sabato 31 luglio 2021

Old - M. Night Shyamalan

se cerchi un film che ti tiene attaccato alla poltrona del cinema questo film è per te.

come sempre si inizia con tanti sorrisi e allegria (diffidare, non andrà a finire bene, un po' di volte).

una bella vacanza, una gita esclusiva, per gente speciale, in un posto da sogno (o da incubo, fra le altre cose non c'è campo per i telefonini).

un bambino, che è bambino per tutto il tempo, dà un aiuto decisivo, per salvarsi dal complotto nel quale i turisti scelti vengono imprigionati.

il tempo ha un ruolo fondamentale nel film, dura due ore, che per alcuni è quasi una vita.

M. Night Shyamalan appare, fa l'autista e il controllore dell'esperimento, sa bene la sua parte.

film un po' thriller, un po' complottista, ma qualche vittima per il progresso, in nome della scienza, ci vuole, per il bene di tutti, pare.

Spielberg e Hitchcock sarebbero contenti, e anche noi lo siamo.

buona visione - Ismaele


 

 

due errori davvero grandi.

Il primo.

Come è possibile che IN QUELL'ALBERGO sono scomparse centinaia di persone (poi tutte straniere, occidentali, coi soldi) e nessuno ha mai detto niente? Sticazzi che prendono i pc e cancellano tutto, ci sono migliaia di parenti e amici che sanno di quella vacanza e quando non tornano decine di famiglie tutte dallo stesso albergo è tutto normale?

Seconda cosa.

Molto bella e interessante la questione dello studio scientifico, quel discorso che in poche ore possono vedere l'effetto dei medicinali in tanti anni. Peccato però che qualsiasi medicinale per malattie gravi andrebbe preso continuamente, quindi non capisco che valore scientifico possa avere uno studio per cui si somministra un'unica dose (per me dovevano fare in modo che anche nella spiaggia prendessero quella roba).

Ok che già con una dose vedi molti effetti ma non capirai mai se fosse presa di continuo quali avrebbe.

Però io a sto film glie ho voluto tanto bene, come quasi a tutti i film di Mr Night.

Ha un suo fascino, ti tiene lì a capire come andrà a finire, a cercare spiegazioni. Certo non riesce a dare mai la tensione e la tragicità di quello che accade (ah, altro errore, ad un certo punto muoiono praticamente tutti ma i cadaveri scompaiono...).

E in più aveva tutte le carte per essere un film esistenziale, sul ciclo della vita, ma non riesce ad esserlo. Anche se nel finale quei due 50 enni che hanno perso 40 anni della propria vita in un solo giorno ma hanno la gioia di poter vivere tutto il tempo che gli rimane un'emozione la dà.

Però, cavolo, alla fine se salva.

Forse è pure bello

voto boh

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Un castello di sabbia che sintetizza mirabilmente con un'immagine evocativa per tutti il bisogno di continuare, nonostante tutto quello che gli anni ci regalano o impongono in dote, a conservare l’anima di un fanciullo. Niente di rivoluzionario, ma Shyamalan ci tiene a non perdere la voglia di costruire castelli di sabbia, a intendere il cinema con la serietà, ma al tempo stesso la purezza del suo idolo, Steven Spielberg, il maestro di un cinema in miracoloso equilibrio fra spettacolo per il grande pubblico e riflessione autoriale. Shyamalan conferma in Old, fin dal titolo, come non sia vittima (più?) della sindrome di Peter Pan, che porta a vivere un’eterna vita da adolescente. Ormai si prende le responsabilità e gli impegni di un autore maturo, liberandosi di alcune sue ossessioni senza snaturarsi.

Come un altro suo idolo, Alfred Hitchcock, il regista nato in India ama apparire nei suoi film. Qui è presente con un piccolo ruolo, ed è significativo che sia proprio lui ad accompagnare (e riprendere dall’alto) i protagonisti di questa storia in una piccola spiaggia remota, un angolo di Paradiso molto lontano dalla zona di Philadelphia in cui ha ambientato quasi tutti i suoi film. Old sposta l’ambientazione del fumetto di Pierre Oscar Levy Frederik Peters dalla costa mediterranea francese a una non precisata località tropicale. Una famiglia arriva in un villaggio dei sogni per godersi una vacanza di riposo, spingendosi con una navetta, insieme ad alcuni altri ospiti della struttura, fino a una spiaggia particolarmente bella, raggiungibile solo camminando fra alte rocce, dove si accorgono presto che il tempo scorre in maniera diversa dal normale, e iniziano a invecchiare molto velocemente

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“Old” gioca col tempo e con lo spettatore. Shyamalan centellina molto astutamente il crescendo di interesse per la risoluzione della situazione nei vari tentativi che ogni personaggio cerca di inventarsi. La vacanza in un posto incantevole si trasforma in un incubo senza uscita. Ben presto questo scorrere veloce del tempo viene considerato, giustamente, come una trappola incontrollabile dove ogni minuto diventa importante.

Il film riesce ad approfondire anche i vari legami che si instaurano tra i vari personaggi e, per una volta, l’evoluzione dei rapporti sono sì veloci ma dettati dal mutare veloce delle situazioni e dallo scorrere del tempo iperaccelerato.

I protagonisti principali sono Guy e Prisca (una bravissima Vicky Krieps) e il loro legame si sviluppa nel corso dell’intero film coinvolgendo anche i figli e le altre persone presenti. Malgrado la sceneggiatura non sembra sempre fluida è sicuramente solida ed equilibra bene parole, paure e silenzi…

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Come alcune delle opere migliori di Shyamalan, Old è spesso sconnesso, incostante, eccessivo e disarticolato. Ma da questo guazzabuglio cinematografico emergono sprazzi di grandissimo cinema, che toccano temi universali come l’evoluzione nel tempo di un amore, il rapporto con la malattia o la presa di coscienza del definitivo superamento di una fase della vita, ricordandoci che dobbiamo sempre e comunque confrontarci con una natura intorno a noi che non possiamo né comprendere, né prevedere. Una forza misteriosa e silenziosa, a cui possiamo solamente adeguarci, perché ogni tentativo di andare contro di essa è vano e dannoso. Un’entità sinistra e austera vera e propria protagonista di Old, che in fondo non è che l’angosciante esasperazione dell’adagio «Il dramma è la vita con le parti noiose tagliate», firmato ovviamente da Alfred Hitchcock.

