l'estate scorso ho letto, non è mai troppo tardi, I fratelli Karamazov (qui), questi giorni ho visto lo sceneggiato Rai del 1969.
grandi attori, una storia straordinaria, nella quale vengono toccati molti temi della vita, amore, odio, vendetta, religione, giustizia, libero arbitrio, soldi, omicidio, bambini, perdono, insomma non è proprio una storia per distrarsi (meno male).
lo sceneggiato è tutto girato in interni al chiuso, segue il libro abbastanza fedelmente, gli attori, di provenienza teatrale, sono bravissimi, qualcuno anche di più, Lea Massari, Corrado Pani, Salvo Randone, Carla Gravina, Umberto Orsini, per esempio, musica di Piero Piccioni, regia di Sandro Bolchi.
oggi direbbero che è una serie, ma è una bugia, è uno sceneggiato della Rai.
che abbiate o no letto il romanzo, guardatevi lo sceneggiato, saranno sei ore indimenticabili, promesso - Ismaele
QUI lo sceneggiato completo, in sette
puntate, su Raiplay
In 350 minuti (divisi in 7 indimenticabili puntate) uno sceneggiato nonché uno dei capolavori televisivi della Rai "che fu". Affascinante, teso, ben girato, assai aderente al testo originale (mostro di perfezione che si sarebbe detto inavvicinabile), ottimamente interpretato, avvincente come un giallo ben congegnato. Una specie di miracolo insomma, che oggi si fa apprezzare per meriti squisitamente cinematografici e non solo divulgativi. Imperdibile.
…Mi è piaciuto vedere degli attori che recitano, e per
quel che passa ora il piccolo schermo, con le sue produzioni di fiction, un attore che recita è qualcosa di
straordinario. Non voglio sparare a zero sulla tv italiana, è fin troppo
facile, e se si ha piacere di vedere dei bravi attori basta farsi un giro al
Piccolo Teatro; però è sconfortante non poter fruire quasi mai, nei canali
nazionali, di buona recitazione. Salvo Randone interpreta un Fëdor avido,
untuoso, ipocrita, e che suscita insieme – incredibilmente – ribrezzo e
simpatia; Corrado Pani risalta per la sua voce, all’occorrenza violenta,
pentita, isterica; Umberto Orsini interpreta un personaggio complesso, Ivan,
miscuglio di razionalità crudele, nostalgia del divino e senso di colpa, tutte
sempre presenti ma in percentuali mutevoli e in schizofrenia crescente: loro, e
insieme a loro Lea Massari, Carla Gravina e altri, recitano con una convinzione
che ti spinge a guardarli, ognuno con le sue sfumature, chi più teatrale chi
meno, ma tutti saldamente ancorati al proprio ruolo.
È poi naturale, trovandoci di fronte ad attori
di teatro, che le sequenze siano lunghe e gli stacchi di montaggio – così mi è
sembrato – pochi; da qui anche le pecche di cui parlavo sopra (le sequenze non
rifilmate, la cinepresa rigida), ma da qui anche l’ulteriore ragione per cui mi
ha fatto piacere vedere questo sceneggiato. Si respira infatti vedendo queste
scene ininterrotte, si apprezza il continuo della recitazione, l’impressione di
una diretta. E in ciò sta certo la maggiore distanza con i prodotti televisivi
attuali: così non si gira né si sceneggia più. Né – facendo un passo ulteriore
– si dedica tanto spazio a conversazioni, dibattiti, elucubrazioni, fors’anche
a scapito di certi snodi di trama. Ma se in fondo per Dostoevskij l’intera
vicenda era sostanzialmente un pretesto per discutere idee e mettere in moto
personalità, allora anche lo sceneggiato ne deve tener conto. Un esempio per
tutti è la mezzora, non intercalata da altre linee narrative, interamente
dedicata al dialogo tra Ivan e Alëša su un progetto del primo, il
poemetto Il grande inquisitore. Il tormento
teologico di Ivan si fa letteratura e i due discutono sul problema del rapporto
tra cristianesimo delle origini e peso tragico della gestione del potere. Temi
apparentemente desueti, lontani e che, per come trattati da Dostoevskij,
appaiono fuori fuoco ora così come dovevano apparirlo nel ’69 quando fu
trasmesso lo sceneggiato. Però è proprio dall’apparente eccentricità di questo
e di altri discorsi che emergono temi eterni e argomentati con acume: il
rapporto potenti-popolo (la «democrazia del balcone» di montanelliana memoria);
la “proprietà” di un’idea e il problema della sua distorsione da parte di
terzi; i confini del senso di colpa; la morbosità del pubblico e i
processi-spettacolo.
Il merito di questo sceneggiato è di aver dato
spazio e voce a tutto ciò; e se è ovvio che avere alle spalle Dostoevskij è di
per sé un vantaggio, resta in ogni caso il bello di un contenitore di qualche
decennio fa al quale è piacevole poter attingere e attraente guardare proprio
attraverso la lente degli anni che sono passati.
Uno dei migliori sceneggiati prodotti dalla
RAI in un tempo in cui riusciva a coniugare felicemente cultura ed
intrattenimento: il fluviale capolavoro di Dostoevskij, in apparenza troppo
complesso per prestarsi ad una riduzione, convince ed appassiona grazie
soprattutto al cast eccezionale, in larga parte di provenienza teatrale. Indimenticabili
Randone e Massari, ma anche gli altri risultano all'altezza, ripetendo il
miracolo di identificazione fra attori e personaggi letterari già avvenuto
nei Promessi sposi,
diretto sempre da Sandro Bolchi solo un paio di anni prima.
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