ispirato a "Dieci piccoli indiani", di Agata Christie, è una storia di soldi, e tutto il resto ci gira intorno.
la bella vita, le vacanze, i camerieri sono tutti pagati dai soldi, più o meno puliti.
uomini e donne pensano di essere lì, in quell'isola deserta, per divertirsi, in realtà qualcuno vuole estorcere una formula segreta a uno scienziato.
e dopo un po' inizia la lotteria degli omicidi, con diversi colpi di scena.
musiche e scenografie bellissime, attrici e attori all'altezza del compito.
non sarà un capolavoro, ma vi vede con piacere.
buona visione - Ismaele
…Verrebbe da dire che a Bava
non importi nulla del racconto, invece non è così. Tutto in effetti agisce in
modo estremamente coerente: la stessa fantomatica formula della nuova resina
sintetica è sì il classico mcguffin hitchcokiano, ma funziona anche da scaturigine
per il dispiegamento del bieco cinismo dei protagonisti, del loro voler
considerare ogni cosa come oggetto-feticcio, dalla resina per l’appunto, al
denaro, passando per i corpi femminili. Tutto si può vendere e comprare, tutto
è smerciabile se c’è una buona offerta, un bell’assegno in bianco…
Il discorso sull’oggetto-feticcio allora diventa gioco stilistico in cui, come
in un saggio sulla pop-art, la villa modernista, i colori primari
dell’arredamento, le suppellettili di uso quotidiano, il vestiario delle donne
protagoniste (che, tra una scena e l’altra, con sprezzo della continuity, si
esibiscono in abiti sempre diversi e sempre più sgargianti), tutto contribuisce
a descrivere un mondo dove l’artefatto tende ad essere allo stesso tempo opera
d’arte a sé stante, sorta di ready-made, e si mostra per quello che è: pura
merce, pura superficie da utilizzare. Le donne dunque diventano bambole e i
loro corpi finiscono per riposare in mezzo alla carne da macello, rinchiusi in
un involucro trasparente e sadicamente appesi a un cavo, dondolanti come
marionette ormai inutilizzabili.
Se tutto è un gioco con dei corpi che sono intercambiabili con degli
oggetti, il cinema stesso finisce per rientrare nel discorso. Lo spettacolo
allora diventa anch’esso materia evidente e grezza, gettata in faccia allo
spettatore: non è un caso che la strabiliante sequenza iniziale del film veda i
protagonisti impegnati nella consapevole messa in scena di un omicidio, dove il
sangue finto fa sfoggio di sé. Si prelude così ai “veri” omicidi, in cui i
personaggi che sopravvivono sono portati inizialmente a credere ad altre
messinscene impostate ad hoc e a non dare davvero peso a quelle morti, come se
fossero consapevoli del fatto di essere parte di un ingranaggio cui tutti sono
avvinti e da cui tutti dipendono: la regia, la sua forza onnipotente e
annichilente.
Gli zoom folli (in cui si parte da un dettaglio della scena per mostrare
l’insieme e poi tornare a un altro dettaglio), le carrellate vertiginose, i
giochi prospettici, la giostra sadica di un racconto che è costruito su un
montaggio rapido ed ellittico e che allo stesso tempo insiste nel suo non voler
procedere in modo lineare ma quasi sospeso: sono questi solo alcuni degli
strumenti che Bava usa per dare pieno corso al suo magistero,
contemporaneamente sublime esercizio di stile e cinica riflessione sulla
superficialità effimera del capitale, che tutto consuma e tutto distrugge.
Senza la colonna sonora di Piero Umiliani però 5 bambole per la luna d’agosto non sarebbe
stato lo stesso. Anzi, forse, per un caso quasi unico nella storia del cinema,
il film prende forma e corpo a partire dalla composizione sornionamente
pop-jazz, con venature di exotica, partorita dall’inventore di Mah-Nà Mah-Nà (il cui riff, a tratti, viene
anche citato). La già citata lunga sequenza iniziale, infatti, insiste su una
surplace che sembra obbedire all’ossessivo e suadente “falso movimento”
musicale instillato da Umiliani, un giro armonico che potrebbe ripetersi
all’infinito e che viene infine sciolto da Bava con il finto omicidio. Di
nuovo, come in Sergio Leone – pur se molto meno celebrata – la musica non è più
mero sfondo o tappeto sonoro, ma uno dei principali ingredienti, l’elemento su
cui si costruisce il ritmo e l’attesa spettatoriale.
Insuperabile esempio di come, a partire dal genere, si possa arrivare
a dei vertici assoluti, 5 bambole per la luna d’agosto merita
a pieno titolo un posto nella ristretta filmografia che, tra la fine degli anni
Sessanta e l’inizio dei Settanta, ha ragionato in termini consapevoli sulla
fase tardo-capitalistica (quella della saturazione economica e industriale)
usando e riappropriandosi degli strumenti della pop-art, senza limitarsi alla
mera contemplazione della bellezza “plastificata” ma ragionandovi in termini critici
e – se vogliamo – autodistruttivi.
…Anche gli omicidi sono mirabolanti e visivamente molto
efficaci, come sempre nelle pellicole di Bava si assiste ad una sorta di
spettacolarizzazione del delitto. In un omicidio la vittima viene pugnalata e
poi lasciata penzolare da un albero (la Fenech), in un’altro una donna muore
con le vene tagliate all’interno di una enorme vasca da bagno e il suo cadavere
viene portato all’occhio dello spettatore facendogli seguire alcune biglie di
vetro che cadono a terra in seguito ad una colluttazione tra altri due personaggi.
Memorabile poi anche la scelta di Bava di riporre i cadaveri, di volta in
volta, all’interno di una ghiacciaia…
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