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L’abilità del regista con la macchina da presa – peraltro non nuova, e mai smentita, neanche nelle sue prove meno convincenti – riesce in parte (ma solo in parte) a supplire ai grossi limiti narrativi del film. Ci si perde presto, in Old, dietro il rapido invecchiare dei personaggi, che il regista non trova il tempo (capiamo che sembra una contraddizione, ma è la sfida principale che una storia come questa presentava) di approfondire al meglio. Si finisce presto per confondere un personaggio con l’altro, per perdere attenzione alle sorti di ognuno, mentre l’orologio scorre inesorabile (anche per lo spettatore) in attesa che il film finisca o trovi il suo giusto ritmo. Ritmo che purtroppo, invece, accelera ulteriormente – e indebitamente – in un’ultima parte frettolosa, che fornisce una spiegazione superficiale al tutto e sfocia in una conclusione davvero poco credibile. Conclusione in fondo coerente con un film incerto, che rappresenta in definitiva un’occasione persa per un cineasta la cui carriera sembrava, negli ultimi lavori, in netta ripresa.

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giovedì 29 luglio 2021

Contronatura - Antonio Margheriti

ispirato da Dino Buzzati (il titolo del racconto è Eppure battono alla portaqui), Antonio Margheriti (in una coproduzione italo-tedesca) racconta una storia maledetta di soldi, furti, sesso, amori, omicidi, vendetta.

alla fine tutto ha una soluzione, definitiva, non esiste il perdono, tutto si paga, solo alla fine sapremo come.

il film va avanti e indietro, senza nessun problema, si capisce tutto benissimo.

un gioiellino da non perdere, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele





Si le film n'est pas spectaculaire dans sa forme (peu d'action, des meurtres "sobres", un érotisme saphique plutôt prude), il se rattrape par un final dantesque voyant un torrent de boue engloutir la demeure tel une vengeance divine. Une scène particulière, qui faisait dire à Edoardo Margheriti (le fils d'Antonio) dans une interview qu'elle anticipait la vague de sang dévastatrice de "Shining".
Contronatura est une libre adaptation d'un recueil de nouvelles de Dino Buzzati, précisément la nouvelle "Et pourtant on frappe à la porte" du roman "Les sept messagers", publié en 1966…

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Splendido gotico italiano, intriso di mistero ed in cui lo spettatore è catapultato sin dai primi minuti in un luogo dalle atmosfere tese e putrescenti, rimanendone invischiato e non riuscendone ad uscirne se non alla fine. Tecnicamente molto valido, può contare su una buona sceneggiatura e su un ottimo ritmo. Poi c’è quella scena…chissà che il buon Kubrick non ne abbia tenuto conto. Quando si dice un gran film di genere.

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Contronatura est une œuvre construite sur une succession de flash-backs qui apportent peu à peu un éclairage sur les motivations des personnages. Le scénario n’a finalement que peu d’importance et c’est davantage la manière dont le puzzle se reconstruit sous nos yeux qui suscite l’intérêt. Uriat et sa mère sont les véritables maîtres d’une cérémonie secrète qui se révèlera, au bout du compte, une vaste entreprise de dévoilement. Du coup, le film vaut moins pour sa dimension « fantastique » finalement assez discrète que pour son côté « criminel » : derrière le masque de la respectabilité, les personnages dissimulent tous de viles turpitudes.

Margheriti nous plonge au cœur de l’âme humaine et tente d’expliquer ce qui peut pousser des individus à commettre des meurtres. La raison la plus classique, celle qui a motivé les deux notables, est bien évidemment l’appât du gain. L’autre, classique également, c’est la passion amoureuse. Mais là où le film fait preuve d’originalité, c’est qu’il scrute les méandres d’un désir lesbien. Parallèlement aux affaires louches menées par les hommes, Vivian doit composer avec son attirance indomptable pour les femmes…

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Vecchi peccati dalle lunghe ombre, tumulti carnali, rapacità meschine, vanità sfrenate: i fantasmi denudano le anime delle loro "vittime", e solo il fango può seppellire l'orrore. I morti giudicano i vivi, due dimensioni temporali si compenetrano in una struttura circolare che ammalia e imprigiona. Una danza macabra sulle sabbie mobili di una nemesi implacabile. Horror... etico, girato con gran riguardo all'estetica, nitido, elegante, vorticoso, fluido: splendido film!

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CONTRONATURA est une œuvre soignée, bénéficiant pour ce faire d'un budget qu'on devine plus aisé qu'à l'habitude. Reconstitution historique, costumes, multiplicité des plans et décors. Le film souffre surtout d'une construction chaotique en divers flashbacks révélés au gré des quelques 88mn. Une linéarité sans cesse interrompue par des voix off explicatives, trop démonstratives, Alan Collins en premier. Le métier du réalisateur, allié à des acteurs convaincants et une composition musicale très adroite de Carlo Savina font passer quelque peu cette faiblesse de narration disjointe

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Contronatura riassume in sé, nella sua perfezione, tutte le caratteristiche e le inquietudini erotiche della cinematografia di genere italiana.
Margheriti, infatti, prefigura in un certo modo le audacie della cinematografia di genere a venire, rimanendo però all’interno di quella goticità italiana tipica degli anni Sessanta che tanta fortuna ha portato ai migliori autori italiani. Per concludere, Contronatura è senza ombra di dubbio uno dei gotici italiani meglio girati del decennio, nei suoi momenti migliori secondo solo alle opere del grande e compianto Bava.

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Antonio Margheriti nel 1969 gira un curioso gotico intitolato Contronatura – The Innaturals. Un film denso di un’atmosfera misteriosa, opprimente e morbosa, e il regista sembra più interessato a svelare i retroscena dell’intricata vicenda con continui flashback che a mostrare situazioni tipiche dell’horror. La parte finale comunque è di rara potenza immaginifica e anticipa, per certi versi, la scena del fiume di sangue che sgorga dalle pareti in Shining (1980) di Stanley Kubrick. Forse non tutti sanno che l’anno prima, nel 1968, Kubrick aveva chiesto proprio a Margheriti di collaborare agli effetti speciali del suo capolavoro fantascientifico 2001: Odissea nello spazio (proposta che poi Margheriti rifiutò). Ancora oggi appaiono audaci le scene di rapporti sessuali tra donne, specie per una pellicola del terrore. Chi ama gli effetti orripilanti e truculenti invece non sarà soddisfatto dalla visione di Contronatura: in tutto il film viene mostrata appena una macchia di sangue.

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E’ decisamente un bel film Contronatura, diretto a Antonio Margheriti nel 1969 sotto lo pseudonimo di Antony Dawson; un gotico con tracce horror e circondato da un’aura di sovrannaturale che verrà più chiaramente spiegata nell’illuminante e tragico finale.Un film ispirato liberamente al racconto di Dino Buzzati Eppure bussano alla porta, pubblicato nella raccolta La boutique del mistero.

