venerdì 29 settembre 2017

Krugovi (Circles) - Srdan Golubovic

un altro film che delle sale italiane non ha conosciuto l'odore (e neanche delle tv, immagino).
una storia difficile, in una terra difficile, con gente che si è odiata fino alla morte.
una storia di sopravvissuti, che vivono ogni secondo la cattiveria e la crudeltà del passato, con un dolore e un rancore che sembrano eterni.
non servono molte parole, contano le azioni, come sempre, e qui ancora di più.
non aggiungo altro, solo che è un gioiellino, peccato non guardarlo - Ismaele





The performances of the lead actors give the film extraordinary gravitas. Particularly noteworthy is Leon Lucev as Haris. Lucev’s storyline is the most overtly dramatic of the three, and he does a terrific job conveying Haris’s beleaguered stoicism. Aleksandar Bercek also gives a great performance as Ranko, the laconic old man haunted by the incident. Not one of the characters in this movie is histrionic—they’ve all been through too much trauma and hardship to allow themselves obvious emotion. And yet, within their flattened affective register, each of the actors manages to give a nuanced and thoroughly convincing performance. The movie manages to evoke strong emotions in the audience without showing them in the characters, and even does so while withholding vital information. Few films are this confident in their storytelling. While the fact that it is a relatively small-budget Serbian film will unfortunately most likely prevent it from finding a wide American audience, Krugovi is a film that deserves to be seen purely on the strength of its story and characters.

…El talento de Golubovic no pasa solo por haber tomado una historia interesante, o una idea interesante, y haberlas combinado de manera prodigiosa, haciendo uso de un poderoso lenguaje cinematográfico para transmitirlas. Tampoco por ir alternando las tres historias sin que ninguna pierda intensidad en relación a las otras. Mucho menos, por ahondar en otros casos de circularidad (que un personaje sea golpeado al inicio y casi al final, o que otro retorne a Trebinje, su ciudad de origen). Su mayor logro es sembrar incógnitas constantemente. El espectador va construyendo la historia a lo largo de cien minutos de película, nada se explicita en ningún momento. Los personajes no cuentan en ningún momento lo que sucedió, porque no sería verosímil que unos protagonistas relataran el pasado a otros. No hay necesidad de referir algo que todos conocen y que eventualmente prefieren olvidar. Golubovic consigue hacer partícipe al espectador de la historia mediante recursos alternativos a las palabras: la emoción, los sentimientos, los pequeños gestos, algún mínimo guiño humorístico. Circles se convierte en un intenso drama donde las palabras y los hechos se entrelazan en algo tan complejo como lo es la historia. Es mucho más que un simple trabajo sobre la redención: se trata de una obra humana, sobre el deber, el amor, la culpa, el perdón, hecha a la medida de grandes espectadores y erigiéndose como producción ejemplar sobre las consecuencias de la guerra y la intolerancia.

giovedì 28 settembre 2017

Anime nella Nebbia (V Tumane / In the fog) - Sergei Loznitsa

una domanda, come mai Sushenya è stato rilasciato dai nazisti e i suoi compagni sono stati fucilati?
questo è il centro del film, e tutto ci ruota intorno.
Sushenya sa di essere innocente, ma è braccato dai partigiani, ma anche dai nazisti ucraini.
anche se non si sente, nel film c'è freddo, e per Sushenya la soluzione della sua questione morale ha una strada d'uscita obbligata.
film poco adatto agli spettatori di corsa, ma agli altri non dispiacerà - Ismaele






Lento e solenne come nella migliore tradizione dei film russi, il film si pregia di una apprezzabile ricostruzione d’epoca, fatta di particolari anche minuziosi che rimangono impressi, fra cui è possibile citare la magnifica ricostruzione dell’abbigliamento povero dell'epoca, gli accessori umili ma indispensabili dei personaggi coinvolti (mi viene in mente il cucchiaio ritrovato nella tasca del vestito di uno dei protagonisti appena cade vittima di un agguato e viene avidamente spogliato di tutti i suoi averi, tranne di quel cucchiaio,  unico attrezzo a disposizione per affrontare i frugali pasti capitati ove la provvidenza si è curata di soccorrerlo; ma anche lo straccio che accuratamente vvolge i piedi dell'altro partigiano, per supplire la mancanza di calzettoni utili per affrontare il gelo).
Loznitsa utilizza in modo un po’ spericolato tre flash back che tuttavia si rivelano utili per consentirci di capire di più caratteristiche e punti di vista di ognuno dei tre personaggi coinvolti, dimostrando come sia soggettiva la considerazione del valore dei singoli individui, laddove uno dei due partigiani, pur rendendosi vigliaccamente responsabile di un eccidio di cittadini innocenti, viene unanimemente riconosciuto come un eroe della resistenza, mentre al contrario il protagonista Sushenya, nonostante l’eroica opposizione a far denunciare i responsabili dell'attentato al treno, viene superficialmente bollato come un codardo collaborazionista e condannato a morte dai suoi stessi compagni…

Anime nella nebbia è un’opera insolitamente struggente, scritta con impressionante precisione, eppure capace di turbare e commuovere. Potrebbe vincere la Palma d’oro, ma anche restare a bocca asciutta. Aspetti secondari. Quello che conta è la splendida conferma (o scoperta) di Sergei Loznitsa, la sua capacità di dare un senso e un valore ad ogni movimento di macchina, ad ogni inquadratura, ad ogni scelta estetica.

La rarefazione dell’azione, per certi versi obiettivamente eccessiva, punta a conferire un risalto esponenziale ad ogni gesto compiuto, così da renderlo il tratto di definizione di un’intera esistenza messa alla prova. Il continuo nascondersi o strisciare per sfuggire al nemico, o il trascinare a spalla un cadavere come una croce, o infine, appunto, essere trascinati da un compagno come dagli eventi e dalle apparenze, assurgono ad atti archetipici che inquadrano i personaggi in una trinità del conflitto umano: il codardo, il santo, l’emotivo, ognuno in definitiva trattato con uguale empatia e comprensione. Appesantito da vuoti e sequenze di raccordo non sempre efficaci, Il film di Loznitsa riesce indubitabilmente a configurarsi come una parabola efficace e dall’afflato universale.
da qui

V TUNAME, «Dans la brume » en français dans le texte, porte diablement bien son titre. Sergei Loznitsa aborde majestueusement son sujet mais ses codes culturels ne sont pas les nôtres et les enjeux envisagés sont, de prime abord, troubles et distanciés. La mise en scène n’en est pas moins admirable et la photographie sublime…

