sabato 3 luglio 2021

Pagine chiuse - Gianni Da Campo

a metà strada fra Zero in condotta di Vigo e a I 400 colpi di Truffaut e i primi film di Ermanno Olmi, Gianni Da Campo, a 23 anni, sotto la "protezione" di Valerio Zurlini, gira, nel 1966, un film che uscirà nel 1968.

è una piccola storia, di un ragazzino di 11 anni, Luciano, mandato in collegio, è un film contro la chiesa e contro la famiglia, ed è bellissimo, commovente, scioccante.

se ti vuoi bene cercalo, se no peggio per te, non saprai mai cosa ti perdi - Ismaele


 

 

Ha senz'altro ragione il visibilmente commosso Gianni Da Campo a sottolineare con forza il radicale anticlericalismo del suo splendido Pagine chiuse, subito dopo la proiezione tributatagli da una Mostra veneziana di quarantaquattro edizioni successive a quella che lo vide esordire. Ha ragione, questo isolatissimo autore di tre soli lungometraggi (gli altri sono La ragazza di passaggio, 1972, e Il sapore del grano, 1986), a ribadire che l'educazione cattolica, come quella "subita" dal suo piccolo (undici anni) Luciano costretto a vivere in collegio dopo il divorzio dei genitori, è stata a lungo una vera e propria piaga che nei decenni e nei secoli ha prodotto danni incalcolabili per generazioni e generazioni di italiani. È insomma vero che, come dice nella stessa occasione Da Campo, non foss'altro che per questo motivo la sua opera prima vale come importante testimonianza di cui tener conto anche nel nostro presente (e oltre). Tuttavia, rivedere oggi questo suo esordio dietro la macchina da presa ripensando all'anno in cui vide la luce (1968), fa pensare non solo a un oggetto del passato che chiede cittadinanza nel nostro presente, ma anche, inevitabilmente, a uno sguardo che fu capace di posarsi sugli anni della contestazione come provenisse dal futuro.

 

Benché il racconto non esca mai dal perimetro di un collegio, e racconti di frustrazioni pre-adolescenziali a contatto con un mondo chiuso e angustamente pretesco, e di atmosfere che, a detta dell'autore stesso, si riferiscono più che altro al decennio precedente, ci si pensa eccome, alla contestazione che in quell'anno di climax già intravedeva la sua eclissi imminente. Quella di Luciano è una ribellione che non si smette mai di avvertire, ma che, nonostante una sempre crescente autocoscienza, non perviene mai a una forma, a un'eruzione, a un'espressione. A contatto con un ambiente mortalmente asfittico che rinuncia a qualsiasi ambizione vitale soffocandola in un appiccicoso, conformista cameratismo da quattro soldi, Luciano si macera in uno struggimento sommesso che non si avrebbe nessuna ritrosia a definire blues. La sua sensibilità "da scorticato vivo" (sono parole di Jacques Lourcelles), Da Campo la tiene sotto a un registro di efficace understatement, ottenuto anche attraverso un sapiente utilizzo dell'opacità e della reticenza espressiva degli attori. E dentro a questa coltre di uniformità, che marca stretto il grigiore di quell'ambiente, si aprono sistematicamente epifanie in cui all'improvviso quel mondo viene messo davanti, attraverso Luciano, alla coscienza della propria miseria. E ognuna di quelle volte, anche se poi tutto continua come prima, è come se si spalancasse l'abisso.

 

