sabato 30 dicembre 2017

Guerra - Pippo Delbono



Incroci, passaggi, sovrapposizioni, viaggi, spostamenti. Tra cinema e altri luoghi, e altre arti. Cinema, teatro, sofferenza, disagio e guerra. Un uomo di teatro come Pippo Delbono mette in scena uno spettacolo che si chiama Guerra e lo porta nei luoghi dove la guerra è di casa da decenni, In Palestina e in Israele. Tra appunti di viaggio, emozioni, sguardi attenti a quanto lo circonda, l'autore "fotografa" e racconta storie e drammi quotidiani, di dolore e allegria, con semplicità e poesia. Cinema italiano che va a guardare il mondo. Non sappiamo se Pippo Delbono continuerà a fare cinema. Se insistesse, lui teatrante fisico e atroce, battagliero e umanissimo, potrebbe inventarsi un suo percorso (un po' come ha fatto Martone) lungo il quale mescolare palcoscenico e schermo, ante ed esistenza, innocenza e crudeltà. Noi ci auguriamo che continui. Delbono: «Quando lo spettacolo c'è, quando è compiuto, non significa che ho capito, che c'è una risposta. No, Io spettacolo, in realtà, è come profonda domanda». Amiamo i registi che ci regalano buone domande.
Da Film Tv, 2003

sabato 23 dicembre 2017

7 años - Roger Gual

il film si svolge tutto intorno a un tavolo, con 5 protagonisti, uno si deve sacrificare per tutti, e siccome non è un film western non si deve scegliere la pagliuzza e poi chi prende la più corta ha perso, qui no, i tempi sono moderni, e si chiama un professionista che aiuta nella scelta, condivisa il più possibile.
ma è pur sempre un film western, con duelli ripetuti, senza armi, ma con le parole, vincono i più bravi nell'arte della retorica e della convinzione.
e poi un colpo di scena finale, ma non vi dico altro.
certo che fra i cowboy e gli evasori e riciclatori di soldi sporchi preferisco i primi, hanno più passione, qui il meno peggio ha la rogna, e puzza.
il film ha un bel ritmo e si fa vedere bene - Ismaele





Guardando a una lunga tradizione di drammi rivelatori, girati in una sola stanza, 7 años poggia interamente sulle spalle di un cast micidiale, che trascina in pochi minuti in una realtà di cui si conoscono poche informazioni e sconvolge in continuazione il punto di vista dello spettatore. È la situazione a far emergere il reale carattere dei personaggi coinvolti, i rancori e i segreti a lungo sopiti. A rivelare la fragilità di una società di quattro uomini, dapprima uniti dalla convenienza e poi divisi dalla stessa. A far riflettere ancora una volta sulla natura umana e su come il "dinero negro" possa alterare gli equilibri più basilari fondati su amicizia e solidarietà.

una película que se sostiene muy bien gracias a la brevedad de lo que nos cuenta, el director no alarga en demasía una trama que no da para mas y dura lo que tiene que durar, últimamente parece que cuesta meter la tijera en la sala de montaje y en este caso no da lugar a ello.
7 Años además es una película que da lugar a debate una vez finalizada, uno se pregunta que haría si estuviera en esa situación, no es fácil saber cual es el mejor remedio para curar las heridas y la cicatriz siempre estará ahí.
Es difícil obviar que una de las claves del éxito de una película como esta recae en los actores, mantener la tensión en un lugar cerrado no es tarea fácil pero los cinco actores están soberbios destacando al gran Manuel Morón que todavía no nos explicamos como no trabaja mas en el cine, es uno de los grandes de nuestro país y queremos verlo mas en pantalla.
7 Años es un titulo que no hay que menospreciar por estrenarse en VOD y no en salas, hay que ser realistas y saber que este es el camino para muchas producciones. 7 Años es un titulo muy a tener en cuenta en la producción española de este año  y quien diga lo contrario es que no quiere enterarse de como funciona el cine hoy en día.

venerdì 22 dicembre 2017

Loveless - Andrey Zvyagintsev

Alyosha, un bambino di 12 anni, un peso per i genitori, è il non protagonista del film.
il mondo va veloce, soldi, lavoro, lusso, non c'è posto per un bambino, è un ostacolo alla felicità.
se il film non fosse in russo si potrebbe scambiare per un film Usa, o europeo, il mondo è diventato (quasi) tutto uguale.
la polizia fa finta di cercarlo, ma in realtà chi lo cerca è un esercito di volontari (ah, i volontari, come da noi) che svolgono le funzioni che i poteri pubblici abbandonano (come da noi, che coincidenza)
Andrey Zvyagintsev fa pochi film, e tutti fanno male, sono impietosi, l'occhio del regista è un po' il nostro specchio, non ci lascia tranquilli.
fotografia e musica davvero potenti.
naturalmente il film è in un pugno di sale, riemergerà solo se vincerà l'Oscar per il miglior film straniero.
voi cercatelo, se potete, non vi farà stare bene - Ismaele 






Il Male è dappertutto, dentro e fuori le persone, ha radici antiche ma si nutre del nuovo nichilisno di massa, del rifiuto di Dio, del trionfo della società liquida anzi fusa. Zvyagintsev non si vergogna, come invece succede nel cinema europeo e americano, a confezionare un film profondamente etico, a mostrarci – indignandosi – quale possa essere il grado di mostrificazione indotto dalla cultura della prevalenza dell’Io. Il suo film è una Passione laica con molti carnefici e una vittima sacrificalea. Qui non ci sono le concitazioni di tanto cinema giovane con uso e abuso di macchina a mano, la camera è lenta quando non immobile, i personaggi dislocati con sapienza all’interno dello spazio schermico. Cinema cerebrale e costruito, che mostra orgogliosamente il proprio artificio, la propria progettualità. Non c’è traccia di naturalismo e di ogni spontaneismo-immediatismo, e nemmeno del tanto diffuso oggi neo-neorealismo. Zvyagintsev muove la macchina da presa (quando la muove), in una liturgia che ci induce tutti a interrogarci sulla colpa e la forse impossibile redenzione. E che sapienza, già vista in Leviathan, nell’usare i paesaggi per farne proiezione e estensione delle anime, e sono desolati pezzi di Russia invernale congelata, sono edifici abbandonati e ridotti a rovine della contempraneità, metafora trasparentissima di un mondo in disfacimento. Film monumentale, titanico, che usa i drammi personali non per un banale chiacchiericcio psicologistico, ma per avvertirci della presenza di quella cosa che si chiama Male. E memorabile la sequenza con la madre di lei disseccata dentro dalla vita, e forse anche dai troppi anni di comunismo. Cinema etico che crede in se stesso e nella propria missione di denunciare il male. Cinema con l’anima che si rivolge a un mondo, e a uno spettatore, che l’ha persa da un pezzo.