…Loznitsa te agarra por la garganta y ya no te suelta. Comienza centrando su atención en Burov y Voitik, pero cuando Sushenya aparece, las tornas cambian. Las circunstancias lo hacen con ellos, y el foco se abre. La obra tiene clara su estructura. Un trayecto a través de un bosque, y a lo largo del mismo, distanciados de forma casi milimétrica, tres flashbacks que rememoran la situación de cada uno de los personajes poco antes de encontrarse unos con otros. Ahí radica parte de la clave. Descubrimos que el enemigo alemán no es el único mal existente. La guerra no crea bandos justificables, sólo gente que piensa en sí misma. El propio Sunshenya se da cuenta de eso casi al término de su viaje. Algunos luchan por sus ideales, y mueren jóvenes; otros dudan, prefieren mantenerse en espacio neutro; y los últimos sacrifican a otros para salvarse a sí mismos. Pero nadie está exento de culpa. La guerra destruye al ser humano. Es una verdad sencilla, pero lapidaria. El horror que el Coronel Kurtz susurraba guturalmente era eso. Y lo que tanto Loznitsa como Sushenya o sus camaradas vienen a dejar claro es que la guerra cambia a las personas. Aunque la vida en sí no lo haga, en el momento en el que alguien se vea obligado a sobrevivir, el corazón de cada uno dictará si es capaz de sacrificarse a sí mismo por otros, si es fiel a sus principios hasta el final o si prefiere salvaguardar su integridad a costa de inocentes. Sushenya no entiende qué es lo que provoca este cambio en la gente. Es incapaz de comprender porqué los que antes le apreciaban, ahora desconfían abiertamente. Él no ha cambiado, sigue siendo el mismo. Los demás, aparentemente también…
da qui

Non è un film facile Anime nella nebbia ma riesce a far 'sentire' allo spettatore il crescere della spirale di un sospetto che ha attraversato sempre (anche se spesso accuratamente occultato) i movimenti resistenziali. Perché, messi nelle stesse condizioni, alcuni si salvano e altri soccombono? Quale sarà stata la loro attività di delazione e quanto sarà stata determinante per la loro sopravvivenza? Il regista riesce anche ad andare oltre questo assunto primario. Con il peregrinare nella foresta dei suoi protagonisti, alternato alla presentazione di flashback in cui operano collaborazionisti, offre un'ulteriore chiave di lettura ad un periodo storico in cui fa agire personaggi silenziosamente tormentati.

Non c’è scampo a quel cinico gusto del paradosso che, approfittando dell’imperversare dell’odio, si impadronisce della Storia, rendendo tutto confuso, incomprensibile, incontrollabile. Lontano dal fronte, la battaglia si combatte annaspando disperatamente nel vuoto, alla ricerca di una qualche ragione. Il deserto dei mille perché si estende fin oltre l’orizzonte, privo di trincee ma cosparso di labirinti senza uscita…

martedì 26 settembre 2017

Matar a un hombre - Alejandro Fernández Almendras

capita di vivere in un posto con un po' di delinquenti che fanno il bello e il cattivo tempo, rubano, minacciano, violentano, feriscono, sopratutto Kalule.
Jorge, dopo tanta pazienza e sopportazione e umiliazioni si rivolge all'autorità, ma fanno poco e niente.
allora diventa una questione di orgoglio e di vita o di morte, Jorge, con mille dubbi, ma con determinazione, fa da sé.
un film dell'altro mondo, ma si capisce benissimo.
a qualcuno può ricordare Un borghese piccolo piccolo, di Mario Monicelli
si soffre e si pensa, oltre a vedere un piccolo grande film - Ismaele




Matar a un Hombre es un trabajo ejecutado con la perfección de un director que concibe mejor que nadie el cine como un vehículo. Uno en marcha, del cual no debemos bajarnos en ningún momento sino hasta que el conductor/director decide cuando hay que hacerlo y nunca, pero nunca, antes. No es fácil vivir en el mismo mundo de Jorge, y todo lo que pase en él es para sentirnos completamente culpables.

Film diretto ed efficace, Matar a un hombre racconta la vicenda (tratta da una storia realmente accaduta) in modo semplice e senza fronzoli, ma rappresentando con grande impatto emotivo il travaglio di Jorge, il senso di paura, solitudine ed impotenza di un uomo comune, abbandonato dalla legge di fronte al male, una discesa negli inferi che lo porta a improvvisarsi giustiziere. Nonostante la trama ricordi innumerevoli film girati su questo tema, Matar a un hombre mantiene una sua originalità evitando l'esaltazione della vendetta. Rifuggendo la spettacolarizzazione della violenza e gli spargimenti di sangue (l'omicidio nemmeno lo vediamo, ma lo ascoltiamo), la pelicola è incentrata sull'interiorità del suo protagonista, ben incarnato nella sua ordinarietà e nella sua disperazione da Daniel Candia. Daniel Antivilo interpreta l'antagonista Kalule, cattivo spietato e totalmente immorale che, ben consapevole dell'impotenza della giustizia, pare divertirsi sadicamente a tormentare ed umiliare la sua vittima; ma al momento in cui capisce che l'ha trasformata in un giustiziere disposto ad ucciderlo si abbassa a supplicare e implorare (inutilmente).

Fernández Almendras logra un intenso thriller donde la premisa del hombre vs. el hombre ejerciendo la Ley del Talión como la única manera de lograr la sobrevivencia del clan comprende, y hasta excusa, el comportamiento del taimado Jorge una vez que ha llegado al límite. Y el director lo hace de la manera más sobria y antihollywodense posible, lo que resulta su gran acierto: no estamos ante un Liam Neeson convertido en pistolero vengador, sino ante un pater familia que, como muchos, ya está harto de que su hija sea vejada, su casa violentada y su hijo medio muerto. Jorge es un hombre común como millones más, que ante un sistema lerdo deja de lado sus temores para llevar a la realidad ese viejo adagio que recita que “el valiente dura hasta que el cobarde quiere”, y, no obstante, al final logra erigirse digno, conservando su integridad moral y ética, intacta.

