mercoledì 7 luglio 2021

Chi lavora è perduto – Tinto Brass

un film sorprendente, nel 1963 deve aver fatto l'effetto di una bomba, nel pieno del boom economico.

un film che distrugge l'etica del lavoro, che loda il dolce far niente, che mostra che il lavoro è una catena che ti toglie la libertà, è proprio una bomba.

ha degli amici, uno in particolare ci interroga e ci inquieta ancora, sta in manicomio, non ha retto la vita.

Bonifacio e i suoi amici sono comunisti, hanno venduto l'Unità, hanno manifestato contro la polizia, Bonifacio vive a Venezia, quello è il suo mondo, il suo acquario, dove nuota proprio come a casa.

un gran bel film, anarchico, con uno sguardo originale e unico, guardatelo - Ismaele

 

  

 

QUI il film completo

 

 

 

Il primo film di Tinto Brass anticipa temi, luoghi e ossessioni del suo cinema futuro anni settanta e ottanta. Attraverso la figura del protagonista Bonifacio, un giovane disoccupato allergico al lavoro e al conformismo, Brass esplicita tutta la sua indole anarchica accompagnata da causticità, ironia e trasgressione.

 

Il protagonista vagabonda per Venezia alla ricerca di un lavoro ma preferisce sognare, fantasticare e soprattutto ricordare gli episodi più salienti della sua vita con una forte dose di sarcasmo (l’infanzia, i genitori, il militare, la ex ragazza etc.), poi fa visita a due vecchi amici finiti male ed ogni volta riaffiora il suo umorismo corrosivo e il suo disadattamento sociale. Vedendo questa simpatica e per l’epoca davvero irregolare opera prima ci si rende conto che il percorso cinematografico del regista di Torcello era segnato dal destino, infatti sono presenti temi quali “l’elogio della follia intesa come poesia del vivere” e generi come quello erotico che dopo la geniale doppia parentesi de LA MIA SIGNORA  e IL DISCO VOLANTE (entrambi interpretati da Alberto Sordi e prodotti da Dino De Laurentiis) faranno parte attiva della sua filmografia in titoli fortunati e riusciti come DROPOUT e LA CHIAVE. Il protagonista è il godardiano Sady Rebbot e anche nello stile ci sono riverberi del maestro della “nouvelle vague”, nella parte dell’amico Kim c’è Franco “Kim” Arcalli, rivoluzionario montatore e prossimo sceneggiatore di Bernardo Bertolucci  in ULTIMO TANGO A PARIGI e NOVECENTO.  In CHI LAVORA E’ PERDUTO - manomesso e ribattezzato dalla censura con il titolo meno “scandaloso” IN CAPO AL MONDO - Brass oltre a firmare montaggio, regia e sceneggiatura (sarà una consuetudine) doppia con accento veneziano il bravo attore di teatro Tino Buazzelli.

da qui


scrive Marcello del Campo:

Vorrei tanto che un bel giorno tutti coloro che hanno un’occupazione o una missione da svolgere, uomini e donne, sposati o no, giovani e vecchi, seri o superficiali, tristi e allegri, abbandonassero le loro abitazioni e le loro incombenze, rinunciando a ogni dovere e obbligo, per uscire in strada e non fare più nulla. Tutta questa gente abbrutita che sgobba senza sapere perché, e si illude di contribuire al bene dell’umanità, che fatica per le generazioni future sotto l’impulso della più sinistra delle illusioni, si vendicherebbe allora di tutta la mediocrità di una vita vana e sterile, di tutto questo spreco di energia privo dell’eccellenza delle grandi trasfigurazioni.
 
[E.M. Cioran, Taccuino di Salamanca, Ediz. Adelphi]
 
Forzati del pubblico impiego, perdigiorno, sognatori, falliti di rango, la letteratura ne ha raccontato le gesta (se si può usare questa parola per i nostri simpatici anti-eroi) in innumerevoli racconti, romanzi e bozzetti. Nell’Ottocento sono le vignette di Punch e Grandville che disegnano il sottobosco delle anime che disdegnano di assecondare la vittoria del Capitale, quando non esitano a lanciarsi palline di carta arrotolata come nelle prime pagine di Papà Goriot, ma sono sufficienti, senza l’ausilio della rappresentazione grafica, le memorabili mezze maniche descritte da Balzac e Dickens.
Il culmine dell’attaccamento/ripulsa alla scrivania è Bartleby lo scrivano di Melville, il suo “preferirei di no” è lo slogan più anti-lavorativo che mai sia uscito dalla bocca di un mesto servitore delle scartoffie. Sicuramente è qualcosa di più rivoluzionario che battere i pugni sulla scrivania e licenziarsi.
Bartleby è la negazione del lavoro, l’assertore, eroico fino alla follia, del tempo liberato dalla condanna delle otto ore e dello straordinario. Lo straordinario per i tipi come Bartleby è vita rubata, sottrazione colpevole del tempo breve del transito dell’uomo sulla terra.
Il lavoro è una maledizione biblica: “Lavorerai con il sudore della tua fronte!”, “Ma chi l’ha detto?!” rispondono all’unisono le mille voci che si levano dalle maniche di Policarpo ufficiale di scrittura e dalla tasca del Cappotto di Gogol. “Noi non vogliamo lavorare e basta!”
“Chi non lavora non fa l’amore”, canta il re degli ignoranti, “Non è vero”, rispondono all’unisono le mille voci che escono dal sottopancia, “se non lavorassimo non faremmo altro che l’amore, senza vergognarci delle defaillance del sabato sera!”
 
