come nel film precedente, che legava le sorti degli abitanti di secoli prima, nel deserto di Atacama, ai prigionieri del campo di concentramento dopo il golpe del 1973, anche in questo film Patricio Guzmán unisce due gruppi di vittime, gli indios ormai sterminati e le vittime dei militari dopo il 1973.
quella di Guzmán per le vittime è un'ossessione, che non lo lascia in pace, bisogna farle parlare, dargli ancora esistenza, ricordare.
la storia dell'acqua è un pretesto, un contesto, un legame, quella di chi osserva tutto, ma conserva, ha memoria.
questo sono anche i film di Patricio Guzmán, testimonianza, ricordo, domanda, memoria.
poi magari non approfondisce il dramma dell'estinzione dei nativi, mica può fare tutto lui, a noi la ricerca di questa storia.
un film che non si dimentica, al cinema ci sono solo cinque copie che girano in tutta Italia, ma cercatelo, merita - Ismaele
quella di Guzmán per le vittime è un'ossessione, che non lo lascia in pace, bisogna farle parlare, dargli ancora esistenza, ricordare.
la storia dell'acqua è un pretesto, un contesto, un legame, quella di chi osserva tutto, ma conserva, ha memoria.
questo sono anche i film di Patricio Guzmán, testimonianza, ricordo, domanda, memoria.
poi magari non approfondisce il dramma dell'estinzione dei nativi, mica può fare tutto lui, a noi la ricerca di questa storia.
un film che non si dimentica, al cinema ci sono solo cinque copie che girano in tutta Italia, ma cercatelo, merita - Ismaele
...Guardare La memoria dell’acqua significa partecipare ad un’esperienza di
quelle impossibili da dimenticare; perciò rimane solo, da parte nostra, un
invito calorosamente inoltrato ai nostri lettori a compiere anche loro quel
gesto. Anche per comprendere appieno, una volta per tutte, in che modo l’arte
del cinema di genere documentario possa arrivare a colpire cuore e menti di
ogni spettatore quanto e più di un’opera di finzione.
…Patricio
Guzmán parte da una dimensione materica, primigenia, da
sentimento panico della natura, per arrivare alla storia, alle tragedie del suo
paese, per tornare a parlare di Allende e Pinochet, per tornare a denunciare i
crimini del secondo, idealizzando il primo. Per tracciare una storia di una
terra e di un popolo martoriato e stuprato, terra di conquista, i paesaggi
estremi che sono stati teatro continuo di violenza, dai nativi sterminati dai
conquistadores, ai desaparecidos. Guzmán riesce nell’improbabile compito di far
coesistere e convivere il cinema di un Piavoli e quello di un Rithy Panh, la
geofisica con i diritti umani, la natura delle cose e quella delle miserie del
genere umano, la leggerezza di un elemento senza forma e colore e la pesantezza
della Storia. Sulla controversa teoria della memoria dell’acqua si fonda il
principio delle cure omeopatiche. L’acqua non offre nessuna possibilità di cura
in realtà per Guzmán, rimane un gigantesco ventre molle che ingloba,
scioglie e cancella tutto. La memoria si può perpetuare solo preservando quei
pochi indizi residui, come i bottoni di perla, o i venti indigeni
sopravvissuti, unici depositari di una cultura ancestrale che non contemplava
la parola Dio nel suo vocabolario. La memoria storica va pervicacemente tenuta
viva – combattendo la tendenza naturale all’entropia del suo dissolvimento –
come si ostina a fare Patricio Guzmán in ogni sua opera. Chi dimentica il
passato è condannato a riviverlo.
…Forse, ci suggerisce Guzmán (regista che dopo il Golpe che
ha rovesciato il governo di Salvador Allende è stato tenuto prigioniero
allo Stadio Nazionale di Santiago, è stato minacciato di morte e ha
abbandonato il Cile nel novembre ’73) , l’acqua che circonda quelle terre
custodisce in sé anche il ricordo di uomini (e donne) forzatamente cambiati dal
tempo. E scomparsi. L’acqua nasconde (come anni più tardi fece con i corpi dei
desaparecidos, impacchettati e appesantiti dai 30 chili dei pezzi di rotaia con
cui venivano gettati a mare), contribuisce a trasformare, logora ma, prima o
poi, riconsegna alla storia la memoria del tempo. E degli uomini. Un mistero eterno,
ciclico, poetico e doloroso. Incredibile. Come questo film. Da non perdere.
…Il suo è un documentario che non vuole rivelare grandi
verità né vuole approcciare la Storia con il piglio del reportage d'inchiesta.
È più che altro un film di poesia, di contemplazione, prima della natura e poi
della Storia. E proprio questo parallelismo ne fa un'opera che conquista
proprio per la sua ispirazione. Tornando al paragone iniziale con il giovane e
geniale Larrain, viene da sottolineare questa forza di volontà dei più grandi
registi cileni in attività: per loro la memoria, l'importanza che ha il
custodirne i ricordi a mo' di monito per il futuro, travalica le esigenze
artistiche e diventa un'urgenza civile e sociale. Un compito nobile, il loro,
non solo in veste di uomini di cinema ma anche di patrioti. Mai tradito nella
realizzazione finale: perché come Larrain è un maestro nella messa in scena
della finzione, Guzman è, oltre che un saggio narratore, anche un bravissimo
documentarista.
