Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo –
Boris Sollazzo
Libero De Rienzo, attore straordinario. Libero De Rienzo,
padre amorevole. Libero De Rienzo, amico geniale.
Potevate scrivere parole così, colleghi. Potevate
raccontarlo da vivo, lui che in pochi anni ha illuminato l’arte cinematografica
italiana, come interprete incredibilmente versatile e regista di un unico
grande film, Sangue – La morte non esiste. Sottotitolo beffardo oppure
incredibilmente vero, chissà.
Sono un suo amico. E sono un
giornalista. Conosco sua moglie, i suoi figli, molti suoi amici. E conosco pure
i miei colleghi, molti direttori, troppi caporedattori. E so che l’attore di
sinistra, duro e puro, trovato con della droga a casa è qualcosa di troppo
goloso per l’aridità avida di una categoria che funziona ormai con i trend
topic, il Seo, le ricerche su google ma soprattutto con i titoli ad effetto, le
fake news o solo il particolare scabroso. Mentre ridevamo dei tabloid,
l’informazione italiana è diventata spazzatura e noi giornalisti non siamo
neanche capaci di fare i netturbini, siamo quelli che la danno alle fiamme.
Con Libero De Rienzo, che non aveva
la corazza protettiva del grande maestro a cui il servile giornalismo nostrano
si inginocchia anche da morto né faceva paura come quel boss romano a cui, in
condizioni analoghe, non è stato riservato lo stesso trattamento, l’intera
filiera della cronaca nera ha dato il peggio.
Intendiamoci, quello del cronista
di nera è un mestiere ingrato, bastardo, ambiguo. Da sempre. Chi ha qualche
anno in più sa che prima dei profili social, i più sgamati dei colleghi
saccheggiavano le case delle vittime di atti violenti, magari intervistando i
congiunti e rubandosi da un portaritratto la foto giusta. Ma almeno consumavano
suole di scarpe e neuroni, avevano rispetto del lettore e delle persone
coinvolte, operavano riscontri e torchiavano le fonti.
Ora i giornalisti di nera – ma vale
anche per quasi tutti gli altri, pensiamo alla giudiziaria – sono cassette
della posta. In cui procure, questure e non solo infilano le loro veline. E con
la schiena piegata non dal duro lavoro, ma dalla sudditanza, si prestano a far
da altoparlante, megafono, strumento di toghe e divise. Siamo in zona
ventennale del G8 di Genova: ricordate la trasmissione di Vespa sulla morte di
Carlo Giuliani? Se sì, sapete di cosa parliamo – l’ipotesi più credibile di
quel Porta a Porta? La pallottola più pazza del mondo, un incrocio tra
quella che uccise Kennedy e raccontata da Kevin Costner in JFK – un caso
ancora aperto e una gag di BeepBeep e Willy il Coyote – non c’è bisogno di
dire altro.
Con Libero De Rienzo facciamo un
po’ schifo tutti. Anche i lettori, che cercano, vogliono, consumano questa
spazzatura come fosse caviale. I caporedattori e i direttori che chiedono certi
titoli, certe notizie, i colleghi che si sono dimenticati quanto e cosa hanno
studiato per fare l’esame da professionisti. Che la deontologia l’hanno buttata
insieme al rigore in quella spazzatura di cui prima.
Il sospetto, a volte bisogna avere
lo stesso coraggio di Picchio nel dire le cose come stanno, è che
nell’accanimento attuale contro un giovane uomo che al talento univa la voglia
di ingaggiare battaglie scomode – contro la violenza della polizia, il sistema
penitenziario, la strategia repressiva dello Stato, le ingiustizie sociali, il
pessimo giornalismo – ci sia una gran voglia di vendicarsi di tutte le
categorie coinvolte.