Valga per tutte la scena della confessione, nella quale Luciano, rivolgendosi inginocchiato al prete dietro la grata, sposa un'obiettività feroce che ribalta la propria presunta colpa in un'accusa agli accusatori stessi. Lo fa con calma, senza calcare mai i toni – e il regista con lui. Ma si tratta solo della punta dell'iceberg di una sagacia letteraria (il "padrino" del film fu Valerio Zurlini, e non per caso) capace di incrinare pressoché in ogni scena la grigia superficie con sbalorditiva discrezione e misura. Che sia con scene di sussurrato lirismo (l'incontro notturno con una coppia di amanti che si baciano in strada), di inatteso soggettivismo (il "monologo interiore" di immagini mentali sotto la doccia), o di enorme quanto trattenuto potenziale emotivo (l'incontro col padre che viene a dire a Luciano che le vacanze di natale non le trascorrerà in famiglia, ma lì all'istituto), sotto al tran-tran della spenta vita di collegio, la rabbia, la consapevolezza e l'amarezza si fanno sentire attraverso un crescendo che si fa strada lentamente, ma con allucinante regolarità, inarrestabilità e precisione. Fino al travolgente finale, in cui Luciano, pesce fuor d'acqua triste e tranquillo ma non dimesso, compie il semplicissimo ma rivoluzionario gesto di alzarsi ed allontanarsi nel bel mezzo di una funzione religiosa.

 

Anche Da Campo uscirà ben presto dalle scene (del cinema), dopo questo suo magnifico esordio fabbricato con una troupe ridottissima, capace non solo di infiammare la Venezia del 1968, ma anche di impressionare, a Cannes nel 1969, una Semaine de la Critique in cui gli altri concorrenti si chiamavano (fra gli altri) Emile de Antonio, Jean Eustache, Jim McBride, Barbet Schroeder, Fernando Solanas, Alain Tanner. Ma il sasso era stato lanciato, e il 1968 aveva ricevuto dal futuro una bruciante, straziante premonizione del muro invisibile su cui sarebbe andato a sbattere.

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"Pagine Chiuse" è un film misconosciuto nella ricca filmografia italiana degli anni 60. Eppure andrebbe rivalutato. Al netto delle evidenti pecche recitative e luministiche, nonchè di una sceneggiatura talora ripetitiva, resta un'opera valida per il ritratto inedito e spiazzante (specialmente per l'epoca) che l'autore propone dell'infanzia. Siamo piuttosto lontani dai possibili modelli che Da Campo aveva a disposizione: l'anarchismo liberatorio degli enfants terribles di "Zero in Condotta" (Vigo), l'introversione passionale e "fuggitiva" di Doinel (Truffaut), l'infanzia crudele e rapace degli Olvidados bunueliani, quella problematica dei piccoli eroi di De Sica. Il piccolo Luciano di "Pagine Chiuse", agli occhi del regista, è nient'altro che un "apatico". Trent'anni in anticipo sulla "X-Generation" che negli anni 90 si distinse, nel luogo comune ma non senza un fondo di verità, per il disincanto, l'assenza di ideali, di emozioni forti, di prospettive (e che comunque faceva riferimento più ad un contesto adolescenziale che infantile), Da Campo compone un sorprendente ritratto di bambino consapevole del non-senso della sua vita, dei dissesti familiari, degli assurdi ed oppressivi dogmi del collegio cattolico. Colpisce in particolare la scena del dialogo col padre: sembra un confronto fra due adulti, tanto sono maturi i ragionamenti del bambino. Luciano non è affatto un puro: è un trasgressore, un peccatore, uno strafottente, per quanto mite caratterialmente. Non vìola le regole per capriccio, per istinto, per attrazione verso il proibito, ma semplicemente perchè non le comprende. Il suo spaesamento nei confronti di una società sorretta da logiche paradossali trova un riflesso nelle opache ed irrisolte fughe oniriche, dove l'oggetto del turbamento o del desiderio non trova una forma precisa (la gelosia "edipica" verso l'amico più grande e smaliziato del protagonista degli "Olvidados" di Bunuel; l'ossessione feticista per il cinema nei "400 Colpi" di Truffaut), ma solo dissestati ed enigmatici paesaggi urbani o campestri e vaghi simbolismi. Da Campo sa alternare un placido realismo d'ambiente sulla scia del miglior Ermanno Olmi ("Il posto", "La cotta"), con momenti di tenera poesia (come quando evoca le prime pulsioni sessuali con il dettaglio in "flue" dei capelli di una donna; o la melanconia dell'incontro con la madre). Ma i due momenti topici sono forse il perentorio incipit (con un significativo uso di ombre e voci off) e la chiusa dai connotati metaforici. Luciano si mette a nudo in Confessione, tenta di approcciarsi seriamente alla Fede cristiana, ma viene beffato da un malinteso "liturgico": è la vittoria definitiva dell'assurdo Dogma sulla spontaneità e la libertà del pensiero e dei sentimenti. E a quel punto, in mancanza di altri supporti ideologici e culturali, l'unico modo per sopravvivere è forse proprio l'apatia.