Un film tutto d’atmosfera, nel quale grazie ad un sapiente uso del flashback si conoscono tutti i particolari delle vite private dei cinque ospiti dello chalet, che apprenderemo essere uno dei luoghi nelle disponibilità del neo erede sir Archibald che lo ha ereditato da Richard Wright.
Proprio attraverso l’uso del flashback impariamo a conoscere il passato segreto e tragico dei protagonisti, attraverso continui andirivieni tra il presente lugubre e angosciante, testimoniato anche dal furibondo temporale che imperversa nella zona e dalla profonda immersione nella penombra della scena principale, che vede i sette personaggi muoversi nell’angusta stanza dello chalet, nel quale troneggia il tavolo al quale sono seduti Sir Archibald e Ben…

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martedì 27 luglio 2021

The rider - Chloé Zhao

prima di Nomadland Chloé Zhao aveva girato questo film con attori non protagonisti, addirittura, padre, figlio e figlia nel film lo sono anche nella vita.

Brady è un ragazzo che vive per i cavalli, sono la sua vita, li addestra e li cavalca nei rodei, ma un incidente grave lo ferma, e gli è andata bene, capiamo conoscendo il suo amico che va a trovare spesso.

quello che stupisce è come Chloé Zhao, cinese, è riuscita in pochi anni ad acquisire un'anima che pochi statiunitensi riescono ad avere.

è un piccolo grande film, da non perdere - Ismaele


QUI il film completo, su Raiplay



 

 

 

 

E’ incredibile come questa giovane regista nata e cresciuta a Pechino, vissuta negli Stati Uniti solo per pochi anni, sia stata capace di cogliere lo spirito di un luogo e dei suoi abitanti.  Il film esplora la comunità cogliendone lo smarrimento di fronte al vuoto stellato, il desiderio sfrenato di vita – colmato dai lampi estatici del rodeo – e la crisi di un machismo eroso dal tempo e dalla tragedia. Lane, il miglior amico di Brady, ridotto in condizioni di grave handicap a seguito di una violenta caduta, è l’emblema della “guerra” che gli esseri umani delle Badlands fanno a se stessi: un veterano di un destino e di una cultura, la vittima di una trasformazione culturale di cui Brady e la sorellina Lilly – un angelo di rara grazia, una Cassandra col dono della visione – sono i commoventi sopravvissuti.

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è soprattutto l’interiorità del giovane protagonista – cosa ancor più difficile da rendere sul grande schermo – a essere messa sotto i riflettori. La sua interiorità, la sua (non troppo) rassegnata frustrazione, la sua preoccupazione per le persone a cui vuole bene (in particolare per sua sorella Lily, che ha la sindrome di Asperger, e per il suo amico Lane) e, non per ultima, la sua grande, grandissima passione per i cavalli e per i rodei. Al fine di mettere in scena tutto ciò, la regista ha optato, dunque, per lunghi silenzi, per un andamento lento e contemplativo che perfettamente si addice alla vita all’interno della suddetta riserva e che, forse, risente soltanto di qualche lungaggine di troppo.

Poco male, però. Soprattutto perché – cosa ancor più importante – ciò che Chloé Zhao ha inizialmente voluto comunicare con The Rider – Il Sogno di un Cowboy è riuscito, al termine della visione, ad arrivare allo spettatore in modo forte e chiaro, per un fedele ritratto di un mondo che ha tutto il sapore di una realtà d’altri tempi e che, di quando in quando, è anche in grado di regalarci qualche momento assai commovente, perfettamente reso sullo schermo in modo mai banale o stucchevole. Cosa, questa, mai del tutto scontata.

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The rider no es una película perfecta, pero sí bella. Es difícil, claro, que un film rodado en las llanuras de América sea feo. Su directora, Chloé Zhao, lo sabe, y apuesta todo lo que puede por los atardeceres, los caballos trotando, los planos crepusculares y por explotar la belleza americana. Lo consigue. Su Dakota del Sur es un sitio del que no queremos irnos nunca, como si fuera un sitio mágico que no existiera realmente en este planeta.

Por su parte, Brady Blackburn y su familia están interpretados por actores no profesionales: Brady Jandreau y su propia familia, que hacen un espectacular trabajo teniendo en cuenta que es la primera vez que se ponen delante de una cámara. De hecho, la historia está cogida de la propia vida de Jandreau, que se hirió la cabeza tras una caída desde su caballo.

Entonces, ¿es tan buena como se dice? Más o menos. The rider es algo torpe durante su desarrollo, no consiguiendo mantener el interés de todas las tramas de la película, y a ratos no logra encontrar la verdad en los fotogramas (otras sí: ojo a la escena final, donde más de una lágrima caerá), pero se puede entender por qué ha fascinado a la crítica. Es por su tono, su belleza, su ritmo, sus actuaciones, su necesidad de contar lo que cuenta, sus planos largos, sus silencios, su necesidad de ser mostrada en 2018.

Has visto esta película antes, pero casi nunca tan bien contada. Y eso tiene un mérito.

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La extrema sensibilidad de Chloé Zhao y el innato talento interpretativo de Brady Jandreau hacen de The Rider una pequeña película de gran corazón. Cargada de verdades, las emociones que despierta la lucha del joven protagonista por impedir que sus sueños se desvanezcan son innumerables, y cada una de ellas es una razón para ver The Rider y disfrutarla.

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Cuando nos enfrentamos a The Rider por primera vez, una de las principales dudas que nos vienen a la cabeza es… ¿cómo es posible que un actor al que nunca habíamos visto en la gran pantalla, sea capaz de interpretar de esta forma? ¿Es acaso Brady Jandreau uno de los mejores actores contemporáneos y ni siquiera estabamos enterados de su existencia? La respuesta no es tan sencilla como parece. Es indudable que la interpretación del protagonista de la película de Chloé Zhao es asombrosa, sin embargo, Jandreau no es actor, sino jinete. Tal y como ocurría cuando los espectadores de los años 50 se enamoraban de las actuaciones de aquellos actores del neorrealismo italiano sin previa experiencia interpretativa, el público actual no podrá sino rendirse al trabajo de este joven que consigue proyectar frente a la cámara sentimientos tan naturales y auténticos como el miedo y la frustración, dos términos íntimamente ligados al cowboy obligado a separarse de sus caballos…

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Intelectuales han sostenido que al hombre lo define lo que piensa. Otros dicen que lo define lo que hace. Brady, este personaje sencillo y complejo a la vez, propone que al hombre lo que lo define es más bien su propia búsqueda, la búsqueda por encontrar su razón de ser.

The Rider expone un drama de vida crudo, uno de adversidades y nubes grises, pero también de coraje y bondad, humanizadas (y no disminuidas) por sus propios defectos. Y si bien esta película de la prometedora Chloé Zhao contiene en su esencia elementos universalmente difíciles, su resultado -para terminar como se comenzó- es cálidamente único: pocas veces en la historia de la cinematografía se ha logrado capturar en film, de una forma tan auténtica y real, la redención.

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lunedì 26 luglio 2021

L'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale – Gian Vittorio Baldi

un giorno in corriera, verso la fine della guerra, con i repubblichini scatenati che sequestrano il mezzo, e senza pietà, fanno una carneficina, non si salva nessuno.

