mercoledì 29 giugno 2016

Lunchbox - Ritesh Batra

a metà fra un film di Frank Capra e un film neorealista, Ila e Saajan sono due persone sole in una città piena di gente, si conoscono per caso, senza facebook, solo chn delle parole sctirre sulla carta, come nei tempi antichi.
alla fine del film ancora non si sono mai visti, noi intanto possiamo conoscerli, almeno un po'.
una sceneggiatura a incastri, come fosse un orologio, di quelli che funzionano.
a me è piaciuto molto - Ismaele







 Che non siamo di fronte a una commediola di poco conto è evidente da subito, che lo spunto dei lunchbox (tradizione forte in India, assente in occidente) sia solo un pretesto è chiaro immediatamente. Ila e Saajan, nello scriversi consumano più della nascita di un sentimento o di un risveglio personale, raccontano il loro paese rinunciando ai fatti e passando direttamente al sepolto, al non detto e a quel misterioso ambito del pensiero che si situa tra allusione e allusione.
Concepito come un film di pura scrittura (delle situazioni, dei personaggi ma soprattutto delle epistole), Lunchbox stupisce per la sua capacità di avere anche una dimensione visiva potente e ragionata, per quanto abbia le idee chiare sul mondo che intende riprendere e per come sia in grado di farlo.

 Una storia che sembra uscita dalla penna di Henry O. e che il regista Batra orchestra con grande attenzione attorno ai volti dei suoi interpreti e agli spazi in cui si muovono, sia interni che esterni; a dimostrazione che anche se la vicenda ha il sapore delle fiabe, l'India in cui è calata risulta realistica. L'ottimo risultato di questo film non fa che dare ragione a quelli che in patria (e non solo) si sono lamentati della clamorosa mancata designazione all'Oscar nella categoria Miglior Film Straniero (gli è stato preferito il thriller on the road in lingua gujarati "The Good Road").

 Finalmente, lo que engrandece un largometraje como el que nos ocupa es la cantidad de detalles y la delicadeza y sensibilidad con que son captados por la cámara o el sonido (véase el personaje ausente de la tía de Ila, del que sólo oiremos la voz). Por cómo con un simple gesto, la imagen es capaz de mostrar la frustración de Saajam (alguien más joven le cede por primera vez su asiento en un abarrotado autobús). Por esos trenes que circularán con monotonía a través de la rutina de los protagonistas para que, de repente, uno se desvíe y modifique su ruta y velocidad, parejo al estado anímico de los mismos. Por esa renuncia a cualquier atisbo de condescendencia con los personajes y la insólita situación planteada, donde predominará la razón, provocando (paradójicamente) la emoción del espectador…

Lunchbox è il classico film che potenzialmente avrebbe tutto quello che serve per decollare ma non ce la fa e… rimane a terra. L’attore protagonista è Irrfan Khan, l’adulto naufrago di Vita di Pi, ma la regia non riesce a portarlo al suo vero livello. L’attrice protagonista è bravina ed è una perfetta sconosciuta per le nostre latitudini ma, come per il primo, anche per lei la regia la ingabbia in una parte dove non può dare più di tanto anche volendo…

…a The lunchbox le ha faltado ese contrapunto de gracia, de acabado o de ritmo que genera un filme redondo, porque precisamente en el ecuador de su metraje es cuando más carece de fogosidad, de trascendencia y de músculo narrativo, una lástima porque si de algo no carece su argumento, es la humanidad, el realismo y las buenas ideas que emanan de su guión y de su reparto. El rigor de su empuje inicial regresa al final devolviéndonos un buen sabor de boca pero que persiste más tarde en la memoria: este amor a la fiambrera es capaz de levantarnos el apetito, y nos remata la velada llena de fragancias y sabores contentos con el postre, pero a la vez demasiado empachados y todavía con el hambre reclamando acción, profundidad y resolución de una hermosa historia de amor y cotidianidad. 


sabato 25 giugno 2016

Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari) - Yasujirō Ozu

disse il regista Wim Wenders (che gli ha dedicato il film Tokyo-Ga), quando gli chiesero cosa fosse per lui il paradiso: "La cosa più simile al paradiso che abbia mai incontrato è il cinema di Ozu".
difficile dubitarne.
il film di Ozu non è documentario, ma riesce a essere vero come un documentario, contiene la realtà, rappresenta la vita, è la Vita, senza bisogno di finzione, pur essendo finzione, né di effetti speciali.
si resta attaccati allo schermo, condividendo con i due vecchietti la rassegnazione, non è il migliore dei mondi possibili, ma si adattano, e non danno mai le colpe a nessuno.
i figli fingono, sperano che i genitori tornino a casa presto, che palle, solo una nuora, la vedova del loro figlio morto in guerra, li tratta come si deve.
molti anni dopo Tornatore si ispira al film di Ozu, per girare "Stanno tutti bene", con il grande Marcello Mastroianni.
vogliatevi bene, guardate tutti i film di Ozu (un suo degno erede, sempre in Giappone, è Hirokazu Koreeda).

buona visione - Ismaele










…It is clear that "Tokyo Story" was one of the unacknowledged masterpieces of the early-1950s Japanese cinema, and that Ozu has more than a little in common with that other great director, Kenji Mizoguchi ("Ugetsu"). Both of them use their cameras as largely impassive, honest observers. Both seem reluctant to manipulate the real time in which their scenes are acted; Ozu uses very restrained editing, and Mizoguchi often shoots scenes in unbroken takes.
This objectivity creates an interesting effect; because we are not being manipulated by devices of editing and camera movement, we do not at first have any very strong reaction to "Tokyo Story." We miss the visual cues and shorthand used by Western directors to lead us by the nose. With Ozu, it's as if the characters are living their lives unaware that a movie is being shot. And so we get to know them gradually, begin to look for personal characteristics and to understand the implications of little gestures and quiet remarks.
"Tokyo Story" moves quite slowly by our Western standards, and requires more patience at first than some moviegoers may be willing to supply. Its effect is cumulative, however; the pace comes to seem perfectly suited to the material. And there are scenes that will be hard to forget: The mother and father separately thanking the daughter-in-law for her kindness; the father's laborious drunken odyssey through a night of barroom nostalgia; and his reaction when he learns that his wife will probably die.
We speak so casually of film "classics" that it is a little moving to find one that has survived 20 years of neglect, only to win Western critical acclaim nine years after the director's death.