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…Armati di una 16mm caricata a molla e di un enorme calderone di idee, i tre si lanciarono a corpo morto sulla messa in scena della storia del piccolo Luciano, costretto alla vita in collegio religioso a seguito della separazione dei genitori nel dopoguerra dell’entroterra veneziano. Ne viene fuori un film che a prima vista potrebbe apparire figlio dell’esperienza autoriale di François Truffaut e della nuovelle vague, ma che in realtà sembra guardare più dalle parti di Jean Vigo e del suo capolavoro Zéro de conduite – non a caso, effettivamente, alla base anche dell’idea primigenia de I quattrocento colpi. Mentre l’inquietudine di Antoine Doinel rientra nell’ottica del coming of age, pur non disdegnando stilettate ai poco ortodossi metodi di educazione, è nella “vendetta” degli scolari Caussat, Bruel, Colin e Tabard che si può respirare quell’ansia di cambiamento e di non accettazione delle regole imposte che agita anche Luciano Mainardi, costretto a vivere in un universo che non capisce – non ha neanche ricevuto la prima comunione, nonostante tenga nascosto questo particolare ai compagni di collegio e ai preti che lo gestiscono – e dal quale non viene neanche preso in considerazione. Se il “signor professore, io vi dico merda!” esclamato da Tabard all’indirizzo del professore e del preside segnava un punto di non ritorno nella critica all’istruzione omogeneizzata e imposta dall’alto, i dialoghi di Luciano con i preti, culminanti della splendida sequenza della confessione, scardinano dall’interno il principio stesso di impartizione del sapere: pur senza mai scadere nella mera esecuzione di un film a tesi, ed eludendo con eleganza qualsiasi rischio di retorica spicciola, Da Campo attacca frontalmente l’ipocrisia del potere religioso – con una veemenza e una coerenza etica ed estetica a paragone del quale l’invettiva anti-ecclesiastica de La mala educación di Pedro Almodóvar appare puerile, confusa e raffazzonata – e allo stesso tempo traccia un ritratto angosciante e pessimista della geografia umana nell’Italia a pochi anni dal boom economico. Senza alcun aiuto esterno, facendosi beffe di quella che all’epoca era ancora un’industria fiorente, dimostrando una volta per tutte che l’espressione artistica può germinare anche dove non ci sono fondi e non c’è assistenza: cinema autarchico e fieramente indipendente, di nome e di fatto, che non ha timore nel mettere in scena un universo cattolico in piena decadenza – suggerendo perfino, ma anche lì senza farsi prendere dalle fregole del sensazionalismo, una fascinazione pederastica tra prete e bambino – e una società ancora lontana dalla reale liberazione dal bigottismo morale, come dimostra in maniera lampante il personaggio paterno.

A illuminare ulteriormente la scena è poi la scelta del protagonista, ovviamente non professionista: una recitazione di rara intensità, sincera e mai succube dei birignao cui spesso fanno ricorso i bambini-attori (si veda la struggente incursione nella sala dove le donne stanno rammendando i vestiti degli scolari). Da Campo, cosciente della necessità di liberare il cinema italiano dalle costrizioni della sceneggiatura e della messa in scena preordinate e classificate, si adatta a una narrazione episodica, slabbrata, fluttuante come i tagli di montaggio lavorati nel final cut anche da Valerio Zurlini – che il regista aveva avuto modo di conoscere per via epistolare quando aveva appena diciotto anni e che aveva visionato una prima copia del film, della durata di tre ore e senza traccia audio. Il risultato, troppo eretico e coraggioso per l’epoca, ricevette plausi unanimi ma venne ben presto rinchiuso nel più buio dei cassetti. Ne esce ora, a distanza di più di quarant’anni, grazie alla Mostra del Cinema e all’Istituto Luce, permettendo al popolo cinefilo di riappropriarsi di un capolavoro perduto nelle nebbie del tempo.

