ironia che, forse, non avevo mai visto in un film di zombi; nello specifico, questo è un film di zombi in cui i protagonisti sanno cosa sono gli zombi, pure i vecchiacci internati nella casa di riposo lo sanno, e quei vecchiacci siamo noi da vecchi che passiamo le giornate al bar a parlare di quando l’horror era una figata. Non voglio dire che sia il primo film a tirare fuori una cosa del genere e sono abbastanza sicuro che ce ne siano stati altri prima (tipo: ho visto Shaun of the Dead troppo tempo fa per ricordarmene adeguatamente ma forse lì succedeva) ma sicuramente è il primo in cui l’ho notato e che mi ha fatto pensare “cazzo, finalmente”. Frasi come “devi colpirli alla testa, coglione, lo sanno tutti” o “certo che sono lenti, coglione, sono dei cazzo di zombi, mica jamaicani”, che potrebbero essere mere parafrasi dei discorsi effettivi, io non le avevo ancora sentite e si basano su un’ironia semplice ma furba e sottovalutata…

lunedì 17 dicembre 2018

In Guerra - Stéphane Brizé

ritratto del mondo come è, i movimenti di capitale e le libertà dei datori di lavoro, di chiudere o no gli stabilimenti industriali, e non solo, provocano drammi senza soluzione per milioni di lavoratori, le loro famiglie, le loro vite.
per i lavoratori cercare accordi con i proprietari delle imprese è una fatica di Sisifo, quando hai risolto un problema, se ci riesci, ne appaiono subito altri.
il lavoro e i lavoratori sono trattati come qualsiasi altra materia prima, per l'impresa cambiare il fornitore del lavoro è un giochetto senza penalità, il dumping sociale è il cancro che distrugge persone e comunità.
film non adatto per chi va al cinema per evadere, perfetto per tutti gli altri.
Vincent Lindon è da premio Oscar, come privarsene?
buona visione - Ismaele








anche nei momenti di pathos in cui la forza del meccanismo collettivo viene messa a repentaglio dalla spaccatura del fronte operaio e dalla guerra intestina tra le sigle sindacali che agitano la protesta, Brizé mantiene la camera sulla dimensione collettiva, fuggendo la tentazione di scendere nel dettaglio personale, nel tratteggio biografico di anche uno solo dei protagonisti. Una scelta urlata in maniera ancora più forte nel duro finale che il regista ha scelto per la lotta di Amédéo e dei suoi compagni, dove il gesto del singolo è parola collettiva, dove la disperazione individuale lascia spazio alla reazione di massa. Un esperimento che Brizé ha avuto il lusso di permettersi grazie ad un eccezionale interpretazione di Lindon, valore aggiunto di un film che – al netto delle produzioni che spesso infestano le nostre sale cinematografiche a 8 euro a sera – vale sicuramente la pena vedere.

En guerre è un film di impatto poderoso, dal ritmo martellante e dalla tensione inesausta, con pochissime distensioni e parentesi personali (perché anche il privato è lotta politica, in certi contesti) che non cerca appigli per piacere ma che emoziona e coinvolge con la giustezza di una posizione morale e ideologica chiara e giusta ma allo stesso tempo trattata con intelligenza anti-propagandistica.
E con un Vincent Lindon di bravura impossibile, inumana, per cui gli elogi e i premi sembrano ormai pleonastici.

In guerra non racconta una storia ma storie plurime che si intrecciano lungo un asse narrativo che ingloba e sovrasta le individualità, e lo fa con una forma cinema e uno stile assai audaci che mimano e riproducono i linguaggi visivi caotici e informi delle news tv, di youtube, dei video postati sui social e spediti via whatsapp. Qualcosa che porta In guerra molto ai di là dei tanti film sulla stessa questione…
Un film claustrofobico in cui Brizé penetra letteralmente con la macchina dalla presa nelle stanze degli scontri e dei confronti, quasi abbattendo le barriere tra realtà e rappresentazione (m’è parso di capire che molti degli attori conservino il proprio nome e portino dentro il film qualcosa di sé), con lunghe sequenze in tempo reale, restituendo tutti i passaggi di un’angosciosa partita da cui, si intuisce, usciranno tutti perdenti. E ci ipnotizza con quei proclami e slogan e mantra autorassicurativi, con quella massa di corpi che si parlano, urlano, urtano, si sbranano. A un certo punto una soluzione, attaverso la mediazione governativa, sembra profilarsi. Sembra, e non dico di più…
da qui


En guerre, au-delà des scènes anxiogènes de manifestations, amplifiées par une utilisation violente de la musique, s’avère être une formidable réflexion sur les luttes sociales antagonistes, d’un côté des multinationales sur la défensive, qui usent de la langue de bois pour ne pas répondre aux questions simples que pose le syndicaliste joué par Vincent Lindon (complètement habité par son personnage), et surtout pour ne pas répondre de leurs actes face à la vérité des faits exposés (le dividende des actionnaires face à la misère humaine)... 
Peut-on réconcilier ces intérêts contraires ? Le réalisateur semble pencher vers un point de vue qui peut aussi, paradoxalement, être interprété comme peu favorable à la lutte, tant les affrontements au sein même des grévistes sèment la violence du désespoir, au profit des intouchables, épargnés dans leur tour d’ivoire. La conclusion fait froid dans le dos et relance les négociations dans un environnement mortifère où la figure du syndicalisme s’apparente à la fois à une forme d’égoïsme nécessaire pour pouvoir survivre ou d’héroïsme.
Toutes ces contradictions rendent le film fascinant et forment un tout cohérent avec La loi du marché sans que l’on ne puisse accuser l’auteur de redite…

Con la realizzazione di questo film Brizé ha voluto evidenziare le dinamiche che si vengono a creare durante una lotta, nonché i meccanismi perversi derivanti da una legge che, se da un lato obbliga un’azienda che chiude a essere messa sul mercato, dall’altro permette al proprietario di non vendere. Privando di fatto i lavoratori della possibilità di vittoria. Allora, di fronte a ciò scatta la violenza, con conseguenze spesso tragiche. Una violenza che non giunge mai per caso, senza motivo. Ma si scatena perché prima di arrivare a essa c’è un percorso che porta, più o meno velocemente, all’esasperazione, derivante dall’impotenza dei lavoratori, i più deboli fra i contendenti. 
La forza del film di Stéphane Brizé risiede negli argomenti trattati, ma anche nella sua realizzazione e nella sceneggiatura, opera dello stesso regista e di Olivier Gorce. Ma soprattutto sta nella bravura degli attori. A cominciare da Lindon, qui al quarto film con Brizé, per proseguire con tutti gli altri, molti dei quali non professionisti che, con una capacità espressiva notevole, riescono a rendere assai realistiche tutte le scene. Alla fine si uscirà dal cinema con l'animo pesante per la vicenda degli operai della Perrin Industries ma anche felici per aver visto un gran bel film.