… Andrey Zvyagintsev nous confronte à une société malade dont ses personnages sont le reflet, une société où le dialogue est virtuel ou sourd. Et si ses personnages sont détestables, il nous tient en haleine sans jamais nous prendre au piège. Le thriller s’impose dès lors qu’il y a disparition et recherche, mais la force du scénario (le quatrième écrit pour le réalisateur par Oleg Negin) est de dresser un portrait à la fois singulier de la société russe contemporaine et universel du devenir du monde. Avec en arrière-fond la situation internationale envisagée sous l’angle des médias russes…
L’approche esthétique est à dessein glacée au point d’en devenir glaçante. Optant pour une frontalité et une fixité littéralement « impressionnantes », Andrey Zvyagintsev nous confronte à ses personnages, nous invite à les observer tandis qu’il les scrute. Tantôt très proche d’eux, tantôt distant, ils les appréhendent sans concession, laissant parler leur environnement (à l’instar des lieux de « vie ») et offrant à leur comportement toute leur expressivité. Habile metteur en scène, il gomme toute idée de représentation parvenant à nous plonger au cœur d’un théâtre pourtant dépourvu d’humanité ; au cœur du théâtre de l’inhumain. Il attise habilement notre attention dès lors qu’il opte pour une ponctuelle mobilité, toujours fluide, en recourant à quelques travellings et mouvements vers l’avant qui se révèlent hypnotiques. Il s’agit alors de sensation.
Le montage est père de contrastes engendrant deux lignes rythmiques (entre coupes rapides, hâchées, et sequentialité des scènes) qui confèrent au film son intensité. Les compositions musicales d’Evgueni et Sacha Galperine, employées avec parcimonie, ancrent un trouble – le nôtre – et rendent le développement narratif, les interrogations soulevée et l’ouverture finale absolument hypnotisants. Comme un pavé jeté dans une marre, elles résonnent en nous, se dissipant peu à peu. C’est alors que les images d’ouverture nous reviennent. La joie des écoliers et la peine d’Aliocha. La nôtre.

Il suo è uno sguardo privo di qualsiasi pietà nei confronti di una nuova generazione parentale che ha perso qualsiasi senso di appartenenza. Alyosha non 'appartiene' a nessuno. Non al padre che, non contento di avere un figlio di cui non si è mai occupato, ha già messo incinta la propria giovane nuova compagna con la quale ha intrecciato un legame che lo sta avviluppando mentre lui crede possa aprirgli nuovi orizzonti di vitalità. Lo stesso accade alla madre, Zhenya, la quale si è sposata per sfuggire al controllo oppressivo di una madre amata/odiata e ha vissuto la gravidanza come un peso che tuttora si trova davanti nell'aspetto di un bambino che non ama e da cui non si sente amata.

Zvyagintsev non ci va leggero nella sua accusa e regala alla sua splendida protagonista Maryana Spivak almeno un paio di bellissimi, terrificanti monologhi in cui emerge tutta l'insoddisfazione di una vita che ha alla base la nascita di un figlio mai veramente voluto. Ma questa coppia di genitori orribili, che nemmeno davanti alla possibilità della peggiore delle tragedie riesce a trovare la forza per riunirsi, siamo davvero tutti noi? Mentre questa domanda aleggia nella testa di noi spettatori, il film procede implacabile in due direzioni differenti: quella del "thriller" in cui, scena dopo scena - grazie all'abile uso di un'efficace colonna sonora e di lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa sembra costantemente alla ricerca di un dettaglio che potrebbe essere sfuggito ai protagonisti - siamo sempre più preoccupati per il destino del bambino e meno interessati alla vita privata dei due genitori; contemporaneamente il film comincia a svelare sempre di più le sue reali intenzioni e in un crescendo finale, inserisce una nuova lettura politica caricando di simbolismi i protagonisti e gli eventi finora raccontati in maniera forse fin troppo evidente ma comunque efficace. Tanto che sul bellissimo finale non si può che immediatamente pensare alla canzone di Sting (Russians) in cui il cantautore lanciava un chiaro messaggio di pace con il verso "I hope the Russians love their children too". Dopo questo film è quantomeno lecito chiedersi se lo stesso valga anche per la Madre Russia.

La trama è racchiusa in una struttura formale potentissima, per cui questa è un’opera, come i film precedenti del regista siberiano – Il ritornoThe BanishmentElenaLeviathan -, in cui fabula e intreccio sono legati indissolubilmente. Un prologo e un epilogo mostrano uno sguardo lirico su una natura invernale cristallizzata in uno stato di immobilità e di impossibilità di cambiamento che già anticipa il significato profondo della vicenda. Alyosha, un ragazzino di dodici anni, esce da scuola e per tornare a casa attraversa una porzione di natura che sembrerebbe un bosco selvaggio, invece è adiacente alla periferia di Mosca dove vive. Lo spettatore è subito proiettato nella drammaticità della vicenda: Zhenya e Boris, i genitori di Alyosha, si stanno separando, hanno messo in vendita l’appartamento, e nessuno dei due vuole tenere con sé il ragazzino, il quale ascolta un confronto verbalmente violento tra i suoi, dove gli si prospetta un futuro in istituto, e lui, nel buio della sua camera, piange, appiattito contro la parete, come se volesse sparire…
… Il pregio della ricercatezza formale che è visibile in ogni inquadratura e che si arresta sempre a un passo dall’estetismo fine a se stesso; la ricerca di un senso dell’immagine cinematografica che faccia da contrappunto al girare a vuoto delle vite dei personaggi; l’utilizzo del piano sequenza che comunque nulla toglie alla tensione e all’implacabilità del precipitare degli eventi; i movimenti della macchina da presa calcolati con precisione maniacale; la capacità di sfruttare in senso narrativo e stilistico la profondità di campo; tutti questi elementi fanno di questo film un’esperienza visiva di grande impatto e di assoluto valore. A fronte di chi sostiene che questo sia un cinema all’insegna dello schematismo e di un’eccessiva inclinazione per la metafora, politica o morale, giova ricordare  che la cinematografia russa è nata come quella formalista per eccellenza, e che Zvyagintsev si colloca, con pieno merito, su un asse di registi che parte da Ejzenštejn, passa per Tarkovskij e arriva fino a Sokurov.