Matar A Un Hombre es una película que no opera desde la lógica o el raciocinio, sino que desde una óptica emocional, desgarradora, visceral. Apartada de todo cálculo u operación preliminar, lo que transmite es que fue hecha con el corazón en la mano. De ahí que los alcances de la obra no estén concebidos desde una vereda ética o moral. Su propósito mayor está en convertirse en un viaje mucho más profundo y atípico, que desentrañe los abismos del ser humano. Y en esa búsqueda es que se zambulle en territorios de penumbra, lo que no  hace más que corroborarse cuando se acontece el punto más álgido del relato…

Tuer un homme est un film de genre qui brouille discrètement les pistes : un thriller qui laisse le suspense de côté et dont l’enjeu prend toute sa dimension après le meurtre annoncé dans le titre ; un drame montrant un homme ordinaire dépossédé de ce quotidien qui le rend précisément si ordinaire. Ce film est la tragédie d’un homme qui se voit devenir un autre malgré lui. Les partis pris visuels du film, tels que l’image légèrement désaturée, participent à la création de l’atmosphère, de plus en plus lourde et étouffante, dans laquelle évoluent les personnages. Très souvent cantonnés au tiers inférieur du cadre, Jorge et sa famille semblent pris au piège par une fatalité contre laquelle ils ne peuvent lutter. Aussi, la musique vient ponctuellement amener le spectateur à percevoir les appréhensions du personnage principal et la sobriété de la mise en scène accentue l’aspect réaliste du récit. Il serait à regretter que cette même mise en scène ne permette pas au spectateur d’avoir un plus grand aperçu des personnages secondaires, qui peuvent par moment sembler bien lointains - et, volontairement, de plus en plus étrangers aux préoccupations de Jorge. Se confrontant à la forêt et à la mer, ce dernier se retrouve en effet seul pour affronter le poids de sa conscience et la nature, par son immensité, fait écho au drame vécu par le personnage. 
Sombre et d’une habile sobriété, l’œuvre d’Almendras dépasse les cadres du thriller pour s’affirmer comme un voyage tortueux au cœur de la conscience humaine.

domenica 24 settembre 2017

The teacher (Ucitelka) - Jan Hřebejk

non si vive in mondi separati, e la scuola è lo specchio e la conseguenza di quello che sta fuori.
e, come in Class enemy, questo si vede con chiarezza nel momento della riunione dei genitori, dove paura e coraggio, convenienza e orgoglio sono i sentimenti che governano il mondo.
la professoressa Drazdechová è così brava che si pensa sia proprio l'attrice, Zuzana Mauréry, quel pezzo di merda dell'insegnante.
dice il regista: Ad ognuno di noi è capitato, sia da adulti, che da bambini, di avere la sensazione che ciò che ci arreca beneficio sia in realtà una cosa sbagliata da farsi. O viceversa: che seguire la propria coscienza, il proprio codice morale, possa invece farci incontrare difficoltà, se non procurarci addirittura dei problemi. Questo è il motivo per cui questa storia può essere compresa da tutti...The Teacher non è un film sul Comunismo, né sul bullismo. Ciò che a noi interessa è raccontare la paura, l’opportunismo, la dignità umana

non perdetevelo, anche se arriva con un anno di ritardo, merita davvero - Ismaele

ps: in Gran Bretagna The teacher si chiama The teacher, in Spagna La profesora, in Francia Leçon de classes, in Romania Profesoara, in Italia il titolo resta The teacher.

sarà per non far pensare alle professoresse dei film degli anni '70, o solo per una pigrizia atavica?





L'attrice slovacca Zuzana Mauréry ci regala una performance magistrale, ai livelli di Ruth Gordon in Rosemary's Baby o Isabelle Huppert ne Il buio nella mente. C'è davvero qualcosa di diabolico in questa insegnante dal volto disumano così abile a recitare la parte della vedova inconsolabile, quando a ben vedere è proprio perdendo il marito in guerra che ha realizzato, per così dire, il miglior affare della sua vita. La gestualità appiccicaticcia con cui blandisce il prossimo, l'incedere vagamente sgraziato, l'abbigliamento fuori moda perfino per i canoni dell'epoca e la perfida nonchalance con cui ordisce i suoi miserabili ricatti conferiscono alla signora Drazdechová l'apparenza fintamente innocua di un lupo travestito da agnello che difficilmente mancherà di guadagnarsi il nostro più profondo disprezzo. Memorabile.

Va dato atto al regista Jan Hřebejk di aver reso una realtà in tutte le sue sfaccettature senza adagiarsi al facile manicheismo. “Questo non è un film sul comunismo o sul bullismo.” Ha dichiarato, “Qui l’argomento principale è la paura, l’opportunismo, la dignità umana”.

Un piccolo film incentrato su un paradossale caso di "socialismo reale" applicato, con cui la coppia Jan Hřebejk (regista) e Petr Jarchovský (sceneggiatore), sodali da lungo tempo, vuole far riflettere sulla corruzione, l'abuso di potere e i paradossi di un sistema in cui lo scambio di favori a vicenda (qualcosa che apparentemente sembra a fin di bene) finisce col scardinare i reali valori e alterare il benessere delle persone…

…Con una historia que para muchos críticos recuerda a los textos de Milan Kundera, Jan Hrébejk crea una película sobre el poder que ejercía la gente con contactos y que bajo una mascara de amabilidad se esconde un personaje que no le tiembla el pulso a la hora de destruir a alguien que no le baile el agua. La Profesora mantiene una ambientación opresiva de la época perfecta gracias a ese edificio gris y hermético donde se rueda buena parte de la película y transcurre el "meollo" de la historia. Un lugar donde esos padres se reúnen y deciden que decisión tomar planeando sobre la película un recuerdo al clásico Doce Hombres Sin Piedad" en su versión comunista.
Inspirada en un hecho real conocido por el guionista La Profesora consigue atrapar al espectador en esa lucha de personajes aparentemente pequeños pero que se niegan a ceder y creen en la libertad para poder vivir dignamente. Héroes que desgraciadamente no pasaran a  la historia pero si son necesarios para saber que son el primer paso para una sociedad libre y sin miedos. Una historia opresiva sobre las nefastas consecuencias de la corrupción y sobre todo que aunque los tiempos cambien-a priori para mejor- lo verdaderamente triste es ver que la naturaleza humana no se quita la condición de malvada y mezquina.

The Teacher è un film davvero sorprendente, che riesce a trattare in maniera estremamente chiara e con taglio sociologico, argomenti  molto complessi e stratificati, come il totalitarismo, l'impostazione ideologica e gli effetti di ogni regime, l'abuso di potere, facendo leva su una forma tragica tanto quanto, a tratti, divertente e Pop (complice l'espressione buffa e comica dell'attrice protagonista), che smorza l'esposizione della violenza intrinseca delle cose e della vicenda, raccontata in maniera potente e convincente.
L'efficacia del messaggio, e della particolare “confezione”, viene enfatizzata dalla consapevolezza finale di aver assistito a storie vere, ma impensabili, nella loro sconcertante assurdità. Di certo questo è un film che rappresenta al meglio tutte le qualità che continuano a far grande il cinema dell’Europa centro-orientale, soprattutto per l’originalità di scrittura, gli splendidi interpreti dalla palese carriera teatrale, e per lo humour mai banale…
 <<Ad ognuno di noi è capitato, sia da adulti, che da bambini, di avere la sensazione che ciò che ci arreca beneficio sia in realtà una cosa sbagliata da farsi. O viceversa: che seguire la propria coscienza, il proprio codice morale, possa invece farci incontrare difficoltà, se non procurarci addirittura dei problemi. Questo è il motivo per cui questa storia può essere compresa da tutti>>, ha dichiarato Jan Hrebejk.
Purtroppo La natura umana non cambia.
La storia personale di Petr Jarchovský raccontata in The Teacher richiama le atmosfere, i toni e i temi del film precedente dei due autori: Divisi si perde<<Come Divisi si perde non parlava solo del Nazismo e dell’Olocausto, così The Teacher non è un film sul Comunismo, né sul bullismo. Ciò che a noi interessa è raccontare la paura, l’opportunismo, la dignità umana>>, ha aggiunto Hrebejk…


