sabato 25 giugno 2016

Viaggio a Tokyo (Tokyo monogatari) - Yasujirō Ozu

disse il regista Wim Wenders (che gli ha dedicato il film Tokyo-Ga), quando gli chiesero cosa fosse per lui il paradiso: "La cosa più simile al paradiso che abbia mai incontrato è il cinema di Ozu".
difficile dubitarne.
il film di Ozu non è documentario, ma riesce a essere vero come un documentario, contiene la realtà, rappresenta la vita, è la Vita, senza bisogno di finzione, pur essendo finzione, né di effetti speciali.
si resta attaccati allo schermo, condividendo con i due vecchietti la rassegnazione, non è il migliore dei mondi possibili, ma si adattano, e non danno mai le colpe a nessuno.
i figli fingono, sperano che i genitori tornino a casa presto, che palle, solo una nuora, la vedova del loro figlio morto in guerra, li tratta come si deve.
molti anni dopo Tornatore si ispira al film di Ozu, per girare "Stanno tutti bene", con il grande Marcello Mastroianni.
vogliatevi bene, guardate tutti i film di Ozu (un suo degno erede, sempre in Giappone, è Hirokazu Koreeda).

buona visione - Ismaele










…It is clear that "Tokyo Story" was one of the unacknowledged masterpieces of the early-1950s Japanese cinema, and that Ozu has more than a little in common with that other great director, Kenji Mizoguchi ("Ugetsu"). Both of them use their cameras as largely impassive, honest observers. Both seem reluctant to manipulate the real time in which their scenes are acted; Ozu uses very restrained editing, and Mizoguchi often shoots scenes in unbroken takes.
This objectivity creates an interesting effect; because we are not being manipulated by devices of editing and camera movement, we do not at first have any very strong reaction to "Tokyo Story." We miss the visual cues and shorthand used by Western directors to lead us by the nose. With Ozu, it's as if the characters are living their lives unaware that a movie is being shot. And so we get to know them gradually, begin to look for personal characteristics and to understand the implications of little gestures and quiet remarks.
"Tokyo Story" moves quite slowly by our Western standards, and requires more patience at first than some moviegoers may be willing to supply. Its effect is cumulative, however; the pace comes to seem perfectly suited to the material. And there are scenes that will be hard to forget: The mother and father separately thanking the daughter-in-law for her kindness; the father's laborious drunken odyssey through a night of barroom nostalgia; and his reaction when he learns that his wife will probably die.
We speak so casually of film "classics" that it is a little moving to find one that has survived 20 years of neglect, only to win Western critical acclaim nine years after the director's death.

Voyage à Tokyo est la chronique d’une famille dispersée. Ozu articule autour d’une trame narrative centrale très simple, des scènes où ne sont présents qu’un nombre limité des membres de cette famille. Ils ne seront jamais réunis tous ensemble, car lorsque le jeune fils arrive enfin au chevet de sa mère, elle sera déjà morte. Le récit ozuien coule avec sa fluidité habituelle, d’un personnage à un autre, de l’intrigue principale à une intrigue secondaire, à tel point que cette distinction devient caduque. Ce nivellement, cet aplanissement dramaturgique n’engendre pourtant pas de la monotonie, et n’interdit pas certains heurts. La dernière scène du film, remarquable exemple de concision et de lyrisme, se permet, en dépit du contexte plus enclin au recueillement, des effets de rupture qui montrent, une fois encore, que l’on ne peut définir le style d’Ozu comme une esthétique ascétique prônant la réduction des moyens d’expression, mais qu’il est, au contraire, une réserve inépuisable de variations, de résonances, de surprises…
…Le lyrisme d’Ozu est un lyrisme souterrain, sinueux, mystérieux. Dans ses films, l’émotion suit un cours imprévisible. Vous pensez vous ennuyer, votre esprit vagabonde et subitement une image, un visage, ou une expression vous bouleverse. L’émotion est diffuse, elle s’accumule progressivement, et jaillit soudain, mais jamais là où l’auteur l’aurait prévu, pas de tel calcul chez lui. Son cinéma agit comme une force de conversion inconsciente, qui vous envoûte par son style si singulier pour mieux vous émouvoir.

