a metà strada fra Zero in condotta di Vigo e a I 400 colpi di Truffaut e i primi film di Ermanno Olmi, Gianni Da Campo, a 23 anni, sotto la "protezione" di Valerio Zurlini, gira, nel 1966, un film che uscirà nel 1968.
è una piccola storia, di un ragazzino di 11 anni, Luciano, mandato in collegio, è un film contro la chiesa e contro la famiglia, ed è bellissimo, commovente, scioccante.
se ti vuoi bene cercalo, se no peggio per te, non saprai mai cosa ti perdi - Ismaele
Ha
senz'altro ragione il visibilmente commosso Gianni Da Campo a sottolineare con
forza il radicale anticlericalismo del suo splendido Pagine chiuse,
subito dopo la proiezione tributatagli da una Mostra veneziana di quarantaquattro
edizioni successive a quella che lo vide esordire. Ha ragione, questo
isolatissimo autore di tre soli lungometraggi (gli altri sono La
ragazza di passaggio, 1972, e Il sapore del grano, 1986), a
ribadire che l'educazione cattolica, come quella "subita" dal suo
piccolo (undici anni) Luciano costretto a vivere in collegio dopo il divorzio
dei genitori, è stata a lungo una vera e propria piaga che nei decenni e nei
secoli ha prodotto danni incalcolabili per generazioni e generazioni di
italiani. È insomma vero che, come dice nella stessa occasione Da Campo, non
foss'altro che per questo motivo la sua opera prima vale come importante
testimonianza di cui tener conto anche nel nostro presente (e oltre). Tuttavia,
rivedere oggi questo suo esordio dietro la macchina da presa ripensando
all'anno in cui vide la luce (1968), fa pensare non solo a un oggetto del
passato che chiede cittadinanza nel nostro presente, ma anche, inevitabilmente,
a uno sguardo che fu capace di posarsi sugli anni della contestazione come
provenisse dal futuro.
Benché il
racconto non esca mai dal perimetro di un collegio, e racconti di frustrazioni
pre-adolescenziali a contatto con un mondo chiuso e angustamente pretesco, e di
atmosfere che, a detta dell'autore stesso, si riferiscono più che altro al
decennio precedente, ci si pensa eccome, alla contestazione che in quell'anno
di climax già intravedeva la sua eclissi imminente. Quella di Luciano è una
ribellione che non si smette mai di avvertire, ma che, nonostante una sempre crescente
autocoscienza, non perviene mai a una forma, a un'eruzione, a un'espressione. A
contatto con un ambiente mortalmente asfittico che rinuncia a qualsiasi
ambizione vitale soffocandola in un appiccicoso, conformista cameratismo da
quattro soldi, Luciano si macera in uno struggimento sommesso che non si
avrebbe nessuna ritrosia a definire blues. La sua sensibilità "da
scorticato vivo" (sono parole di Jacques Lourcelles), Da Campo la tiene
sotto a un registro di efficace understatement, ottenuto anche attraverso un
sapiente utilizzo dell'opacità e della reticenza espressiva degli attori. E
dentro a questa coltre di uniformità, che marca stretto il grigiore di
quell'ambiente, si aprono sistematicamente epifanie in cui all'improvviso quel
mondo viene messo davanti, attraverso Luciano, alla coscienza della propria
miseria. E ognuna di quelle volte, anche se poi tutto continua come prima, è
come se si spalancasse l'abisso.