venerdì 22 settembre 2017

Eraserhead (La mente che cancella) - David Lynch

l'altra sera visto Eraserhead al cinema, quelli della Cineteca di Bologna (il Signore del Cinema li conservi) l'hanno restaurato e lo mandano in giro.
cosa vuol dire David Lynch non lo sa nessuno, magari lui sì, forse.
il mondo è in rovina (già 40 anni fa), si sopravvive, male, anzi malissimo.
Henry ha dei bellissimi capelli, e scopre di avere un figlio, un essere da Cottolengo, Henry ha una grande fantasia, ma non ce la fa.
polvere eravamo e gomme per cancellare diventeremo, in mezzo qualcosa.
un film unico, senza tempo, un capolavoro che resterà.
cercatelo, guardatelo (o riguardatelo), al cinema è meglio - Ismaele

ps: sono solo io che penso che nel 1977 Spielberg abbia visto il film e nel 1982 ET sia lo strano bambino di Henri e Mary sopravvissuto e cresciuto?





QUI una bellissima recensione

Nato in un contesto indipendente e underground, il primo lungometraggio di David Lynch passa in pochi mesi dalle gallerie d'arte di New York alle sale di tutto il mondo. Girato in totale autonomia nel 1976, con un pugno di amici e collaboratori fidati, si fa subito notare per l’inquietudine che emana e per lo sconcerto che suscita nei pur ben disposti spettatori. È il primo incunabolo (ma per alcuni il più radicale e ipnotico) delle visioni lynchane: b/n avanguardistico, narrazione apocalittica, vicende inspiegabili e orrore ovunque, con una trama (un uomo misterioso, con un figlio mostruoso, dentro un futuro post-industriale) pressoché nulla. Né fantascienza né horror, anche se i vari distributori nazionali, Italia compresa, provarono a farlo passare per un film di genere. In verità, il dialogo è con il surrealismo, la fotografia industriale, l’underground statunitense. "Come ShiningEraserhead stupisce per la capacità di tener fede alla forma linguistica dell'inconscio", secondo Enrico Ghezzi. A posteriori, va considerato come il film che per primo ha dato voce ai fantasmi interiori di Lynch: non solo alle sue fantasie morbose, ma anche al suo desiderio di purezza.

The benchmark of bizarreness. At the surface this is a dark and twisted tale of a timid dreamer on vacation living in a squalid house and neighborhood who discovers he is now a father of a monstrous creature/baby due to an old sexual encounter. He is forced into marriage by the mother-in-law and is frequently left to care for the baby while his emotional wife runs off to take breaks from this unpleasant life. He uses one of these breaks to have an affair with the neighbour. This is all filmed with incredibly bizarre imagery and behaviour through nightmarish dream sequences and visuals. Details such as the other world with a pilot, sperm-like worms and a strange lady inside a radiator can be taken as symbols of subconscious, guilt and death, but the movie works as a superb dream-like experience regardless of what it means, so it is highly recommended. Lynch has never repeated the brilliantly pure and abstract dream-experience of this debut.

Lynch voit son film comme le bilan des années passées à Philadelphie. Et bien figurez-vous qu'en y regardant de plus près, c'est peut-être l'interprétation la plus juste. A la seconde vision, fait étrange, le film devient merveilleux. Ce qui nous paraissait repoussant la première fois dégage à présent une grande poésie et une douce mélancolie. Et cette fois, on pense à un film précis : 2001 de Stanley Kubrick. En effet, sur plusieurs points, les deux films se font écho, notamment sur leur premier et dernier plan (pour l'anecdote, Kubrick affirmera que Eraserhead est le seul film qu'il aurait aimé réaliser). 2001 s'ouvrait sur une spectaculaire levée de planètes dans un ciel en Cinérama sur le grandiloquent Ainsi parlait Zarathoustra de Richard Strauss. Cette ouverture nous indiquait que nous allions assister à un voyage à travers l'infiniment grand….

In principio era il rimosso.
Per David Lynch il cinema è un universo mentale, è la nostra mente che crea le “realtà” che ci circondano, quell’insieme misterioso di mondi perlopiù alterati dove (non) sempre è meraviglioso perdersi.
Ecco quindi che la sequenza iniziale di Eraserhead, in stretto legame con le sperimentazioni visive dei primi cortometraggi, funge da subito come manifesto della poetica del regista.
La testa di Henry volteggia nello spazio e, in sovraimpressione, cerca di allinearsi con una strana struttura sferica verso cui ci avviciniamo lentamente. Stiamo entrando dentro la testa del protagonista, stiamo per esplorarne i segreti. Ma di che segreti si tratta?
Se riflettiamo sulla semplicità drammaturgica di Eraserheaci rendiamo conto di come l’atto creativo, sessuale, sia l’incubo per eccellenza, che trova nel terrore della paternità la sua manifestazione. Tutto il film è pieno di disturbanti tic, di allusioni all’amplesso e alle sue possibili conseguenze, mostrandosi come la vera ossessione del personaggio, dietro la cui maschera, apparentemente impassibile, ribolle un profondo malessere. Il cinema di Lynch però è sempre stato assertivo dell’impossibilità di isolare un trauma fondante, perché questo ha comunque vita propria e, in un modo o nell’altro, prenderà forme tangibili con le quali bisogna fare i conti.
L’incipit di Eraserhead quindi è leggibile come la sintesi di ciò che è stato rimosso ovvero l’atto sessuale tra Henry e Mary, quel non detto e dimenticato che ha dato origine al feto prematuro. La bocca del protagonista si apre (coito), ne fuoriesce uno spermatozoo che precipita dentro un liquido (amniotico) presente in quella sfera che ora non può non essere letta come un ovulo inseminato. A tirare le fila, in uno scorcio espressionista, vi è un demiurgo dalle sembianze deformi che anticipa la fisionomia di John Merrick o del Barone Harkonnen e attiva questo meccanismo di fertilità.
E a colpire è il mondo nel quale nasciamo, un inferno apocalittico, dove i tubi hanno sostituito gli alberi, dove la materia industriale giganteggia nella sua avvolgente e ipnotica lingua sonora. Non bisogna allora stupirci di come anche l’atto più naturale come la procreazione abbia perso tutta la sua componente vitale e assuma la forma di un gelido processo di produzione…