…L'atteggiamento contemplativo del regista si traduce in un uso della macchina da presa che diverrà firma inconfondibile: un'inquadratura quasi sempre fissa - solo un movimento di macchina percepibile in tutto il film, orizzontale, per scovare i due anziani seduti davanti a casa di Noriko - e incorniciata da porte e forme geometriche rettangolari, che precede l'ingresso in campo dei personaggi e si sofferma pe un istante anche quando questi sono usciti di scena. È la rivoluzione della semplicità, che passa dal celeberrimo punto di vista del tatami, con la macchina fissa all'altezza di un uomo seduto sulla stuoia, e che consente di rendere bidimensionali i primi piani, volutamente appiattiti dall'inquadratura. L'effetto è di aumentare al massimo la confidenzialità dei personaggi e insieme il lato enigmatico delle loro espressioni: mirabile in questo senso il lavoro di Ryu Chishu (Shukichi), che risponde per dialoghi monosillabici che spesso sottintendono pensieri in realtà opposti. Nei panni di Noriko la straordinaria Hara Setsuko, che regala un'interpretazione ineguagliabile per trasporto emotivo e per la credibilità che infonde a ogni espressione del viso. Mentre il bianco e nero dello straordinario Atsuta Yuharu asseconda l'illuminazione del sole in maniera esemplare, rischiarando a giorno le inquadrature alle terme di Atami o nella soleggiata Onomichi e sottolineando i neri della notte quando gli anziani genitori si ritirano per riposare. 
Cinema come balsamo, come lezione per un approccio positivo alla vita, come momento di convivio familiare, come punto di riferimento a cui tornare incessantemente, ogniqualvolta si ritenga di aver smarrito la retta via.

Un film lineare, se vogliamo quasi banale, che parla dell'esistenza, della quotidianità, della normalità della vita, appartenente al genere “Shomingeki” (film sulla gente comune) e che, nonostante usi e costumi tipici del Giappone che ci vengono mostrati mentre seguiamo il viaggio di questi due teneri anziani, ci mostra tematiche comunque universali, che riescono a toccare e coinvolgere tutti, e, nonostante siano passati più di sessant'anni dalla sua realizzazione rimane attualissimo…

…una caratteristica prorompente del cinema di Ozu e di "Viaggio a Tokyo" nello specifico è l’emergere di una enunciazione mai moralista. Ozu, attraverso il patriarca, non si esime dai giudizi di valore, negativi, sullo stato delle cose: stigmatizza l’anomia metropolitana, la sua andatura schizofrenica; riporta in luce il dolore della guerra perduta, dei lutti che ha provocato; accusa esplicitamente le nuove generazioni di non essere buoni figli coi loro padri. In tutto questo, tuttavia, non emerge né rimprovero, né vittimismo o colpevolismo ma semplice registrazione di fatti, il fluire delle cose e del tempo, entro cui ritrovare una qualche forma di armonia perduta.
Shūkichi è sì deluso dai figli, dalla loro involuzione sia sociale sia umana, ma non li accusa mai e anzi, si scopre, lui stesso non è stato un padre perfetto, dedito com’era al vizio del bere come ci fa vedere la più divertente sequenza del film nella quale si ritrovano tre vecchi amici che organizzano una rimpatriata a base di sakè e sono riaccompagnati dalla polizia in piena notte a casa della "terribile" Kōichi, la figlia di Shūkichi, che si dispera, frigna verso il genitore completamente privo di senno, lo sbatacchia, gli smanaccia il cappello e in tutto il lungo tempo della sequenza, in questa escalation di rabbia montante, il patriarca si addormenta e inizia a russare dolcemente, positivamente ubriaco. 
Ai giorni nostri una sequenza siffatta sarebbe sintetizzata da vari stacchi di montaggio che avrebbero risolto in trenta secondi e cinque inquadrature il tempo di registrazione che Ozu lascia invece intatto nel long-take e che ancora ci meraviglia per la sua assoluta aderenza alla realtà, alle “cose come effettivamente sono”. Come effettivamente si svolgono…

da qui

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