El cineasta ruso construye una demoledora crítica a la activa clase media soviética, seres sin escrúpulos que se esfuerzan por alimentar la única fuente de energía que parece mantenerlos socialmente atareados: el odio. En concreto nos encontramos con Zhenya y Boris, un matrimonio en proceso de separación cuya relación y la escasa interacción comunicativa que se produce entre ambos nos impiden concebir la idea de que, en un pasado no muy lejano, pudo existir entre ambos algo parecido al amor. Sin embargo, el realizador no se centrará en la desgastada situación marital, sino en los vínculos afectivos de cada uno de los cónyuges por separado; encontrando como nexo inexcusable al hijo que tienen en común…

En dépit d’une mise en scène assez virtuose, le scénario trop corseté et académique de Zviaguintsev ne réussit pas à masquer une certaine indigence dans le fond. Certes, il y a par moment quelque chose d’assez jouissif lorsque le réalisateur tourne le regard vers ces employés de bureau tous entassés en silence comme des zombies dans l’ascenseur - on pense alors à l’ascenseur social dans La Garçonnière, de Billy Wilder. La sexualité, traitée comme un acte utilitariste et pas plus engageant qu’un selfie, trace aussi d’assez belles lignes de force, non loin des effets nihilistes de Yorgos Lanthimos ou de Nadav Lapid. Pour autant, Faute d’amour présente ses enjeux avec tant d’application et de rigueur mathématique qu’il s’avère trop facile d’en découdre les tenants. L’absence d’Aliocha digérée, le film ne trouve en définitive pas plus d’arguments marquants qu’il en avait distillé dès la scène d’ouverture. Le regard doit ainsi finalement composer avec ces arbres morts et gelés, dont le reflet n’est que celui d’une Russie incapable d’accepter ses faiblesses. Tandis que la mère trottine sur son tapis de course, le père place son nouveau-né reclus dans son lit à barreaux. On a connu conclusion plus percutante, de même que Zviaguintsev nettement plus caustique et pénétrant.

mercoledì 20 dicembre 2017

Walkabout (L'inizio del cammino) – Nicolas Roeg

in qualche periferia di una città australiana, fatta di little boxes anonime, si apre e si chiude il film.
nell'Australia colonizzata e violentata da galeotti e dai loro discendenti sopravvivono gruppi di indigeni.
una ragazzina e il suo fratellino ne incontrano uno che gli salverà la vita, misterioso, di una forza spirituale atavica, senza parole, né spiegazioni.
un film senza tempo, girato come si deve, resterà per sempre nei ricordi, un film così, la vita e la morte sono vicinissime, poi sai quello che è giusto e sbagliato, naturale e innaturale.
cercalo e guardalo, la maggior parte delle cose che faresti in quel centinaio di minuti che dura il film le puoi fare dopo, o forse sono inutili - Ismaele 





QUI il film completo, in inglese


Plus que jamais, Walkabout demeure une œuvre assez unique, porteuse d’un regard singulier et toujours énigmatique (David Gulpilil lui-même a avoué ne pas posséder toutes les clés de son personnage). Plus qu’une simple randonnée donc, une expérience envoûtante sur des routes peu empruntées, entre anthropologie et mysticisme, qui, si elle peut laisser sur le bord de ses chemins de traverse, ne risque pas de laisser son spectateur indifférent.

…Film decisamente psichedelico come solo negli anni '70 si poteva produrre.
Psichedelico è l'uso mostruoso che fa dell'obiettivo della camera Nicolas Roeg, che prima di fare il regista ha curato la fotografia in altri film. Soprattutto quando inizia il cammino nel deserto si vedono panorami da urlo distorti da macro, che zoomano in primi piani insospettabili su persone o, più spesso, animali invisibili prima, colori di fuoco e verdi smeraldo, persino qualche piano-sequenza ubriacante ed alcuni ralenty con reverse direzionale.

Virtuosismo di ripresa e montaggio spiazzante che fa il paio con lo sviluppo della storia (tratta da un romanzo) anche per i parallelismi narrativi che propone: il Walkabout smembra un canguro e in sincopato si vede un macellaio che fa la medesima cosa; il Walkabout comincia a prendersi una cotta per la ragazza ed un gruppo di meteorologi bianchi sono più alle prese a fare il filo all'unica donna del gruppo che a svolgere il loro lavoro; mentre il Walkabout è a caccia compaiono all'improvviso cacciatori bianchi in jeep e fucile che fanno massacri di bestie, cosa che lo sconvolge e lo porta ad odiare i bianchi e, temporaneamente, anche la ragazza…


Is "Walkabout" only about what it seems to be about? Is it a parable about noble savages and the crushed spirits of city dwellers? That's what the film's surface seems to suggest, but I think it's also about something deeper and more elusive: The mystery of communication. It ends with lives that are destroyed, in one way or another, because two people could not invent a way to make their needs and dreams clear…
The movie is not the heartwarming story of how the girl and her brother are lost in the outback and survive because of the knowledge of the resourceful aborigine. It is about how all three are still lost at the end of the film--more lost than before, because now they are lost inside themselves instead of merely adrift in the world.
The film is deeply pessimistic. It suggests that we all develop specific skills and talents in response to our environment, but cannot easily function across a broader range. It is not that the girl cannot appreciate nature or that the boy cannot function outside his training. It is that all of us are the captives of environment and programming: That there is a wide range of experiment and experience that remains forever invisible to us, because it falls in a spectrum we simply cannot see.