…Durante la dictadura, el gobierno declaró a los
indígenas bárbaros. Los colonos y los misioneros católicos les quitaron sus
canoas, sus creencias y su lengua, haciendo gala de esa sentencia de la que
hablaba Galeano de «Vinieron. Ellos tenían la Biblia y nosotros teníamos la
tierra. Y nos dijeron: 'Cierren los ojos y recen. Y cuando abrimos los ojos,
ellos tenían la tierra y nosotros teníamos la Biblia'». Convertidos en
monstruos, fueron asesinados o condenados a la miseria y al alcoholismo,
pasando a engrosar la lista de las víctimas de la superioridad moral e
imperialista de los gobiernos occidentales y de la Iglesia, empeñados en
destrozar lo diferente o adoctrinarlo. Los más de 1.200 prisioneros políticos
asesinados fueron lanzados al agua con un trozo de raíl atado a su cuerpo,
hechos completados por valiosos testimonios de poetas, historiadores o abogados
chilenos. El botón de nácar es un documental político que se queda tatuado a
la mente por su genialidad expositiva y por el exquisito sentido poético que lo
envuelve en lugar de apostar por la frialdad narrativa. Guzmán nos recuerda,
que al igual que el agua posee memoria, el mar conserva y expulsa las huellas
del genocidio de los indígenas patagónicos a comienzos del siglo XX y las
horribles prácticas de tortura del régimen de Pinochet…
Patricio Guzman è, dal 1975, un sincero
appassionato della tragica storia della dittatura cilena e - probabilmente - si
trova ad affrontare il rapporto con un nuovo pubblico. Dal 2010 con Nostalgia
de la Luz approda infatti a una sorta di new age pesantemente metaforizzata che
coinvolge anche El Boton de Nacar. Il titolo italiano ha, per una volta,
migliorato di molto quello originale e anche il trailer non scopre quella che
sarà la narrazione vera e propria del 'documentario'.
Partire dalle origini degli oceani sul pianeta per passare attraverso i buoni selvaggi Selknams che circuìti dai conquistatori anglosassoni si convincono con un bottone a lasciare la loro terra per essere poi corrotti dalla civiltà che li sterminerà sembrava già un argomento degno di un cortometraggio; in realtà è solo il prologo che consente al 'documentario' di veleggiare sull'abominio umano, in particolare quello dei colonelli cileni che con l'oceano e l'acqua hanno un rapporto eccezionalmente spregevole, com'è tristemente risaputo. La solidarietà istintiva che immagino chiunque provi davanti a quello che per l'ennesima volta viene raccontato è però fortemente impoverita dalla retorica insopportabile con cui ogni singolo particolare viene cento volte sottolineato, come fosse una recita per le scuole medie.
'Non ho imparato niente oltre a quello che già sapevo' mi ha detto chi mi ha accompagnato in una sala milanese gremita da sei persone.
La metafora del Boton, che non voglio svelare (...) è proprio un tragico espediente per montare il racconto di una storia che non ha avuto e non ha nessuna giustizia. Per questo il film, fatto da chi realmente conosce i fatti e sa cosa significa impegnarsi e rischiare, è così deludente.
Partire dalle origini degli oceani sul pianeta per passare attraverso i buoni selvaggi Selknams che circuìti dai conquistatori anglosassoni si convincono con un bottone a lasciare la loro terra per essere poi corrotti dalla civiltà che li sterminerà sembrava già un argomento degno di un cortometraggio; in realtà è solo il prologo che consente al 'documentario' di veleggiare sull'abominio umano, in particolare quello dei colonelli cileni che con l'oceano e l'acqua hanno un rapporto eccezionalmente spregevole, com'è tristemente risaputo. La solidarietà istintiva che immagino chiunque provi davanti a quello che per l'ennesima volta viene raccontato è però fortemente impoverita dalla retorica insopportabile con cui ogni singolo particolare viene cento volte sottolineato, come fosse una recita per le scuole medie.
'Non ho imparato niente oltre a quello che già sapevo' mi ha detto chi mi ha accompagnato in una sala milanese gremita da sei persone.
La metafora del Boton, che non voglio svelare (...) è proprio un tragico espediente per montare il racconto di una storia che non ha avuto e non ha nessuna giustizia. Per questo il film, fatto da chi realmente conosce i fatti e sa cosa significa impegnarsi e rischiare, è così deludente.
…Quando però si comincia a ricostruire, anche
attraverso testimoni, l’uccisione della cultura dei popoli nativi si entra in
un altro ordine di discorso, in un altro film. Nobile, necessario anche, ma
altro. Che c’entra mai tutto quel parlare, anche poetizzando con una qualche
goffaggine, sull’acqua? Dallo sterminio del popolo della canoe a un altro
massacro per acqua il passaggio è veloce. Siamo al tempo di Pinochet, degli
oppositori fatti sparire in vari modi, migliaia tramortiti nelle prigioni con
iniezioni di pentothal, poi impacchettati incoscienti ma ancora vivi, e ancora
vivi lanciati da elicotteri e aerei in mare appesantiti con pezzi di vecchi
binari. Atroce. E la ricostruzione di come la catena di montaggio della
sparizione funzionava è agghiacciante. Ora, impossibile non turbarsi e
indignarsi di fronte a queste scene. Mi chiedo solo: se si voleva ricordare il
genocidio degli indios del sud e l’eliminazione degli oppositori del regime era
proprio il caso di partire dai meteoriti portatori d’acqua? Dalle immagini da
National Geographic glamourizzato dei ghiacciai? Di parlare di memoria e voce
dell’acqua, in una poeticismo cattivo che rischia di rovinare la nobiltà
dell’impresa? Forse Guzmán sceglie una strada non convenzionale sulla scia di
quanto ha genialmente sperimentato lo Joshua Oppenheimer di The Act of Killing, mescolando narrazioni e registri diversi. Ma qui il
procedere per associazioni suona spesso artificioso, oltre che fastidioso e
liricizzante nel senso peggiore, e la zavorra finisce con l’essere davvero
troppa rispetto alla polpa. E però alla Berlinale 2015 un premio di peso,
quello per la migliore sceneggiatura, se lo è immeritatamente portato a casa.
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