Voyage à Tokyo est la chronique d’une famille dispersée. Ozu articule autour d’une trame narrative centrale très simple, des scènes où ne sont présents qu’un nombre limité des membres de cette famille. Ils ne seront jamais réunis tous ensemble, car lorsque le jeune fils arrive enfin au chevet de sa mère, elle sera déjà morte. Le récit ozuien coule avec sa fluidité habituelle, d’un personnage à un autre, de l’intrigue principale à une intrigue secondaire, à tel point que cette distinction devient caduque. Ce nivellement, cet aplanissement dramaturgique n’engendre pourtant pas de la monotonie, et n’interdit pas certains heurts. La dernière scène du film, remarquable exemple de concision et de lyrisme, se permet, en dépit du contexte plus enclin au recueillement, des effets de rupture qui montrent, une fois encore, que l’on ne peut définir le style d’Ozu comme une esthétique ascétique prônant la réduction des moyens d’expression, mais qu’il est, au contraire, une réserve inépuisable de variations, de résonances, de surprises…
…Le lyrisme d’Ozu est un lyrisme souterrain, sinueux, mystérieux. Dans ses films, l’émotion suit un cours imprévisible. Vous pensez vous ennuyer, votre esprit vagabonde et subitement une image, un visage, ou une expression vous bouleverse. L’émotion est diffuse, elle s’accumule progressivement, et jaillit soudain, mais jamais là où l’auteur l’aurait prévu, pas de tel calcul chez lui. Son cinéma agit comme une force de conversion inconsciente, qui vous envoûte par son style si singulier pour mieux vous émouvoir.

…L'atteggiamento contemplativo del regista si traduce in un uso della macchina da presa che diverrà firma inconfondibile: un'inquadratura quasi sempre fissa - solo un movimento di macchina percepibile in tutto il film, orizzontale, per scovare i due anziani seduti davanti a casa di Noriko - e incorniciata da porte e forme geometriche rettangolari, che precede l'ingresso in campo dei personaggi e si sofferma pe un istante anche quando questi sono usciti di scena. È la rivoluzione della semplicità, che passa dal celeberrimo punto di vista del tatami, con la macchina fissa all'altezza di un uomo seduto sulla stuoia, e che consente di rendere bidimensionali i primi piani, volutamente appiattiti dall'inquadratura. L'effetto è di aumentare al massimo la confidenzialità dei personaggi e insieme il lato enigmatico delle loro espressioni: mirabile in questo senso il lavoro di Ryu Chishu (Shukichi), che risponde per dialoghi monosillabici che spesso sottintendono pensieri in realtà opposti. Nei panni di Noriko la straordinaria Hara Setsuko, che regala un'interpretazione ineguagliabile per trasporto emotivo e per la credibilità che infonde a ogni espressione del viso. Mentre il bianco e nero dello straordinario Atsuta Yuharu asseconda l'illuminazione del sole in maniera esemplare, rischiarando a giorno le inquadrature alle terme di Atami o nella soleggiata Onomichi e sottolineando i neri della notte quando gli anziani genitori si ritirano per riposare. 
Cinema come balsamo, come lezione per un approccio positivo alla vita, come momento di convivio familiare, come punto di riferimento a cui tornare incessantemente, ogniqualvolta si ritenga di aver smarrito la retta via.

Un film lineare, se vogliamo quasi banale, che parla dell'esistenza, della quotidianità, della normalità della vita, appartenente al genere “Shomingeki” (film sulla gente comune) e che, nonostante usi e costumi tipici del Giappone che ci vengono mostrati mentre seguiamo il viaggio di questi due teneri anziani, ci mostra tematiche comunque universali, che riescono a toccare e coinvolgere tutti, e, nonostante siano passati più di sessant'anni dalla sua realizzazione rimane attualissimo…

…una caratteristica prorompente del cinema di Ozu e di "Viaggio a Tokyo" nello specifico è l’emergere di una enunciazione mai moralista. Ozu, attraverso il patriarca, non si esime dai giudizi di valore, negativi, sullo stato delle cose: stigmatizza l’anomia metropolitana, la sua andatura schizofrenica; riporta in luce il dolore della guerra perduta, dei lutti che ha provocato; accusa esplicitamente le nuove generazioni di non essere buoni figli coi loro padri. In tutto questo, tuttavia, non emerge né rimprovero, né vittimismo o colpevolismo ma semplice registrazione di fatti, il fluire delle cose e del tempo, entro cui ritrovare una qualche forma di armonia perduta.
Shūkichi è sì deluso dai figli, dalla loro involuzione sia sociale sia umana, ma non li accusa mai e anzi, si scopre, lui stesso non è stato un padre perfetto, dedito com’era al vizio del bere come ci fa vedere la più divertente sequenza del film nella quale si ritrovano tre vecchi amici che organizzano una rimpatriata a base di sakè e sono riaccompagnati dalla polizia in piena notte a casa della "terribile" Kōichi, la figlia di Shūkichi, che si dispera, frigna verso il genitore completamente privo di senno, lo sbatacchia, gli smanaccia il cappello e in tutto il lungo tempo della sequenza, in questa escalation di rabbia montante, il patriarca si addormenta e inizia a russare dolcemente, positivamente ubriaco. 
Ai giorni nostri una sequenza siffatta sarebbe sintetizzata da vari stacchi di montaggio che avrebbero risolto in trenta secondi e cinque inquadrature il tempo di registrazione che Ozu lascia invece intatto nel long-take e che ancora ci meraviglia per la sua assoluta aderenza alla realtà, alle “cose come effettivamente sono”. Come effettivamente si svolgono…