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Le pulsioni antiautoritarie di fine anni Sessanta soffiano, con i loro venti di ribellione, sul film diretto da un giovane Gianni Da Campo, assistito da Valerio Zurlini. Ma sono venti mitigati dal tocco lieve e sensibile di una regia intimista, interessata più al racconto di un piccolo dramma individuale che alla fotografia del contemporaneo disagio sociale. Certo, la critica a un mondo ostile, autoritario, repressivo e ipocritamente religioso è evidente e traspare con grande impatto dalla sequenza sulla comunione. Eppure, il regista si concentra soprattutto sulla sofferenza, tutta interiore, del ragazzino protagonista, alle prese con una difficile situazione familiare. Anziché spiegargli i problemi nel rapporto con la madre, il padre lo taglia fuori, allontanandolo brutalmente da casa e dai suoi affetti più cari. Un cambiamento così radicale sconvolgerebbe chiunque e l'ostilità dei religiosi, tesi a impartire una rigida disciplina, secondo metodi educativi tanto in voga all'epoca, non fa che peggiorare il disagio di Luciano, un pesce fuor d'acqua in collegio, anche rispetto ai compagni.
Da Campo rappresenta questo isolamento con immagini emblematiche, come quella del pulcino nero che il ragazzino mette nella gabbia con i bianchi, per vedere «se mangia con gli altri». Anche il senso di oppressione provato da Luciano è messo in scena plasticamente, con quello sguardo sognante che vola oltre la finestra del severo corridoio del collegio, in quell'intenso bisogno di libertà simboleggiato da un piccione che si libra in cielo. Queste immagini così dolenti e sensibili, sincere e pudiche, sono il punto di forza di un film - restaurato in digitale a partire dai negativi originali in 16 mm - che si richiama a illustri predecessori, quali 
I quattrocento colpi di François Truffaut e Zero in condotta di Jean Vigo, pur non possedendo il toccante lirismo del primo né l'impatto iconoclasta del secondo.

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Genitori in procinto di separarsi affidano il piccolo Luciano a un collegio di religiosi. Il giovanissimo friulano G. Da Campo, assistito da Valerio Zurlini, debutta con un film in cui descrive con sensibilità dolorosa il duro impatto di un bambino con un mondo ostile, repressivo e ipocritamente religioso. Girato in 16 mm, non privo di difetti tecnici (tra cui un doppiaggio approssimativo), è uno dei più singolari film marginali del cinema italiano. Fu giustamente accostato a Zero in condotta di Vigo e a I 400 colpi di Truffaut, pur non possedendo né l'acre ribellismo del primo né il lirismo del secondo. Al loro posto pudore, sincerità e la desolata testimonianza di una sconfitta.

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il film di Da Campo mostra una scelta estetica meditata e consapevole. Le inquadrature non sono “occasionali”, ma frutto di una riflessione. Il racconto è cauto e quotidiano, scandito da piccoli eventi, in un confronto costante con le leggi violente di una “formazione sociale” fondata sulla privazione e il non-rispetto dell’individualità. E’ costante anche il confronto col sacro, sia nelle sue forme istituzionali (il terribile prete) sia nella sua presenza in atti e consuetudini culturali. Altri vollero vedere in Pagine chiuse segnali di contestazione, visti gli anni in cui fu girato. Certo, le istituzioni religiose ne escono un po’ malconce, ma in Da Campo, che girò il film a 23 anni, non vi è la minima traccia del furore iconoclastico del giovane Bellocchio. Si avverte invece un gran lavoro sulla moralità dell’immagine, sul rispetto per l’umanità delle figure evocate, in cerca di una visione, per quanto possibile, priva di sovrastrutture e preconcetti.

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