…Espressionista e surrealista fino all'inverosimile, ricco di inquadrature che si trasformano in pochi secondi, rimandi allucinati al mondo dell'assurdo (le teste del bambino che svolazzano per la stanza) e il sentore costante di fastidio ricreato dilatando in maniera anomala i tempi e i suoni, co-protagonisti dialoghi ridotti la minimio per non minare l'ermetismo della pellicola. E così, se i dialoghi sono pochi e stranianti, i rumori, i suoni regnano sovrani creando un muro suono-immagine terrificante che non può lasciare insensibili. Lontano dal poter essere chiuso in una categoria questo film disturba nel senso più reale del termine, annichilisce i sensi dello spettatore rapito da sequenze di immagini oltre ogni controllo non certo paragonabili all'innocuo intrattenimento fornito dai film horror che infestano i botteghini, passeggeri passatempi in cui l'orrore è costruito e dosato con gentilezza per non scalfire la morale di chi nel cinema vede solo intrattenimento semplicistico. Eraserhead è oltre il sopportabile...è un capolavoro e tanto basta.

ricordo di Harry Dean Stanton







giovedì 21 settembre 2017

La cabina - Antonio Mercero


è un capolavoro, provare per credere - Ismaele



Possibly the most classic, highly-regarded and loved cult short horror movie ever made. It's only strange in a light Bunuelian absurd way, but the tension keeps building until the unforgettable ending that packs a wallop. An ordinary man becomes trapped in an ordinary phone booth with amused reactions from various passersby. The situation becomes more ridiculous as time passes by. To say any more would be to ruin the movie. Watch it. 

A man (José Luis López Vázquez) sees his son off to school, and stops to make a call in the newly installed phone booth in town square.  The phone doesn’t work, and as he tries to leave the booth, he discovers that he’s stuck.  A crowd gathers to assist (and gawk) to no avail.  Then here come the telephone guys, and the situation looks even more dire.
Starting out as a surrealist slapstick — something like Buñuel meets Tati — it gradually morphs into a modern nightmare.  In this film, running just over a half hour, writer/director Antonio Mercero brings us fears of claustrophobia, humiliation, technology and urban social disconnect.  I wasn’t sure where the film was headed… you don’t know if it’s going to end with a gag or if it’s going deeper into horror.  I won’t spoil it, but it’s satisfying.  Vázquez, who I’ve previously enjoyed very much in works by Saura, Berlanga and Ferreri, does a fine job in a role that’s entirely silent except the beginning.  At first he tries to maintain his dignity but as the situation grows more dire he starts to lose his cool.
For such a short film there shouldn’t be as many draggy parts as there are, but overall it’s a clever, effective and often witty piece.  I find it interesting that even though phone booths are largely a thing of the past, people are more “trapped” by their phones than ever.  

…Una trama compleja, de corte surrealista, de múltiples lecturas, que empieza como una chanza, una broma, pero que, tras el visionado, deviene en un canto a la libertad, precisamente constatando cómo, cuando extrañas entidades, ajenas al común de los mortales, deciden coartarla, reducirla, aniquilarla, de forma aleatoria, es decir, sin razón alguna, nadie, o casi nadie, mueve un dedo para ayudar a su prójimo, prefiriendo burlarse del cautivo, o sacar provecho propio de la ocasión; del conjunto de la sociedad, sólo unos pocos destinan una parte de su tiempo en ayudar a otro, y la compasión, la comprensión, la solidarirdad, tan sólo se manifiestan en los que en modo alguno van a ser tomados en serio, payasos de un circo.
De forma imprevista, el hombre se ve privado tanto de libertad como de voz para expresarse, pues ni puede salir de la acristalada cabina, prisión transparente pero prisión al fin y al cabo, y nadie le puede oir, por mucho que se desgañite reclamando, desolado, exasperado, su libertad, atenazado por unas decisiones, una metodología, una maquinaria impresionante que le sobrepasa, le excede, y que casi todos aceptan como inevitable consecuencia, a saber que habrá pasado....
Consiguen los autores crear un sentimiento claustrofóbico a plena luz del día, recordándonos que la libertad sí tiene precio y que éste es muy alto, sobretodo cuando se produce la pérdida de esa libertad a la que estamos acostumbrados como derecho adquirido, demostrando, magníficamente, que la libertad individual pende de un hilo cuando no todos estemos dispuestos a luchar por la propia y por la de los demás, como si fuera la propia…

   Esta idea tan sencilla da pie para que se construya de forma efectiva el horror en el personaje, el cual apoyado en una excelente interpretación de su actor principal, es transferido convincentemente al público. La trama como se mencionó anteriormente, se va transformando poco a poco desde la comedia hasta el horror surrealista. El director, supo crear una atmósfera definida, con el fin de presentar al personaje como si fuese un animal encerrado en un zoológico o en su defecto, una atracción de circo, donde las personas van a verlo para reírse de su situación y entretenerse a costa de su humillación. En una de las escenas más dicientes, el hombre encerrado ve su reflejo en un espejo que están trasladando unas personas en el parque, en ese momento, se ve a sí mismo en su propia jaula. Adicionalmente, la actuación tiene mucho soporte para la historia, por el hecho de que el personaje prácticamente no tiene diálogos -solo cuando se despide de su hijo-, pues el sonido que se escucha viene del exterior de la cabina en todo momento, elemento que ayuda a aislar el personaje del mundo. Todo su miedo debe ser transmitido a través de sus reacciones, todo un logro interpretativo y de genialidad creado desde un sorprendente guion. La historia posteriormente se transforma en una pesadilla, un horror surrealista que nadie es capaz de anticipar, pero que le otorga a este cortometraje español un estatus de calidad pocas veces logrado.

…El retrato social de un país aprisionado, necesitado de aires de libertad está aquí magistralmente conseguido, tanto, que una vez más una idea claramente telegrafiada pasó inadvertida a los estúpidos equipos de la censura, que todavía continuaba a pleno rendimiento antes de la ligera ‘suavización’ introducida en los setenta. El inquietante final conseguía ese efecto de extensión de una situación particular a una metáfora en el plano colectivo de lo que sucedía entonces en España. Además, está visto desde la perspectiva de los nacidos después de la guerra: al igual que nos asusta profundamente, no el hecho del encierro en sí del pobre hombre en la cabina, sino la ausencia de explicaciones, de por qué sucede, quién lo ha ordenado, dónde le llevan, etc., indignaba a muchos jóvenes nacidos tras la guerra el hecho de encontrarse en una situación heredada e injustificable, ante la que además no tenían voz para hacer preguntas ni formular quejas, y cuya única respuesta era un porrazo de los grises o una noche en el calabozo de la Dirección General de Seguridad. No había salvación, ni explicación.
Por otro lado, supuso un nuevo paso más en la conversión de José Luis López Vázquez hacia un cine más serio, alejado de la comedia (tras aparecer durante las décadas anteriores sobre todo en comedias costumbristas y de entretenimiento que incluso le valieron una cuantiosa oferta de Hollywood, proveniente de George Cukor, que buscaba convertirlo en el nuevo “Cantinflas”), que luego alcanzaría cotas altísimas en trabajos para Carlos Saura, Jaime de Armiñán y muchos otros, aunque mantendría sus apariciones en comedias con papeles que recordaban a los de antaño, como por ejemplo, sus trabajos con Berlanga.
En resumen, una película perfecta para explorar las técnicas básicas del suspense y su influencia en las emociones del espectador, pero también de gran valor sociológico ahora que conmemoramos el treinta aniversario de las primeras elecciones democráticas en España tras la dictadura franquista, para hacernos una idea del incipiente estado de protesta que latía en el país y que provocaría un cambio imposible de detener.