da qui

venerdì 24 giugno 2016

Maison Ikkoku - Cara dolce Kyoko (tratto da un manga di Rumiko Takahashi, in spagnolo)


ecco il primo di 96 episodi (eccoli)


qui il secondo episodio

qui il terzo episodio

qui il quarto episodio

qui il quinto episodio


grazie a Cesare per avermelo fatto conoscere

martedì 21 giugno 2016

Submarino - Thomas Vinterberg

due bambini crescono, nonostante tutto, e ognuno subisce i suoi fantasmi.
due fratelli si perdono si trovano, si perdono, la prigione li fa ritrovare.
alcuni bambini non sopravvivono, altri crescono, e hanno un padre e uno zio che sono i bambini di prima.
e il Male è sempre lì.
questo non è film per chi ama solo ridere, se non si è capito, è un film doloroso, ma merita di sicuro - Ismaele








…¿Existe un cine del mal? No lo sé. Solamente sé que la vida encierra momentos de una terribilidad infinita, y que ser capaces de contárnoslos como hace Vinterberg, en este caso, sin abrumarnos solamente con la voluptuosidad del mal, es una maravilla. ¿Existe algo semejante a lo que San Juan denomina el pecado del mundo, como congénito al ser humano? Cada uno se responderá. Pero sí es cierto que, en tantas ocasiones, acabamos sumergidos en lo peor sin poder evitarlo, como arrastrados por una corriente omnipotente. Entonces, solamente nos queda mirarnos en un espejo y darnos pena y conferirnos esperanza. Tal praxis nos la ha entregado Thomas Vinterberg en este Submarino: nos enseña que hay que intentar siempre sacar el periscopio y contemplar el horizonte del mar, que es el vivir humano. Es posible.

Tenendo presente l'immagine iniziale con i bambini sotto il lenzuolo oppure ripensando ai primi piani degli stessi con la faccia divorata dal buio, si potrebbe dire che "Submarino" nel suo riferirsi ad un mondo sotterraneo rappresenta un titolo azzeccato nel trasporre in senso figurato il pieno ed il vuoto della storia, la condizione di isolamento ed allo stesso tempo la voglia di essere insieme dei personaggi, indipendentemente dal modello familiare e nonostante i non detti dei loro silenzi.

Submarino è un melodramma eccessivo e sopra le righe, al quale avrebbe giovato certo una maggiore asciuttezza e una condensazione delle tragedie in cui incappa il malcapitato Nick. Una vita non basta, almeno così ci piace credere, aaccumulare un tale bagaglio di sfortuna, paragonabile solo a quello che colpisce nei cartoons della WB il simpatico Willy il Coyote, personaggi uscito dalla geniale matita di Chuck Jones. Anche Nick cercherà di resuscitare innumerevoli volte, proprio come il povero Willy, ma per lo spettatore, nel caso del film di Vinterberg non è prevista alcuna catarsi…

domenica 19 giugno 2016

Calendar – Atom Egoyan

nei film di Atom Egoyan c'è sempre qualcosa di misterioso, qui un cameraman che non si vede mai, e il ritmo dei film, fra l'Armenia e casa sua, in Canada, è scandito dalle foto che illustrano i mesi del calendario (che fa per soldi, è un lavoro, lo dice chiaramente).
a cena c'è sempre una donna diversa, che parla un'altra lingua, e che vicino al calendario fa una telefonata.
un film semplice, forse, che strega.
cercatelo, vi catturerà - Ismaele






Calendar è la storia della fine di un amore. Lui e lei che si vogliono bene, ma qualcosa non funziona più; a poco a poco, una terza persona si infila nella coppia, e lui si sente sempre più estraneo. Come si vede, una storia molto comune, già raccontata molte volte; ma Egoyan è un narratore finissimo, e in questo caso – oltre alla grande bravura degli interpreti – colpisce una sua tecnica molto particolare, che non ho mai visto applicare in nessun altro film che io mi ricordi…

Calendar is best described as a sort of experimental documentary.  Egoyan steps in front of the camera to play a photographer who has been sent on assignment to Armenia to create a calendar.   His wife (real-life wife Arsinee Khanjian) joins him and begins to learn more about the Armenian culture thanks to their passionate and knowledgeable guide who is just known as Driver (Ashot Adamian).
Egoyan cuts between three specific points in the story; the distant past, caught on videotape, as Egoyan (labeled Photographer in the credits) and Arsinee (Translator) travel the countryside, the near-past as an answering machine delivers potential dates to Photographer, and the shifting present as Photographer dates each woman with a specific level of aloofness.
This sort of time shift was mostly hinted at in Egoyan's previous work and used more for quick flashback's and for the revelation at the end of The Adjuster.  Here the shifts are present the entire film.  The chronological spheres move forward even as Egoyan cuts back and forth between each set of events.  So despite the consistent changes in time, Egoyan manages to keep things moving at a brisk pace without sacrificing any narrative clarity…