Gian Vittorio Baldi fa questo film che dovrebbero vedere tutti quelli che "i fascisti hanno fatto anche cose buone", anche a scuola.

il film precede il Salò di Pasolini (di cui Gian Vittorio Baldi era amico e produttore) e non lo avrà lasciato indifferente.

L'ultimo giorno di scuola... non ci lascia indifferenti, e ancora ci fa soffrire, altri sono i film d'evasione, questo no.

guardatelo, non ve ne pentirete - Ismaele


 

QUI il film completo


QUI un ricordo di Gian Vittorio Baldi


 

 

...come e' possibile aver dimenticato in qualche polveroso archivio questo film...mi e' capitato di vederlo di notte girando a caso su una sconosciuta rete privata! Da vedere assolutamente (avendo la pazienza e la fortuna di trovarlo)

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Pier Paolo Pasolini e Gian Vittorio Baldi, vicini non solo artisticamente e professionalmente, ma anche intellettualmente. Un film su tutti, "L'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale" diretto da Gian Vittorio Baldi nel 1975, colpì particolarmente Pier Paolo Pasolini. È la storia di tre repubblichini che nel 1944 sequestrano una corriera, per poi derubare e trucidare i passeggeri. Pasolini rimase colpito da questo film, nel periodo in cui era in procinto di girare Salò…

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domenica 25 luglio 2021

La guerra è finita – Michele Soavi

dopo la liberazione dai lager tanti sopravvissuti vagavano in cerca di una casa, come scrive Primo Levi.

in una tenuta abbandonata arrivano un po' di bambini e adolescenti e chi se ne vuole occupare, in attesa di una sistemazione.

i proprietari della tenuta vorrebbero mandarli via, l'economia, si sa, ha le due pretese, e poi non è che tutti i fascisti siano spariti d'incanto.

la storia tiene, gli attori sono bravi, la sceneggiatura non fa mai calare la tensione, il regista Michele Soavi è bravissimo quando si tratta di non far addormentare gli spettatori.

buona visione - Ismaele 


ps: Isabella Ragonese e Michele Riondino sono già stati protagonisti in un (bel) film del 2009, Dieci inverni, di Valerio Mieli.



 

QUI si può vedere il film completo, in quattro parti, su Raiplay

 

 

La storia inizia poco dopo la Liberazione, nei mesi in cui i sopravvissuti alle deportazioni tornano a casa. Tra questi, anche qualcuno che non troverà più nessuna famiglia ad attenderlo: bambini, ragazzini e adolescenti che hanno visto e vissuto l'orrore - allora ancora nascosto e indicibile - dei campi di sterminio. Questa storia parla di loro. E di alcuni adulti coraggiosi che aiutano i ragazzi a riemergere lentamente alla vita, in un luogo improvvisato e privo di risorse, sullo sfondo di un'Italia provata, miserabile, ridotta in macerie. I protagonisti adulti si chiamano Davide e Giulia. Davide era lontano da casa quando sua moglie e suo figlio sono stati presi, avviati ai treni, spariti nel nulla - e non se lo può perdonare. Ha partecipato alla Resistenza, ma ora tutte le sue forze sono concentrate nella loro disperata ricerca. Giulia è figlia di un imprenditore che ha collaborato con i nazisti e da poco è stato arrestato e condotto in carcere. Le strade di Davide e di Giulia si incrociano per caso, quando entrambi si trovano alle prese con alcuni bambini e ragazzi, reduci dai campi, che non sanno da chi andare, cosa fare, dove trovare un rifugio. Aiutati da Ben, un ex ufficiale della Brigata Ebraica che ha rinunciato a rientrare in Palestina per dare una mano a quanti vorranno seguirlo nella nuova patria, Davide e Giulia occupano una tenuta agricola abbandonata dove, in una piccola scuola rurale, insegnava un tempo la giovane moglie di Davide. Qui, passo dopo passo, con pochissimi aiuti dall'esterno, bambini e ragazzi italiani e stranieri riscoprono il rispetto reciproco, la solidarietà, la voglia di giocare, studiare, lavorare, amare. E raccontare - quasi sommessamente, con dolore - la loro perduta umanità. Le età sono le più diverse. E così le provenienze, le rabbie, le disperazioni e i sogni. C'è Gabriel, che orfano già da prima della guerra, è riuscito a fuggire da un campo di concentramento ed è stato raccolto e salvato dai partigiani polacchi. C'è Miriam, che un tempo suonava il piano e ora non sa o non vuole più farlo. C'è Sara che detesta il Paese che le ha portato via il padre, la madre e i suoi fratelli con le Leggi Razziali e non vede l'ora di andarsene in Palestina. E c'è Mattia, che non viene dai campi, ma è solo un ragazzo che dà una mano nella tenuta, nascondendo però un recente passato in cui è stato nelle milizie repubblichine, senza neanche sapere bene quello che faceva. E ci sono poi i bambini più piccoli, come Giovanni che non riesce più a parlare dopo le atrocità che ha visto e si limita a disegnare. E i piccolissimi, come Ninnina, quattro anni, che ha anche lei un numero tatuato sul braccio. Nello scorrere del racconto, ognuno va incontro ai propri fantasmi, alle proprie paure e ai propri desideri, che finalmente potranno cominciare a prendere corpo. Ma per andare avanti devono fare i conti con il passato e ritrovare il senso delle parole e della testimonianza. E, nel giorno in cui la radio annuncia la sconfitta della monarchia e la nascita della nuova Italia repubblicana, Davide può finalmente rinunciare alle armi e riconciliarsi con se stesso e col mondo. È un luminoso giorno del giugno 1946 quello in cui, per lui e per il Paese, la guerra sarà davvero finita.

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Soavi, forte della sua esperienza nel genere horror, mette a disposizione del progetto le sue abilità, facendo sì che l’atmosfera si riveli uno dei punti di forza, dal punto di vista registico, de La guerra è finita: la nebbia che pervade i ricordi, che ne permea ogni più intima fibra e arriva fin quasi alle ossa, prima che al cuore, dei protagonisti, cela solo in parte le brutture e la crudeltà che hanno preso luogo nei Lager…

…Sono quindi i bambini e i ragazzi ad indirizzare lo sguardo e le sensazioni del pubblico, che tramite loro interpreta (o almeno tenta di interpretare) le situazioni che si succedono via via, dalle più terribili alle più leggere. L’infanzia rubata, l’innata voglia di giocare, le prime infatuazioni amorose, la necessità di adulti come riferimento e di cui fidarsi, sono solo alcune delle suggestioni sollevate in tale discorso. Di quest’ultima ne è un caso esemplare il rapporto che si crea tra Davide e il piccolo Giovanni, andando a sopperire a una dolorosa mancanza in entrambi.