qui una bellissima recensione


mercoledì 20 settembre 2017

Easy - Un viaggio facile facile - Andrea Magnani

se uno si aspetta un film di sesso, meglio che stia a casa;
se uno si aspetta un film con tanta violenza, alla Tarantino, meglio che stia a casa;
se uno si aspetta un film di quelli complicati, che dopo sette visioni ancora non sa che pesci prendere, meglio che stia a casa ;
se uno si aspetta un film d'amore, romantico, con qualche lacrima, meglio che stia a casa.
Easy è un piccolo grande film, che tutti possono capire, fa ridere e sorridere, senza bisogno di effetti speciali, con una comicità spesso da film muto, sa emozionare, e alla fine ti fa uscire dal cinema contento di aver potuto vedere un film che non ti aspettavi, davvero bello.
se non lo sapevate il film è in poche sale, naturalmente, bisogna cercarle, ma non ve ne pentirete di sicuro - Ismaele

ps: coincidenze, il protagonista, il grande e grosso Nicola Nocella, sembra il gemello di Francesco Di Giacomo, e nel Banco di Mutuo Soccorso chi suonava le tastiere aveva un cognome che iniziava per Noce.




Bel film, bella sorpresa, gran successo di pubblico festivaliero (pagante) che ha fatto la fila a tutte le proiezioni. Tant'è che negli ultimi giorni se n’è dovuta aggiungere un’altra non prevista. Uno di quei film che ti fan capire come il nostro cinema (sempre che si possa dire nostro un film di un autore che vive tra Italia e America e che è una coproduzione italo-ucraina: ma questo dei film apolidi e cosmopoliti e di indecifrabile identità nazionale è ormai fenomeno generalizzato) sia nonostante tutto ancora vitale, in grado di produrre anche oltre e fuori Roma buone cose, non corrive, non asfittiche, allineate linguisticamente, formalmente, tecnicamente agli standard internazionali. Un cinema che sa andare oltre la commedia piaciona e la commediaccia corriva imperanti da noi, oltre i romanzi criminali e le gomorre e le suburre…
Easy è questo: una commedia agra e perlopiù sommessa, mai gridata, mai becera, che non ha niente dei soliti modi romanocentrici, niente di quella vernacolarità che è un segno, e spesso un marchio di condanna, del nostro cinema popolare. Con un interprete meraviglioso, Nicola Nocella, di corporea rotondità (ma poi non così strabordante), che punta sull’interiorizzazione, sulla sottrazione, senza quegli eccessi espressivi e la gestualità mediterranea che altrove, in altri film, avrebbero imposto al suo tipo fisico. Nocella che ha una buona parte di merito nella riuscita di Easy, impossibile immaginarlo senza di lui, in scena dalla prima all'ultima inquadratura, e mai un cedimento…
…Si prega i giurati dei prossimi premi italiani di tener conto del film, e di non dimenticare Nicola Nocella quale migliore attore. Grazie.

…Il motivo che fa la differenza in "Easy" è anche quello più rischioso per un cinema (italiano) che ha paura di uscire fuori dalle proprie sicurezze; e con questo intendiamo puntare l'attenzione di chi legge su una tipologia di comicità fuori dalla norma, in ragione del fatto che le risate suscitate dalla storia nascono all'interno di uno scenario tutt'altro che felice (c'è di mezzo la morte di un operaio, avvenuta nel cantiere del fratello del protagonista) e sullo sfondo di un paesaggio dominato dalla pianura desolata e piatta che dall'Italia conduce Easy e il suo carro funebre nel piccolo villaggio dell'Ucraina dove dovrà essere recapitata la salma…

Da un lato un'Italia che ha un rapporto ambivalente con i migranti (da respingere ma anche da sfruttare) e poi, più si va verso Oriente, Paesi in cui la dimensione rurale ha ancora una grande importanza. Easy li scopre con uno sguardo interrogativo dapprima protetto da una barba invadente e poi con un volto messo a nudo come progressivamente viene messa a nudo la realtà che lo circonda. Conservando intatto il mandato di non fare spoiler va però detto che il finale del film è, dal punto di vista della sceneggiatura, uno dei più coraggiosi del recente cinema italiano. Onore al merito.

Il successo del progetto è dovuto anche alla presenza del protagonista perfetto: l’attore Nicola Nocella, che con la sua corporeità, la gestualità e – probabilmente – una buona dose di ironia, si è calato nei panni e nel mondo di Isidoro sino a rendercelo tangibile, amabile, insostituibile. Vedere sgretolarsi tanto isolamento, ha reso anche la nostra aria più respirabile. Ci sentiamo più forti: se Easy è riuscito ad incontrare la famiglia di Taras, noi possiamo vincere qualsiasi piccola sfida del quotidiano. E poco importa che quella sullo schermo sia un’opera di finzione mentre questa qui fuori sia la vita reale.