…The photographer's disassociation with the Armenian country is a product of and reflection on the director’s own early apathy towards it. At one point the photographer talks to one of his dates about her Egyptian roots and, with obvious regret, tells her ‘you wouldn’t see that in me,’ referring to the brief period he spent in Cairo in his childhood. This ambiguity of national identity is something that Egoyan returns to frequently throughout his career and while Ararat (2002), in which he explores the Armenian genocide of 1915, remains the most notable study of his country of heritage, Calendar describes in much more personal detail how he feels towards his homeland(s). Through this film we get an impression of what it’s like to be Armenian and Egyptian and Canadian, to be all of these and none of them at the same time.

venerdì 17 giugno 2016

Il quarto stato - Dennis Gansel

peccato che non sia passato in sala, è un bel film complottista, ma solo perché i complotti esistono.
ambientato, e girato, a Mosca, è una storia di giornalisti, spie, ricatti, torture, e omicidi, protagonista il grande Moritz Bleibtreu.
cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele




…C’è davvero poco che non funziona in questo film, e a colpire è finalmente lo spostamento di un’asse bipolare fin troppo inflazionato. Ecco allora una storia dei nostri anni, dipendente dal passato sì, ma che mostra esclusivamente la politica dell’Est. Niente stelle e strisce, ma soltanto una questione tra Europa e Russia, tra Stato e terrorismo, tra servizi segreti e giornalismo d’inchiesta.
Il Quarto Stato è un titolo ambiguo perché in questo film oltre lo Stato, vediamo ben nitido il potere dei servizi segreti e soltanto per ultimo, sofferente e deviato, quello della stampa.
Un buon film, consigliato anche a chi non è appassionato del genere.
Un mondo quello russo tetro e senza speranza, il cui sociale è attraversato da una precarietà economica e insicurezza tali da sconvolgere ogni idea positiva per un progetto migliore di vita. Dominano le violenze ideologiche e razziali, in un caos di contrapposizioni che sfociano in un inutile terrore.
Ottimo thriller, poco considerato in un’Italia forse perché appare così lontana dalle spaventose problematiche russe.

Pellicola ingenuamente coraggiosa quest'insolito thriller tedesco , ambientato nella nuova Russia . Pare persino strano che , visto la storia che porta avanti , sia stato permesso alla troupe di girare a Mosca ... Evidentemente la strategia della tensione non è una prerogativa italiana ... Ritmo un po' lento , cast poco noto , a parte la Smutniak , ma che fa il suo dovere, bella fotografia e regia attenta del giovane Gansel . Titolo ( per me ) incomprensibile .


mercoledì 15 giugno 2016

L'uomo che vide l'infinito - Matt Brown

chi non sa niente di Srinivasda Ramanujan, prima del film, o dopo, a piacere, può dare un'occhiata qui.
per quanto il film non sia perfetto, tutti lo dicono, quello che importa è che si sappia di Ramanujan.
gli attori sono bravi (Jeremy Irons e Dev Patel, fra gli altri), la storia è un dramma senza vie d'uscite, guerra, malattia, un amore bellissimo e tormentato, amicizia, razzismo.
un genio fra i colonizzatori, pochi intuiscono la sua immensa grandezza, di quanti geni così non si saprà mai niente, i sazi bianchi del primo mondo non li (ri)conoscono.
chissà cosa ne avrebbe scritto Frantz Fanon, della storia di Ramanujan.
intanto è al cinema, buona visione - Ismaele





Il regista vuole dimostrare di sentirsi molto a suo agio nello scrivere e raccontare questa storia; e il suo intento è quello di colpire, educatamente, i centri emotivi dello spettatore con intensità, per fortuna senza piagnistei.
Brown si centranta sulla vita persona del protagonista, giunto con innocenza e entusiasmo dall’India, con le statuette delle divinità e l’incenso e accolto con approssimazione grossolana. La matematica è inserita nei dialoghi con una certa disinvoltura, nonostante l’uso di alcuni stereotipi forzi e aggravi il film nel suo complesso. A colmare alcuni luoghi comuni ci pensa la bravura impetuosa di Jeremy Irons e Dev Patel…

Matthew Brown è anche sceneggiatore e qui adatta una storia vera già raccontata nel libro di Robert Kanigel. Ai colori accesi e spirituali del prologo in India alterna gli ambienti eleganti e grigi delle sale universitarie. Ma il tutto è raccontato senza correre il minimo rischio espressivo. Dov’è la magia della matematica? E il mistero dei numeri e del genio di Ramanujan? Sostanzialmente L’uomo che vide l’infinito è figlio di un cinema vecchio e molto descrittivo, che intrattiene senza emozionare sul serio. L’imprevedibilità del genio non si apre mai alla visione ma resta incastonata nelle bacheche di Cambridge. Alla fine Brown sembra riuscire meglio soprattutto nella ricostruzione dell’intellighenzia britannica degli anni ‘10, con il progressismo anticonformista di Hardy e Russell contrapposto all’ottusità accademica di un mondo agli albori del secolo breve. Ma è un mondo in cui il genio Ramanujan vuole entrare a tutti i costi, alla fine riuscendoci e completando un tragitto di maturazione sostanzialmente ambiguo, che sa molto di integrazione colonialista.