Valga per
tutte la scena della confessione, nella quale Luciano, rivolgendosi inginocchiato
al prete dietro la grata, sposa un'obiettività feroce che ribalta la propria
presunta colpa in un'accusa agli accusatori stessi. Lo fa con calma, senza
calcare mai i toni – e il regista con lui. Ma si tratta solo della punta
dell'iceberg di una sagacia letteraria (il "padrino" del film fu
Valerio Zurlini, e non per caso) capace di incrinare pressoché in ogni scena la
grigia superficie con sbalorditiva discrezione e misura. Che sia con scene di
sussurrato lirismo (l'incontro notturno con una coppia di amanti che si baciano
in strada), di inatteso soggettivismo (il "monologo interiore" di
immagini mentali sotto la doccia), o di enorme quanto trattenuto potenziale
emotivo (l'incontro col padre che viene a dire a Luciano che le vacanze di natale
non le trascorrerà in famiglia, ma lì all'istituto), sotto al tran-tran della
spenta vita di collegio, la rabbia, la consapevolezza e l'amarezza si fanno
sentire attraverso un crescendo che si fa strada lentamente, ma con allucinante
regolarità, inarrestabilità e precisione. Fino al travolgente finale, in cui
Luciano, pesce fuor d'acqua triste e tranquillo ma non dimesso, compie il
semplicissimo ma rivoluzionario gesto di alzarsi ed allontanarsi nel bel mezzo
di una funzione religiosa.
Anche Da
Campo uscirà ben presto dalle scene (del cinema), dopo questo suo magnifico
esordio fabbricato con una troupe ridottissima, capace non solo di infiammare
la Venezia del 1968, ma anche di impressionare, a Cannes nel 1969, una Semaine
de la Critique in cui gli altri concorrenti si chiamavano (fra gli altri) Emile
de Antonio, Jean Eustache, Jim McBride, Barbet Schroeder, Fernando Solanas,
Alain Tanner. Ma il sasso era stato lanciato, e il 1968 aveva ricevuto dal
futuro una bruciante, straziante premonizione del muro invisibile su cui
sarebbe andato a sbattere.
"Pagine Chiuse" è un film misconosciuto nella ricca
filmografia italiana degli anni 60. Eppure andrebbe rivalutato. Al netto delle
evidenti pecche recitative e luministiche, nonchè di una sceneggiatura talora
ripetitiva, resta un'opera valida per il ritratto inedito e spiazzante
(specialmente per l'epoca) che l'autore propone dell'infanzia. Siamo piuttosto
lontani dai possibili modelli che Da Campo aveva a disposizione: l'anarchismo
liberatorio degli enfants terribles di "Zero in Condotta" (Vigo),
l'introversione passionale e "fuggitiva" di Doinel (Truffaut),
l'infanzia crudele e rapace degli Olvidados bunueliani, quella problematica dei
piccoli eroi di De Sica. Il piccolo Luciano di "Pagine Chiuse", agli
occhi del regista, è nient'altro che un "apatico". Trent'anni in
anticipo sulla "X-Generation" che negli anni 90 si distinse, nel
luogo comune ma non senza un fondo di verità, per il disincanto, l'assenza di
ideali, di emozioni forti, di prospettive (e che comunque faceva riferimento
più ad un contesto adolescenziale che infantile), Da Campo compone un
sorprendente ritratto di bambino consapevole del non-senso della sua vita, dei
dissesti familiari, degli assurdi ed oppressivi dogmi del collegio cattolico.
Colpisce in particolare la scena del dialogo col padre: sembra un confronto fra
due adulti, tanto sono maturi i ragionamenti del bambino. Luciano non è affatto
un puro: è un trasgressore, un peccatore, uno strafottente, per quanto mite
caratterialmente. Non vìola le regole per capriccio, per istinto, per attrazione
verso il proibito, ma semplicemente perchè non le comprende. Il suo spaesamento
nei confronti di una società sorretta da logiche paradossali trova un riflesso
nelle opache ed irrisolte fughe oniriche, dove l'oggetto del turbamento o del
desiderio non trova una forma precisa (la gelosia "edipica" verso
l'amico più grande e smaliziato del protagonista degli "Olvidados" di
Bunuel; l'ossessione feticista per il cinema nei "400 Colpi" di
Truffaut), ma solo dissestati ed enigmatici paesaggi urbani o campestri e vaghi
simbolismi. Da Campo sa alternare un placido realismo d'ambiente sulla scia del
miglior Ermanno Olmi ("Il posto", "La cotta"), con momenti
di tenera poesia (come quando evoca le prime pulsioni sessuali con il dettaglio
in "flue" dei capelli di una donna; o la melanconia dell'incontro con
la madre). Ma i due momenti topici sono forse il perentorio incipit (con un
significativo uso di ombre e voci off) e la chiusa dai connotati metaforici.