La musica, a cura di Ralf Hildenbeutel, suggella il tutto, con un’efficace alternanza di note poetiche, delicate o dal ritmo sostenuto a seconda delle immagini che accompagnano. In qualche modo ispirato da La tregua di Primo Levi e spinto da un’atavica volontà di non dimenticare e di muovere al risveglio delle coscienze, spingendo a riflettere e a porre attenzione a ciò che ci circonda, che non è altro se non figlio di quel tragico passato, Soavi confeziona una serie di buon livello e di grandissima importanza.

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sabato 24 luglio 2021

Postava k podpírání (Joseph Kilián) - Pavel Jurácek, Jan Schmidt

girato a Praga, ispirato a Kafka, Josef K. deve restituire qualcosa (o qualcuno) preso a noleggio da un negozio che non esiste più.

uffici, moduli, timbro, file, attese, atmosfere proprio kafkiane.

vedere, per credere, questo piccolo bel film - Ismaele

 

 

QUI il film completo (sottotitoli in inglese)

 


 

It's a sombre Kafkaesque tale about a nameless man who happens upon a cat rental agency while wandering the streets of Prague searching for someone named Joseph Kilian.  Of course the next day when he goes to return his rented feline, he finds the shop is no longer where it was and none of the passers by can provide any help; and so he encounters an increasingly complex and impossible bureaucracy in his search for this missing shop and the elusive Joseph Kilian.

With a beautiful minimalistic style, Jurácek and Schmidt create a concise and absurdly humorous, biting allegory of life under the communist regime.  Hilarious scenes of the main character hopelessly lost in a confusing and meandering system of officials and departments provide much amusement, and makes you truly wonder how a film with such a politically critical message was allowed to be made under those conditions. 

A wonderfully clever, surreal, and gloomy yet enjoyable tale, perfect for cat lovers and fans of Eastern European cinema.

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the comparisons with Kafka immediately stand out, and the author’s name is so often evoked that it has become a cliche to do so. People toss around the term “Kafkaesque” to describe almost anything a little bit dark and weird these days. It’s like when people use the term “Catch-22” without fully grasping what that means, and you can be bloody sure they haven’t read the book. Could I say that the term has become so over-used that I’ve decided to write the whole review without mentioning the writer’s name or the adjective derived from it? It’s a bit weak, I think, but it’s all I’ve got right now. So let’s give it a whirl:

At first glance, Juráček & Schmidt’s mischievous short film invites comparisons with a certain famous Prague writer, right down to the initials of the title character. Yet, while there is an obvious debt of gratitude to the totemic novelist whose intense face can be found on a thousand Prague gift shop mugs, the film feels more like a confluence of influences, from Escher to Samuel Beckett.

Our protagonist is Jan Herold (Karel Vašíček), a man wandering the streets of Prague looking for comrade Kilian. He is met with confused looks whenever he asks people if they have seen him, as no-one seems to have heard of the guy. As he continues his search he stumbles upon a Cat Rental shop (yes, you read that right) and decides that he may as well rent a cat.

He carries on looking for the mysterious Kilian, carrying the cat in a bag. When the time comes to return the cat, the shop is no longer there. What’s more, the building looks like it has been unoccupied for many years, and passersby can’t recall ever seeing a cat rental place in the vicinity. So, with the cat now potentially incurring late fees, Herold continues his search for the eponymous character…

Herold’s meanders through a strange somnambulistic atmosphere, a little like Herk Harvey’s eerie Carnival of Souls. While the premise of a cat rental shop is absurd, this idea lulls you into a false sense of security. The smile it raises is smothered by the disquieting ambience of the half-empty Prague streets, populated by people caught in a trancelike state who don’t really remember anything or recognise anyone.

The directors use bold editing techniques to emphasise the sense of dislocation and unease. They use jarring match-cuts to show Herold in one place then suddenly appearing in another, sometimes chopping our protagonist through several scenes in a matter of seconds. They also tinker with aggressive cuts that made me think my copy was faulty before I realised it was intentional, and also a bit of forward-and-reverse motion tomfoolery with little effect. 

These editing choices creates a disorienting environment where people and places vanish and citizens are trapped in strange Escher-like time loops. A dusty passageway is filled with placards bearing Communist slogans that hint at the fate that has befallen the city. It is a place where people have become unmoored from time and space.

Both directors would make feature-length films, with Juráček contributing a key title of the New Wave, Case for A Rookie HangmanJoseph Kilian was their debut effort, and it shows. It is beautifully shot and features some striking imagery but its sense of strangeness and foreboding quickly evaporates once it is over. It is like a movie put together by two precocious magpies with clear filmmaking talent, but haven’t developed their ideas enough to make them stick. It’s all surface flash without much to underpin it, making the film feel as fleeting and transient as the protagonist.

At this point, I realise that the idea of not mentioning Kafka by name is a bit of a non-starter. I only really needed to refer to him in the first paragraph, and straight away I was relieved – there are only so many ways of not referring to someone by name. If I had to carry on, I could see myself dipping into the Wikipedia article on the novelist and pulling out facts to use in place of his name – the prolific writer whose works were posthumously saved by his good friend Max Brod; Prague’s second-most legendary Jewish resident after Rabbi Loew; and so on.

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venerdì 23 luglio 2021

Il primo ragazzo (Pervyy paren) – Sergej Parajanov

un film figlio del suo tempo e dell'ideologia (ma quanti non lo sono?) che riesce a essere divertente e fresco.

un po' neorealista, un po' comico, un po' commedia degli equivoci, il film riesce ancora a far divertire, come quei film muti o quasi, di Charlot, o giù di lì, un po' zavattiniano, magari.

buona, divertente e divertita, visione - Ismaele


 

 

Fra i film "di regime" girati da Paradžanov prima della sua svolta personale e artistica del 1964, questo è forse uno dei più sopportabili, grazie a una messa in scena sbarazzina (sebbene naturalmente molto impostata), a una fotografia dai colori vivaci (belli soprattutto i cieli rossi al tramonto) e alle numerose canzoni patriottiche che donano alla pellicola un tono leggero, per l'appunto quasi da musical. Ambientato in un kolchoz ucraino nel quale seguiamo la vita di un gruppo di "giovani comunisti", fra amori e corteggiamenti, studio e lavoro nei campi, sagre paesane e balli contadini, ricorda un po' "Il fiore sulla pietra", anche perché ne condivide l'attore protagonista (Georgij Karpov, che secondo me assomiglia all'Aleksey Batalov di "Quando volano le cicogne"). Il giovane Juscka – come ci spiega la voce narrante – si ritiene il ragazzo più in gamba della regione, e in effetti il suo comportamento audace e spudorato lo rende assai popolare presso gli amici e le ragazze (benché non riesca a fare breccia nel cuore della bella Odarka, allevatrice di maiali e ottima atleta ma dotata di un caratterino pari al suo). La sua leadership sembra vacillare quando nel villaggio ritorna Danilo, appena congedato dall'esercito, che ben presto diventa il centro dell'attenzione di tutti e stimola i compagni a fare sport (corse ciclistiche o campestri, partite di calcio). Juscka lo crede anche suo rivale in amore, e per mettergli i bastoni fra le ruote si "arruola" come portiere nella squadra avversaria durante un incontro amichevole. Alla fine, però, gli equivoci saranno risolti e l'amicizia e l'amore trionferanno. A tratti quasi corale (a quella di Juscka e Danilo si intrecciano altre storie parallele, come la vicenda romantica fra il negoziante Sidor e la bambinaia Frosenka), il film può essere considerato un equivalente sovietico delle contemporanee pellicole occidentali a sfondo giovanile: naturalmente qui i valori sono quelli del lavoro e della solidarietà, che vanno di pari passo con l'amicizia, l'amore e lo sport.