Resta, di questo L’uomo che vide l’infinito, la confezione sontuosa, tutta tesa ad evidenziare un contrasto insanabile tra i due contesti sociali che il film descrive: da una parte la realtà luminosa, ma contrassegnata da miserie e difficoltà, della terra natale del protagonista; dall’altra le cupe stanze dell’università britannica, spesso illuminate da ammalianti tonalità color seppia, custodi di una sapienza che il razzismo di gran parte dei loro abitanti vorrebbe avocare a sé in modo esclusivo. Se lo stesso tema della discriminazione è trattato dalla sceneggiatura in modo discontinuo ed intermittente, rendendo solo a tratti il disagio di un giovane colonizzato che cerca riscatto nella terra dei colonizzatori, più efficaci si rivelano le incursioni della storia (e di quel conflitto fin dall’inizio adombrato dalla trama) nel tessuto narrativo del film e nei suoi sviluppi. Per il resto, il film di Matthew Brown sceglie di adottare soluzioni narrative già abbondantemente sperimentate, semplificando oltremodo la figura del protagonista e le sue vicende (di sconcertante banalità la sottotrama familiare) e sacrificando le potenzialità del soggetto a una concezione standardizzata e preconfezionata del biopic. Si resta, al termine della visione, con la sensazione di aver solo sfiorato l’essenza di un personaggio molto più complesso, ingabbiato, insieme a tutta la sua vicenda, nelle maglie di un “formato” che non gli rende giustizia.

La relazione tra Hardy e Ramanujan si basa in modo fondamentale sulla teoria matematica; ma la matematica, nel film, compare pochissimo.  La ricostruzione d’ambiente è invece molto accurata, e Ivory è bravo a rendere quello strano intellettuale che fu Hardy. Ripete le parole della sua autobiografia, A Mathematician’s Apology (1940): «Ancora oggi nei momenti di depressione mi dico “Io ho fatto qualcosa che voi non sareste stati mai capaci di fare: ho collaborato con Littlewood e Ramanujan, su un piano quasi di parità”». È credibile nell’essere da un lato scostante, dall’altro capace di rendersi conto che ha davanti un fenomeno unico. È un continuo incontro-scontro quello fra lui e Ramanujan: l’uno ateo e l’altro convinto che le proprie intuizioni matematiche gli vengano direttamente dalla divinità che venera; l’uno un fine intellettuale e l’altro l’immigrato da un paese coloniale, senza istruzione.
Il regista impiega movimenti di macchina molto lenti, le riprese «circondano» i personaggi; siamo molto vicini ai protagonisti, quasi fossimo a teatro. Tutto molto preciso. Però… manca l’entusiasmo. Che cosa fa tutto il giorno Hardy, a parte aspettare che arrivi Ramanujan? E che fanno poi insieme? Si accenna alla mancata dimostrazione di Ramanujan della formula – tuttora sconosciuta – che genera tutti i numeri primi (questione essenziale nei problemi di sicurezza informatici). Mentre ottiene risultati fondamentali sulle partizioni (sia da solo che con Hardy), sulle serie, sul calcolo degli integrali e in tanti altri settori molti dei quali tuttora molto utili in una quantità di applicazioni della matematica…


domenica 12 giugno 2016

El clan – Pablo Trapero

finita la dittatura militare torna la democrazia in Argentina, la televisione in sottofondo scandisce quei momenti, anche la presentazione del rapporto Nunca más, nel 1984 (alla tv si riconosce, con Alfonsín, Ernesto Sabato).
Arquimedes Puccio, non potendo trafficare con servizi segreti ed esercito, come prima, si ricicla in quello che o sapeva fare, o ha visto fare, nel settore dei rapimenti con riscatto, niente di politico, solo per il suo conto in banca, per la famiglia e con la famiglia.
tutto va per il meglio fino al momento in cui tutto va a puttane, per troppa impunità o troppa sicurezza, e anche il dio dei rapimenti cade, con tutta la famiglia (il suo clan).
gran ritmo, con diversi flashback o flashforward, dipende dal punto di vista.
il protagonista, Guillermo Francella, era Pablo Sandoval, il collega-amico di Benjamin Esposito, ne Il segreto dei suoi occhi.
El clan è un gran bel film, chissà se e quando arriverà in sala da noi - Ismaele






…questo è cinema di rara potenza, che finalmente si misura con un caso (di vera e nerissima cronaca) sconvolgente, con i demoni che stan sotto la civilizzazione e la borghese vita dei suburbia, che non si perde nei narcisismi e negli ombelicalismi di tante cose e cosucce viste anche a questo Venezia Film Festival. E alla fine del press screening, lungo e sacrosanto applauso.
Nell’ultimo anno della dittatura militare (1982), in un regime già vacillante in cui comincia la resa dei conti, Arquimedes Puccio, lavoratore dei servizi segreti con parecchi figli a carico, capisce che è ora di riciclarsi. Di trovare nuove fonti di denaro. Avendo, si immagina, sviluppato un certo know-how durante il regime in fatto di torture, rapimenti di oppositori e altre sporchissime faccende, pensa di mettere a frutto quanto ha imparato mettendo su un’aziendina familiare insieme a un paio di amici. Un’azienda di rapimenti a scopo di lucro. Tutti in famiglia sanno, la moglie, i figli, le figlie. Il rampollo più grande, star della squadra argentina campione di rugby, vien subito coinvolto come braccio destro, incaricato di individuare i bersagli grossi e di far da picchiatore quando occorre. Un paio di loschi figuri, probabilmente pure loro implicati nei servizi, vengono arruolati come manovalanza. Un rapimento, due, tre. Si terrorizzano i familiari degli ostaggi fingendosi un gruppo armato rivoluzionario, si incassano i soldi, si ammazzano i rapiti. Una catena di montaggio del massacro e dell’accumuazione barbara del capitale, il boss e i suoi non si fermano davanti a niente, alla tortura, all’inganno, e intanto in cassaforte i soldi si ingrossano…

Trapero con un’abilità registica accostata spesso a quella scorsesiana, specie per l’avvilupparsi della musica alle scene più coinvolgenti, costruisce un film pieno di ritmo, dal montaggio serrato e costellato da piani sequenza (un po’ il suo marchio di fabbrica), in particolare quello finale mozzafiato che chiude sapientemente una storia dove le angosce sotterranee, controbilanciate dai successi al rugby, dalla freschezza dei ragazzi, da un desiderio di normalità che attraversa tutte le componenti sane della famiglia, alla fine deflagrano tragicamente.
Riflettendo retrospettivamente sulla storia di un paese che ha stentato/stenta ad abituarsi alla democrazia, l’argentino mette in scena i mostri partoriti dalla dittatura, sui quali svetta Arquimedes, mitologico Crono che pur di sopravvivere inghiotte i propri figli.