...Grande spazi deserti, location mozzafiato, raramente viste nel cinema italiano. Il regista fa un grande lavoro nel scegliere il paesaggio, spesso abbandonato, che mostra i segni del tempo e ricorda le location del cinema sovietico degli anni ’70. I personaggi che fugacemente si affacciano all’avventura di Isidoro sono altrettanto memorabili, improbabili, a volte inquietanti.
Magnani lavora per sottrazione, togliendo man mano dialoghi, azione, forza e difetti al protagonista. Isidoro si spoglia di tutto per arrivare alla catarsi finale e così deve fare lo spettatore, perchè man mano che il film procede, il ritmo cala sempre di più, l’atmosfera si fa più rarefatta e trascendente ed è lo spettatore che deve trarre forza e senso dalle scene finali. Da un inizio movimentato, si arriva, esausti, ad un finale silente.
Easy – Un viaggio facile facile ricorda più il cinema estero che quello italiano. E’ una commedia sottile, triste e faticosa, ma ottimista. Porta sullo schermo un cinema indipendente che trae la sua forza da un soggetto accattivante e una realizzazione elegante. Un piacevole viaggio a fianco di Easy, la bara di Taras e un carro funebre che si guadagna un posto tra i mezzi di locomozione più iconici in un road movie.
da qui

EASY è un gioiello: i talenti non sono "muscolari" ma funzionali a un on the road delicato e profondo.
Boris Sollazzo
EASY fa tesoro della tradizione della commedia italiana: qualcosa di cui molti, oggi, sembrano aver smarrito la memoria.
Valter Vecellio, Jobsnews
Originalità, leggerezza, un bravo protagonista e un preciso stile visivo.
Roberto Nepoti, Repubblica
EASY: un’opera di notevole pregio, una novità nell’asfittico cinema italiano di questi anni.
Antonio Pettierre, Taxidrivers
Una storia surreale, con un imprinting quasi fantozziano.
Ansa
Come Marrakech Express, EASY potrebbe diventare il manifesto (esistenziale) di una gioventù che si trova in mezzo al guado
Carlo Cerofolini, Ondacinema
Andrea Magnani e lo straordinariamente efficace Nicola Nocella hanno saputo trovare una modalità originale per rileggere il tema dell'on the road.
Gianfranco Zappoli, MYmovies
Una commedia bizzarra e poetica che si snoda come un road movie.
Simona Santoni, Panorama

da qui

martedì 19 settembre 2017

Il fattore umano - Otto Preminger

una spia inglese in Sudafrica si innamora di una donna che riesce a portare in Inghilterra per vivere con lui.
il punto è che per farla arrivare ha dovuto chiedere un favore, che poi va restituito, con interessi da usura.
e gli esseri umani sono solo pedine di giochi che non prevedono l'umanità, figuriamoci l'amore.
tratto da un romanzo del grande Graham Greene.
bravissimi attori, ritmi lenti (come quelli de La talpa), un film che merita, promesso - Ismaele





Tratto nel 1979 da Graham Greene, una di quelle spy stories assai british (e assai Greene) che mettono l’individuo al centro del plot, a costo di sacrificare qualche orpello del congegno narrativo, qualche esteriore colpaccio di scena. Amosfere plumbee, con quelle ombre che ben si addicevano a Otto Preminger, ebreo fuggito da una Mitteleuropa in preda al male, uno degli esiliati a Hollywood provenienti dal cinema (e dal mondo) dell’asse Vienna-Berlino. C’è una talpa nei servizi segreti britannici, passata dalla parte del nemico rosso, il comunismo di Mosca (siamo in piena guerra fredda). Ma è un tradimento avvenuto per riconoscenza nei confronti di un russo, non per avidità e nemmeno per solidarietà politico-ideologica. Come anche in John Le Carré, che di Greene è l’erede e il continuatore, i giochi di potere, le mosse e le contromosse sulla scacchiera sono dettate sempre da qualcosa di umano, troppo umano. Bellissimo titolo. Gran cast all’inglese, ovvio: Richard Attenborough, John Gielgud, Derek Jacobi. Attenzione, c’è anche Iman, bellissima.

C'è una talpa nel servizio segreto inglese. Deve essere identificata e, per non fare scattare uno scandalo, deve essere uccisa. Funzionario di medio livello, Morris Castle, ha avuto la "dabbenaggine" di aver sposato una donna di colore in Sudaflrica, dove era distaccato all'ambasciata. Per non separarsi da lei ottiene aiuto nell'espatrio della donna con un figlio da parte del KGB ed in cambio offre notizie segrete di modesto rilievo. Messosi in allarme a seguito della morte (poco chiara) di un giovane collega, richiede aiuto al KGB e fugge a Mosca. Quì scopre che il suo ruolo di talpa era in funzione di comprovare al servizio segreto inglese di avere una solida fonte d'informazioni nel Kremlino (in realtà un uomo del KGB che, rinviando le notizie apprese da Castle, si accredita come valido elemento e può agire facilmente come disinformatore). L'aiuto nella fuga ricevuto dal KGB serve solamente per far scoppiare uno scandalo e mettere l'intelligence service in difficoltà con gli americani. A fuga avvenuta Castle non serve più e quindi non riuscirà più a riveder moglie e ragazzo. E' una spy story, ma anche (e per me soprattutto) una storia di amore  intenso e struggente, sofferto e difficile. Tratto da un'opera di Graham Green (quì anche sceneggiatore), è l'ultimo lavoro di Otto Preminger, non molto riuscito in quanto appesantito sia dalla trama, sia dal ricorso eccessivo al flashback, con il risultato di rendere il film lento ed in alcuni momenti monotono. La recitazione di Nicol Williamson è convincente ed amara. Buona anche la prova di Richard Attenborough. Musiche apprezzabili.

Inizia così:

lunedì 18 settembre 2017

Dove cadono le ombre - Valentina Pedicini

Valentina Pedicini aveva girato un documentario in cui intervistava l'unica donna minatore italiana, nella grotta di Nuraxi Figus, in Sardegna (qui la scheda su Imdb).
Dove cadono le ombre è la sua opera prima (non documentaristica),
ispirata a una storia di genocidio da parte della Svizzera, contro gli Jenisch.
la storia raccontata si ispira ai libri di Mariella Mehr, una bambina sopravvissuta all'esperimento di eugenetica, di stampo nazista.
film doloroso, con molti silenzi, sguardi, turbamenti, piccole vendette, smascheramento di una storia poco conosciuta.
bravi gli attori, non è un film perfetto, ma vale più di quanto sembri.
non si può perdere, se uno capita vicino a una delle 5-6 sale italiane dove viene proiettato - Ismaele

ps: siamo cresciuti coi miti della civilissima Svizzera e del faro della civiltà che sarebbero gli Stati Uniti d'America, sappiamo adesso che sono stati una schifezza, non tralasciamo di dirlo tutte le volte che capita (parliamo del Potere, naturalmente, non di ogni singolo cittadino di quei paesi).