…Una splendida ragazzina – Jenny Agutter, che rivedremo giovane donna nell’indimenticato Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis e altrove – e il suo fratellino vagano nello sterminato bush australiano dopo essere stati aggrediti a pistolettate dal papà impazzito che si è poi suicidato. Un perfetto esempio di gentleman arrivato nello sterminato spazio aperto dalla civiltà anglosassone, che ha perso il senno. Roeg parte da qui e si prende un grande lusso che il cinema ha forse un po’ smarrito, quello di non spiegare niente, di non stare a raccontarci i perché e i per come, esplorando trascurabili ghost nel passato dell’uomo. È la prima libertà, al limite del kitsch, forse l’accusa più spietata e calzante che sia stata mossa aglia anni Settanta, quando la follia sembrava pronta a esplodere ogni volta che gli uomini del mondo civile vedevano spalancarsi davanti la potenza selvaggia della natura – da Un tranquillo weekend di paura fino a Non aprite quella porta o Le colline hanno gli occhi. Poi i ragazzini, ormai dispersi, si imbattono in un giovane aborigeno impegnato nel suo Walkabout, quell’Inizio del cammino ripreso dal titolo italiano. È l’incontro con una frontiera mai varcata, l’avvicinamento fra culture opposte che si scoprono simili al di là delle differenze superficiali, ma irriducibili al di là delle somiglianze più profonde. A far detonare tutto è l’amore, non ricambiato, fra il ragazzo aborigeno e l’eterea adolescente bianca, che condurrà prima lui, poi forse anche lei, verso un epilogo tragico. Perché anche la ragazza, in un finale impregnato di quella malinconia di cui forse abbiamo dimenticato gli ingredienti – ma che sappiamo ancora riconoscere con un po’ di attenzione – comprenderà di aver speso i momenti migliori della sua vita nuotando nuda in un lago australiano con uno sconosciuto selvaggio.
Un cinema dilatato e rarefatto, insomma, ma contenuto nei tempi. L’esatto contrario dei pupazzi robot che si gonfiano di botte per tre ore negli ultimi blockbuster estivi. Un cinema libero, che ha il coraggio di mostrare ragazzini in un nudo integrale senza che nessuno gridi allo scandalo, e animali selvatici che muoiono davvero, le cui arterie vengono strappate a coltellate da cacciatori indifferenti finchè l’ultima goccia di sangue nonsi rovesci a litri nella polvere. Come non prendere tutto terribilmente sul serio, di fronte a tanta verità? Come non accorgersi che è la libertà di messa in scena – oggi perduta da un cinema castigato eppure violentissimo, casto ma subliminalmente pornografico – a garantire tanta autenticità? Se la verità rende liberi, si può forse dire che la libertà renda veri. E la ragazza protagonista, nel finale cresciuta e sposata, al cospetto dell’insignificante civiltà a cui è voluta tornare, sa di averla perduta quasi tutta.

lunedì 18 dicembre 2017

High-Rise (High-Rise: La rivolta) - Ben Wheatley

il film è tratto da una storia di James Ballard, chi ci prova è uno con del coraggio molto grande.
un racconto di un futuro prossimo venturo, in cui un grattacielo ospita e fa convivere persone di classi (un tempo non lontano si sarebbe detto così) diverse.
un po' come in Snowpiercer, dove un treno, e non un grattacielo, raccoglie persone di classi molto diverse, in vagoni diversi.
in High-Rise ai pieni alti ci sono i più abbienti e fanno la loro bella vita fino a che le cose cambiano, e molto.
non sarà un film perfetto, ma merita di certo la visione - Ismaele





Correva il glorioso anno 1975 quando la fervida immaginazione del visionario scrittore J. G. Ballard – vate della fantascienza sociale grazie a opere seminali quali La mostra delle atrocità e Crash – partorì High Rise (in Italia conosciuto come Il condominio), spietata e grottesca satira sulle pericolose e inquietanti derive di un microcosmo abitativo i cui componenti si trovano a vivere una terribile involuzione specchio di una società già allora vicina al collasso totale. Il grande successo di pubblico e il profondo impatto culturale esercitato dal romanzo fin dalla sua pubblicazione spinsero il produttore Jeremy Thomas a progettarne un ambizioso adattamento cinematografico, segretamente e disperatamente covato per oltre quarant’anni e sul quale si sono avvicendate personalità di grande spessore, tra cui Stanley Kubrick, Nicolas Roeg e Vincenzo Natali. Tuttavia è toccato a Ben Wheatley raccogliere la sfida alle soglie del 2013, affidandosi alla collaborazione della compagna sceneggiatrice Amy Jump per poter finalmente vedere rappresentate sul grande schermo le vicissitudini del dottor Robert Laing (Tom Hiddleston), fascinoso fisiologo inglese da poco trasferitosi in un imponente grattacielo facente parte di un avveniristico complesso residenziale progettato dall’architetto Anthony Royal (Jeremy Irons), con l’intento di replicare strutturalmente le stratificazioni della piramide sociale…

Affascinante solo l'idea di adattare il bellissimo romanzo di Ballard, Il condominio, un'allegoria molto potente e concettualmente molto attuale. Cronenberg in qualche modo lo aveva già in una certa misura anticipato con Il demone sotto la pelle, con canoni più indirizzati verso l'horror. Un complesso che teoricamente è un 'esperimento sociale" secondo la volontà del suo stesso creatore, Royal. Grattacielo con tutti i confort, quasi autosufficiente per non dire autoreferenziale, ma con alla base tanti, troppi elementi che ne determinaranno la degenerazione e la caduta. Una rigida divisione in classi sociali dal basso verso la cima di questa moderna Torre di Babele con giardini pensili all'attico dei Dio creatore Royal. Una torre che si deve "assestare" nei suoi sistemi, i cui guasti sin da quelli di piccola entità non fanno altro che alimentare dissapori fino a generare odio e violenza. Una convivnenza impossibile perchè troppo imprigionata nella sua rigidità sociale, impedisce ogni scalata se non con l'ausilio della violenza stessa. Un critica feroce ai sistemi capitalistici che al loro interno, non esistendo concetti come solidarietà ed equilibrio sociale, genera solo differenze sempre più marcate. Il Complesso/Torre è marcio fin dalle sue fondamenta. E' un film affascinante, visivamente presenta dei passaggi straordinari, ma a volte la seneggiatura è confusa e ridondante. Bravissimi comunque il cast con un Hiddleston sicuro dei suoi mezzi e perfetto nel ruolo di Laing. Un film che pur nelle sue imperfezioni, confermano il talento di uno dei migliori registi d'oltremanica.