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The least typical of Sergei Paradjanov's feature films. It's a light comedy set in a Ukrainian collective or kolkhoz. The plot involves model communists Danila (a recently demobbed soldier) and Odarka (whose hair is as golden as the Ukrainian wheat) trying to get a football team started despite the general apathy of the other youngsters.Chief culprit is Yushka, a blacksmith and general jack-the-lad. He loves Odarka and she loves him, but neither is able to tell the other.Untypical: There's comic relief from habadasher Sidor Sidorovich, whose shop gets frequent visits from the equally love smitten teacher Frosya and her horde of infants. There are ridiculously patriotic songs with lyrics about the glories of the harvest. And yet… It's almost a musical, as I suppose all Parajanov's films are to some extent. And it glories in the Ukrainian landscapes with its fields of corn and sunflowers and amazingly blue skies.

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modi di ricordare e parlare di Libero De Rienzo

 

Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo – Boris Sollazzo

 

Libero De Rienzo, attore straordinario. Libero De Rienzo, padre amorevole. Libero De Rienzo, amico geniale.

Potevate scrivere parole così, colleghi. Potevate raccontarlo da vivo, lui che in pochi anni ha illuminato l’arte cinematografica italiana, come interprete incredibilmente versatile e regista di un unico grande film, Sangue – La morte non esiste. Sottotitolo beffardo oppure incredibilmente vero, chissà.

Sono un suo amico. E sono un giornalista. Conosco sua moglie, i suoi figli, molti suoi amici. E conosco pure i miei colleghi, molti direttori, troppi caporedattori. E so che l’attore di sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend topic, il Seo, le ricerche su google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le fake news o solo il particolare scabroso. Mentre ridevamo dei tabloid, l’informazione italiana è diventata spazzatura e noi giornalisti non siamo neanche capaci di fare i netturbini, siamo quelli che la danno alle fiamme.

Con Libero De Rienzo, che non aveva la corazza protettiva del grande maestro a cui il servile giornalismo nostrano si inginocchia anche da morto né faceva paura come quel boss romano a cui, in condizioni analoghe, non è stato riservato lo stesso trattamento, l’intera filiera della cronaca nera ha dato il peggio.

Intendiamoci, quello del cronista di nera è un mestiere ingrato, bastardo, ambiguo. Da sempre. Chi ha qualche anno in più sa che prima dei profili social, i più sgamati dei colleghi saccheggiavano le case delle vittime di atti violenti, magari intervistando i congiunti e rubandosi da un portaritratto la foto giusta. Ma almeno consumavano suole di scarpe e neuroni, avevano rispetto del lettore e delle persone coinvolte, operavano riscontri e torchiavano le fonti.

Ora i giornalisti di nera – ma vale anche per quasi tutti gli altri, pensiamo alla giudiziaria – sono cassette della posta. In cui procure, questure e non solo infilano le loro veline. E con la schiena piegata non dal duro lavoro, ma dalla sudditanza, si prestano a far da altoparlante, megafono, strumento di toghe e divise. Siamo in zona ventennale del G8 di Genova: ricordate la trasmissione di Vespa sulla morte di Carlo Giuliani? Se sì, sapete di cosa parliamo – l’ipotesi più credibile di quel Porta a Porta? La pallottola più pazza del mondo, un incrocio tra quella che uccise Kennedy e raccontata da Kevin Costner in JFK – un caso ancora aperto e una gag di BeepBeep e Willy il Coyote – non c’è bisogno di dire altro.

Con Libero De Rienzo facciamo un po’ schifo tutti. Anche i lettori, che cercano, vogliono, consumano questa spazzatura come fosse caviale. I caporedattori e i direttori che chiedono certi titoli, certe notizie, i colleghi che si sono dimenticati quanto e cosa hanno studiato per fare l’esame da professionisti. Che la deontologia l’hanno buttata insieme al rigore in quella spazzatura di cui prima.

Il sospetto, a volte bisogna avere lo stesso coraggio di Picchio nel dire le cose come stanno, è che nell’accanimento attuale contro un giovane uomo che al talento univa la voglia di ingaggiare battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema penitenziario, la strategia repressiva dello Stato, le ingiustizie sociali, il pessimo giornalismo – ci sia una gran voglia di vendicarsi di tutte le categorie coinvolte.

Altri – il boss succitato (e giustamente, tutti devono essere tutelati nei propri diritti fondamentali e la privacy è uno di questi), ma anche manager e imprenditori – sono stati protetti, perché un’autopsia non è un avviso di reato, ma su corpi giovani è necessaria. Eppure non si vede l’ora, qui, di aprire un’inchiesta, le forze dell’ordine sono state subito un colabrodo di indiscrezioni (“polvere bianca tra salotto e cucina, crack, una dose in una bustina di cellophane” neanche parlassimo della serie Narcos, con tutte le testate, dalla più importante al sitarello più spregiudicato a scrivere tutto, sotto dettatura), ipotesi (“non si può escludere che” è una frase schifosa in italiano, figuriamoci in un articolo su un padre morto così giovane), improbabili testimonianze non riscontrate di chi lo aveva visto nelle ultime ore.

Sì, Libero De Rienzo era mio amico. Libero è mio amico. Ma vale per tutti gli indifesi, da una ragazza giovanissima morta sul lavoro a poveri villeggianti su una funivia, ostaggi anche da morti delle trattative Stato-stampa, baratti “rattusi” in cui una vita viene esposta e sezionata dai curiosi per fare un favore a chi potrebbe passarti un giorno, in anticipo rispetto agli altri, un’ordinanza, una soffiata su un’inchiesta dal nome evocativo, il luogo di un arresto illustre.

Eravamo i cani da guardia della democrazia, ora siamo solo topi di fogna che si accontentano delle briciole, dei rifiuti, dei resti putrefatti del Potere.

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Morte di Libero De Rienzo, ecco perché abbiamo scritto (e continueremo a scrivere) dell'eroina - Marco Mensurati

 

Ci sono un paio di domande che in queste ore da più parti ci vengono poste con una certa insistenza (e con diversi gradi, diciamo così, di civiltà).