QUI il film completo




L’esperienza per lo spettatore di Dove Cadono le Ombre è completa, totalizzante: non termina, non può terminare dopo i titoli di coda del film. Si ha come l’impressione di aver ricevuto un pugno in faccia, di dover portare con sé il dolore di quanto si è appena visto: perché si tratta di un’opera di finzione, ma basata sulla storia di forse 2000 persone. Sarà difficile una volta usciti dal cinema non cliccare su google i temi portanti del film, alla ricerca di una verità che Valentina Pedicini ha sapientemente e coscienziosamente voluto denunciare e che la scrittrice Mariella Mehr, protagonista delle vicende denunciate nel film, documenta nei suoi romanzi; e ancora, non vogliamo rivelare nulla, perché le contrastanti emozioni che la pellicola suscita valgono la pena di essere vissute appieno (ed in questo, il trailer è perfetto nel suo non rivelare niente di più di ciò che lo spettatore dovrebbe conoscere prima della visione).
Ci troviamo sicuramente di fronte ad un prodotto lontanissimo dagli standard commerciali ed in quanto tale (sic!) di alto livello, quasi autoriale grazie alle particolari caratteristiche documentaristiche che la sua regista nasconde (come abbiamo affermato fin dall’inizio, neanche troppo velatamente) all’interno di esso, per forza di cose impossibile da far arrivare a tutti in modo adeguato. Dove Cadono le Ombre è al tempo stesso lento ma assolutamente magnetico, a volte ingenuo ma anche straziante, e potrebbe essere facile per alcuni soffermarsi sui (pochi) difetti – per la maggior parte figli dell’inesperienza – anziché sui suoi macroscopici ma forse più insidiosi pregi.

Sulla suggestione forse della poesia della grande Mariella Mehr, jenisch ella stessa e preziosa, autorevole traccia documentale di un orrore consumato sulla propria pelle (Dove non c’è luogo/si nutre la parola della montagna non rimossa./Disperata frase per frase, la mia Babilonia./Solo la ferita da aculeo tace.), la Pedicini ha realizzato un film di fantasmi, sommesso e onirico, un film che non si limita a fare memoria ma che è fatto di  memoria. Dei suoi meccanismi di riemersione e rimozione che si servono di movimenti sincronici di eventi diacronici, di carezze e cazzotti tra passato e presente, compresenti e sempre confliggenti.
Un muro contro muro dialettico, tradotto nello scontro mentale e fisico tra una sopravvissuta e una sopravvivente, tra la jenisch Anna, e la vecchia carnefice Gertrud. La prima, infermiera in un vecchio istituto per anziani, che una volta era stato l’orfanotrofio dove aveva vissuta da bambina; là dove incuteva terrore la seconda, la dottoressa che ora, invecchiata, ricompare come paziente. I ruoli che si invertono, l’una fa all’altra quello che l’altra le aveva fatto a sua volta e nel mezzo giochetti, meschinità, rivendicazioni, questioni non risolte.
Al netto di una certa impostazione teatrale, le due interpreti, Federica Rosellini ed Elena Ciotta, sono bravissime e l’operazione rivela una grande cura formale e un’algida architettura emotiva, un procede per ripetizioni a bassa intensità, (primi) piani severi e sentimenti strozzati come groppi in gola. La scena della memoria non può che essere la stessa dell’accaduto, il luogo dove i ricordi sono eventi intrappolati negli scantinati dell’anima. Immagini vuote, innocue, finché il lucchetto è chiuso. Riportami la notte, l’occhio del giorno mi strappa la ragione, scriveva la poetessa

In "Dove cadono le ombre" la memoria sepolta viene plasticamente messa in scena con le continue buche scavate nel terreno del parco da parte di Hans che porta ogni sera ad Anna resti di ossa di piccoli animali, nel vano tentativo di scoprire la sepoltura di Franziska. Ecco che allora nella diegesi principale nel tempo presente s'innestano numerosi flash back in cui la giovane regista (anche co-sceneggiatrice) mette in fila una serie di episodi che si raccordano l'un l'altro come singoli anelli di una catena che collega drammaturgicamente il presente con il passato dei personaggi. Il senso di decadenza e di disfacimento, di isolamento fisico e freddezza emotiva, sono aumentati dagli interni spogli ed essenziali, dai gesti misurati di Anna che implode le proprie emozioni. Ma quello che più tormenta la donna alla fine è comprendere quanto sia diventata uguale a Gertrud: più volte abbiamo delle inquadrature in cui le due protagoniste sono allo stesso livello, come ad esempio nella doccia oppure sedute dietro a un tavolo, mentre mangiano una caramella, dove persino i gesti sono compiuti in parallelo. La scoperta della verità è anche una liberazione per Anna che si è murata volontariamente nella villa per espiare una responsabilità tutta sua: quella di essere stata la preferita di Gertrud durante gli anni dell'orfanotrofio. La morte di una donna anziana, la quotidianità della vita degli ospiti al termine dell'esistenza sono metonimiche del dolore di Anna, così come la villa è il luogo simbolico di un intero dramma che ha colpito un popolo. I colori desaturati, le riprese claustrofobiche dei lunghi corridoi nella penombra, la stessa Anna inquadrata più volte nella semioscurità, contribuiscono a rendere visivamente il grumo nero che riempie il personaggio.
Se da un lato, "Dove cadono le ombre", forse, pecca di un eccessivo accademismo teatrale nella recitazione delle due protagoniste (a dire il vero di una certa bravura, Elena Cotta - Gertrud e Federica Rosellini - Anna), dall'altro la meritoria opera di disvelamento storico di un dramma umanitario senza mai cadere nel patetismo ne fanno una pellicola degna di essere vista e rigorosa nella sua messa in scena. "Dove cadono le ombre" lo possiamo considerare un'opera interessante alla stregua di "Corpo celeste" di Alice Rohrwacher, "Vergine giurata" di Laura Bispuri, "Liberami" di Federica di Giacomo e "Nico 1988" di Susanna Nicchiarelli. Valentina Pedicini con il suo film si rivela una regista di grandi qualità che la inseriscono di diritto tra le giovani autrici da seguire e affacciatesi nel panorama cinematografico degli ultimi anni.
Generalmente, quando si confeziona il proprio lavoro di debutto, si cerca di mantenere un linguaggio ruffiano e di andare sul sicuro. Valentina Pedicini, invece, decide intelligentemente di rischiare e propone una forma filmica tanto scarna quanto meticolosa nell’allestimento scenico, nella gestione della spazialità e in una direzione attoriale di stampo prettamente teatrale.
Una fotografia algida e particolarmente curata (firmata da Vladan Radovic, autore anche delle immagini della trilogia di Smetto Quando Voglio e qui forse al suo miglior lavoro) ci restituisce interni spettrali, nei quali la cineasta fa muovere gli spiriti del passato in inquadrature di grande suggestione. I tempi sono dilatati, i movimenti di macchina sobri e minimali; il commento musicale di Paolini e Grosso sorprendentemente (e fin troppo) diradato…

…in Dove cadono le ombre Valentina Pedicini rifiuta preconcetti e soluzioni di comodo, una divisione manichea tra bene e male, perfino in un contesto del genere. Soprattutto nei dialoghi tra Anna e Gertrude, che probabilmente rappresentano i momenti più alti e riusciti dell’intero film, assistiamo al dischiudersi di due personaggi senza abbellimenti, umani e autenticamente complessi, che spesso rendono difficile distinguere il confine che intercorre tra donna e bambina, amore e odio, vittima e carnefice.