Luciano si mette a nudo in Confessione, tenta di approcciarsi seriamente alla
Fede cristiana, ma viene beffato da un malinteso "liturgico": è la
vittoria definitiva dell'assurdo Dogma sulla spontaneità e la libertà del
pensiero e dei sentimenti. E a quel punto, in mancanza di altri supporti
ideologici e culturali, l'unico modo per sopravvivere è forse proprio l'apatia.
…Armati di una 16mm caricata a molla e di un enorme calderone di
idee, i tre si lanciarono a corpo morto sulla messa in scena della storia del
piccolo Luciano, costretto alla vita in collegio religioso a seguito della
separazione dei genitori nel dopoguerra dell’entroterra veneziano. Ne viene
fuori un film che a prima vista potrebbe apparire figlio dell’esperienza
autoriale di François Truffaut e della nuovelle vague, ma che in realtà sembra
guardare più dalle parti di Jean Vigo e del suo capolavoro Zéro de conduite – non a caso,
effettivamente, alla base anche dell’idea primigenia de I quattrocento colpi. Mentre l’inquietudine di
Antoine Doinel rientra nell’ottica del coming of age, pur
non disdegnando stilettate ai poco ortodossi metodi di educazione, è nella
“vendetta” degli scolari Caussat, Bruel, Colin e Tabard che si può respirare
quell’ansia di cambiamento e di non accettazione delle regole imposte che agita
anche Luciano Mainardi, costretto a vivere in un universo che non capisce – non
ha neanche ricevuto la prima comunione, nonostante tenga nascosto questo
particolare ai compagni di collegio e ai preti che lo gestiscono – e dal quale
non viene neanche preso in considerazione. Se il “signor professore, io vi dico
merda!” esclamato da Tabard all’indirizzo del professore e del preside segnava
un punto di non ritorno nella critica all’istruzione omogeneizzata e imposta
dall’alto, i dialoghi di Luciano con i preti, culminanti della splendida
sequenza della confessione, scardinano dall’interno il principio stesso di impartizione
del sapere: pur senza mai scadere nella mera esecuzione di un film a tesi, ed
eludendo con eleganza qualsiasi rischio di retorica spicciola, Da Campo attacca
frontalmente l’ipocrisia del potere religioso – con una veemenza e una coerenza
etica ed estetica a paragone del quale l’invettiva anti-ecclesiastica de La mala educación di Pedro Almodóvar appare
puerile, confusa e raffazzonata – e allo stesso tempo traccia un ritratto
angosciante e pessimista della geografia umana nell’Italia a pochi anni dal
boom economico. Senza alcun aiuto esterno, facendosi beffe di quella che
all’epoca era ancora un’industria fiorente, dimostrando una volta per tutte che
l’espressione artistica può germinare anche dove non ci sono fondi e non c’è
assistenza: cinema autarchico e fieramente indipendente, di nome e di fatto,
che non ha timore nel mettere in scena un universo cattolico in piena decadenza
– suggerendo perfino, ma anche lì senza farsi prendere dalle fregole del
sensazionalismo, una fascinazione pederastica tra prete e bambino – e una
società ancora lontana dalla reale liberazione dal bigottismo morale, come
dimostra in maniera lampante il personaggio paterno.
A illuminare ulteriormente la scena è poi la scelta del protagonista,
ovviamente non professionista: una recitazione di rara intensità, sincera e mai
succube dei birignao cui spesso fanno ricorso i bambini-attori (si veda la
struggente incursione nella sala dove le donne stanno rammendando i vestiti
degli scolari). Da Campo, cosciente della necessità di liberare il cinema
italiano dalle costrizioni della sceneggiatura e della messa in scena
preordinate e classificate, si adatta a una narrazione episodica, slabbrata,
fluttuante come i tagli di montaggio lavorati nel final cut anche da Valerio
Zurlini – che il regista aveva avuto modo di conoscere per via epistolare
quando aveva appena diciotto anni e che aveva visionato una prima copia del
film, della durata di tre ore e senza traccia audio. Il risultato, troppo
eretico e coraggioso per l’epoca, ricevette plausi unanimi ma venne ben presto
rinchiuso nel più buio dei cassetti. Ne esce ora, a distanza di più di
quarant’anni, grazie alla Mostra del Cinema e all’Istituto Luce, permettendo al
popolo cinefilo di riappropriarsi di un capolavoro perduto nelle nebbie del
tempo.