Altri – il boss succitato (e
giustamente, tutti devono essere tutelati nei propri diritti fondamentali e la
privacy è uno di questi), ma anche manager e imprenditori – sono stati
protetti, perché un’autopsia non è un avviso di reato, ma su corpi giovani è
necessaria. Eppure non si vede l’ora, qui, di aprire un’inchiesta, le forze
dell’ordine sono state subito un colabrodo di indiscrezioni (“polvere bianca
tra salotto e cucina, crack, una dose in una bustina di cellophane” neanche
parlassimo della serie Narcos, con tutte le testate, dalla più importante al
sitarello più spregiudicato a scrivere tutto, sotto dettatura), ipotesi (“non
si può escludere che” è una frase schifosa in italiano, figuriamoci in un
articolo su un padre morto così giovane), improbabili testimonianze non
riscontrate di chi lo aveva visto nelle ultime ore.
Sì, Libero De Rienzo era mio amico.
Libero è mio amico. Ma vale per tutti gli indifesi, da una ragazza giovanissima
morta sul lavoro a poveri villeggianti su una funivia, ostaggi anche da morti
delle trattative Stato-stampa, baratti “rattusi” in cui una vita viene esposta
e sezionata dai curiosi per fare un favore a chi potrebbe passarti un giorno,
in anticipo rispetto agli altri, un’ordinanza, una soffiata su un’inchiesta dal
nome evocativo, il luogo di un arresto illustre.
Eravamo i cani da guardia della
democrazia, ora siamo solo topi di fogna che si accontentano delle briciole,
dei rifiuti, dei resti putrefatti del Potere.
Morte di
Libero De Rienzo, ecco perché abbiamo scritto (e continueremo a scrivere)
dell'eroina - Marco
Mensurati
Ci sono un paio di domande che in queste ore da più parti ci vengono poste
con una certa insistenza (e con diversi gradi, diciamo così, di civiltà).
Era proprio necessario raccontare tutti i dettagli della morte
dell'attore Libero De Rienzo? E poi ancora, e forse soprattutto, non si
poteva omettere il dettaglio del ritrovamento dell'eroina?
La risposta, ovviamente, è sì, era proprio necessario. E no, non si poteva
omettere un particolare così rilevante. Possiamo discutere sui toni e le forme
- che nel caso di Repubblica pensiamo siano state
inappuntabili - ma sulla necessità del racconto giornalistico non ci sono
dubbi.
E il motivo è semplice. I giornali pubblicano le notizie. Devono farlo, è
la loro missione, il loro senso, il loro valore.
A volte questo paradigma rende il mestiere di giornalista duro, difficile,
scomodo. Anche antipatico. Succede soprattutto con la cronaca nera, la specialità
più difficile. È successo anche stavolta.
Muore un attore bravissimo e amato come De Rienzo, un padre di famiglia, un
insolito e laterale intellettuale della malconcia scena italiana, e il suo
pubblico, i suoi amici, i suoi affini, non vorrebbero altro che stringersi nel
dolore in una composta e silenziosa celebrazione.
Il compito di un giornale e di un giornalista, però, non è quello di
celebrare. Ma di raccontare i fatti. E se la notizia, come in questo caso, è
una bustina di eroina trovata nella casa dell'attore, non pubblicarla sarebbe
un errore. Grave. E pericoloso. Perché salterebbero i meccanismi di controllo e
di imparzialità che sono alla base del rapporto con i lettori.
Il giorno in cui i giornali dovessero smettere di pubblicare le notizie, o
peggio dovessero scegliere quali pubblicare - anche se lo facessero usando un
criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato -
sarebbe un giorno un po' più simile alla notte.
Colpisce in particolare che molte delle critiche arrivate ai giornali
provengano da una ben determinata categoria di persone. Intellettuali del
cinema, professionisti della comunicazione, persone per dirla in breve che
avevano una frequentazione diretta e personale con De Rienzo e con la sua
famiglia.
In molti di questi casi l'impressione che si è avuta è che gli amici
stessero implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una
sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo
intellettualmente). Nulla di più.
Nessuno di loro, diciamolo per inciso, ha sollevato un sopracciglio quando abbiamo raccontato, con la medesima professionalità, la vicenda della giovane Maddalena Urbani, figlia di Carlo Urbani, il medico eroe che isolò la Sars.