l’opera di Ballard è brillante, originale, complessa e destabilizzante. Per questo motivo trarne un film era di certo una sfida ardua e rischiosa. E’ molto frequente che una rappresentazione cinematografica adotti mezzi narrativi diversi rispetto all’opera da cui è tratta; il punto chiave per una buona trasposizione, però, è il saper cogliere gli elementi fondamentali che danno al romanzo la sua unicità. Nonostante alcune scene visivamente efficaci, come quella dell’immenso giardino terrazza, quasi un paradiso terrestre, costruito sulla sommità del grattacielo da Royal, il megalomane architetto della costruzione, e un bel cast al suo servizio (Jeremy IronsTom HiddlestonLuke Evans), il regista Ben Wheatley non riesce a portare sulla scena l’anima del libro, né a coglierne il suo messaggio più importante e profondo. Egli, infatti, concentra spesso la sua attenzione su particolari a dir poco marginali delle storia (es. il figlio di Charlotte Melville o le notti brave dei protagonisti), trascurandone altri di fondamentale importanza. E’ così che il film appare in molti casi slegato nel suo sviluppo. 
Il difetto principale sta poi nel non saper rappresentare appieno la "malata dipendenza" che gli abitanti del grattacielo hanno per il condominio. Nel film sembra che essi siano più che altro degli esaltati, viziati e dediti agli eccessi e che il caos da loro generato sia giustificato da questi motivi o dalla noia, piuttosto che dal loro autolesionistico bisogno di annichilimentoall’interno del grattacielo. Ci si concentra sui loro comportamenti esteriori, invece che sulle contorte e inquietanti motivazioni delle loro condotte. La macchina da presa sfiora la superficie, mentre avrebbe dovuto immergersi a capofitto in questi personaggi, per sviscerarne la psicologia e i disturbi. Ad esempio è privata del suo spessore la “scalata” di Wilder verso la sommità del grattacielo. Il regista la fa passare quasi in sordina, ignorando uno dei motori fondamentali del romanzo: il desiderio di Wilder di sovvertire le gerarchie del palazzo, animato prima da un ideale di libertà e di ribellione verso i superbi abitanti dei piani superiori; poi da una crescente spirale di violenza e brutalità che finiranno per renderlo simile ad una bestia, interessata soltanto ai suoi bisogni primari. E’ un vero peccato, perché Luke Evans era perfetto nel ruolo di Wilder. Lui e il suo personaggio sono i più trascurati dalla sceneggiatura e dalla regia. Anche gli altri due protagonisti, il dottor Laing (nel romanzo alter-ego dello scrittore), e l’architetto Royale, interpretati rispettivamente da Tom Hiddleston e Jeremy Irons, ben calati nel ruolo, alla fine vengono ridimensionati e soprattutto appaiono privi di quell’intensità e quel pathos che era necessario per trasmettere l’angoscia celata dietro la prigionia autoindotta degli abitanti del grattacielo…

Tutta la prima parte del film è un’esplosione di stile, sfarzo, superfici lucide e splendenti, costumi da capogiro, corpi perfetti. La vita nel condominio è scandita da party che durano tutta la notte e poco importa se, al mattino dopo, la spazzatura ostruisce i corridoi. Sono dettagli risibili mentre ogni cosa procede alla perfezione. Le automobili luccicano nuove e pulite nel grande parcheggio riservato ai condomini, gli appartamenti sono nuovi e senza un graffio. Persino i poveracci ai piani inferiori sembrano avere diritto a una piccola fetta del benessere.
Forse è qui che l’estetica di Wheatley funziona meglio, quando deve introdurre un contesto che poggia su un equilibrio precario ma all’apparenza rigidissimo, la simulazione di un’utopia verticale basata su un severe regole gerarchiche.
Tutto ciò è reso in maniera davvero esemplare da una regia che rispecchia visivamente questo schema. Wheatley è geometrico, seziona personaggi e, soprattutto, ambiente con una precisione chirurgica, ci fa sentire, senza spiegarcelo, il peso della suddivisione in classi, così che, al momento della deflagrazione, potrà sbizzarrirsi a forzare e, finalmente, a rompere lo schema…

venerdì 15 dicembre 2017

Silhouette - Kamiran Betasi

Una pistola en cada mano - Cesc Gay

una sceneggiatura a orologeria e un gruppo di attori ben scelti sono sufficienti per fare un gran film, senza bisogno di effetti speciali.
tutti sono bravi, qualcuno ancora di più.
film così si facevano in Italia negli anni '60 e '70, poi sembrava essersi perso lo stampo. ma questo film dimostra che non è vero.
dialoghi perfetti, tra l'altro, rendono il film imperdibile; piacerà a  quelli, per esempio, a cui è piaciuto molto Perfetti sconosciuti.
guardate e godetene tutti - Ismaele






… Gay demuestra que no hace falta valerse de excesos para generar tensión cinematográfica y que construir a partir de la palabra no necesariamente deviene en esterilidad discursiva.

… La esencia de Una pistola en cada mano está en la escritura de los diálogos y en la temporización de la secuencia, medida hasta las milésimas de segundo. Pero el sabio manejo de la cámara para captar minuciosamente cada registro es lo que la convierte en cine valioso y le distancia del escenario teatral. (Hay en esta película una cierta similitud con algunos filmes de Ventura Pons). En este sentido, Ricardo Darín y Luis Tosar protagonizan una magistral escena que representa lo mejor de esta película. Más que interpretar, ambos –el marido cornudo y el amante insospechado– viven el papel y traspasan la pantalla para que el espectador pueda meterse en la piel de cualquiera de ellos. Igualmente ocurre con el episodio que interpretan Eduardo Noriega y Candela Peña: la maestría con la que están escritas las réplicas y contrarréplicas, la delicadeza con que cada uno afronta la afrenta del otro y de la otra, la intensidad con que la cámara recoge la estupefacción, la torpeza, la estupidez, del personaje de Noriega (casado y padre reciente) que intenta ligar al final de una fiesta en el trabajo con la compañera a la que habitualmente ha despreciado, junto con la sencilla lección, sin aspavientos vengativos, que le procura Mamen, es una muestra más de que Cesce Gay ha conseguido un destilado de gran cine
            El largo episodio, desdoblado en dos escenas, que protagonizan Leonor Watling y Alberto San Juan, por un lado, y Cayetana Guillén y Jordi Mollá, por otro, –dos parejas que intercambian a sus maridos para conocer las intimidades del otro– es el más flojo de la película, el que tiene los diálogos más previsibles y que redunda en ciertas obviedades, aunque no deja de tener igualmente aciertos humorísticos. Sin embargo, no desmerece del conjunto del film en la intensidad de la interpretación y en la elegancia de la puesta en escena. La misma elegancia con la que está elegido el título (una frase con la que Mamen explica el comportamiento del personaje encarnado por Noriega), y que tiene su contrapunto en los abrazos que se dan los personajes para demostrarse que no van armados.
En definitiva, Cesc Gay ha conseguido una estupenda película sobre ocho figuras masculinas que vienen a representar un todo, que tal vez –como dice la publicidad– entusiasmará a las mujeres, pero lo que seguramente es más importante es que trata con humor inteligente, sin insultar ni ofender, sino con absoluta y reconocible complicidad las taras del hombre actual.

