domenica 5 giugno 2016

El botón de nácar (La memoria dell’acqua) – Patricio Guzmán

come nel film precedente, che legava le sorti degli abitanti di secoli prima, nel deserto di Atacama, ai prigionieri del campo di concentramento dopo il golpe del 1973, anche in questo film Patricio Guzmán unisce due gruppi di vittime, gli indios ormai sterminati e le vittime dei militari dopo il 1973.
quella di Guzmán per le vittime è un'ossessione, che non lo lascia in pace, bisogna farle parlare, dargli ancora esistenza, ricordare.
la storia dell'acqua è un pretesto, un contesto, un legame, quella di chi osserva tutto, ma conserva, ha memoria.
questo sono anche i film di Patricio Guzmán, testimonianza, ricordo, domanda, memoria.
poi magari non approfondisce il dramma dell'estinzione dei nativi, mica può fare tutto lui, a noi la ricerca di questa storia.
un film che non si dimentica, al cinema ci sono solo cinque copie che girano in tutta Italia, ma cercatelo, merita - Ismaele




...Guardare La memoria dell’acqua significa partecipare ad un’esperienza di quelle impossibili da dimenticare; perciò rimane solo, da parte nostra, un invito calorosamente inoltrato ai nostri lettori a compiere anche loro quel gesto. Anche per comprendere appieno, una volta per tutte, in che modo l’arte del cinema di genere documentario possa arrivare a colpire cuore e menti di ogni spettatore quanto e più di un’opera di finzione.

Patricio Guzmán parte da una dimensione materica, primigenia, da sentimento panico della natura, per arrivare alla storia, alle tragedie del suo paese, per tornare a parlare di Allende e Pinochet, per tornare a denunciare i crimini del secondo, idealizzando il primo. Per tracciare una storia di una terra e di un popolo martoriato e stuprato, terra di conquista, i paesaggi estremi che sono stati teatro continuo di violenza, dai nativi sterminati dai conquistadores, ai desaparecidos. Guzmán riesce nell’improbabile compito di far coesistere e convivere il cinema di un Piavoli e quello di un Rithy Panh, la geofisica con i diritti umani, la natura delle cose e quella delle miserie del genere umano, la leggerezza di un elemento senza forma e colore e la pesantezza della Storia. Sulla controversa teoria della memoria dell’acqua si fonda il principio delle cure omeopatiche. L’acqua non offre nessuna possibilità di cura in realtà per Guzmán, rimane un gigantesco ventre molle che ingloba, scioglie e cancella tutto. La memoria si può perpetuare solo preservando quei pochi indizi residui, come i bottoni di perla, o i venti indigeni sopravvissuti, unici depositari di una cultura ancestrale che non contemplava la parola Dio nel suo vocabolario. La memoria storica va pervicacemente tenuta viva – combattendo la tendenza naturale all’entropia del suo dissolvimento – come si ostina a fare Patricio Guzmán in ogni sua opera. Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo.

…Forse, ci suggerisce Guzmán (regista che dopo il Golpe che ha rovesciato il governo di Salvador Allende è stato tenuto prigioniero allo Stadio Nazionale di Santiago, è stato minacciato di morte e ha abbandonato il Cile nel novembre ’73) , l’acqua che circonda quelle terre custodisce in sé anche il ricordo di uomini (e donne) forzatamente cambiati dal tempo. E scomparsi. L’acqua nasconde (come anni più tardi fece con i corpi dei desaparecidos, impacchettati e appesantiti dai 30 chili dei pezzi di rotaia con cui venivano gettati a mare), contribuisce a trasformare, logora ma, prima o poi, riconsegna alla storia la memoria del tempo. E degli uomini. Un mistero eterno, ciclico, poetico e doloroso. Incredibile. Come questo film. Da non perdere.

Il suo è un documentario che non vuole rivelare grandi verità né vuole approcciare la Storia con il piglio del reportage d'inchiesta. È più che altro un film di poesia, di contemplazione, prima della natura e poi della Storia. E proprio questo parallelismo ne fa un'opera che conquista proprio per la sua ispirazione. Tornando al paragone iniziale con il giovane e geniale Larrain, viene da sottolineare questa forza di volontà dei più grandi registi cileni in attività: per loro la memoria, l'importanza che ha il custodirne i ricordi a mo' di monito per il futuro, travalica le esigenze artistiche e diventa un'urgenza civile e sociale. Un compito nobile, il loro, non solo in veste di uomini di cinema ma anche di patrioti. Mai tradito nella realizzazione finale: perché come Larrain è un maestro nella messa in scena della finzione, Guzman è, oltre che un saggio narratore, anche un bravissimo documentarista.