…Le pulsioni antiautoritarie di fine
anni Sessanta soffiano, con i loro venti di ribellione, sul film diretto da un
giovane Gianni Da Campo, assistito da Valerio Zurlini. Ma sono venti mitigati
dal tocco lieve e sensibile di una regia intimista, interessata più al racconto
di un piccolo dramma individuale che alla fotografia del contemporaneo disagio
sociale. Certo, la critica a un mondo ostile, autoritario, repressivo e
ipocritamente religioso è evidente e traspare con grande impatto dalla sequenza
sulla comunione. Eppure, il regista si concentra soprattutto sulla sofferenza,
tutta interiore, del ragazzino protagonista, alle prese con una difficile
situazione familiare. Anziché spiegargli i problemi nel rapporto con la madre,
il padre lo taglia fuori, allontanandolo brutalmente da casa e dai suoi affetti
più cari. Un cambiamento così radicale sconvolgerebbe chiunque e l'ostilità dei
religiosi, tesi a impartire una rigida disciplina, secondo metodi educativi
tanto in voga all'epoca, non fa che peggiorare il disagio di Luciano, un pesce
fuor d'acqua in collegio, anche rispetto ai compagni.
Da Campo rappresenta questo isolamento con immagini emblematiche, come quella
del pulcino nero che il ragazzino mette nella gabbia con i bianchi, per vedere
«se mangia con gli altri». Anche il senso di oppressione provato da Luciano è
messo in scena plasticamente, con quello sguardo sognante che vola oltre la
finestra del severo corridoio del collegio, in quell'intenso bisogno di libertà
simboleggiato da un piccione che si libra in cielo. Queste immagini così
dolenti e sensibili, sincere e pudiche, sono il punto di forza di un film -
restaurato in digitale a partire dai negativi originali in 16 mm - che si
richiama a illustri predecessori, quali I quattrocento colpi di François Truffaut e Zero in condotta di Jean Vigo, pur
non possedendo il toccante lirismo del primo né l'impatto iconoclasta del
secondo.
Genitori in procinto di separarsi affidano
il piccolo Luciano a un collegio di religiosi. Il giovanissimo friulano G. Da
Campo, assistito da Valerio Zurlini, debutta con un film in cui descrive con
sensibilità dolorosa il duro impatto di un bambino con un mondo ostile,
repressivo e ipocritamente religioso. Girato in 16 mm, non privo di difetti
tecnici (tra cui un doppiaggio approssimativo), è uno dei più singolari film
marginali del cinema italiano. Fu giustamente accostato a Zero in condotta di
Vigo e a I 400 colpi di Truffaut, pur non possedendo né l'acre ribellismo del
primo né il lirismo del secondo. Al loro posto pudore, sincerità e la desolata
testimonianza di una sconfitta.
…il film di Da Campo mostra
una scelta estetica meditata e consapevole. Le inquadrature non sono “occasionali”,
ma frutto di una riflessione. Il racconto è cauto e quotidiano, scandito da
piccoli eventi, in un confronto costante con le leggi violente di una
“formazione sociale” fondata sulla privazione e il non-rispetto
dell’individualità. E’ costante anche il confronto col sacro, sia nelle sue
forme istituzionali (il terribile prete) sia nella sua presenza in atti e
consuetudini culturali. Altri vollero vedere in Pagine chiuse segnali
di contestazione, visti gli anni in cui fu girato. Certo, le istituzioni
religiose ne escono un po’ malconce, ma in Da Campo, che
girò il film a 23 anni, non vi è la minima traccia del furore
iconoclastico del giovane Bellocchio. Si avverte invece
un gran lavoro sulla moralità dell’immagine, sul rispetto per l’umanità delle
figure evocate, in cerca di una visione, per quanto possibile, priva di
sovrastrutture e preconcetti.
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