Era proprio necessario raccontare tutti i dettagli della morte dell'attore Libero De Rienzo? E poi ancora, e forse soprattutto, non si poteva omettere il dettaglio del ritrovamento dell'eroina?

La risposta, ovviamente, è sì, era proprio necessario. E no, non si poteva omettere un particolare così rilevante. Possiamo discutere sui toni e le forme - che nel caso di Repubblica pensiamo siano state inappuntabili - ma sulla necessità del racconto giornalistico non ci sono dubbi.

 

E il motivo è semplice. I giornali pubblicano le notizie. Devono farlo, è la loro missione, il loro senso, il loro valore.

A volte questo paradigma rende il mestiere di giornalista duro, difficile, scomodo. Anche antipatico. Succede soprattutto con la cronaca nera, la specialità più difficile. È successo anche stavolta.

Muore un attore bravissimo e amato come De Rienzo, un padre di famiglia, un insolito e laterale intellettuale della malconcia scena italiana, e il suo pubblico, i suoi amici, i suoi affini, non vorrebbero altro che stringersi nel dolore in una composta e silenziosa celebrazione.

Il compito di un giornale e di un giornalista, però, non è quello di celebrare. Ma di raccontare i fatti. E se la notizia, come in questo caso, è una bustina di eroina trovata nella casa dell'attore, non pubblicarla sarebbe un errore. Grave. E pericoloso. Perché salterebbero i meccanismi di controllo e di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori.

Il giorno in cui i giornali dovessero smettere di pubblicare le notizie, o peggio dovessero scegliere quali pubblicare - anche se lo facessero usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato - sarebbe un giorno un po' più simile alla notte.

 

Colpisce in particolare che molte delle critiche arrivate ai giornali provengano da una ben determinata categoria di persone. Intellettuali del cinema, professionisti della comunicazione, persone per dirla in breve che avevano una frequentazione diretta e personale con De Rienzo e con la sua famiglia.

In molti di questi casi l'impressione che si è avuta è che gli amici stessero implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più.

Nessuno di loro, diciamolo per inciso, ha sollevato un sopracciglio quando abbiamo raccontato, con la medesima professionalità, la vicenda della giovane Maddalena Urbani, figlia di Carlo Urbani, il medico eroe che isolò la Sars.

Parlammo del ritrovamento del suo corpo, della morte per probabile arresto cardiaco, del sequestro dell'eroina e degli psicofarmaci, scrivemmo dell'autopsia e delle indagini partite dalle analisi del suo telefonino e infine raccontammo dell'arresto dell'uomo che le aveva dato la droga.

Nessuno del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali ci trovò niente di strano. Quelle erano notizie, noi stavamo facendo il nostro mestiere. E loro non erano amici di Maddalena.

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Quella reazione “isterica” dei giornaloni su Libero De Rienzo – Boris Sollazzo

 

Sarebbe stato ingenuo da parte di chi scrive e chi pubblica questo giornale pensare che il pezzo “Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo” non avrebbe provocato un terremoto, soprattutto nell’ambito giornalistico.

La diffusione dell’articolo, condiviso da migliaia di persone, ha fatto il resto.

Più sorprendente è però la reazione scomposta e più o meno isterica dei due grandi giornali, mai citati esplicitamente nell’articolo  ̶  ma ovviamente, nessun problema a specificarlo, ci riferivamo in particolare al modo in cui Repubblica e Corsera avevano trattato la vicenda e loro si sono riconosciuti  ̶  e esplicitata in due editoriali a firma Alessandro Trocino e Marco Mensurati.

Il primo più garbato inizia furbescamente citando un passo di Fortapasc e poi con una prosa elegante e insinuante chiude dicendo che “chiedere un trattamento di favore per qualcuno, solo perché è amico, o di sinistra, o scomodo, questo sì, sarebbe ingiusto”, il secondo più muscolare, dice che loro questo tipo di giornalismo lo fanno da sempre e che nel caso di Maddalena Urbani (figlia di Carlo, medico eroe che isolò il virus Sars) nessuno “del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali” reagì male. E poi anche lui non resiste e sostiene che “gli amici” stiano “implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più”.

Ora, qui crediamo nella forza del confronto e della dialettica, e proveremo a fare quello che i due illustri colleghi non hanno fatto: rispondere nel merito. Nel caso del pezzo del Dubbio c’erano riflessioni circostanziate che i due hanno dribblato preferendo l’attacco personale (Trocino ha avuto il buon gusto di citare autore e articolo, Mensurati no), cavalcare una populista accusa di opportunismo elitarista contro la casta dei cinematografari piuttosto che provare a costruire un dibattito adulto, responsabile, maturo. E soprattutto necessario a una categoria che ha perso conoscenza e orientamento tra i punti cardinali della professione.

Proviamo a farlo noi, pur riconoscendo ai due giornali un’ottima capacità strategica. Trocino scrive un editoriale nella newsletter del giornale (Il punto) per giocare in casa con un pubblico di parte, Repubblica sceglie Mensurati, uno dei pochi cronisti che affronta onorevolmente il proprio conto, perché a difendere l’indifendibile mandi sempre quello che non ha scheletri nell’armadio.

Vecchie tattiche che però danno poco al dibattito, che è quello che interessa a noi (e infatti chi scrive ha usato spesso la prima persona plurale: il problema è di sistema, non solo della categoria).

Partiamo dall’accusa di “amicizia”. Cari colleghi, chi scrive ha dichiarato la propria amicizia per un eccesso di zelo, per quell’onestà intellettuale dimenticata da troppi nel nostro lavoro. Se tutti dichiarassimo chi ci ha passato cosa (va bene proteggere una fonte, ma vi guardate bene anche dal far solo intuire da che ambiente arriva la notizia) o appunto l’amicizia con chi è il protagonista dei nostri scritti, i nostri lettori avrebbero tutte le possibilità di giudicare e giudicarci. Invece la maggior parte dei nostri articoli sono figli di un’imparzialità tutta presunta: siamo cittadini e uomini e abbiamo il dovere di essere sinceri con chi ci legge. Io l’ho fatto, per dare a tutti la possibilità di giudicare con obiettività sia l’autore sia cos’aveva scritto.

E infatti vi ha dato la possibilità di accusare “il circolo intellettuale”, “gli amici del cinema”. Voi lo fate? No, mai. Ed è sbagliato, soprattutto in un giornalismo così suddito come il nostro.