Parlammo del ritrovamento del suo corpo, della morte per probabile arresto
cardiaco, del sequestro dell'eroina e degli psicofarmaci, scrivemmo
dell'autopsia e delle indagini partite dalle analisi del suo telefonino e
infine raccontammo dell'arresto dell'uomo che le aveva dato la droga.
Nessuno del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali ci
trovò niente di strano. Quelle erano notizie, noi stavamo facendo il nostro
mestiere. E loro non erano amici di Maddalena.
Quella reazione “isterica” dei giornaloni su
Libero De Rienzo – Boris Sollazzo
Sarebbe stato ingenuo da
parte di chi scrive e chi pubblica questo giornale pensare che il pezzo “Noi cronisti
e la spazzatura su Libero De Rienzo” non avrebbe provocato un
terremoto, soprattutto nell’ambito giornalistico.
La diffusione
dell’articolo, condiviso da migliaia di persone, ha fatto il resto.
Più sorprendente è però la
reazione scomposta e più o meno isterica dei due grandi giornali, mai citati
esplicitamente nell’articolo ̶ ma ovviamente, nessun problema a
specificarlo, ci riferivamo in particolare al modo in cui Repubblica e Corsera
avevano trattato la vicenda e loro si sono riconosciuti ̶ e
esplicitata in due editoriali a firma Alessandro Trocino e Marco Mensurati.
Il primo più garbato
inizia furbescamente citando un passo di Fortapasc e poi con una prosa
elegante e insinuante chiude dicendo che “chiedere un trattamento di favore per
qualcuno, solo perché è amico, o di sinistra, o scomodo, questo sì, sarebbe
ingiusto”, il secondo più muscolare, dice che loro questo tipo di giornalismo
lo fanno da sempre e che nel caso di Maddalena Urbani (figlia di Carlo, medico
eroe che isolò il virus Sars) nessuno “del circolo intellettuale che oggi
ringhia contro i giornali” reagì male. E poi anche lui non resiste e sostiene
che “gli amici” stiano “implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile,
invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche
solo intellettualmente). Nulla di più”.
Ora, qui crediamo nella
forza del confronto e della dialettica, e proveremo a fare quello che i due
illustri colleghi non hanno fatto: rispondere nel merito. Nel caso del pezzo
del Dubbio c’erano riflessioni circostanziate che i due hanno dribblato
preferendo l’attacco personale (Trocino ha avuto il buon gusto di citare autore
e articolo, Mensurati no), cavalcare una populista accusa di opportunismo
elitarista contro la casta dei cinematografari piuttosto che provare a
costruire un dibattito adulto, responsabile, maturo. E soprattutto necessario a
una categoria che ha perso conoscenza e orientamento tra i punti cardinali
della professione.
Proviamo a farlo noi, pur
riconoscendo ai due giornali un’ottima capacità strategica. Trocino scrive un
editoriale nella newsletter del giornale (Il punto) per giocare in casa con un
pubblico di parte, Repubblica sceglie Mensurati, uno dei pochi cronisti che
affronta onorevolmente il proprio conto, perché a difendere l’indifendibile
mandi sempre quello che non ha scheletri nell’armadio.
Vecchie tattiche che però
danno poco al dibattito, che è quello che interessa a noi (e infatti chi scrive
ha usato spesso la prima persona plurale: il problema è di sistema, non solo
della categoria).
Partiamo dall’accusa di
“amicizia”. Cari colleghi, chi scrive ha dichiarato la propria amicizia per un
eccesso di zelo, per quell’onestà intellettuale dimenticata da troppi nel nostro
lavoro. Se tutti dichiarassimo chi ci ha passato cosa (va bene proteggere una
fonte, ma vi guardate bene anche dal far solo intuire da che ambiente arriva la
notizia) o appunto l’amicizia con chi è il protagonista dei nostri scritti, i
nostri lettori avrebbero tutte le possibilità di giudicare e giudicarci. Invece
la maggior parte dei nostri articoli sono figli di un’imparzialità tutta
presunta: siamo cittadini e uomini e abbiamo il dovere di essere sinceri con
chi ci legge. Io l’ho fatto, per dare a tutti la possibilità di giudicare con
obiettività sia l’autore sia cos’aveva scritto.