Fannulloni, malati immaginari con ricetta medica falsa, caparbi muli che fanno le parole crociate nei cessi, che vanno a fare la spesa invece di riempire moduli in sanscrito, vanno in pensione come se uscissero da Alcatraz. Il giorno dopo essere andati in pensione si accorgono che la paura del vuoto è un’invenzione del capufficio: un mondo nuovo si apre ai loro occhi, panchine nei parchi pubblici, seduti a guardare le nuvole, finire quel maledetto puzzle con la faccia della Gioconda, giocare solitari con le pudenda per vedere se ci sono ancora, ficcarsi le dita nel naso senza disturbo, suonare il basso tuba coperto da deserti di polvere, acquistare un revolver per andare a ritirare in pace la pensione.
Finito il lavoro, finita la vita: del fondo amaro dell’esistenza si accorgeranno di lì a breve, quando la pensione coprirà le spese del funerale.
Viva Drugo Lebowski, inarrivabile campione nullafacente, gloria alla fannullaggine di Charlot, ai peripatetici flaneur delle strade e i sottoponti di Parigi amati da Benjamin, agli schnorrer-yiddish di Zangwill, ai perdigiorno di Eichendorff, ai pitocchi e ai picari di Terra di Spagna.
Pochi registi come quelli della playlist hanno rappresentato con sapido gusto le vite cristallizzate della marginalità che si nega al lavoro o che dal lavoro sono state ridotte a still life.
Potevano entrarci altri registi di valore, ma i loro impiegati nutrono scampoli di speranza. Ma di questi tempi la speranza l’è morta. Non resta che una risata metafisica tra le bombette di Magritte, le esitazioni di Tati e tante figurine che somigliano ai rebus.  

da qui

 

…La politica ha un ruolo fondamentale nel film, in quanto anche su questo argomento Bonifacio nutre diversi dubbi. Gli amici che lo circondano sono per lo più di sinistra, ma laddove Claudio riesce a far convivere la propria ideologia con un lavoro borghese, Tino impazzisce e viene messo in manicomio dopo essere stato picchiato da un gruppo di fascisti anni prima. I critici all’epoca non sapevano bene se parlare della pellicola come di un’opera anarchica o apolitica. Michelangelo Notariani scrisse su Cinema Nuovo n. 168 del 1964:

Il prepotente peso di una educazione familiare reazionaria e autoritaria, le ambigue imposizioni clericali, la negazione di una autentica e consapevole libertà sessuale, le conseguenze tragicomiche della decisione di far abortire la propria ragazza, le assurdità del servizio militare, il disgregarsi delle amicizie e della solidarietà giovanili, l’incapacità (o l’esclusione) dei militanti partigiani e sindacali a inserirsi in un deteriore “nuovo corso” (…) Brass ha tentato di includere, di proporre e di risolvere tutto questo in una esplosione di sensazioni soggettive alternate a immagini semi – documentaristiche, in un lungo e snervante monologo che si visualizza ricorrendo a ogni tecnica immaginabili

La conclusione del film non porta realmente ad una svolta, ma sovrappone sempre più fantasie del protagonista che s’immagina mentre svolge diversi impieghi, finché una visione mistica costringe Bonifacio a guardare in faccia alla realtà: l’immagine di Gesù sulla facciata di una chiesa lo ammonisce dicendogli che ormai non è più un bambino, ma un uomo “…Un òmo che no ha voglia de laoràr”. E a questo punto egli non può fare altro che accettare il fatto che, come tutti gli hanno sempre detto, “Il lavoro nobilita l’uomo. C’era anche scritto sul cancello di Auschwitz che il lavoro rende liberi”.

hda qui

 

Surreale e con un tocco di Godard, ecco l'esordio 'spigoloso' di Tinto Brass alla regia. Non è un film facile perchè consta interamente del flusso di pensieri del protagonista in vagolante, disordinata successione; flashback e realtà si avvicendano e certi espedienti registici rimangono sospesi fra l'affascinante ed il destabilizzante, denotando un gusto tutto suo per il curioso e per il drastico. E' però un lavoro 'simpatico', che fa di tutto per fare risultare il protagonista Bonifacio una vittima della società e delle sue crudeli leggi, per farcelo vedere come una sorta di sensibile innocente destinato alla punizione ingiusta. Opera interessante e che certo non prelude a quanto Brass riuscirà a combinare fra qualche anno.

da qui

 

Quando il cinema italiano era sperimentale, coraggioso, militante, libero e bello. Quasi un docu-fiction a tratti futurista, ritratto con una spiccata sensibilità fotografica in uno splendido bianco e nero. Mi piace proprio questo film che celebra la vita (asociale) in modo semplice, infantile, al di fuori delle convenzioni. Un'Italia in cui mi riconosco. Volti autentici. Bravo.

da qui

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