Trocino poi, dopo aver tirato di nuovo fuori Siani piuttosto a sproposito, parla della richiesta del lettore di non essere sgradevoli e fa intendere che no, la cronaca e in particolare nera, non può non esserlo perché tale è la realtà. Mensurati, che al posto del fioretto ha inforcato la spada, si vanta semplicemente del fatto che il suo giornale è stato altrettanto sgradevole con Maddalena Urbani, appena maggiorenne. Affascinanti modi di giustificare la violenza gratuita e pretestuosa di certi articoli. Siccome sono giornalisti ricordiamo loro i fatti: ad ora non si è riuscita neanche a stabilire la causa della morte. Ma loro senza entrare in casa del morto, hanno scritto di strisce bianche tra salotto e cucina, di buste di cellophane con eroina dentro, di “non si può escludere che”. Qui non si tratta di sgradevolezza, si tratta di obbedire a due regole base, che nell’articolo precedente non abbiamo sentito il bisogno di ricordare per un eccesso di fiducia nel genere umano e nella categoria: dopo i frequenti dibattiti degli ultimi anni sul segreto istruttorio, eravamo convinti che anche ai più duri di comprendonio dei colleghi fosse entrata in testa che non li vogliamo gradevoli, ma solo operanti nella legalità. E che il diritto di cronaca ha il suo argine nel non condizionare l’inchiesta e il buon esito della stessa. E dovendo prendere per buone le indiscrezioni dei loro articoli, il presunto spacciatore omicida avrà avuto ogni possibilità di fuga, inquinare prove e testimonianze. Non vi chiediamo gradevolezza, ma correttezza. Non vi accusiamo di aver scritto che la procura lavorasse sull’ipotesi investigativa di “morte come conseguenza di altro reato”, siamo indignati per aver esposto al pubblico ipotesi che non potevano non essere che frutto di veline di inquirenti e forze dell’ordine, non notizie. Perché il nostro è un mestiere di fatti, non di “si dice”, di “polveri bianche”.

Il problema è che citando Siani (siamo bravi anche noi a farlo) ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati. E aggiungiamo noi, giornalisti stenografo. Quelli che ricopiano fedelmente le parole, le indiscrezioni, i pareri di una delle parti in causa. Di quelli che dovrebbero essere oggetti dei loro controlli. Abbiamo appena scavallato il ventennale di Genova 2001: immaginate se di fronte alla Diaz i cronisti si fossero bevuti la balla delle molotov o delle ferite pregresse.

Hai ragione Trocino, ci sono anche giornalisti-giornalisti. Ma il sistema premia gli altri. Il nostro è un albero pieno di mele marce e dovremmo nasconderci dietro quel dieci per cento di frutta non guasta?

Tornando a Mensurati, che ha la sventura di scrivere per un quotidiano che la bussola l’ha persa da parecchio, il suo pezzo è piuttosto spericolato. Ha la furbizia di non citare il sottoscritto, ma un generico “circolo intellettuale” – pescare a strascico evidentemente è un vizio, cosa viene su poco importa -, ma dimostra di non essere informato (la stessa penna che si è scagliata contro i giornalisti che hanno affrontato l’affaire De Rienzo si è indignato per il trattamento a Silvio Berlusconi e Lapo Elkann, non proprio l’identikit che darebbe dei propri “amici”) e di ignorare le regole elementari della professione. Si trincera dietro Maddalena Urbani e il fatto che il circolo dei cinematografari non l’abbia difesa, un benaltrismo carpiato che lascia basiti solo a ripeterlo. Con retorica grillina insinua che la élite se ne freghi della gente normale, ma non risponde nel merito.

Sì, cari colleghi, perché quello che manca nelle vostre editorialesse permalose e risentite sono le risposte.

Diteci, è vero o no che i cronisti di nera sono cassette della posta che attingono per le loro notizie quasi esclusivamente da ciò che gli elemosinano le forze dell’ordine? Curiosamente a questo non avete risposto.

E ancora, come mai nei vostri apodittici “le notizie vanno date, perché sì, pappappero” non citate capisaldi della nostra società civile, del nostro ordinamento e della professione come il rispetto del segreto istruttorio (ah, se la risposta è: lo fanno tutti, avete la risposta sul perché a malincuore ho sottolineato che da cani da guardia siamo diventati topi di fogna).

Non ci sono carte deontologiche che proibiscono il 70% delle cose che avete scritto nei vostri pezzi?

Sfruttare il peso della propria firma e della propria testata per fare bullismo a un collega che solleva un’autocritica su cui dovremmo confrontarci, su un ambiente ferito che ha reagito compostamente, è davvero il compito del giornalista?

E ancora, se è vero che per voi i morti sono tutti uguali, perché un grand commis dello Stato italiano che si suicida viene trattato con (giustissimo) rispetto e così il tentativo di suicidio di una dirigente di un ministero di cui erano tutti amici (qualcuno come me ha avuto il buon gusto di dirlo), e in entrambi i casi c’erano lati inspiegabili della vicenda o comunque di difficile interpretazione? Non sarà che il trattamento di (s)favore lo fate voi? L’attore con dipendenze, nella penuria di notizie di luglio, con simpatie politiche scomode e battaglie anche più antipatiche per Stato e istituzioni, può essere trattato con meno empatia dei potenti da proteggere? Ci sono morti più uguali delle altre per cui ci si può dimenticare più serenamente le regole che con quel tesserino ci impegniamo a rispettare? E pure il codice penale?

Poi, facciamo un gioco, vi va? Prendiamo i pezzi usciti sui maggiori giornali e siti. Togliamo gli autori. Presentiamoli come compiti al prossimo esame da giornalisti professionisti. E vediamo chi e quanti verranno bocciati. Mensurati dice che se i giornali smettessero di dare le notizie “usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato – sarebbe un giorno un po’ più simile alla notte”. No, è già notte perché per dare delle non notizie, per farvi megafono di altri, al dolore arrecato neanche pensate. Tra il potere e i deboli scegliete il primo, pure fieri.

No, con Picchio non stiamo proteggendo un amico, noi vogliamo difendere tutti. E sì, il dolore di vederlo schiacciato in un personaggio funzionale di bassa lega, un brutto racconto d’appendice, ci ha ferito. Come ci ferisce quando un femminicidio diventa un romanzo Harmony “in cui lui l’amava troppo”.

Colleghi, riflettiamo. Se questa (auto)critica ha così colpito l’immaginario di tutti, è perché il problema non è Libero, ma anni in cui si è fatta carne di porco del nostro mestiere, prima per qualche copia, poi per qualche click in più. E una supercazzola isterica e affatto argomentata come risposta non aiuta. Se i nostri lettori – i nostri primi referenti, ricordiamolo, a cui non dobbiamo obbedire ma che dobbiamo rispettare – si indignano così e da tanto, troppo tempo, abbiamo un grosso problema. Ma vuol dire ancora che non si sono arresi, loro. Se si arrabbiano, sperano ancora in un’informazione migliore.

Torniamo degni di chi ci ha insegnato il mestiere, torniamo degni della nostra passionaccia. Confrontiamoci, invece di replicare le dinamiche di potere di una società che dovremmo raccontare, migliorare e non assecondare nei suoi bassi istinti.

Sì, Picchio era mio amico. Ma rimango un giornalista.

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