E infatti vi ha dato la
possibilità di accusare “il circolo intellettuale”, “gli amici del cinema”. Voi
lo fate? No, mai. Ed è sbagliato, soprattutto in un giornalismo così suddito
come il nostro.
Trocino poi, dopo aver
tirato di nuovo fuori Siani piuttosto a sproposito, parla della richiesta del
lettore di non essere sgradevoli e fa intendere che no, la cronaca e in
particolare nera, non può non esserlo perché tale è la realtà. Mensurati, che
al posto del fioretto ha inforcato la spada, si vanta semplicemente del fatto
che il suo giornale è stato altrettanto sgradevole con Maddalena Urbani, appena
maggiorenne. Affascinanti modi di giustificare la violenza gratuita e pretestuosa
di certi articoli. Siccome sono giornalisti ricordiamo loro i fatti: ad ora non
si è riuscita neanche a stabilire la causa della morte. Ma loro senza entrare
in casa del morto, hanno scritto di strisce bianche tra salotto e cucina, di
buste di cellophane con eroina dentro, di “non si può escludere che”. Qui non
si tratta di sgradevolezza, si tratta di obbedire a due regole base, che
nell’articolo precedente non abbiamo sentito il bisogno di ricordare per un
eccesso di fiducia nel genere umano e nella categoria: dopo i frequenti
dibattiti degli ultimi anni sul segreto istruttorio, eravamo convinti che anche
ai più duri di comprendonio dei colleghi fosse entrata in testa che non li
vogliamo gradevoli, ma solo operanti nella legalità. E che il diritto di cronaca
ha il suo argine nel non condizionare l’inchiesta e il buon esito della stessa.
E dovendo prendere per buone le indiscrezioni dei loro articoli, il presunto
spacciatore omicida avrà avuto ogni possibilità di fuga, inquinare prove e
testimonianze. Non vi chiediamo gradevolezza, ma correttezza. Non vi accusiamo
di aver scritto che la procura lavorasse sull’ipotesi investigativa di “morte
come conseguenza di altro reato”, siamo indignati per aver esposto al pubblico
ipotesi che non potevano non essere che frutto di veline di inquirenti e forze
dell’ordine, non notizie. Perché il nostro è un mestiere di fatti, non di “si
dice”, di “polveri bianche”.
Il problema è che citando
Siani (siamo bravi anche noi a farlo) ci sono giornalisti-giornalisti e
giornalisti-impiegati. E aggiungiamo noi, giornalisti stenografo. Quelli che
ricopiano fedelmente le parole, le indiscrezioni, i pareri di una delle parti
in causa. Di quelli che dovrebbero essere oggetti dei loro controlli. Abbiamo
appena scavallato il ventennale di Genova 2001: immaginate se di fronte alla
Diaz i cronisti si fossero bevuti la balla delle molotov o delle ferite
pregresse.
Hai ragione Trocino, ci
sono anche giornalisti-giornalisti. Ma il sistema premia gli altri. Il nostro è
un albero pieno di mele marce e dovremmo nasconderci dietro quel dieci per
cento di frutta non guasta?
Tornando a Mensurati, che
ha la sventura di scrivere per un quotidiano che la bussola l’ha persa da
parecchio, il suo pezzo è piuttosto spericolato. Ha la furbizia di non citare
il sottoscritto, ma un generico “circolo intellettuale” – pescare a strascico
evidentemente è un vizio, cosa viene su poco importa -, ma dimostra di non
essere informato (la stessa penna che si è scagliata contro i giornalisti che
hanno affrontato l’affaire De Rienzo si è indignato per il trattamento a Silvio
Berlusconi e Lapo Elkann, non proprio l’identikit che darebbe dei propri
“amici”) e di ignorare le regole elementari della professione. Si trincera
dietro Maddalena Urbani e il fatto che il circolo dei cinematografari non
l’abbia difesa, un benaltrismo carpiato che lascia basiti solo a ripeterlo. Con
retorica grillina insinua che la élite se ne freghi della gente normale, ma non
risponde nel merito.