Un attimo prima di scomparire nel vuoto, il figlio sorride al padre. La vicenda della famiglia Puccio coinvolta nell’organizzazione di una serie di sequestri nell’Argentina degli anni ’80 è nel film di Trapero il pretesto per indagare la fallibilità dei rapporti, o meglio, i ripetuti tentativi di interrompere dei legami di asservimento. La Storia è la scena dalla quale si diramano altri sistemi di influenza che coinvolgono, in un processo di inarrestabile corruzione, il rapporto vittima-carnefice, padre-figlio, famiglia-Stato. Ogni specifico sistema è l’esempio di un servizio dovuto e reso ad un organismo panottico, in apparenza felicemente funzionante (i riferimenti al Kynodontas di Lanthimos sono evidenti) in cui il dettaglio imprevisto inceppa il piano, fa crollare l’organizzazione, affonda il contesto sicuro nel quale ricevere un ruolo…

Buenos Aires, fine anni Ottanta, a cavallo fra la caduta del regime militare e l’avvento di Alfonsin. Una famiglia dall’apparenza tradizionale, tutta a casa e chiesa, è in realtà una banda di feroci criminali dediti ai rapimenti e agli omicidi di ricchi borghesi. Tratto da eventi reali, El Clan, diretto da Pablo Trapero, regista quarantaquattrenne fra i quotati nel mondo latino americano, e coprodotto da Deseo di Almodovar, è una storia – come la definisce lo stesso Trapero – dove «l’incredibile diventa realtà». Il doppio volto della famiglia di Arquimedes Puccio, infatti, ha scosso l’Argentina proprio nel momento in cui il Paese stava per liberarsi dalla dittatura. Il pater familias Arquimedes plagia con sadica nonchalance non solo il il figlio Alejandro, campione di rugby e nazionale dei Pumas, utilizzandone la celebrità, ma anche la moglie e gli altri pargoli, fra cui due femminucce: tutti accettano, come in una sorta di tragica commedia vissuta con passiva normalità, i criminali ordini di papà…

…Nel complesso la Storia dell’Argentina penetra nelle vicende di famiglia Puccio con discrezione e gli eventi salienti di quegli anni sono mostrati prevalentemente attraverso rapidi estratti dai notiziari televisivi o discorsi ufficiali dei rappresentanti delle istituzioni.
Apprendiamo che dittatore Leopoldo Galtieri è stato deposto, poi che il paese è tornato alla democrazia con l’elezione di Raúl Alfonsín, questi inizia un lungo processo di riappacificazione della popolazione con la propria recente storia, grazie anche all’istituzione del CONADEP (la commissione nazionale sulla scomparsa delle persone) e la conseguente compilazione del rapporto Nunca mas (mai più). Il film parte però proprio da quest’ultimo evento, facendo andare la sua storia à rebours, e il fatto poi che gli intermezzi storici siano di così breve durata non facilita ad un pubblico internazionale la perfetta e lineare comprensione dei fatti. Ma d’altronde un eccesso di zelo avrebbe appesantito il film, rendendolo oltretutto indigesto allo spettatore argentino.
È invece proprio limitando gli intermezzi da “bignami storico”, che Trapero lascia emergere con nettezza in El Clan le sue crudeli metafore. Appare chiaro allora che l’attività criminale dei Puccio è stata possibile proprio perché questa si ispirava in piccolo a quanto la dittatura aveva fatto su più vasta scala con il rapimento, la tortura e l’uccisione dei dissidenti politici (i desaparecidos). L’omertà che consente poi alla famiglia di sopravvivere e di proseguire con rapimenti ed estorsioni (i figli minori simulano, fino alla fine, di non sapere) è la stessa di un intero paese, che per anni ha tollerato i soprusi del regime, magari anche negandone l’esistenza.
El Clan è dunque principalmente un film su un lungo processo di espiazione e di recupero del rimosso, sull’elaborazione di un atroce lutto collettivo, che va ben oltre la condanna o la morte dei suoi responsabili.

Trapero recurre en su brioso film a un estilo deconstruido, alternando en la narración brevísimos planos, flashes, del asalto del hogar de los Puccio por unos hombres armados, cuya identidad inicialmente desconocemos, con diferentes secuestros del pasado y momentos de la vida normal de los Puccio, incluido el enamoramiento de Alejandro hacia una chica, Mónica, que por supuesto no sabe nada de lo que hace el otro. Llegado cierto punto de inflexión, el epílogo que podría describirse como judicial, aunque suponga cierto cambio de tono, está perfectamente imbricado en la trama, hasta conducir a un poderoso y abrupto desenlace, donde el espectador tiene la sensación de haber recibido un tremendo puñetazo en el estómago.


sabato 11 giugno 2016

i Radiohead e The Wicker Man (di Robin Hardy)



all'origine della storia che accompagna la musica:
https://www.dailybest.it/cinema/wicker-man-film-video-radiohead/