…L’abilità di Cesc Gay è quella di portare sullo schermo situazioni reali, anche drammatiche, ma in modo ironico ed incredibilmente comico. Alle volte ci si ritrova a ridere di cuore di vere e proprie disgrazie per merito di un cast coinvolgente e talentuoso e di una sceneggiatura intelligente e vivace che mai risulta offensiva.
“Una pistola en cada mano” dimostra come un film per essere più che riuscito non necessita di grandi budget, scenografie straordinarie, effetti speciali da far invidia a Hollywood, ma al contrario il centro dovrebbe sempre essere uno scambio di battute ben scritte e ben interpretate: la semplicità e l’essenzialità sono la forza di questa pellicola spagnola, che senza apparenti sforzi attrae lo spettatore.
Consigliato a chiunque abbia voglia di svagarsi senza perdere il contatto con quelle che sono le problematiche sociali contemporanee: per 97 minuti non riuscirete a distogliere lo sguardo dallo schermo!

Hay películas que son radiografías humanas. Y tú, querido espectador, las ves con hambre de voyeur y ríes  o lloras; y disfrutas del arte cinematográfico usado como vehículo para retratar las miserias ajenas. A veces es agradable y cómico pero otras veces es duro enfrentarse a tus propios secretos y miedos o a esos fragmentos de personalidad que ceden a la hipocresía gobernante o a la crueldad, también mayoritaria. Con En la ciudad Cesc Gay ya desnudó a los personajes mientras te los acercaba para que vieras, en forma de drama, la segunda piel de unos tipos que realmente eráis tú y tus amigos. Y te encantó, querido espectador. Te encantó ser testigo de cómo los amigos que dicen ser tan amigos no se conocen tanto cómo creen. Aunque te asustó verte reflejado. Cesc Gay te debía una película menos dura, igual de verdadera pero con algo menos de mala leche. El director ha cumplido su promesa (aparentemente) con su último film, Una pistola en cada mano. Tanto a ti como a las mujeres de En la ciudad les debía un segundo acto.
Y está claro que Una pistola en cada mano es ese segundo acto de En la ciudad. Donde el director disecciona varios encuentros entre conocidos, amigos, compañeros de trabajo o viejos amantes con un ingenio envidiable y con mucha, mucha gracia. En esta película de episodios las mujeres salen bien paradas, ellas han madurado, son más inteligentes, saben lo que quieren pero ellos… ellos son perdedores. No atractivos perdedores, sino más bien ridículos hombrecillos incapacitados para comunicarse, para degustar la felicidad que da la madurez. Sin embargo, todos son lo honestos que su hombría les permite ser… que no es poco…

mercoledì 13 dicembre 2017

Florida - Philippe Le Guay

Jean Rochefort nell'ultimo film fa la parte più difficile, quella di chi c'è e non c'è più con la testa.
chi ha conosciuto qualcuno malato di Alzheimer può pensare che al tempo del film l'attore non stesse troppo bene, e quel film sia una specie di biografia.
in realtà Jean Rochefort è grandissimo, i pensieri si aggrovigliano, scompaiono, riappaiono chiaramente confusi, lui sa che quello che pensa è tutto vero, nel suo mondo, però, non in quello degli altri, e ritrovare la strada è sempre più difficile.
ridiventa bambino in un corpo da vecchio, la memoria porta alla luce episodi drammatici di quando era ragazzino, in testa girano tante storie, ognuna vera, da sola, lui lo sa, solo lui.
e non c'è più bisogno di fingere, di essere politicamente corretti, i filtri saltano uno a uno.
gran film, se lo vedrai capirai - Ismaele






Philippe Le Guay rivolge il proprio sguardo a quel momento difficile nella vita di molti in cui i figli si trovano a divenire genitori dei propri genitori. Da una parte c'è la fortuna di avere il padre (o la madre) ancora in vita ma dall'altra c'è il 'peso' di gestirne le apparenti stravaganze che sono invece segni del progredire del disagio psichico. 
Con un attore straordinario come Jean Rochefort tutto questo diventa facile. Le sfumature, i sorrisi astuti e quelli che esprimono disagio, i lampi nello sguardo che in un momento fanno percepire la consapevolezza dell'agire e un istante dopo si spengono affogando nella più totale distanza da quanto circonda il personaggio, sostanziano tutta la sua interpretazione. Di fronte si trova una Sandrine Kiberlain che offre a Carole tutta la disponibilità di una figlia consapevole di una situazione che rischia però di mettere a repentaglio la sua vita di coppia adoperandosi per un genitore che ha bisogno di lei ma la sente anche come un severo controllore. Poi c'è la grande assente: Alice, l'altra figlia a cui Claude pensa incessantemente e che vuole rivedere al punto da sentirsi pronto ad affrontare un volo intercontinentale per raggiungere quella Florida con cui mantiene comunque un contatto attraverso i succhi di frutta. 
Si ride grazie a questo film ma si tratta di una risata carica di tristezza soprattutto per chi è consapevole che poco o nulla degli atteggiamenti di Monsieur Claude è inventato. Il duo Rochefort/Kiberlain riesce a prendere la giusta distanza dal rischio di trasformare lo script in una farsa. Sotto l'attento controllo di Le Guay che conosce il senso della misura.

Interpretato da un sempre immenso Jean Rochefort, Claude è come un novello Don Chisciotte, ruolo che l’attore avrebbe dovuto incarnare nel progetto di Terry Gilliam. Può essere vittima di un buio improvviso mentre è in un bagno pubblico. È addirittura capace di tirar fuori il membro e orinare sul parabrezza di un automobilista che lo ha infastidito. Vive in una società che non riconosce più, uomo d’altri tempi, con i suoi ricordi da ragazzo nel periodo della guerra. Capace di improvvisi sbalzi da uno stato d’animo all’altro, mirabilmente resi dal grande attore mattatore. Ha cancellato il trauma della morte della figlia, lo ha rimosso dalla sua memoria.
Basterebbe un Rochefort per buona parte dei registi ed essere a posto. Il grosso del lavoro lo fa lui. E in effetti la sua prestazione in Florida è superlativa. Ma Philippe Le Guay non si adagia sugli allori. E costruisce il film con una sceneggiatura a incastro degna di Atom Egoyan, costruita su piani temporali diversi, che si svelano nel dipanarsi narrativo. Vediamo quasi all’inizio una scena di Claude in aereo che sta volando a Miami, ma questa situazione si situa cronologicamente nella parte finale del film: spetta allo spettatore, con la sua memoria, il rimettere a posto tutti i fili della memoria di Claude…
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martedì 12 dicembre 2017

Today They Took My Son - Pierre Dawalibi


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Una madre che affronta il suo giovane figlio portato via da un sistema militare. La sua impotenza nel prevenire il trattamento crudele e disumano che sa di provare è più di quanto possa sopportare qualsiasi madre. Questo succede a più di 700 bambini palestinesi all'anno.