…Durante la dictadura, el gobierno declaró a los indígenas bárbaros. Los colonos y los misioneros católicos les quitaron sus canoas, sus creencias y su lengua, haciendo gala de esa sentencia de la que hablaba Galeano de «Vinieron. Ellos tenían la Biblia y nosotros teníamos la tierra. Y nos dijeron: 'Cierren los ojos y recen. Y cuando abrimos los ojos, ellos tenían la tierra y nosotros teníamos la Biblia'». Convertidos en monstruos, fueron asesinados o condenados a la miseria y al alcoholismo, pasando a engrosar la lista de las víctimas de la superioridad moral e imperialista de los gobiernos occidentales y de la Iglesia, empeñados en destrozar lo diferente o adoctrinarlo. Los más de 1.200 prisioneros políticos asesinados fueron lanzados al agua con un trozo de raíl atado a su cuerpo, hechos completados por valiosos testimonios de poetas, historiadores o abogados chilenos. El botón de nácar es un documental político que se queda tatuado a la mente por su genialidad expositiva y por el exquisito sentido poético que lo envuelve en lugar de apostar por la frialdad narrativa. Guzmán nos recuerda, que al igual que el agua posee memoria, el mar conserva y expulsa las huellas del genocidio de los indígenas patagónicos a comienzos del siglo XX y las horribles prácticas de tortura del régimen de Pinochet…

Patricio Guzman è, dal 1975, un sincero appassionato della tragica storia della dittatura cilena e - probabilmente - si trova ad affrontare il rapporto con un nuovo pubblico. Dal 2010 con Nostalgia de la Luz approda infatti a una sorta di new age pesantemente metaforizzata che coinvolge anche El Boton de Nacar. Il titolo italiano ha, per una volta, migliorato di molto quello originale e anche il trailer non scopre quella che sarà la narrazione vera e propria del 'documentario'. 
Partire dalle origini degli oceani sul pianeta per passare attraverso i buoni selvaggi Selknams che circuìti dai conquistatori anglosassoni si convincono con un bottone a lasciare la loro terra per essere poi corrotti dalla civiltà che li sterminerà sembrava già un argomento degno di un cortometraggio; in realtà è solo il prologo che consente al 'documentario' di veleggiare sull'abominio umano, in particolare quello dei colonelli cileni che con l'oceano e l'acqua hanno un rapporto eccezionalmente spregevole, com'è tristemente risaputo. La solidarietà istintiva che immagino chiunque provi davanti a quello che per l'ennesima volta viene raccontato è però fortemente impoverita dalla retorica insopportabile con cui ogni singolo particolare viene cento volte sottolineato, come fosse una recita per le scuole medie.
'Non ho imparato niente oltre a quello che già sapevo' mi ha detto chi mi ha accompagnato in una sala milanese gremita da sei persone. 
La metafora del Boton, che non voglio svelare (...) è proprio un tragico espediente per montare il racconto di una storia che non ha avuto e non ha nessuna giustizia. Per questo il film, fatto da chi realmente conosce i fatti e sa cosa significa impegnarsi e rischiare, è così deludente.

Quando però si comincia a ricostruire, anche attraverso testimoni, l’uccisione della cultura dei popoli nativi si entra in un altro ordine di discorso, in un altro film. Nobile, necessario anche, ma altro. Che c’entra mai tutto quel parlare, anche poetizzando con una qualche goffaggine, sull’acqua? Dallo sterminio del popolo della canoe a un altro massacro per acqua il passaggio è veloce. Siamo al tempo di Pinochet, degli oppositori fatti sparire in vari modi, migliaia tramortiti nelle prigioni con iniezioni di pentothal, poi impacchettati incoscienti ma ancora vivi, e ancora vivi lanciati da elicotteri e aerei in mare appesantiti con pezzi di vecchi binari. Atroce. E la ricostruzione di come la catena di montaggio della sparizione funzionava è agghiacciante. Ora, impossibile non turbarsi e indignarsi di fronte a queste scene. Mi chiedo solo: se si voleva ricordare il genocidio degli indios del sud e l’eliminazione degli oppositori del regime era proprio il caso di partire dai meteoriti portatori d’acqua? Dalle immagini da National Geographic glamourizzato dei ghiacciai? Di parlare di memoria e voce dell’acqua, in una poeticismo cattivo che rischia di rovinare la nobiltà dell’impresa? Forse Guzmán sceglie una strada non convenzionale sulla scia di quanto ha genialmente sperimentato lo Joshua Oppenheimer di The Act of Killing, mescolando narrazioni e registri diversi. Ma qui il procedere per associazioni suona spesso artificioso, oltre che fastidioso e liricizzante nel senso peggiore, e la zavorra finisce con l’essere davvero troppa rispetto alla polpa. E però alla Berlinale 2015 un premio di peso, quello per la migliore sceneggiatura, se lo è immeritatamente portato a casa.

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