The Wicker Man 
Un film unico ed eccezionale. Robin Hardy, il regista ha poi girato solo ”The fantasist”, 13 anni dopo. Ci sono molti motivi per vedere questo film, e ciascuno ne vale la pena, la musica, la sceneggiatura, gli attori tutti, Britt Ekland nuda (in una scena che trovi su youtube solo censurata), alla fine un film che non ti dimentichi, un capolavoro, direi. Provare per credere - Ismaele


venerdì 10 giugno 2016

Fukushima: A Nuclear Story - Matteo Gagliardi

un documentario come un giallo, sappiamo qualcosa di quello che è successo, ma Pio d'Emilia (qui un omaggio al giornalista) ce lo fa vedere corpore presenti, è andato a Fukushima e ha raccontato, da testimone, un dramma che abbiamo solo intuito, a suo tempo.
ha scritto un libro e adesso la storia è raccontata anche per chi va al cinema (se naturalmente qualche cinema la proietta).
l'avventura di un giornalista, il coraggio di chi ha cercato di salvare le vite degli altri, le bugie, le viltà, e un colpo di scena finale, che non sapevamo, un guasto non previsto ha salvato il Giappone.
chi, dopo aver visto questo film, loda l'energia nucleare, o è ben pagato per questo, o non capisce, tertium non datur.
cercatelo, vi interesserà molto - Ismaele





A differenza delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, con Fukushima siamo di fronte ad una tragedia interna, accaduta in tempo di pace. È uno dei punti cardine dell’indagine suggerita dal film, per meglio comprendere il crollo dell’armonia di un mondo che abbiamo sempre immaginato molto equilibrato: il Paese che avrebbe dovuto essere l’ultimo a sposare la politica nucleare è stato uno dei primi a sostenere l’apertura di 52 centrali. Nel gioco delle responsabilità c’entrano anche gli Stati Uniti, complici nell’incentivare durante la Guerra Fredda l’utilizzo di una fonte energetica radioattiva. Una morale scomoda, ma realistica: quando tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole. In mancanza di un peccato condiviso e conclamato non c’è pentimento, mentre il Giappone, a distanza di 5 anni, fa ancora fatica a rialzarsi.

 Fukushima – A nuclear story’ ripercorre il disastro attraverso occhi e voce di Pio d’Emilia, corrispondente di Sky TG24 che vive in Giappone da oltre trent’anni, primo giornalista straniero ad essere entrato nella cosiddetta ‘zona proibita’ e ad aver raggiunto la centrale nucleare: un punto di vista totalmente inedito della tragedia, narrata dalla voce di Willem Dafoe nella versione inglese e da Massimo Dapporto in quella italiana.
D’Emilia raccoglie più di 300 ore di materiale con riprese scioccanti, interviste agli abitanti delle zone colpite, alle autorità locali e governative, e porta l’attenzione sugli ‘effetti collaterali’ sociali causati dalle scelte del governo e del cosiddetto ‘villaggio nucleare’.
Gli autori uniscono in questo documentario, risultato di tre anni di ricerche, la storia di un giornalista che non ha abbandonato il suo lavoro nel momento di maggior pericolo, i dubbi e i timori di un uomo nei giorni seguenti la triplice tragedia di Fukushima e la ricerca di ciò che è veramente accaduto nella centrale nucleare. In una intervista inedita l’ex Primo Ministro Naoto Kan rivelerà come Tokyo, e probabilmente il Giappone, si siano salvati per un caso fortuito da una catastrofe ben più grande.
Grazie ai disegni di Nicola Ronci e Ilaria Gelli (Accademia Europea di Manga) che integrano le immagini, il documentario è anche il primo esempio di ‘manga made in Italy’ applicato ad una produzione audiovisiva italiana…
da qui


Giappone 2011. Dopo le prime avvisaglie di un problema grave occorso alla centrale nucleare di Fukushima, a seguito del terremoto e del susseguente tsunami, Pio D'Emilia cerca di raggiungere la città ma trova ogni strada bloccata. Il suo racconto e le sue testimonianze dirette rivivono insieme alla ricostruzione di quanto avvenuto in quei giorni e soprattutto di quanto è stato occultato dalla TEPCO, società proprietaria della centrale.
Tra tweet, post e remotizzazione del lavoro, il mestiere dell'inviato pare quasi un rituale antico, il relitto di un tempo andato. Come se per raccontare la notizia non fosse più essere necessario stare dentro la notizia. L'esempio di Pio D'Emilia ci dimostra l'esatto opposto, con la sua presenza fisica di testimone oculare in ogni avvenimento cruciale capace di tenere con il fiato sospeso il mondo, sia esso il flusso migratorio alle porte dell'Ungheria o il movimento degli ombrelli che occupa Nathan Road a Hong Kong. 
Ma Fukushima: A Nuclear Story è molto più di un semplice reportage giornalistico. Il documentario girato da Matteo Gagliardi e concepito da D'Emilia - che sul tema aveva già pubblicato il libro Tsunami nucleare - racchiude in tre dolorosi atti avvenimento, occultamento della verità e ricostruzione storica di come si sia arrivati a questo. Disegni in stile anime nipponico e grafiche digitali aiutano a comprendere ciò che non si può vedere e quel che è avvenuto alle vittime di Fukushima: un dramma superato solo dalle immagini della zona "proibita" in quanto radioattiva, in cui D'Emilia ci conduce come un novello Virgilio tra carcasse di animali, tra maiali e cavalli che scorrazzano per le strade, tra malati terminali che non possono muoversi da lì, tra macerie e abbandono. Scene viste solo nella Phnom Penh del 1975 o in un film di fantascienza apocalittico (e la macchina da presa non si sofferma per caso sui Dvd di Neon Genesis Evangelion a casa di D'Emilia). 
Infine l'ultimo atto, forse il più doloroso in assoluto. Quello che ci fa riflettere sulle colpe dei padri, ripercorrendo le responsabilità degli Stati Uniti nell'incentivare, durante la guerra fredda, il ritorno al nucleare del Paese che proprio loro avevano colpito con l'uranio a Hiroshima e Nagasaki, e che ci insegna come la salvezza di Tokyo e di milioni di vite umane si debba, oltre che al sacrificio di alcuni eroici individui, a un imprevisto, a un banale malfunzionamento tecnico. Che ci dimostra da un lato come sia impossibile pensare di presiedere a tutto e prevenire ogni errore e dall'altro come il nostro destino sia costantemente appeso a un filo. A oggi, infatti, ma non si sa per quanto, le centrali nucleari sul suolo nipponico sono tutte spente. Nel resto del mondo e tutto intorno a noi ancora no.

