chi non sa niente di Srinivasda Ramanujan, prima del film, o
dopo, a piacere, può dare un'occhiata qui.
per quanto il film non sia perfetto, tutti lo dicono, quello che importa è che si sappia di Ramanujan.
gli attori sono bravi (Jeremy Irons e Dev Patel, fra gli altri), la storia è un dramma senza vie d'uscite, guerra, malattia, un amore bellissimo e tormentato, amicizia, razzismo.
un genio fra i colonizzatori, pochi intuiscono la sua immensa grandezza, di quanti geni così non si saprà mai niente, i sazi bianchi del primo mondo non li (ri)conoscono.
chissà cosa ne avrebbe scritto Frantz Fanon, della storia di Ramanujan.
intanto è al cinema, buona visione - Ismaele
…Il
regista vuole dimostrare di sentirsi molto a suo agio nello scrivere e
raccontare questa storia; e il suo intento è quello di colpire, educatamente, i
centri emotivi dello spettatore con intensità, per fortuna senza piagnistei.
Brown si centranta sulla vita persona del protagonista, giunto con innocenza e entusiasmo dall’India, con le statuette delle divinità e l’incenso e accolto con approssimazione grossolana. La matematica è inserita nei dialoghi con una certa disinvoltura, nonostante l’uso di alcuni stereotipi forzi e aggravi il film nel suo complesso. A colmare alcuni luoghi comuni ci pensa la bravura impetuosa di Jeremy Irons e Dev Patel…
Brown si centranta sulla vita persona del protagonista, giunto con innocenza e entusiasmo dall’India, con le statuette delle divinità e l’incenso e accolto con approssimazione grossolana. La matematica è inserita nei dialoghi con una certa disinvoltura, nonostante l’uso di alcuni stereotipi forzi e aggravi il film nel suo complesso. A colmare alcuni luoghi comuni ci pensa la bravura impetuosa di Jeremy Irons e Dev Patel…
…Matthew Brown è anche sceneggiatore e qui adatta una storia vera già
raccontata nel libro di Robert Kanigel. Ai colori accesi e spirituali del
prologo in India alterna gli ambienti eleganti e grigi delle sale
universitarie. Ma il tutto è raccontato senza correre il minimo rischio
espressivo. Dov’è la magia della matematica? E il mistero dei numeri e del
genio di Ramanujan? Sostanzialmente L’uomo
che vide l’infinito è figlio
di un cinema vecchio e molto descrittivo, che intrattiene senza emozionare sul
serio. L’imprevedibilità del genio non si apre mai alla visione ma resta
incastonata nelle bacheche di Cambridge. Alla fine Brown sembra riuscire meglio
soprattutto nella ricostruzione dell’intellighenzia britannica degli anni ‘10,
con il progressismo anticonformista di Hardy e Russell contrapposto
all’ottusità accademica di un mondo agli albori del secolo breve. Ma è un mondo
in cui il genio Ramanujan vuole entrare a tutti i costi, alla fine riuscendoci
e completando un tragitto di maturazione sostanzialmente ambiguo, che sa molto
di integrazione colonialista.
…Resta,
di questo L’uomo che vide l’infinito, la
confezione sontuosa, tutta tesa ad evidenziare un contrasto insanabile tra i
due contesti sociali che il film descrive: da una parte la realtà luminosa, ma
contrassegnata da miserie e difficoltà, della terra natale del protagonista;
dall’altra le cupe stanze dell’università britannica, spesso illuminate da
ammalianti tonalità color seppia, custodi di una sapienza che il razzismo di
gran parte dei loro abitanti vorrebbe avocare a sé in modo esclusivo. Se lo
stesso tema della discriminazione è trattato dalla sceneggiatura in modo
discontinuo ed intermittente, rendendo solo a tratti il disagio di un giovane
colonizzato che cerca riscatto nella terra dei colonizzatori, più efficaci si
rivelano le incursioni della storia (e di quel conflitto fin dall’inizio adombrato
dalla trama) nel tessuto narrativo del film e nei suoi sviluppi. Per il resto,
il film di Matthew Brown sceglie di adottare soluzioni narrative già
abbondantemente sperimentate, semplificando oltremodo la figura del
protagonista e le sue vicende (di sconcertante banalità la sottotrama
familiare) e sacrificando le potenzialità del soggetto a una concezione
standardizzata e preconfezionata del biopic. Si resta, al termine della
visione, con la sensazione di aver solo sfiorato l’essenza di un personaggio
molto più complesso, ingabbiato, insieme a tutta la sua vicenda, nelle maglie
di un “formato” che non gli rende giustizia.
…La relazione tra Hardy e Ramanujan si basa in modo fondamentale
sulla teoria matematica; ma la matematica, nel film, compare pochissimo.
La ricostruzione d’ambiente è invece molto accurata, e Ivory è bravo a
rendere quello strano intellettuale che fu Hardy. Ripete le parole della sua
autobiografia, A Mathematician’s Apology (1940): «Ancora oggi
nei momenti di depressione mi dico “Io ho fatto qualcosa che voi non sareste
stati mai capaci di fare: ho collaborato con Littlewood e Ramanujan, su un
piano quasi di parità”». È credibile nell’essere da un lato scostante,
dall’altro capace di rendersi conto che ha davanti un fenomeno unico. È un
continuo incontro-scontro quello fra lui e Ramanujan: l’uno ateo e l’altro
convinto che le proprie intuizioni matematiche gli vengano direttamente dalla
divinità che venera; l’uno un fine intellettuale e l’altro l’immigrato da un
paese coloniale, senza istruzione.
Il regista impiega movimenti di macchina molto lenti, le riprese
«circondano» i personaggi; siamo molto vicini ai protagonisti, quasi fossimo a
teatro. Tutto molto preciso. Però… manca l’entusiasmo. Che cosa fa tutto il
giorno Hardy, a parte aspettare che arrivi Ramanujan? E che fanno poi insieme?
Si accenna alla mancata dimostrazione di Ramanujan della formula – tuttora
sconosciuta – che genera tutti i numeri primi (questione essenziale nei
problemi di sicurezza informatici). Mentre ottiene risultati fondamentali sulle
partizioni (sia da solo che con Hardy), sulle serie, sul calcolo degli
integrali e in tanti altri settori molti dei quali tuttora molto utili in una
quantità di applicazioni della matematica…
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