·         È tragico che anche adesso, anche dopo tutto quello che hanno sopportato, è ancora necessario umanizzare i palestinesi. Questo breve ma magistrale film fa molto di più.Dimostra che siamo tutti palestinesi e loro sono noi. Non c'è "altro". C'è solo una madre e il suo bambino, che ci implorano di entrare nelle loro vite e capire il loro dolore, implorandoci a cercare e poi abbracciare ciò che unisce e non ciò che ci separa.
Sara Roy (Senior Research Scholar, Centro per gli studi del Medio Oriente, Università di Harvard)

·         Sono profondamente commosso e spostato oltre le parole! La familiarità del dolore ricorrente rende tutto ciò solo più intollerabile. Il film di Farah mi ha fatto singhiozzare con tutte le altre madri, nonne, bambini, esseri umani che sono sopraffatti dalla casualità di un'orribile ingiustizia e dalla persistenza di una tale crudeltà volontaria. La sua rivelazione della semplice storia palestinese è così personale, così umana, così cruda che la sua intensità diventa insopportabile. L'estetica dell'immersione mi ha lasciato senza fiato e silenzioso.
Dr Hanan Ashrawi

·         Come palestinese, sono stato imprigionato e torturato tre volte dall'occupazione israeliana quando avevo 14 anni e 15 anni. Today's Took My Son non solo richiamava ricordi delle mie esperienze, ma mi ha aiutato a capire per la prima volta i sentimenti di mia madre ogni volta che mi portavano via. Mi ha anche fatto riflettere sul ruolo eroico che le donne palestinesi svolgono nella nostra lotta per la libertà. I suoni del pianto e del pianto di mia madre mi danno un senso completamente nuovo oggi. Grazie per la vostra empatia e coraggio per far luce sul lato umano della nostra lotta per la libertà e la dignità.
Ghaleb Darabya (Amministratore delegato, Cambridge Leadership Associates)

·         La poesia visiva e verbale del cortometraggio di Farah Nabulsi trasmette con forza gli orrori subiti da generazioni di bambini palestinesi e dalle loro famiglie, sotto belligerante occupazione israeliana. I bambini palestinesi sono sequestrati dai soldati israeliani, confinati in celle oscure in isolamento, interrogati e torturati, privati ​​dell'accesso a genitori e avvocati e mandati ai tribunali militari dove i tassi di condanna sono superiori al 99%. Come il suo film mostra, questi bambini sono certi di emergere dalle loro esperienze traumatizzate e infrante, la loro infanzia a brandelli. Esorto chiunque cerchi di capire le schiaccianti realtà della vita per i palestinesi sotto l'occupazione israeliana per guardare questo film.
Jonathan Cook
·         Incredibilmente potente e bello. Dovrebbe essere visto da tutti.
Kirkland Newman Smulders (Fondatore ed editore, MindHealth360)
·         Non ci sono abbastanza pietre da buttare, non abbastanza parole da esprimere o lacrime sufficienti a lavare via i crimini commessi da Israele. Per sette decenni Israele ha praticato gli imperdonabili e impenitevoli crimini di genocidio, pulizia etnica e apartheid. Ma nessun crimine è così terribile come la campagna israeliana di rapimenti e abusi sui bambini palestinesi. La crudeltà di Israele, il dolore e la disperazione di una madre e il trauma di un bambino sono tutti fedelmente e dolorosamente illustrati in Today They Took My Son.
Miko Peled (Autore, Il figlio del generale)

·         La legge americana esclude gli aiuti alle forze militari che praticano abusi sistematici di diritti. Questo film straziante e la realtà brutale di cui è un campione minuscolo ci dicono chiaramente e chiaramente che la legge dovrebbe essere applicata e l'aiuto militare a Israele dovrebbe finire finché l'occupazione criminale viene mantenuta.
Noam Chomsky (professore emerito dell'Istituto, Massachusetts Institute of Technology)

·         Today They Took My Son tratta un tema molto importante e un'area che Human Rights Watch ha dedicato molto tempo a documentare, quindi è bello vedere il problema affrontato in un modo a cui le persone possono relazionarsi a livello personale. L'immaginario è fantastico, in particolare contrastando le fotografie reali dei bambini detenuti con la narrativa romanzata nel film, e anche i flashback tra il filmato documentario e la narrativa ricreata sono efficaci.
Sarah Leah Whitson (Direttore esecutivo, Human Rights Watch Medio Oriente e Africa)

·         Oggi They Took My Son è davvero ben girato! Il messaggio è potente e vero, e mostra l'estrema ingiustizia che i palestinesi vivono attraverso.
Sawsan Asfari (produttore esecutivo, Cactus World Films)

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ecco quello che succede davvero

lunedì 11 dicembre 2017

L'insulto - Ziad Doueiri

l'aula di un tribunale come luogo di un duello fra due persone che hanno difficoltà a piegare la testa e a chiedere scusa.
entrambi pensano di avere ragione, nessuno arretra.
il meccanismo di odio è quello che funziona quasi sempre, nella realtà, se non ci sono giudici e/o avvocati e/o politici con dubbi e umanità e saggezza che spengono i fuochi (appare anche un politico nazionalista che assomiglia a Salvini, ma dev'essere una coincidenza; in Libano, per loro fortuna, non lo conosce nessuno).
la storia è come quella di un legal thriller, quello schema narrativo permette colpi di scena, argomentazioni e punti come in un'avvincente partita di tennis.
la consapevolezza che tutti hanno un po' di ragione e un po' di torto si trasforma nel compromesso per spegnere l'incendio che stava iniziando.
bravissimi tutti gli attori, pedine di una sceneggiatura che non lascia scampo.
ed è strano che si rischi la galera per fare film così, buon segno, vuol dire che è un film che vale.
nei titoli di coda (per non eccedere nel politicamente corretto) mancano le immagini nelle quali Tony diventerà il meccanico di fiducia di Yasser, loro sanno che i tedeschi fanno le cose molto meglio dei cinesi (mentre nelle vernici fanno un ottimo lavoro gli italiani, veniamo a sapere, e anche che qualcuno si appella al boicottaggio di questo film).
non lasciatevi sfuggire questo film, addirittura in 60 sale (con uno dei migliori incassi per sala della settimana) - Ismaele