Sì, cari colleghi, perché
quello che manca nelle vostre editorialesse permalose e risentite sono le
risposte.
Diteci, è vero o no che i
cronisti di nera sono cassette della posta che attingono per le loro notizie
quasi esclusivamente da ciò che gli elemosinano le forze dell’ordine?
Curiosamente a questo non avete risposto.
E ancora, come mai nei
vostri apodittici “le notizie vanno date, perché sì, pappappero” non citate
capisaldi della nostra società civile, del nostro ordinamento e della
professione come il rispetto del segreto istruttorio (ah, se la risposta è: lo
fanno tutti, avete la risposta sul perché a malincuore ho sottolineato che da
cani da guardia siamo diventati topi di fogna).
Non ci sono carte
deontologiche che proibiscono il 70% delle cose che avete scritto nei vostri
pezzi?
Sfruttare il peso della
propria firma e della propria testata per fare bullismo a un collega che
solleva un’autocritica su cui dovremmo confrontarci, su un ambiente ferito che
ha reagito compostamente, è davvero il compito del giornalista?
E ancora, se è vero che
per voi i morti sono tutti uguali, perché un grand commis dello Stato italiano
che si suicida viene trattato con (giustissimo) rispetto e così il tentativo di
suicidio di una dirigente di un ministero di cui erano tutti amici (qualcuno
come me ha avuto il buon gusto di dirlo), e in entrambi i casi c’erano lati
inspiegabili della vicenda o comunque di difficile interpretazione? Non sarà
che il trattamento di (s)favore lo fate voi? L’attore con dipendenze, nella
penuria di notizie di luglio, con simpatie politiche scomode e battaglie anche
più antipatiche per Stato e istituzioni, può essere trattato con meno empatia
dei potenti da proteggere? Ci sono morti più uguali delle altre per cui ci si
può dimenticare più serenamente le regole che con quel tesserino ci impegniamo a
rispettare? E pure il codice penale?
Poi, facciamo un gioco, vi
va? Prendiamo i pezzi usciti sui maggiori giornali e siti. Togliamo gli autori.
Presentiamoli come compiti al prossimo esame da giornalisti professionisti. E
vediamo chi e quanti verranno bocciati. Mensurati dice che se i giornali
smettessero di dare le notizie “usando un criterio nobile e umanamente
accettabile come quello del dolore arrecato – sarebbe un giorno un po’ più
simile alla notte”. No, è già notte perché per dare delle non notizie, per
farvi megafono di altri, al dolore arrecato neanche pensate. Tra il potere e i
deboli scegliete il primo, pure fieri.
No, con Picchio non stiamo
proteggendo un amico, noi vogliamo difendere tutti. E sì, il dolore di vederlo
schiacciato in un personaggio funzionale di bassa lega, un brutto racconto
d’appendice, ci ha ferito. Come ci ferisce quando un femminicidio diventa un
romanzo Harmony “in cui lui l’amava troppo”.
Colleghi, riflettiamo. Se
questa (auto)critica ha così colpito l’immaginario di tutti, è perché il
problema non è Libero, ma anni in cui si è fatta carne di porco del nostro
mestiere, prima per qualche copia, poi per qualche click in più. E una
supercazzola isterica e affatto argomentata come risposta non aiuta. Se i
nostri lettori – i nostri primi referenti, ricordiamolo, a cui non dobbiamo
obbedire ma che dobbiamo rispettare – si indignano così e da tanto, troppo
tempo, abbiamo un grosso problema. Ma vuol dire ancora che non si sono arresi,
loro. Se si arrabbiano, sperano ancora in un’informazione migliore.
Torniamo degni di chi ci
ha insegnato il mestiere, torniamo degni della nostra passionaccia.
Confrontiamoci, invece di replicare le dinamiche di potere di una società che
dovremmo raccontare, migliorare e non assecondare nei suoi bassi istinti.
Sì, Picchio era mio amico.
Ma rimango un giornalista.
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