 Il documentario mostra il lavoro di Pio d’Emilia, dalla sua decisione di lasciare Tokyo subito dopo il terremoto dell’11 marzo per spostarsi più a nord, verso le aree distrutte dal terremoto e dalle onde alte fino a 40 metri portate dallo tsunami. In quei giorni, il giornalista girò più di 300 ore di video, riprendendo la vastità dei danni e raccogliendo le testimonianze delle popolazioni locali. Il docufilm mostra anche la prima visita organizzata a Fukushima Daiichi per i giornalisti dalla Tepco, l’azienda che ha in gestione l’impianto, nel giugno del 2013, che per la prima volta permise alla stampa di raccontare la gravità dei danni all’impianto nucleare. Pio d’Emilia ha inoltre visitato uno dei villaggi costruiti per gli sfollati di Fukushima, che da quasi cinque anni vivono in case prefabbricate nell’attesa – forse vana – di potere tornare alle loro abitazioni…

Lo sguardo di Fukushima: A Nuclear Story abbraccia l’intera drammatica vicenda in ogni suo aspetto,soffermandosi con accessibile dovizia sulle cronache più propriamente scientifiche inerenti il devastante terremoto di Tōhoku (magnitudo 9,0, il settimo per intensità da quando esiste la sismografia), lo tsunami che ne è seguito (le onde abbattutesi sulle mura difensive della centrale di Dai-ichi erano alte almeno 14 m, oltre il doppio di quelle previste nelle peggiori delle ipotesi), i danni irreversibili ai reattori e le dispersioni radioattive nei terreni e nelle acque circostanti.
Quindi, intrecciata alla tragedia fisica, strettamente fenomenica, viene presentata la non altrettanto divulgata desolazione dei sopravvissuti, costretti ad affrontare un cataclisma ad un tempo visibile ed invisibile, ad abbandonare le proprie abitazioni, le proprie attività, i propri animali destinati a morire d’inedia, ad accompagnare alle fosse comuni non solo le vittime della scossa e dell’inondazione, ma anche quelle morte di crepacuore o suicidatesi per permettere alle famiglie di farsi risarcire dalle aziende assicurative.
Non sono tralasciate neppure le ripercussioni sulla pubblica opinione, i “peccati dei padri”: ecco infatti gli USA, tempestivamente misuratisi con l’accaduto e interessati a mantenere saldo il monopolio del nucleare in Giapponeminimizzare l’entità della sciagura, quando invece la Francia sovrastima i dati reali propagandando a ruota libera l’assoluta sicurezza delle proprie centrali…
da qui

mercoledì 8 giugno 2016

Atanarjuat (The Fast Runner) - Zacharias Kunuk

grazie a Roger Ebert scopro che esiste questo film, lo guardo ed è davvero straordinario.
la tragedia greca e Shakespeare sembrano le fonti di questo film, in realtà si tratta di racconti tramandati dagli anziani.
interpreti perfetti, ambienti per noi inospitali, una regia e una sceneggiatura che non fanno una grinza.
dentro il film c'è tutta l'umanità, eterna: la viltà, il coraggio, la vendetta, il tradimento, l'amore, la lealtà, la famiglia, la vita, la morte, la natura spesso matrigna.
a Omero e Shakespeare questo film sarebbe piaciuto, un capolavoro quasi sconosciuto, voi cercatelo, non ve ne pentirete - Ismaele







We could begin with the facts about "The Fast Runner." It is the first film shot in Inuktitut, the language of the Inuit peoples who live within the Arctic Circle. It was made with an Inuit cast, and a 90-percent Inuit crew. It is based on a story that is at least 1,000 years old. It records a way of life that still existed within living memory…
At the end of the film, over the closing titles, there are credit cookies showing the production of the film, and we realize with a little shock that the film was made now, by living people, with new technology. There is a way in which the intimacy of the production and the 172-minute running time lull us into accepting the film as a documentary of real life. The actors, many of them professional Inuit performers, are without affect or guile: They seem sincere, honest, revealing, as real people might, and although the story involves elements of melodrama and even soap opera, the production seems as real as a frozen fish.
I am not surprised that "The Fast Runner" has been a box office hit in its opening engagements. It is unlike anything most audiences will ever have seen, and yet it tells a universal story. What's unique is the patience it has with its characters: The willingness to watch and listen as they reveal themselves, instead of pushing them to the front like little puppets and having them dance through the story. "The Fast Runner" is passion, filtered through ritual and memory.

The film Atanarjuat: The Fast Runner by Nunavut director Zacharias Kunuk is the number 1 Canadian film of all time, according to the fourth edition of Canada's All-Time Top Ten List.
Atanarjuat replaced the 1971 film Mon Oncle Antoine, which had been the long-standing favourite. Previous lists were released in 1984, 1993 and 2004.
The Toronto International Film Festival asked film insiders and academics from around the world what they think is the most memorable Canadian film ever.
Atanarjuat, which was shot in Nunavut and is entirely in Inuktitut, won the Camera D'Or prize for best first feature film at the Cannes International Film Festival when it was released in 2001…