…Douieri e Joelle Touma, sua compagna e cosceneggiatrice, sono partiti da un'occasione reale, un'uscita verbale infelice del regista in un momento di nervosismo, per andare all'origine del sentimento che sta sotto certe frasi, che non vengono mai pronunciate per caso
Un'opera di immersione in profondità, dunque, tra lapsus e impulso, raccontata però in verticale, perché il conflitto, come la rabbia, come l'umiliazione, è qualcosa che monta. Raccontata in maniera diritta, appunto, attraverso tappe che si potrebbero dire prevedibili, eppure, non solo l'avverarsi del prevedibile è parte integrante del discorso, ma soprattutto è sfumato, colorato, drammatizzato da un ottimo copione, che si muove abilmente tra la sfera pubblica (e il film processuale) e il momento privato (dunque il dramma psicologico). Con il colpo di genio di fare dei due avvocati rivali un padre e una figlia, che non possono non portarsi in aula dell'altro: qualcosa che va al di là degli "atti", esattamente come il confronto tra Toni e Yasser va al di là dell'insulto pronunciato sul momento e affonda in una sofferenza, privata e collettiva, che ancora tormenta e fomenta…

Il regista, che aveva esordito nel 1998 a Cannes con West Beyrouth e che qui è al quarto lungometraggio, tornato da Venezia con il premio è stato arrestato, processato e prosciolto da un tribunale militare, accusato di collaborazionismo con il nemico israeliano. Un chiaro segno che L’insulto tocca un nervo scoperto, anche se il film non è manicheo e non traccia della politica un ritratto totalmente negativo. Uno dei messaggi è anzi quello dei cambiamenti che devono partire dal basso, da una volontà comune della popolazione di venirsi incontro, anche nel rapportarsi nel quotidiano, nelle cose più banali, e che non tutto dipende dalla sola politica…
 una lezione di memoria e di storia che si profila gradualmente, sugli eccidi noti e quelli dimenticati, che lasciamo scoprire allo spettatore, poiché questi sono il momentum del film.
Il quale esce qui dallo psicodramma cinematografico per assurgere con potenza e semplicità al dramma umano della storia. Non ci può essere perdono e quindi riconciliazione senza assunzione di responsabilità reciproca – perché tutti hanno colpe e giustificazioni – e senza conoscenza storica e comprensione piena del dolore immenso che fa covare questa rabbia insensata e perenne dell’orgoglio, della frustrazione.
Alla fine della guerra, l’amnistia diventò amnesia, dice il regista, e qui sta il nodo da affrontare e sciogliere per uscire dall’eterna e perenne grande faida, dal grande campo di prigionia interiore del passato, per una nuova alba dei rapporti interrazziali, religiosi, politici e più semplicemente umani. Non un insulto ma un messaggio di pace.

..Non hai l’impressione che il successo del film nasca dal fatto che il mondo si sia… “libanesizzato”?
L’accoglienza all’estero, in Occidente, è stata sorprendente. Abbiamo vinto quattro premi del pubblico in vari festival: al quarto mi sono chiesto,perché in tanti, non arabi né tantomeno libanesi, si identificano? Perché il mondo sta vivendo cambiamenti complessi e forti che noi forse abbiamo vissuto prima di altri. Quella rabbia, quel dolore è arrivato in tutto il mondo, temo. Penso all’ultima rassegna in cui sono stato, al San Francisco Film Festival. C’era un odio nei confronti di Trump, una rabbia così grande e divisiva verso l’attuale governo e chi l’ha eletto che mi ha fatto paura. Eravamo davanti a un caffè e mi dicevano tutti quanto si identificassero con il mio film, quanto si sentissero in un paese diviso. Io volevo solo raccontare una storia, in parte la mia storia. Solo dopo ho scoperto che era universale, e non lo immaginavo. Non con questa forza…

L’insulto è il classico caso in cui la forma cinema non si presenta particolarmente sofisticata: qui di innovazioni linguistiche e narrative non si vede traccia, ed è probabilmente il motivo per cui a Venezia non è piaciuto alla critica più oltranzista e cinefila. Ma stavolta, signori, sono i contenuti a dominare schiacciando tutto il resto, e cosa mai volete che sia se confezione e modello narrativo sono dei più convenzionali (e però nient’affatto disprezzabili, pure con gloriosi precedenti: The Insult è un perfetto courtrooom movie, genere illustrissimo, tant’è che il regista Ziad Doueri ha dichiarato in conferenza stampa al Lido la sua ammirazione per Il verdetto di Sidney Lumet). Stavolta mi schiero dalla parte dei biechi contenutisti. La materia trattata è talmente esplosiva da far passare il resto in secondo piano. E fa niente se c’è qualche furbata che a un festival suona maleducata, un attentato al bon ton autoriale (vedi il colpo di scena che ci fa scoprire come l’avvocatessa della difesa sia la figlia dell’avvocato della controparte). Il film ha struttura robusta, un andamento serrato e avvincente. Dosa benissimo le sue rivelazioni alternando pause e climax. Ed e probabile che diventi un successo arthouse internazionale se solo trova il vento giusto…

…Desde un punto de vista visual, aunque gran parte de la película tiene lugar en los tribunales, el director adopta un estilo dinámico y visualmente muy elaborado, con un uso intensivo de steadicams.  El ritmo de la narración es ágil, dinámico y constante, gracias a los numerosos giros y vueltas de guion durante el metraje que consiguen mantener vivo el interés del espectador.

il punto forte del film, in fondo solido ma classico dramma processuale (non a caso uno dei riferimenti di Doueiri è stato Il verdetto di Sidney Lumet), quanto il contenuto. Cinema che può non piacere, perché smaccatamente desideroso di mandare un messaggio e quindi a rischio didascalia, invece apprezzabile proprio per il tentativo di sviscerare la complessità rendendola comprensibile anche per un pubblico poco avvezzo con le questioni medio orientali. Un’opera quindi importante proprio per quello che dice, in cui il cinema viene utilizzato come strumento comunicativo per fare chiarezza mantenendo la giusta distanza. In un equilibrio così precario, colpisce che al Festival di Venezia, dove è stato presentato in Concorso, la Giuria abbia deciso di sbilanciarsi a favore di uno dei due protagonisti premiando Kamel El Basha, interprete della parte palestinese del conflitto.